Archivi giornalieri: 31 ottobre 2022

Pensioni, come funziona Quota 103 per uscire a 61 anni

Pensioni, come funziona Quota 103 per uscire a 61 anni

Pensioni, come funziona Quota 103 per uscire a 61 anni
 

Il tema Pensioni in Italia è sempre molto caldo e seguito da quanti, superati i 60 anni, non vorrebbero ritrovarsi costretti a lavorare ancora per molti anni. La legge Fornero è stata per anni l’incubo di molti, mitigata dalla cosiddetta Quota 100 e 102. Ora il Governo Meloni pensa a Quota 103.

Il centrodestra cerca di disinnescare con Quota 103 lo “scalone” della Legge Fornero che dovrebbe scattare dal prossimo gennaio. Vale a dire l’uscita dal lavoro di fatto impossibilitata prima dei 67 anni di età, abbinata a un’anzianità contributiva di 20 anni.

Si cerca di salvare anche Quota 41 ordinaria, con pensionamento a 41 e 42 anni e 10 mesi per il 2022 senza il limite d’età.

Ma vediamo cos’è e come funziona Quota 103.

Cos’è Quota 103 e come funziona

Come funziona Quota 103? Come spiega Qui Finanza, Per realizzare la nuova riforma delle pensioni, si pensa ad un piano di un miliardo di euro per il 2023. Le ipotesi però sono tante, come “Opzione Tutti”: vale a dire l’uscita flessibile anticipata e l’introduzione di un tetto d’età per Quota 41, fino alla definizione di un nuovo mix di quote.

Quota 103 in realtà si tradurrebbe in una “Quota 41 con 61 o 62 anni d’età, senza penalizzazioni”. Quindi, l’età minima per poter andare in pensione con quota 41 potrebbe essere 62 anni, una mossa che ridurrebbe considerevolmente il costo della misura.

Resterebbero quindi 41 anni di contributi per tutti, ma con l’aggiunta di un limite di età al fine di limitare la platea dei beneficiari reali.

Si parla inoltre di una Quota 102 flessibile. Vale a dire il pensionamento tra i 61 e i 66 anni, con almeno 35 anni di contributi, purché la somma faccia comunque 102.

La differenza con la Quota 102 “ordinaria” consta nel fatto che si possa andare in pensione solo con 64 anni più 38 di contributi. Mentre adesso i margini sarebbero 61-66 anni d’età a fronte di 35-41 anni di contributi.

Lula, chi è il nuovo presidente del Brasile

Lula, chi è il nuovo presidente del Brasile

Lula, chi è il nuovo presidente del Brasile

Arrestato nel 2018 e condannato a 580 giorni per corruzione e riciclaggio di denaro

Luiz Inacio Lula Da Silva, appena rieletto presidente del Brasile, nei suoi precedenti mandati, dal 2003 al 2010, ha costruito un vasto programma di assistenza sociale che ha contribuito a portare decine di milioni di persone nella classe media. Lula ha anche presieduto un boom economico, lasciando l’incarico con un indice di gradimento superiore all’80%, spingendo l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama a chiamarlo “il politico più popolare sulla Terra“.

Ma è anche ricordato per il coinvolgimento della sua amministrazione nella vasta corruzione rivelata da una serie di indagini. L’arresto di Lula nel 2018 lo ha tenuto fuori dalla corsa di quell’anno contro Bolsonaro. Lula è stato condannato a 580 giorni per corruzione e riciclaggio di denaro. Le sue condanne sono state successivamente annullate dall’alta corte brasiliana, che ha stabilito che il giudice era prevenuto e colluso con i pubblici ministeri. Ciò ha consentito a Lula di candidarsi per la sesta volta alla carica più alta della nazione. Il nuovo presidente ha promesso di aumentare la spesa per i poveri, ristabilire relazioni con i governi stranieri e intraprendere azioni coraggiose per eliminare il disboscamento illegale nella foresta pluviale amazzonica. 

 

Normattiva – Il portale della legge vigente

DECRETI-LEGGE – NUOVE REGOLE DI AGGIORNAMENTO

A partire dal mese di agosto 2019 sono state revisionate alcune modalità di aggiornamento degli atti. In particolare, con riferimento ai Decreti-Legge quali fonti aggiornanti, è stata revisionata la regola per l’aggiornamento degli atti modificati dagli stessi.
Nella modalità di aggiornamento precedente in presenza di un Decreto-Legge aggiornante, le modifiche da questo disposte venivano applicate agli articoli degli atti modificati al momento della sua pubblicazione.
Successivamente, in caso di:

conversione con modificazioni del Decreto-Legge, le suddette modifiche venivano sovrascritte aggiungendo quelle disposte dalla Legge di conversione e pertanto se ne perdeva il testo;

mancata conversione del Decreto-Legge, la versione generata dal D.L. veniva eliminata, dando notizia della modifica subita esclusivamente in nota all’atto, ma perdendo il testo del D.L. non convertito.

Oggi, invece, con le nuove regole è possibile tenere traccia e visualizzare sia le modifiche apportate dal Decreto-Legge al momento della sua pubblicazione, sia le eventuali successive modifiche disposte dalla sua Legge di conversione.
Di conseguenza, in presenza di un Decreto-Legge aggiornante, gli articoli oggetto di modifica presentano una versione con l’evidenza delle modifiche apportate dal D.L. al momento della sua pubblicazione e, successivamente, in caso di:

conversione con modificazioni del Decreto-Legge, viene generata una nuova versione dell’articolo con le modifiche disposte dalla Legge di conversione opportunamente evidenziate;

mancata conversione del Decreto-Legge, viene generata una nuova versione con entrata in vigore al 61° giorno dalla data di pubblicazione del Decreto-Legge, in cui verrà ripristinato il testo antecedente alla modifica inizialmente introdotta dal Decreto-Legge decaduto e inserita un’annotazione in calce con la notizia della mancata conversione.

Conclusivamente, saranno presenti in banca dati tre documenti: la versione originale dell’atto modificando, una versione come modificata dal D.L., una versione aggiornata alle modifiche apportate dalla legge di conversione, oppure la precedente versione originaria immodificata ma con diversa decorrenza del vigore, nel caso di mancata conversione.
N.B. – l’attività di allineamento della Banca Dati in aderenza a tali nuove regole è in corso di espletamento e, pertanto, possono risultare ancora presenti atti aggiornati con le regole precedentemente adottate.

Cosa ci dicono i voti di fiducia al governo Meloni Il confronto in parlamento

Cosa ci dicono i voti di fiducia al governo Meloni Il confronto in parlamento

L’esecutivo ha ottenuto la fiducia delle camere. Ma la maggioranza solida emersa da queste votazioni potrebbe rivelare nel tempo alcune falle.

 

Come noto, la scorsa settimana il governo Meloni ha incassato la fiducia dal parlamento. I voti favorevoli sono stati numerosi sia alla camera che al senato, come non accadeva dal 2008.

Un risultato che, come abbiamo raccontato, è stato possibile grazie alla vittoria netta della coalizione di centrodestra alle elezioni. Esito elettorale che peraltro ha reso possibile la nascita dell’esecutivo in tempi estremamente brevi. Soprattutto in confronto a quanto avvenuto nella precedente legislatura, quando passarono circa 3 mesi dall’esito delle elezioni all’effettivo ingresso in carica del primo governo Conte.

57,8% i voti favorevoli al governo Meloni sul totale degli appartenenti a camera e senato.

In tutto il parlamento i voti favorevoli sono stati 350, i contrari 233 e gli astenuti 10. In 11 erano assenti o in missione. L’esito ci dice dunque che il governo Meloni a oggi ha i numeri per andare avanti potenzialmente per tutta la legislatura. Tuttavia, analizzando più nel dettaglio l’esito delle votazioni possiamo notare degli elementi interessanti.

In primo luogo, la maggioranza di centrodestra da sola non ha i numeri per riformare la costituzione in senso presidenziale senza che sia dato luogo a un referendum confermativo. Se lo vorrà fare, come annunciato in campagna elettorale, dovrà coinvolgere anche le opposizioni. Inoltre, va sottolineato che i numeri dell’alleanza di governo al senato non sono poi così solidi come potrebbe sembrare. E con la nomina dei sottosegretari rischiano anche di diminuire.

Come si sono espressi i gruppi

Alla camera la maggioranza si regge su numeri rassicuranti. Considerando solamente i voti favorevoli di Fratelli d’ItaliaLega e Forza Italia, il governo ha infatti incassato ben 225 voti. Un numero molto superiore alla maggioranza assoluta che si attesta a 201 e che dovrebbe mettere il governo al riparo da incidenti di percorso.

Un governo incaricato deve avere la fiducia del parlamento per operare. Se non la ottiene deve dimettersi. Vai a “Che cosa sono i voti di fiducia”

Ai voti dei 3 partiti principali della coalizione inoltre se ne sono aggiunti altri 10 provenienti dal gruppo misto. Si tratta in particolare degli appartenenti alla componente Noi moderati – Maie, la cui formazione come gruppo autonomo (così come nel caso dell’alleanza Verdi-Sinistra) è stata autorizzata solo successivamente alla votazione e in deroga al regolamento attualmente in vigore alla camera che richiede l’adesione di almeno 20 deputati per la formazione di un gruppo autonomo. A questi poi si aggiunge il voto di Michela Vittoria Brambilla. Attualmente iscritta al misto ma storica esponente di Forza Italia.

Il margine rispetto alla maggioranza assoluta è quindi di 34 voti. Un distacco ampio ma non abbastanza da raggiungere i 2/3 della camera (267), necessari per modificare la costituzione senza passare dal referendum.

Anche il senato ha conferito la propria fiducia al governo. Rispetto a Montecitorio però, qui i numeri della maggioranza sono più bassi, per quanto comunque non risicati. Anche in questo caso nessuna sorpresa. Tutti i senatori del centrodestra (fatta eccezione per il presidente dell’aula La Russa) hanno espresso il proprio sostegno al governo.

Poiché nel conteggio vanno tenuti presenti anche i 6 senatori a vita, il margine del centro-destra rispetto alla maggioranza assoluta (103) è solo di 12 voti.

Dato questo contesto, la coalizione dovrà fare attenzione a nominare i sottosegretari. Si tratta infatti di ruoli estremamente importanti per il funzionamento del governo, ma che comportano una scarsa partecipazione ai lavori e alle votazioni delle camere.

I sottosegretari coadiuvano i ministri nell’esercizio delle loro funzioni ed esercitano i compiti a essi delegati. Vai a “Che cosa fanno i viceministri e i sottosegretari di stato”

Durante il governo Draghi, viceministri e sottosegretari erano 40. Salvo pochissime eccezioni, questi incarichi sono stati ricoperti da esponenti che occupavano anche un seggio in parlamento. C’è da dire che quando il governo ne ha avuto bisogno, i suoi componenti che facevano anche parte del parlamento non hanno mai fatto mancare il loro appoggio. Evenienza che si è verificata spesso, ad esempio, durante il governo Conte II. Tuttavia il centrodestra dovrà distribuire in maniera oculata queste posizioni tra deputati e senatori, per non rischiare di incappare in incidenti di percorso.

Il centrodestra non ha i numeri per modificare la costituzione da solo.

Com’è evidente inoltre, anche in questo caso rimane lontana la maggioranza dei 2/3. Un traguardo impossibile da raggiungere, sia alla camera che al senato, anche con l’aggiunta dei voti del cosiddetto terzo polo che, per bocca di alcuni dei suoi leader, aveva aperto alla possibilità di appoggiare alcune riforme istituzionali.

Come hanno votato i singoli deputati

Finora ci siamo soffermati sull’esito finale dei voti di fiducia. Vediamo adesso più nel dettaglio come si sono espressi i singoli componenti delle camere. Innanzitutto possiamo osservare che durante le votazioni si sono registrate alcune defezioni, sia nelle file della maggioranza che in quelle delle opposizioni. Alla camera, per quanto riguarda il centrodestra, i voti mancanti sono da attribuire al presidente dell’aula (che di norma non prende parte alle votazioni) Lorenzo Fontana e a due deputati di Forza Italia che erano “in missione”. Si tratta del neo ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin e di Ugo Cappellacci.

Anche i gruppi dell’opposizione si sono espressi in maniera compatta, votando contro il governo senza particolari sorprese. Le assenze in quest’ala di Montecitorio sono state 3: Vincenzo Amendola e Roberto Morassut del Partito democratico e Dario Carotenuto del Movimento 5 stelle.

Da approfondire poi il comportamento del gruppo misto che per definizione contiene al suo interno posizioni eterogenee. In particolare sono 5 i deputati del misto che non hanno votato la fiducia al governo, astenendosi. Si tratta della componente delle minoranze linguistiche, composta da Renate Gebhard, Franco Manes, Manfred Schullian e Dieter Steger. A loro si è aggiunto anche Francesco Gallo che, al pari di Brambilla, non è iscritto a nessuna componente.

Passando al senato, abbiamo già introdotto il tema dei senatori a vita che contribuiscono ad aumentare la soglia della maggioranza assoluta. Nell’analisi sulla tenuta della coalizione di governo c’è da dire però che questi esponenti non partecipano in maniera assidua ai lavori delle aule. Generalmente la ragione è da attribuire all’età avanzata, a problemi di salute o altri impegni. Una dinamica che si è confermata anche in questo caso. Renzo Piano infatti era assente al momento del voto. Mentre Liliana SegreCarlo Rubbia e Giorgio Napolitano risultavano in missione.

Elena Cattaneo – che già in passato aveva manifestato posizioni più vicine all’ala progressista del parlamento – si è astenuta. Interessante da questo punto di vista anche la posizione di Mario Monti che, pur avendo espresso apprezzamenti per molte delle linee programmatiche del governo, si è astenuto.

Inoltre, anche a palazzo Madama si sono astenuti i rappresentanti delle minoranze linguistiche, in questo caso riuniti nel gruppo Per le autonomie. Si tratta di Meinhard Durnwalder, Dafne Musolino e Juliane Unterberger. Atri due appartenenti al gruppo, Luigi Spagnolli e Pietro Patton, hanno invece votato contro il governo.

Tra coloro che non hanno partecipato al voto, infine, Celestino Magni (misto, in missione) e Tatiana Rojc (Pd).

Dichiarazioni dei leader

Un altro elemento da tenere in considerazione riguarda l’effettiva capacità della coalizione di rimanere compatta. Come del resto ha sottolineato il capogruppo della Lega al senato Massimiliano Romeo nel suo intervento. È evidente infatti che per quanto il centrodestra si sia presentato alle elezioni unito e con un programma unico, le differenze di posizione su più temi ci sono. Almeno stando alle dichiarazioni rilasciate dai leader.

Diversità che peraltro erano già emerse durante la campagna elettorale. Per esempio riguardo il piano nazionale di ripresa e resilienza, come abbiamo raccontato in un articolo precedente. Nonostante tutte le forze del centrodestra fossero d’accordo sulla necessità di rivedere il Pnrr, le posizioni su come farlo erano un po’ diverse.

Senza dimenticare che anche nella composizione del consiglio dei ministri le cronache hanno riportato delle tensioni tra gli alleati, con Lega e Forza Italia che sono state costrette a rinunciare ad alcune cariche che avevano rivendicato.

A ciò si aggiunga che la stessa presidente Meloni, nei suoi interventi in aula, ha manifestato posizioni più caute rispetto a quanto dichiarato in campagna elettorale, soprattutto in ambito economico. Un esempio è il discorso alla camera per la fiducia, durante il quale ha sottolineato che le priorità oggi sono le misure a supporto dei cittadini su carburante e bollette.

Un impegno finanziario imponente che […] ci costringerà a rinviare altri provvedimenti che avremmo voluto avviare già nella prossima legge di bilancio.

Anche in questi ultimi giorni sono emerse posizioni diverse da parte degli alleati. Per esempio riguardo l’aumento al limite del contante, con FdI e Lega che sembrano spingere a favore di questa misura e Forza Italia che invece frena.

Altro elemento di fondamentale importanza sarà inoltre quello del posizionamento internazionale. Se da un lato, almeno in via ufficiale, tutte le forze politiche hanno condannato l’invasione dell’Ucraina, dall’altro le ricette proposte su come muoversi nello scacchiere internazionale appaiono diverse.

Da questo punto di vista proprio la presidente del consiglio è apparsa la più ferma nel sostegno incondizionato al popolo ucraino e nella volontà di svolgere un ruolo da protagonista nei tavoli negoziali europei e internazionali. Su questo aspetto invece le posizioni di Lega e Forza Italia sembrano più orientate a cercare un compromesso per il cessate il fuoco e arginare così i danni economici che la guerra sta arrecando anche al nostro paese.

Un ultimo spunto ce lo fornisce infine l’intervento in senato di Silvio Berlusconi, il primo dopo 9 anni. Il presidente di Forza Italia è tornato a parlare di uno dei suoi cavalli di battaglia, quello della riforma della giustizia. Il leader azzurro però nel suo discorso non ha fatto alcun cenno alla riforma che stava portando avanti la ministra della giustizia uscente Marta Cartabia. Una riforma prevista dal Pnrr e che peraltro si trova in una fase avanzata di definizione. Alla fine di settembre infatti il consiglio dei ministri uscente aveva approvato i decreti legislativi che avrebbero dovuto dare attuazione alla riforma. Metterci mano a questo punto significherebbe con ogni probabilità fallire uno dei traguardi che il nostro paese è tenuto a raggiungere per il Pnrr entro la fine dell’anno.

Foto: Governo – Licenza

 

Santa Lucilla di Roma

 

Santa Lucilla di Roma


Nome: Santa Lucilla di Roma
Titolo: Vergine e martire
Nascita: III Secolo, Roma
Morte: III Secolo, Roma
Ricorrenza: 31 ottobre
Tipologia: Commemorazione
Lucilla nacque all’alba dell’Era Cristiana, quando chi portava la luce della nuova fede veniva perseguitato da coloro che l’avrebbero voluta spegnere, convertendo il nome di Lucilla in quello di Crepusca.

Su Santa Lucilla però non brilla che la luce del suo bellissimo nome. Di lei, Martire, non si sa nulla di preciso, o meglio si sa soltanto quello che la leggenda ha intessuto con fili luminosi, ma puramente fantastici.

Quasi certamente fu lo stesso nome di Lucilla a suggerire la leggenda. Perciò si narra d’un tribuno romano, di nome Nemesio, che avrebbe avuto una figlioletta nata cieca.

Egli avrebbe chiesto per la propria figlia, al Papa Santo Stefano, non la luce fisica degli occhi, ma quella soprannaturale dell’anima, cioè il Battesimo.

A battezzare colei che prenderà il nome di Lucilla è San Valentino patrono degli innamorati. Oltre a battezzare la ragazza miracolosamente Valentino riuscì anche a donarle nuovamente la vista.

Padre e figlia si sarebbero fatti così cristiani. Anzi, il Papa avrebbe consacrato diacono il padre di Lucilla. Ma la luce della piccola cristiana avrebbe brillato poco in terra, e si sarebbe accesa invece in Cielo, dopo il martirio, subito, dal padre e dalla figlia, sotto l’Imperatore Valeriano.

Il Papa Santo Stefano avrebbe fatto sotterrare i due corpi decapitati del padre e della figlia in un luogo segreto, di dove il Papa Sisto II li avrebbe fatti esumare, il 31 ottobre, per dar loro una più degna sepoltura, lungo la via Appia.

La festa di oggi ricorderebbe dunque non il martirio di Nemesio e di Lucilla, ma la traslazione delle loro reliquie.

Dalla via Appia, i corpi dei due Martiri furono poi nuovamente esumati da Gregorio IV e sepolti, con grande onore, nella diaconia di Santa Maria Nuova, insieme con altri Martiri romani.

Anche queste ripetute traslazioni sembrano avere un significato simbolico. La piccola Lucilla, cioè Lucilla, nata cieca e illuminata dalla fede, sarebbe stata più volte riportata alla luce del mondo, perché la scintilla della sua santità segnasse l’itinerario trionfale del Cristianesimo: « nato all’alba », tenuto da prima nascosto, poi avviatosi lungo le vie consolari, e finalmente affermatosi sulla terra, con le sue Chiese, diventate tante fiaccole di carità, accese sul mondo pagano, ormai condannato al crepuscolo.

MARTIROLOGIO ROMANO. A R