Archivio mensile:novembre 2021

INSULTI RAZZISTI

INSULTI RAZZISTI
CONTIUMELIE IMPROPERI E MALDICENZE
CONTRO I SARDI:
da Cicerone a Librandi di “Italia viva”

Il grande oratore latino, nell’orazione Pro Scauro, aveva bollato i Sardi come naturalmente mastrucati latrunculi: proprio lui difensore di Scauro, lui sì un “ladrone”, a parere dello stesso senato romano: aveva imposto ai Sardi una decima che si intascava personalmente!
Sardi a suo parere inaffidabili e disonesti, in quanto africani (oggi diremmo negri), anzi formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi: “Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse?”(E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente nemmeno all’origine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?).
E a proposito del musico e cantante Tigellio l’oratore latino scrive “E’ un vantaggio non avere alcun rapporto con questo sardo, più pestilenziale della sua stessa patria”.
Mentre Licinio Calvo considerava lo stesso Tigellio da “mettere in vendita”, come tutti i Sardi venales.

Facciamo un bel salto nella storia e troviamo un viceré di Vittorio Amedeo II, l’abate Alessandro Doria del Maro (1724-26) che dopo Cicerone, pone per così dire, le premesse ideologiche del razzismo contro i Sardi. Per giustificare la repressione violenta e militare contro il banditismo scrive che “la causa del male è da ricercarsi nella natura stessa dei popoli sardi poveri, nemici della fatica, feroci e dediti al vizio” .
Anticipando così e preparando brillantemente Lombroso e tutto il ciarpame e la paccottiglia sui Sardi con il dna delinquenziale con i vari Orano (i Nuoresi sono delinquenti nati) e Niceforo, secondo cui tutti i Sardi non solo i Nuoresi appartengono a una razza inferiore. Per proseguire negli anni 1960/70 quando su una rivista patinata e popolare, certo Augusto Guerriero, più noto come Ricciardetto scriverà che i Barbaricini occorreva “trattarli” con gas asfissianti o per lo meno paralizzanti.

Per arrivare ai nostri giorni con il Procuratore di Cagliari, Roberto Saieva, che all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 ha sostenuto: “Altro fenomeno criminale che nel territorio del Distretto appare di rilevanti proporzioni è quello delle rapine ai danni di portavalori, organizzate normalmente con grande dispiegamento di uomini e mezzi. Diffusi sono comunque analoghi delitti ai danni di sportelli postali e di istituti bancari. E’ agevole la considerazione che nella esecuzione di questi delitti si sia principalmente “trasfuso l’istinto predatorio (tipico della mentalità barbaricina) che stava alla base dei sequestri di persona a scopo di estorsione, crimine che sembrerebbe ormai scomparso”.
Forse il Procuratore pensava di essere un nuovo viceré alla Doria del Maro, cui sostanzialmente si ispira.

E’ infine di questi giorni. l’uscita di certo Librandi, un plurivoltagabbana: dopo aver girovagato nella destra ( Forza Italia, PdL,,Unione Italiana, Scelta Civica per l’Italia, ecc.) è approdato nel PD per poi aderire a Italia Viva, il nuovo partito di Matteo Renzi.
Plurivoltagabbana, ultra inquisito e arrogante e razzista: il 27 ottobre 2019 viene reso noto il suo coinvolgimento nell’inchiesta sui finanziamenti alla fondazione Open, legata all’ex premier Renzi, insieme ad altre persone.
Nel gennaio 2020 il settimanale L’Espresso rileva come, in occasione di una verifica fiscale effettuata nel luglio 2019 dalla Guardia di Finanza nella sua azienda a Saronno, Librandi abbia usato parole forti nei confronti dei finanzieri sostenendo di essere “un intoccabile”.
Il mese precedente aveva scatenato polemiche per la frase “I meridionali resistono di più al Coronavirus perché sono africani bianchi. E’ una questione genetica”.
E oggi attacca i sardi perché androne, perché il PIL della Sardegna lo pagherebbe il Nord

Francesco Casula

movimento operaio e sindacale

movimento operaio e sindacale L’espressione indica l’insieme delle forme di organizzazione, rappresentanza e tutela assunte dalla classe operaia a difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita sociale, civile e politica. La sua prima origine avvenne in Inghilterra e fu strettamente collegata alla Rivoluzione industriale, con la quale si affermò la divisione netta tra proprietari dei mezzi di produzione (capitalisti) e prestatori di forza lavoro a pagamento (operai) privi di ogni potere decisionale riguardo al processo produttivo. Il movimento si formò poi anche negli altri Paesi dove si realizzò un processo di industrializzazione. All’interno del movimento operaio maturò ben presto la convinzione che il proletariato costituisse una classe con interessi distinti e antagonistici rispetto a quelli anzitutto della borghesia industriale, ma anche degli altri tipi di borghesia. Nella misura in cui ciò avveniva, la difesa degli interessi di classe tendeva a spostarsi dal campo strettamente economico e delle condizioni di lavoro in fabbrica, come avvenne nei primissimi tempi, a quello politico, giungendo già nella prima metà dell’Ottocento a dar vita a teorie (anarchiche o socialiste) che ipotizzavano società di tipo radicalmente diverso da quella aristocratico-borghese, ponendo il lavoro e non la proprietà a base del loro fondamento. Al principio liberale e democratico dell’uguaglianza giuridica tali teorie affiancavano quello dell’uguaglianza economica e sociale, differenziandosi tra di loro solo per le modalità strategiche e tattiche del raggiungimento di tale obiettivo (rivoluzionarie o riformiste-parlamentari o extraparlamentari, ecc.). Nel con­testo di una strategia strettamente  economicistica e di tipo sociopolitico riformista entrò in uso nella seconda metà dell’Ottocento anche l’espressione movimento sindacale, che venne a indicare più specificamente le molteplici forme di organizzazione dell’insieme dei lavoratori (leghe, camere del lavoro, federazioni di mestiere, confederazioni ecc.), nonché le loro proiezioni ideologiche.

Dalle origini alla metà dell’Ottocento. Le prime forme associative furono le società di mutuo soccorso, nate con finalità di tutela in caso di malattia e infortunio, e che, quando si passò alla contrattazione delle condizioni di lavoro con il padronato e allo scontro, sostennero spesso il costo economico degli scioperi operai. Sorto dunque tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento con notevoli discontinuità e difformità tra i diversi Paesi europei, il movimento operaio fu caratterizzato fortemente dalle peculiari radici non solo politiche ed economiche ma anche etico-religiose delle diverse realtà nazionali di appartenenza, nonché dalle specificità professionali e dalla fisionomia dei diversi lavori artigianali. Del movimento operaio fecero infatti parte, specie all’inizio, non solo gli operai della grande industria, ma anche quelli delle imprese artigianali. A livello internazionale esso si omogeneizzò progressivamente nella seconda metà del sec. 19° in seguito al travolgente sviluppo del sistema di fabbrica. I principali modelli del movimento operaio si delinearono in tempi diversi. Il primo a costituirsi ed esercitare funzione di orientamento e di stimolo fu il movimento inglese a partire dal 1792, anno di costituzione della prima Corresponding society. Fortemente influenzato dai principi e poi dalle ripercussioni della Rivoluzione francese, esso attraversò una durissima fase di lotta per il riconoscimento del diritto di esistenza, negato dai Combination acts (1799-1800) che costrinsero per decenni i membri delle società di corrispondenza all’attività illegale e a opporsi, talora con la violenza, all’introduzione delle nuove macchine, in particolare nell’industria tessile e nelle miniere (luddismo, iniziato nel 1802), talaltra con grandi manifestazioni di massa non autorizzate come nel 1819.

Solo nel 1824 quelle leggi furono abrogate e dal 1825 fu riconosciuto il diritto di associazione. Sull’onda dei successi conseguiti, nel 1834 venne fondata la Grand national consolidated trade union che, benché ispirata ai principi oweniani e sansimoniani dell’armonia degli interessi tra operai e industriali, divenne strumento di rivendicazioni e di agitazioni sindacali, in crescente opposizione con il mondo imprenditoriale. Da questo contrasto sociale la Grand union uscì sconfitta e fu poi sciolta d’autorità, segnando la fine dell’influenza di Owen. Tuttavia nacque presto un nuovo movimento a base politico-rivendicativa con peculiari forme di agitazione e di mobilitazione di massa che dalla People’s charter del 1838 prese il nome di cartismo. Esso si poneva una serie di obiettivi dichiaratamente politici, primo fra tutti il suffragio universale. Dal 1842 iniziò un vasto movimento di scioperi di massa che indusse il Parlamento a varare una legge sulle miniere e preparò il terreno sociale e culturale per una legge che fissasse la giornata lavorativa a dieci ore, ottenuta poi nel 1847. Allo scoppio della grande rivoluzione sociale europea del 1848, il movimento operaio inglese aveva elaborato i principali parametri di riferimento per l’azione e per le rivendicazioni di tutto il movimento operaio europeo, rimasti costanti per l’intera fase storica del capitalismo manifatturiero e industriale: l’astensione collettiva dal lavoro (sciopero), con varie modalità di esecuzione, rivolta a premere sui padroni e sullo Stato e insieme strumento di coesione e di identità; l’elaborazione di rivendicazioni economiche (dal salario all’orario) e la richiesta di diritti sociali nell’ambito del rapporto di lavoro, in forma collettiva e «contrattata»; la costruzione di strumenti organizzativi di rappresentanza, di tutela e di direzione del movimento rivendicativo e di lotta, con il fine di generalizzare e stabilizzare le conquiste economiche e normative e di esercitare un controllo sul mercato del lavoro. Non c’era, e non vi fu neppure in seguito, nell’orizzonte rivendicativo economico, sociale e politico del movimento operaio inglese l’obiettivo dell’abbattimento della società capitalistico-borghese, come avvenne invece nei movimenti operai di altri Paesi europei, a partire dalla Francia, anche se proprio dalla londinese Lega dei giusti nacque la Lega internazionale dei comunisti dalla quale nel 1848 fu pubblicato il Manifesto del partito comunista scritto da Marx ed Engels, che segnò un salto di qualità fondamentale nell’analisi «scientifica» del sistema capitalistico, nella crescita della coscienza di classe del movimento operaio e nell’elaborazione di strategie politiche che si ponevano apertamente l’obiettivo dell’eliminazione della società borghese e della creazione di una società senza classi. La politicizzazione rivoluzionaria del movimento operaio fu fenomeno soprattutto dell’Europa continentale, a partire dalla Francia. Anche in Francia il movimento iniziò infatti la sua storia a fine Settecento nel quadro degli sconvolgimenti del periodo rivoluzionario, cosa che non gli evitò il divieto di associazione sindacale con la legge Chapelier (1791). Esso assunse di conseguenza già allora una forte connotazione politica di ispirazione democratico-rivoluzionaria, che culminò nella «congiura degli eguali» del 1795-96 organizzata da G. Babeuf e duramente repressa. Durante l’età napoleonica e quella della Restaurazione, il movimento operaio francese rimase poi su un livello di sviluppo modesto, ma, quando il grande movimento rivoluzionario del luglio 1830 ne riattivò le energie, ciò avvenne subito in forma molto politicizzata. La cospirazione politica e la ribellione sociale dei nuclei operai più consapevoli, ispirati da A. Blanqui, sfociarono nel maggio del 1839 in un tentativo insurrezionale il cui fallimento, insieme all’aggravarsi della situazione economica della classe lavoratrice nel corso degli anni Quaranta, produsse una serie di riflessioni e di proposte teoriche iscritte nell’ambito teorico-ideologico del socialismo utopistico e dell’anarchismo (C. Fourier, P.-J. Proudhon, H. de Saint-Simon). Il movimento operaio francese partecipò poi attivamente alle varie fasi della rivoluzione tra febbraio e giugno 1848. Nel corso di quei mesi, sulla base di un programma politico autonomo ispirato da L. Blanc, venne rivendicato il diritto al lavoro e attuata per la prima volta una politica dell’occupazione da parte del governo attraverso l’istituzione di ateliers nationaux («opifici nazionali»), che tuttavia finirono con un clamoroso fallimento. La successiva pesante sconfitta della rivoluzione gettò il movimento operaio francese in una gravissima crisi, che si tradusse col regime bonapartista in un forte arretramento dell’associazionismo economico-sindacale e nella sua emarginazione a livello politico. Collegato per caratteristiche ideologiche e organizzative all’evoluzione del movimento operaio inglese e francese fu quello tedesco, anche se esso prese vera forza con qualche anno di ritardo. In quei decenni gli Stati tedeschi erano ancora caratterizzati da una marcata arretratezza economico-sociale e dalla mancanza di unità nazionale, cosicché solo nel 1844 scoppiarono le prime lotte dei lavoratori della Slesia, alle quali peraltro nel 1845 si rispose con una legge industriale che confermava il divieto in materia di coalizioni e di scioperi.

Dall’Internazionale alla Prima guerra mondiale. Marx ed Engels negli anni successivi al 1848 diedero un grande contributo alla politicizzazione del movimento operaio sostenendo la necessità della sua organizzazione in partito politico rivoluzionario a livello internazionale. Favoriti in ciò anche dal travolgente sviluppo industriale che investiva ormai buona parte dell’Europa continentale (Belgio, Francia, Germania) e gli USA, nel 1864 diedero vita a Londra all’Associazione internazionale dei lavoratori (➔ Internazionale) alla quale parteciparono, accanto ai sindacati inglesi, al movimento francese e ai nuclei del nascente movimento operaio socialista tedesco, anche le rappresentanze di Paesi a struttura ancora prevalentemente agricola, quali l’Italia e la Spagna, dove il movimento associativo era sotto una crescente influenza anarchica. All’interno dell’Associazione si svolse una dura lotta tra la corrente marxista e quella bakuninista. Per anni si fronteggiarono il progetto marxista dell’imprescindibilità di una ferrea organizzazione partitica del movimento e della conseguente dittatura del proletariato ai fini dell’abbattimento del sistema capitalistico e della società borghese per l’instaurazione della società senza classi, e quello di Bakunin della rivolta spontanea delle masse nel segno dell’ideale anarchico di una libera federazione di comunità autogestite. Lo scontro si risolse con la sconfitta delle concezioni anarchiche, ma anche con la crisi irreversibile dell’Associazione, che nel 1876 si sciolse. Il movimento socialista continuò allora a organizzarsi attraverso partiti rivoluzionari nazionali, che la seconda Internazionale fondata nel 1889 tentò poi di coordinare. Il fenomeno del partito rivoluzionario di diretta o indiretta derivazione ideologica marxista non riguardò il movimento operaio inglese, che fece una scelta di fondo riformista volta al miglioramento delle condizioni di vita e all’allargamento dei diritti civili e politici. Nel 1884 nacquero la Federazione socialdemocratica e la Fabian society e nel frattempo al sindacalismo di operai di mestiere cominciarono ad affiancarsi associazioni di lavoratori non specializzati fino alla costituzione delle General labour unions (1889), che raccoglievano tutte le categorie e i tipi di lavoratori. Con i grandi scioperi del 1889, all’associazionismo sindacale a base ristretta delle Trade unions si aggiunsero le confederazioni generali a struttura verticale e di massa, dal cui sviluppo (specie dopo il 1911) dipese una gran parte del sindacalismo inglese del Novecento. Fu l’organizzazione sindacale all’origine della riorganizzazione del movimento politico dei lavoratori: nel 1893, sotto la spinta del New syndicalism, nacque l’Independent labour party. Il movimento operaio inglese esercitò una fortissima azione rivendicativa nella richiesta di tutela legislativa: in particolare rimangono notevoli le leggi varate tra il 1897 e il 1920 sul sistema pensionistico (Pensionism act, 1908) e sull’assicurazione contro la disoccupazione (Unemployment insurance act del 1912, ulteriormente esteso nel 1920). In Francia e in Germania la costituzione di formazioni politiche del movimento subì in misura maggiore l’influenza della dottrina e delle strategie politiche di ispirazione marxista. In Francia la tradizionale tendenza cospirativa e rivoluzionaria del movimento fu d’ostacolo alla costituzione di un unico partito di classe, mentre la drammatica conclusione della Comune, primo esempio di conquista e di esercizio diretto del potere politico da parte del movimento operaio francese, scompaginò le organizzazioni dei gruppi socialisti. Tra il 1876 e il 1879 si costituì attorno al marxista J. Guesde la Fédération du parti des travailleurs socialistes, che ebbe vita lacerata da scissioni e contrasti. Il movimento operaio francese si consolidò nel 1886 allorché, ancora per ispirazione di Guesde, si formò la Fédération nationale des syndicats, mentre si veniva diffondendo, per iniziativa di F. Pelloutier, una forma di associazionismo economico denominato bourse du travail, che nel 1892 diede vita a un’organizzazione di coordinamento. L’aspro scontro tra i sostenitori del «modello tedesco» (combinazione di attività parlamentare ed economico-rivendicativa) e la tendenza ispirata ai principi dell’action directe (sciopero generale come strumento della rottura rivoluzionaria dell’ordinamento borghese) caratterizzarono il movimento francese, anche dopo la costituzione della Confédération générale du travail (CGT, 1895), al cui interno sarebbero maturate le tendenze del sindacalismo rivoluzionario teorizzate da G. Sorel e tradotte in progetto politico-sindacale nel 1906 al Congresso di Amiens. Nel 1905 le forze politiche socialiste confluirono nella SFIO, sezione francese dell’Internazionale socialista. La Germania era stata il primo Paese ad avere un partito politico della classe operaia, fondato da Ferdinad Lassalle. Nel 1869 era nato il Partito socialdemocratico fondato da W. Liebknecth e A. Bebel. Dopo la repressione seguita anche in Germania alla sconfitta della Comune, i responsabili furono portati a trovare un’intesa e a fondare nel 1875 la Deutsche sozialistische Arbeiterpartei, che elaborò (Congresso di Gotha) un ampio programma di riforme e definì i rapporti tra sindacato e partito, stabilendo l’apoliticità del primo, la sua subordinazione al partito e la necessità di unificare i sindacati in un’unica organizzazione per branca professionale a livello nazionale e locale. Il partito era diviso in diverse correnti; quella di Kautsky riteneva deterministicamente scontata la vittoria del socialismo, quella di E. Bernstein riteneva che il socialismo potesse essere realizzato evoluzionisticamente senza il ricorso alla rivoluzione violenta. Tuttavia nel 1891 al Congresso socialdemocratico di Erfurt furono stabiliti come capisaldi del movimento l’azione legale e l’utilizzo dello sciopero come strumento della lotta di classe, ponendo in secondo piano la tendenza alla rivoluzione anticapitalistica radicale, rapida e violenta. Partito e sindacato divennero in tal modo grandi organizzazioni di massa. Nel 1892 (Congresso sindacale di Halberstadt) si realizzò il sistema delle organizzazioni centrali per professione, coordinate da una commissione centrale e basate su un’elevata quota di adesioni dei lavoratori (il numero degli iscritti salì dai 300.000 di quell’anno agli oltre 2 milioni e mezzo del 1913). Fino allo scoppio della Prima guerra mondiale il Partito socialdemocratico tedesco, per quanto diviso al proprio interno, egemonizzò la seconda Internazionale. Pressoché negli stessi anni il movimento operaio si sviluppava e si organizzava partiticamente nei maggiori Paesi europei ed extra­europei. Nel 1872 nacque il Partito socialdemocratico austriaco. In Belgio il movimento operaio si organizzò, in seguito alla crisi degli anni Settanta, con la fondazione della Cooperative de Gand (1880) e la creazione del Parti ouvrier (1889). Negli stessi anni sorgevano partiti socialdemocratici in Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Paesi Bassi, Svizzera, Ungheria, Serbia, Bulgaria. In Spagna il movimento operaio seguì dapprima tendenze anarchiche (Federación obrera, 1881), quindi diede vita alla Federación nacional de los trabajadores (1890), socialista; di contro, nel 1912 si costituì la Confederación nacional de los sindicatos obreros católicos. Grande rilevanza ebbe il movimento operaio russo, raccolto dagli anni Settanta in grandi unioni regionali e tra i primi a subire una decisa influenza marxista per opera di Plechanov e Lenin. Nel 1898 nacque il Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR), che all’interno del proletariato russo, di recente formazione e concentrato in poche isole industriali, sviluppò una struttura organizzativa basata sui soviet («consigli») che ebbero grande rilevanza nella rivoluzione del 1905 e che fin dal febbraio 1917 determinarono quel dualismo di potere su cui avrebbe fatto leva l’insurrezione bolscevica. In Italia il movimento operaio ebbe come iniziale forma organizzativa le poche società di mutuo soccorso, sorte nel Nord della penisola pochi anni prima dell’unità, controllate dai moderati e aventi come iscritti ben pochi operai dell’industria in senso stretto. Nel primo decennio postunitario avevano già preso il sopravvento le società di mutuo soccorso di ispirazione mazziniana, le quali rimanevano comunque lontane da un disegno strategico di contrapposizione di classe, dato anche il ritardo del processo di industrializzazione italiano rispetto a quello di altri Paesi. Negli anni Sessanta e soprattutto Settanta le posizioni politiche mazziniane vennero erose drasticamente dall’anarchismo di Bakunin, che ebbe largo successo un po’ ovunque nelle campagne, e in particolare in Italia meridionale, trovando adepti di spicco come Carlo Cafiero ed Errico Malatesta. Solo negli anni Ottanta, e non a caso in concomitanza con il primo vero avvio dell’industrializzazione, si fecero strada idee e organismi organizzativi di ispirazione socialista, grazie ad attivisti e teorici come Andrea Costa, Filippo Turati, Antonio Labriola. Nel 1882 fu fondato dunque a Milano il Partito operaio italiano. Questa fu la premessa per la costituzione a Genova nel 1892 del Partito dei lavoratori italiani, che modificò il nome l’anno successivo in Partito socialista dei lavoratori italiani, per divenire infine, nel 1895, Partito socialista italiano. La resistenza da parte dell’anarchismo fu tuttavia forte e lasciò tracce durature nel Partito socialista. All’interno di esso il contrasto tra riformisti e massimalisti fu sempre aspro e il suo pieno inserimento nell’azione riformatrice della sinistra italiana rimase sempre problematico. In quegli anni si diffusero anche organizzazioni di mestiere e sorsero le prime Camere del lavoro su base ancora territoriale, con lo scopo di erogare assistenza e di sottrarre il collocamento all’esoso controllo degli ­intermediari privati. La prima Camera del lavoro vide la luce a Milano nel 1891 per opera di Osvaldo Gnocchi-Viani. Esse costituirono l’ossatura del movimento sindacale italiano, che nel 1906 diede vita al primo coordinamento sindacale italiano su scala nazionale con la fondazione della Confederazione generale del lavoro (CGL). Tuttavia nel 1906 le finalità strettamente assistenziali si erano già da tempo connotate in senso politico. Al Congresso costitutivo del Partito socialista, al quale diede la propria adesione Gnocchi-Viani, le Camere del lavoro erano state dichiarate strumento di lotta sindacale dei lavoratori e non solo di assistenza e tutela. Sin dalla sua nascita quindi la CGL fu su posizioni organicamente vicine alle correnti riformiste del Partito socialista, per cui nel 1912 nacque l’Unione sindacale italiana, collegata invece al sindacalismo rivoluzionario. Accanto a quello socialista nacque allora anche un sindacalismo cattolico ispirato alla Rerum novarum (1891) e nel primo decennio del 20° sec. si diffuse una rete di associazioni professionali che si trasformarono in veri e propri sindacati, ma rimasero estranee alle organizzazioni confederali politicizzate. Un salto storico di enorme portata si ebbe sempre a fine Ottocento con la nascita di un m.o. e s. anche al di fuori dell’Europa, negli Stati Uniti e in alcuni dei principali Paesi latinoamericani, come Argentina e Brasile, investiti questi ultimi da un processo di valorizzazione delle campagne e di modernizzazione e urbanizzazione, più che da una vera e propria Rivoluzione industriale. In Asia il solo Giappone vide la nascita di un sindacato nel 1897, mentre restava del tutto assente qualunque tipo di organizzazione sindacale in Africa. Il collegamento circolare che si stabilì tra il movimento europeo e quello delle Americhe, alimentato dalle gigantesche ondate migratorie e dai flussi di ritorno, contribuì a dare all’espressione movimento operaio e sindacale una dimensione di interdipendenza internazionale. Negli Stati Uniti il movimento operaio si formò inizialmente attraverso organizzazioni sindacali di mestiere (l’associazione dei Knights of labour, fondata nel 1863, la National labor union fondata nel 1866), ma si consolidò durante le lotte degli anni Ottanta, quando nacque l’American federation of labour, organismo per la stipula dei contratti e la difesa delle condizioni di vita più che strumento di lotta sociale e politica. Da questa si separarono i minatori per costituire l’American labour union of the West, socialista, primo nucleo degli Industrial workers of the world, costituito nel 1905, organizzazione rivoluzionaria che si allargò ai non qualificati, ai neri, agli immigrati e subì una durissima repressione durante la Prima guerra mondiale.

 
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Dal primo dopoguerra a oggi. Il richiamo nazionalista, all’origine della Prima guerra mondiale, fu più forte dei valori internazionalisti professati dal movimento operaio, che pure in Europa organizzava ormai buona parte della popolazione lavoratrice (e in alcuni Paesi comprendeva importanti settori agricoli) e aveva quasi ovunque consistenti rappresentanze politiche. Ma alla compressione che il movimento del lavoro subì durante il conflitto seguirono nell’immediato dopoguerra una forte ripresa organizzativa e una nuova grande ondata di lotte sospinte psicologicamente anche dall’esito della Rivoluzione russa del 1917, che aveva portato per la prima volta attraverso un processo rivoluzionario un partito socialista alla conquista del potere e alla fondazione di uno Stato comunista. Il che accentuò la divisione tra massimalisti e riformisti, tra fautori della società comunista e fautori di una società in cui le condizioni della classe lavoratrice fossero tutelate e migliorate attraverso riforme realizzate nel quadro della democrazia parlamentare. Nel 1919-20 (definito perciò biennio rosso) in gran parte dei Paesi d’Europa ingenti masse proletarie tesero, in modo concomitante, anche se non coordinato (la guerra aveva distrutto anche la seconda Internazionale), a riequilibrare i rapporti di forza con il padronato, ponendo il problema della gestione della produzione attraverso la generalizzazione degli organismi consiliari di fabbrica e giungendo talora a costituire governi socialisti (Ungheria, Baviera). Tranne che nella Russia sovietica, nessuno di questi esperimenti sopravvisse e la strategia di ricomposizione dell’ordine borghese si divise, a seconda dei Paesi e delle situazioni, tra il riconoscimento di un assetto contrattuale permanente con i sindacati e i partiti operai e la decapitazione del movimento, con l’eventuale e parziale assorbimento nelle strutture statali delle pulsioni rivendicative e partecipative popolari. È, quest’ultimo, il caso del fascismo in Italia e, dopo la crisi della Repubblica di Weimar, del regime nazionalsocialista in Germania. In Italia il richiamo della Rivoluzione russa contribuì fortemente alla radicalizzazione delle lotte operaie ­postbelliche. Ben più che le rivendicazioni salariali, furono l’occupazione delle terre, l’esperienza dei consigli di fabbrica promossi nel 1919 dal gruppo torinese dell’Ordine nuovo, la successiva occupazione nel 1820 delle fabbriche nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova, la nascita nel 1921 del Partito comunista d’Italia, fondato da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga e inseritosi prontamente nella terza Internazionale fondata a Mosca nel 1919, a creare nel Paese un clima di panico per una rivoluzione di tipo bolscevico che sembrava imminente. La ricomposizione non avvenne con il semplice esaurimento dell’ondata delle occupazioni e col rientro del movimento socialista negli argini del regime liberale, ma con la crisi di quest’ultimo e l’avvento della dittatura fascista, che sottopose il movimento operaio non solo comunista, ma anche socialista e cattolico, alla pressione di leggi fortemente restrittive, e poi del sindacato unico fascista. In Germania, dopo la repressione del tentativo rivoluzionario comunista del 1919, la drammatica e non breve crisi della Repubblica di Weimar, l’organizzazione nazionalsocialista Deutsche Arbeitsfront (1933) si impadronì della complessa struttura sindacale, cooperativa, assistenziale, culturale, creditizia preesistente; creò un sistema di integrazione subordinata del sindacato al partito con iscrizione obbligatoria e ritenuta alla fonte delle quote da parte del datore di lavoro; vanificò in pratica tutte le peculiari funzioni rivendicative, rappresentative e conflittuali dell’attività sindacale; trasformò infine sé stessa (1939) in una gigantesca macchina di educazione al nazionalsocialismo e di integrazione del lavoro nell’apparato produttivo. Le cose andarono diversamente nei regimi liberali e democratici dove il movimento operaio e sindacale, soprattutto a partire dagli anni Trenta, tese a stabilire con lo Stato un rapporto basato su intese strategiche, in una complessa rete relazionale (➔ sindacato), che non escluse però fasi di aperta conflittualità. Il ruolo, anche politico, del movimento britannico crebbe durante gli anni Venti, pur caratterizzato dai contrasti tra l’anima tradeunionista e quella unionista, e si scontrò con gli orientamenti dei governi conservatori, culminando nello sciopero generale dei minatori (1926), che diede però al governo l’occasione di operare un drastico ridimensionamento delle libertà e dei poteri del sindacato (nel 1927 fu dichiarato illegale ogni sciopero non corporativo). Tali restrizioni si protrassero fino al periodo bellico, durante il quale il movimento operaio e il sindacato appoggiarono totalmente il governo conservatore. Churchill si rese pertanto disponibile a varare nel 1942 un piano di ampie riforme sociali e nel 1945, conclusasi vittoriosamente la guerra, il movimento operaio e sindacale inglese divenne forza di governo sulla base di un vasto programma che assegnava al lavoro e al sindacato, saldamente controllato dalle trade unions, quei poteri, quei diritti civili e quelle conquiste economiche tipici di una lunga fase della storia inglese ed europea (previdenza, sistema sanitario pubblico, istruzione, rigido rispetto delle clausole sindacali in tema di rapporti di lavoro e di contrattazione, assoluta indipendenza del sindacato, nazionalizzazione della Bank of England e di alcuni decisivi settori produttivi) che si sarebbero protratti praticamente fino alla grande crisi degli anni Settanta e alla rivoluzione conservatrice del primo ministro M. Thatcher. In Francia il movimento rimase sotto la guida della CGT, fedele ai principi dell’azione diretta, fino alla scissione del 1921 e alla nascita della CGTU (Confédération générale du travail unitaire), di composizione operaia e fortemente influenzata dai comunisti. Riunificatasi tra il 1925 e il 1928, la CGT apparve tuttavia trasformata nella sua composizione socio-professionale con il prevalere dei lavoratori pubblici e dei servizi, cosa che orientò il movimento sindacale verso la ricerca di un rapporto con lo Stato e di una funzione di stabilizzazione dei salari, dell’occupazione, delle conquiste legislative. Queste modifiche culminarono nell’inserimento della CGT nel movimento che tra il 1935 e il 1936 portò al governo del Fronte popolare. Da questo la CGT pretese l’accordo (1936) con i rappresentanti del padronato, accordo che segnava il tornante principale della storia del movimento operaio francese e fissava il passaggio a una politica di sanzione legislativa del contratto e delle procedure del conflitto. Su queste nuove basi il movimento francese si ricostituì dopo la guerra, ma dopo il 1947 la necessità di frenare l’avanzata comunista portò a una divisione del movimento con la CGT, più legata al Partito comunista e al nucleo storico della classe operaia, e la CFDT (Confédération française démocratique du travail), più aperta e sensibile alle nuove esperienze che maturavano nella coscienza e nella vita operaia per effetto della nuova Rivoluzione industriale e che poi sarebbero esplose nei movimenti sociali della fine degli anni Sessanta. Nella stessa Germania federale del dopoguerra il sindacato (Deutscher Gewerkschaftsbund, 1949) costituì uno dei fattori decisivi della ricostruzione economica e politica del Paese. A ciò contribuirono il carattere unitario (assunto anche per l’indicazione delle Chiese, per cui confluì in esso tutto il movimento dei lavoratori, cristiano, socialista, liberale e comunista), la rigida e capillare contrattualizzazione dei rapporti di lavoro, una politica sociale e assistenziale pubblica a elevata copertura, un sistema di salari elevati ma compensato da stabilità produttiva e partecipazione dei lavoratori e del sindacato alla vita dell’azienda, una ponderata oculatezza nell’uso del conflitto, un articolato sistema di relazioni industriali con l’associazione imprenditoriale e una precisa strategia di scelte economico-sociali, l’esplicito e definitivo rifiuto nel Congresso di Bad Godesberg del 1959 da parte della socialdemocrazia tedesca del marxismo e dell’ideologia rivoluzionaria. In Italia la ripresa di un movimento operaio libero si ebbe con la ricostituzione del sindacato unitario (1944) promosso dai tre grandi partiti di massa DC, PCI, PSI, ma messo in crisi, come in Francia, dall’inizio della Guerra fredda e dall’estromissione dalla coalizione di governo dei partiti filosovietici. Nel 1950 dalla CGIL, a maggioranza comunista, si distaccarono i riformisti della UIL e i cattolici della CISL. Il decennio 1950-60 fu un periodo di scarsa conflittualità, dovuta da un lato alla grande quantità di manodopera disoccupata, dall’altro all’intensità dello sviluppo produttivo negli anni del miracolo economico e all’incidenza positiva delle politiche sociali e territoriali adottate dal governo. Gli anni Sessanta si aprirono con la partecipazione del Partito socialista al governo. Questo non evitò che a partire dalla metà del decennio si avesse una ripresa della conflittualità sindacale favorita dalla quasi scomparsa della riserva di manodopera disoccupata. Nel biennio 1968-70 si ebbe un’intensissima stagione di lotte operaie con una profonda trasformazione dei contenuti rivendicativi conclusasi con l’adozione dello Statuto dei lavoratori nel 1970 e con la  riunificazione del movimento sindacale che diede vita nel 1972 alla Confederazione CGIL-CISL-UIL. Nel corso degli anni Settanta la forza elettorale del PCI giunse ai suoi massimi storici, ma la crisi petrolifera, la crisi industriale e la conseguente ristrutturazione e delocalizzazione degli impianti, l’avvio della globalizzazione, il progresso tecnologico portarono a una progressiva riduzione della presenza relativa del proletariato industriale e alla crescita dei ceti medi, rendendo sempre più evidente l’impossibilità del mantenimento di molte delle conquiste dei primi anni Settanta. Anche in Italia, sia pure in misura meno drastica e decisa che in altri Paesi dell’Occidente, come l’Inghilterra, negli anni Ottanta si ebbe una controffensiva contro lo Stato sociale e altre forme di garanzia dei livelli di vita acquisiti. Alla fine del decennio a creare ulteriore disorientamento e incertezza nei movimenti social-comunisti occidentali sopraggiunse il fallimento storico del comunismo statalistico e autoritario dei Paesi dell’Est europeo culminato nella dissoluzione dell’URSS (1991). In essi era stata per lo più adottata un’organizzazione ricalcata sul modello dell’URSS: rappresentanza sindacale unitaria inclusiva di ogni categoria e ogni qualifica, estesa alla quasi totalità dei lavoratori, con autonomia e potere contrattuale scarsissimi e, in genere, con il riconoscimento statutario della leadership del partito. Ma non poteva certo non indurre a riflettere il fatto che la fine di quei regimi era stata, se non proprio avviata, certo accelerata da nuove formazioni sindacali come Solidarność in Polonia, che aveva frontalmente avversato il regime comunista. In questo contesto si inserì nel 1991 la rinuncia del PCI all’ideologia comunista e la sua trasformazione nel PDS. Dagli anni Novanta si è avuta una forte ripresa del sindacalismo autonomo, compresso dalle forze confederali negli anni Sessanta-Ottanta, e si sono venute moltiplicando nuove forme di organizzazione sindacale autonoma, portatrici di un rivendicazionismo di categoria o addirittura di gruppo, che spesso si dimostra più virulento e conflittuale di quello dei sindacati tradizionali. Ma, al di là delle situazioni specifiche e contingenti, il dato di fondo della situazione attuale del m.o. e s. su scala planetaria è che in esso il peso della classe operaia in senso stretto diminuisce in rapporto diretto al passaggio all’economia postindustriale, e che l’espressione m.o. e s. si è venuta estendendo ad altri comparti del lavoro dipendente (dagli impiegati e tecnici ai pubblici dipendenti, dagli impiegati privati nel commercio ai lavoratori dei servizi e della pubblica istruzione), fino a delineare, pur con persistenti dislivelli quantitativi, una rappresentanza generale sub specie sindacale dell’intero universo del lavoro salariato e stipendiato.

Origini e sviluppo del movimento operaio

 
 
 
 
 
 

 

Origini e sviluppo del movimento operaio, tra rivoluzione industriale e organizzazioni di massa

Nella seconda metà dell’Ottocento lo sviluppo dell’industria porta all’affermarsi del sistema economico capitalistico e al conseguente aumento del numero di operai. Questi ultimi si organizzano e prendono coscienza di se stessi come classe, organizzandosi e avanzando forti rivendicazioni sociali.

 

Cognomi sardi: uno stazzo o una capanna, è qui l’origine di Casula


Lo storico Francesco Cesare Casula

Documentato sin dall’XI secolo, oggi è presente soprattutto nel sud della Sardegna. La rara variante sassarese Caiula

 

Casula è un antico cognome esclusivamente sardo che occupa la 29° posizione nella speciale classifica dei cognomi più diffusi. Oggi conta circa 1760 famiglie di cui 1350 risiedono in Sardegna. Nelle restanti regioni le maggiori densità si rilevano in Piemonte (83), Lombardia (76) e Lazio (60). Nell’Isola è diffuso specialmente nella parte meridionale.

Nel territorio della vecchia provincia di Cagliari vi sono 720 Casula. Altri 195 risiedono nella provincia di Oristano; 200 in quella di Nuoro (compresa l’Ogliastra) e 330 in quella di Sassari (compresa la Gallura). Relativamente ai comuni, ha l’epicentro a Cagliari (120) col suo hinterland (Assemini 41, Quartu Sant’Elena 35, Dolianova 31, Capoterra e Monserrato 15). Presenta densi nuclei anche a Sassari (59), Oristano (40), Olbia (39), Carbonia (38), Iglesias (36), Villaputzu (32), Desulo (30), Cabras e San Gavino Monreale (26), Nùoro (23), Serdiana (22), Ortueri (21), Samassi (17), Berchidda e Santa Giusta (16) e Meana (15).

Sul piano generale Casula è attestato in 170 comuni ossia in circa il 45 per cento dell’intero territorio sardo. Oltre a Casula, che rappresenta la forma principale, si deve tener conto della variante Casule (67 famiglie) che è caratteristica di Cuglieri (21) e di Pozzomaggiore (17). Un’altra variante è Catzula (15 famiglie) che è specifica di Meana. Una variante rarissima è Caiula che si trova solo a Sassari e riflette una pronuncia logudorese Cajula. Sul piano storico è documentato già nei secoli XI-XIII nel condaghe di San Pietro di Silki e in quello di San Nicola di Trullas. Nell’Atto di pace del 1388 tra la Corona d’Aragona e il Regno d’Arborea è attestato a Borore e Laconi.

 

È documentato a Ozieri nel 1503 e nel 1587. Nella prima metà del 1500 è attestato a Sassari (Quirico Casulla) dove è registrato ancora nel 1580, nel 1689, nel 1791 e nel 1852-1856 (Giovanni Battista Casula, deputato). Tra il 1500 e il 1600 è documentato a Sanluri con parecchie occorrenze. Nel 1580 è registrato a Fonni e Sorgono. Nel 1654 è presente a Cagliari Stampace. Nel 1742 e 1785 è attestato a Perfugas e Tula. È registrato anche a Triei nella seconda metà del 1700 e a Meana nel 1759. Inoltre è citato negli atti dei Parlamenti del Regno di Sardegna. Nel 1809 è registrato a Villasor, nel 1837 a Ollolai, nel 1841 a Guamaggiore, nel 1842 a Monastir, nel 1850 a Fonni, nel 1862 a Berchidda e a Cagliari (don Efisio Casula, canonico di Oristano). Nelle liste di leva del 1880 è documentato ad Abbasanta, Assemini, Cuglieri, Dolianova, Donigala Fenughedu, Meana, Montresta, Musei, Ollolai, Olzai, Ortueri, Oschiri, Pula, S. Gavino Monreale, S. Nicolò Gerrei, Sorgono, Tinnura, Tonara, Zerfaliu.

Alla base ha probabilmente un soprannome o nome di mestiere, formato dall’ormai raro termine sardo casula ‘casa’ e ‘stazzo’, legato forse all’attività del capostipite. Secondo Massimo Pittau Casula deriva dal latino casubula ‘casupola, capannuccia’ (DCS, 1, 195). Questa ipotesi appare convalidata dalla scrittura Casubla documentata nel Condaghe di San Nicola di Trullas (256: Maria e Micali Casubla). Anche la variante Catzula è citata nel Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (69: Iorgi Cazula) e la si ritrova a Meana dal 1597.

Neve

1956. La grande nevicata di febbraio mette la Sardegna in ginocchio

Largo Cavallotti, a Sassari, completamente ricoperto di neve nel febbraio del 1956

Intere zone isolate per settimane a causa di un’eccezionale ondata di maltempo. I soccorsi arrivano dal cielo. A Pozzomaggiore per riaprire le comunicazioni con l’esterno viene scavato un tunnel

Cumuli bianchi alti sino a due metri ai bordi delle strade, le battagliole a colpi di palle di neve nelle piazze e un’immagine bucolica e gioiosa legata a un evento atmosferico eccezionale. Della nevicata del ’56, a oltre mezzo secolo di distanza, viene tramandata una rappresentazione che racconta soltanto in minima parte ciò che avvenne in un mese in realtà drammatico per le popolazioni di quasi tutta Europa. L’ondata di freddo arrivò in Sardegna il 2 febbraio e il giorno successivo le cronache della Nuova, nonostante le difficoltà immediatamente segnalate ai lettori, iniziano a riportare le notizie legate al maltempo. A Sassari la minima rilevata è stata di -2, a Olbia -5, a Cagliari c’è stato un blackout di alcune ore, a Porto Torres il traffico marittimo è già stato sospeso. Iniziano poi ad arrivare notizie drammatiche dalle aree interne, con intere zone completamente isolate – in particolare il Goceano e la Gallura –e una minima di -17 registrata sul Limbara.

Mettersi in viaggio è impensabile: le strade sono impraticabili, il treno Freccia Sarda che collega Cagliari, Sassari e Olbia è arrivato a destinazione alle 3,40 del mattino anziché alle 21,20. C’è una prima vittima per assideramento, a Bortigali, e a Cagliari il porto è stato chiuso per ragioni di sicurezza. A Sassari, intanto, dove i tetti di alcune case sono crollati sotto il peso della neve, le scuole vengono chiuse, così centinaia di ragazzi si riversano in strada e una battagliola a colpi di palle di neve è degenerata concludendosi con alcuni feriti e una quindicina di giovani portati al posto di polizia. Sul giornale compaiono foto da cartolina di piazza d’Italia e di Platamona imbiancate, oltre a quelle di qualche buontempone che – indossati gli sci – è pronto a lanciarsi in posizione a uovo da viale Trieste. Nel giro di appena due giorni 27 persone si sono presentate al pronto soccorso per farsi curare fratture e altri traumi legati a cadute e scivolate sul ghiaccio. La Torres scende in campo contro il Monteponi in un Acquedotto trasformato in un pantano e con imponenti cumuli di neve accatastati a bordo campo. I campionati minori sono sospesi.

Passano i giorni, la situazione non migliora e si inizia a parlare di “assedio bianco”, con quasi tutte le attività paralizzate e i primi allarmi legati all’approvvigionamento di beni di prima necessità. Pattada, isolata e senza luce per tre giorni di fila, viene finalmente raggiunta dai soccorritori. Tre camion di viveri partiti da Sassari arrivano con fatica a Tempio, e da Tempio quattro coraggiosi (Agostino Scano, Nino Salvatore, Francesco Arcomane e Luigi Palazzo) dopo 10 ore di cammino riescono a portare i primi soccorsi al piccolo nucleo di residenti a Vallicciola. Il 7 febbraio un’altra ondata di neve colpisce l’isola, in particolare le zone interne. Nel Nuorese 35 persone semi-assiderate vengono messe in salvo, a Baunei cinque carabinieri rimangono feriti durante i soccorsi, l’Ogliastra è isolata per l’impraticabilità del Correboi, mentre sul Monte Spada le gare di sci vengono rinviate. Il mondo dell’agricoltura fa una prima stima dei danni, 5 miliardi di lire, mentre da metà febbraio nei titoli di prima pagina si inizia a parlare apertamente di “tragedia bianca”. Anche Stintino è al buio, Pattada è ancora isolata, in Anglona il cibo scarseggia.

Partono le gare di solidarietà, con la donazione di viveri e indumenti, ma nei centri più grandi, come Sassari, la carenza di combustibile blocca persino la panificazione. Lungo le strade dell’isola gli unici veicoli che si vedono sono le colonne di mezzi di carichi di beni di prima necessità. E dove non si può arrivare via terra, come a Desulo, Seulo e Gadoni, i soccorsi arrivano per via aerea, con il lancio paracadutato non solo di viveri ma anche di balle di fieno per il bestiame. Mentre a Pozzomaggiore viene scavato un tunnel per comunicare con l’esterno. Sino al 22 febbraio le tormente di neve saranno pressoché quotidiane, poi la situazione tornerà lentamente alla normalità. Nei ricordi di tanti ci sono le allegre battagliole con le palle di neve, nella realtà c’è un prezzo altissimo pagato da tutta l’isola.

Riforma Irpef 2022, da 5 a 4 aliquote: cosa cambia e chi ci guadagna

Riforma Irpef 2022, da 5 a 4 aliquote: cosa cambia e chi ci guadagna

All’orizzonte la riforma delle aliquote Irpef 2022, nel più ampio quadro della riforma fiscale. Come cambiano scaglioni e percentuali?

In quest’ultimo periodo le forze politiche stanno lavorando alacremente per convergere su alcuni importanti temi e su riforme cruciali per il futuro del paese. Ecco perché non deve stupire che la maggioranza abbia trovato un accordo politico, lo scorso 25 novembre, per quanto attiene all’ipotesi di riforma aliquote Irpef 2022. Il tavolo di lavoro sulla riduzione della pressione fiscale si è dunque concluso positivamente.

Il viceministro allo Sviluppo Economico Gilberto Picchetto ha infatti recentemente dichiarato, nel corso di una conferenza stampa, che è stato raggiunta un’intesa di maggioranza, sulla riforma fiscale che dovrebbe portare le attuali aliquote Irpef da 5 a a 4. L’appena citata riforma andrebbe ad appiattire, almeno in parte, la curva della pressione fiscale per il ceto medio e medio alto, ma sono previste novità anche per la no tax area. Vediamo allora qualche dettaglio in proposito, per capire chi potrà risparmiare qualcosa.

Riforma aliquote Irpef: il contesto di riferimento

Il Governo Draghi ha deciso la linea da portare avanti. Da 5 a 4 saranno gli scaglioni dell’Irpef 2022, con la connessa riduzione di alcune aliquote. Ma di fatto qual è l’oggetto della importante riforma all’orizzonte? Ebbene, l’Irpef – la cd. imposta sul reddito delle persone fisiche – è un‘imposta progressiva. Ciò significa che la quota percentuale di reddito assorbita dall’imposta, cresce in proporzione al reddito stesso. Detto risultato è conseguito con l’applicazione di aliquote di crescente ‘peso’ sui diversi scaglioni di reddito e inoltre di deduzioni dal reddito e detrazioni d’imposta.

L’imposta sul reddito delle persone fisiche è stata introdotta a seguito della riforma tributaria del 1973 e si applica oggi a circa 40 milioni di contribuenti.

Leggi anche: Lauree abilitanti, legge di riforma in GU. Quali sono le lauree per lavorare subito?

Coloro che sono obbligati a pagare l’Irpef sono tutti coloro che hanno un reddito, e ci riferiamo sia ai dipendenti che agli autonomi. Da notare che l’obbligo di pagamento scatta laddove il contribuente sia residente in Italia o abbia ottenuto il reddito nel nostro paese.

In altre parole, sono tenuti al pagamento dell’Irpef le persone fisiche e in certi casi le società, che però la versano attraverso i soci. Chi vive e dunque risiede nella penisola paga sui redditi prodotti in patria o all’estero, mentre i non residenti pagano per i redditi prodotti nel territorio italiano.

Da notare che il gettito Irpef totale, per il 2020, è stato pari a 187.436 milioni di euro, ossia oltre un terzo del totale delle entrate tributarie.

Riforma aliquote Irpef: le nuove percentuali

Ci si potrebbe legittimamente domandare quali sarebbero le novità sostanziali dell’attesa riforma aliquote Irpef 2022, che si inserisce nel più ampio quadro della riforma fiscale. Ebbene, oggi la situazione prevede l’applicazione di 5 distinti scaglioni che si legano al reddito del contribuente, con 5 aliquote diverse. Nel dettaglio:

  • reddito tra 0 e 15 mila euro: aliquota Irpef pari al 23%;
  • reddito tra 15.001 e 28mila euro. In detta fascia, l’aliquota Irpef applicata ai contribuenti è del 27%;
  • tra 28.001 e 55mila euro. L’aliquota Irpef è pari al 38%;
  • tra 55.001 a 75 mila euro. In questo caso, l’aliquota Irpef di riferimento è 41%;
  • oltre i 75mila euro, l’aliquota Irpef è del 43%.

Come anticipato all’inizio – secondo il progetto – le nuove aliquote Irpef 2022 passeranno da 5 a 4. In sostanza, sarà eliminata l’aliquota Irpef al 41% e il taglio di tre punti di quella del 38% che scende al 35%. Nessuna novità invece per quanto attiene ai redditi fino a 15mila euro – confermata l’aliquota del 23%. Ecco dunque come saranno le aliquote Irpef 2022, in base al reddito:

  • redditi fino a 15mila euro: confermata l’aliquota al 23%;
  • tra 15.001 e 28mila euro: l’aliquota cala dal 27% al 25%;
  • tra 28.001 e 50mila: l’aliquota cala dal 38% al 35%;
  • sopra i 50mila euro di reddito, si passa direttamente alla trattenuta del 43%.

Leggi anche: Irpef cos’è e come funziona. Breve guida pratica

Riforma aliquote Irpef 2022: cosa cambia in pratica per i contribuenti?

La riforma del sistema di tassazione delle persone fisiche, e dunque dell’Irpef, ha la finalità da una parte di alleggerire una pressione fiscale piuttosto alta; e dall’altra di consentire di avere un più equo sistema di prelievo, sul piano delle distinte fasce di reddito.

I contribuenti che guadagnano di più reddito dovranno pagare al Fisco un’ammontare maggiore di tasse, mentre coloro che fanno parte del cd. ceto medio verseranno un po’ meno. Ecco la sintesi della riforma aliquote Irpef 2022, la quale potrebbe realmente concretizzarsi a breve.

Non solo. Il Governo ha in cantiere anche la revisione delle detrazioni, della no tax area e l’eliminazione dell’Irap per professionisti e imprese individuali.

Concludendo, la riforma Irpef inclusa nella prossima Legge di Bilancio, con uno stanziamento pari a circa 8 miliardi di euro, è fondata su una solida proposta della maggioranza in tema di aliquote. Secondo gli osservatori, queste novità condurrebbero ad uno stipendio netto maggiorato dai 100 ai quasi 1.000 euro ogni anno. Rimarchiamo comunque che la riforma aliquote Irpef è al momento ancora un’ipotesi: le prospettive lasciano però intravedere che detta imposta probabilmente assumerà queste nuove caratteristiche, a partire dal prossimo anno.

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Tredicesima NoiPa 2021: ecco tutte le info e le date di pagamento

Tredicesima NoiPa 2021: ecco tutte le info e le date di pagamento

E’ in arrivo per i dipendenti pubblici la tredicesima NoiPA 2021: ecco a chi spetta, come si calcola e le date esatte di pagamento

Il mese di dicembre è alle porte e di conseguenza anche il pagamento della Tredicesima NoiPa 2021 è in arrivo. Quest’anno l’accredito della gratifica natalizia arriverà presumibilmente dal giorno 10 al 15 del mese di dicembre 2021. In attesa della pubblicazione della nota che indichi le date esatte, possiamo dire che la mensilità natalizia arriverà:

  • il 13 dicembre 2021, per il personale docente e per i supplenti temporanei della scuola;
  • il 13-14 dicembre 2021, per i dipendenti del Tesoro;
  • fra il 13 e il 15 dicembre, per gli insegnanti delle scuole materne e primarie.

Ma vediamo insieme nel dettaglio tutte le info relative al pagamento della tredicesima mensilità per i dipendenti pubblici statali e come visualizzare il cedolino sulla piattaforma NoiPa.

Tredicesima NoiPa 2021: come funziona il pagamento

La tredicesima mensilità conosciuta anche come gratifica natalizia, è una somma di denaro che viene erogata nel mese di dicembre a tutti i dipendenti pubblici e privati e anche ai pensionati. Una delle differenze tra il settore pubblico e quello privato riguarda i tempi di erogazione.

Per i dipendenti pubblici e pensionati, la tredicesima viene pagata insieme alla mensilità di dicembre, mentre per i dipendenti privati non sempre l’erogazione della gratifica natalizia avviene in concomitanza con la mensilità del mese di dicembre.

Infatti, la tredicesima per i dipendenti pubblici, si eroga annualmente insieme al cedolino NoiPa del mese di dicembre. Il dipendente pubblico potrà quindi visionare la somma della propria tredicesima sin dai primi giorni di dicembre direttamente nella sua area personale.

La somma della tredicesima non sarà uguale per tutti i dipendenti pubblici. Infatti, la somma percepita varia a seconda del tipo di contratto stipulato dal dipendente, dall’ammontare della sua retribuzione mensile e dai mesi lavorati durante l’anno di riferimento. Ma vediamo come calcolare la tredicesima per i dipendenti pubblici.

Tredicesima NoiPA, come si calcola

Calcolo Tredicesima NoiPACalcolare la somma della tredicesima per i dipendenti pubblici è molto semplice. La procedura che andremo ad applicare, potrà essere utilizzata anche per calcolare la somma della gratifica natalizia per i dipendenti privati.

Per poter calcolare correttamente la tredicesima mensilità, bisognerà tener conto dei diversi elementi della retribuzione e la formula da utilizzare per il calcolo della tredicesima è la seguente:

  • Retribuzione lorda mensile x numero di mesi lavorati / 12

Nella retribuzione lorda mensile bisognerà considerare la maggior parte degli elementi della retribuzione con carattere di continuità imponibili ai fini contributivi. Mentre, tutti i compensi legati, invece, a straordinari, festivi, maggiorazioni non devono essere considerate in quanto prive del carattere di continuità. Infine, al risultato finale bisognerà sottrarre ritenute fiscali e previdenziali.

Per informazioni più dettagliate su come calcolare la propria tredicesima consigliamo la lettura della nostra guida per i dipendenti privati Tredicesima: quanto spetta, quando viene pagata e altre info utili.

Vediamo ora come visionare il cedolino della tredicesima sul portale NoiPa riservato ai dipendenti pubblici.

Cedolino Tredicesima NoiPa: come fare il login

Per poter visionare il cedolino della tredicesima NoiPa 2019, bisognerà effettuare l’accesso nella propria area riservata sul portale NoiPa. Successivamente all’accesso all’area riservata, bisognerà recarsi nella sezione Documenti e visionare il cedolino di Dicembre 2019.

Ricordiamo che il cedolino della mensilità di dicembre e della gratifica natalizia sarà disponibile nella propria area personale sin dai primi giorni di dicembre.

I soggetti che riceveranno il pagamento della tredicesima mensilità il 13 dicembre 2019 sono i seguenti:

  • Insegnanti delle scuole materne ed elementari;
  • Dipendenti gestiti dal Tesoro con ruoli di spesa fissa;
  • Insegnanti supplenti temporanei;
  • Altri dipendenti pubblici.

Esonero contributivo partite IVA: come fare istanza di riesame

Esonero contributivo partite IVA: come fare istanza di riesame

In caso di reiezione della domanda, l’importo dei contributi INPS per l’anno 2021, ove non versati, sarà richiesto con invito a regolarizzare

I lavoratori autonomi (artigiani e commercianti) e i liberi professionisti iscritti alla gestione INPS ai quali non è stato riconosciuto l’esonero contributivo (art. 1, co. da 20 a 22-bis, della L. 30 dicembre 2020, n. 178), potranno presentare domanda di riesame mediante un’apposita funzionalità disponibile all’interno del “Cassetto previdenziale”. Nell’istanza potranno essere esplicitati i motivi a sostegno del riesame allegando idonea documentazione.

Nel caso di omessi versamenti relativi al 2021, accertati dall’INPS nell’ambito delle verifiche sul DURC, l’istanza di riesame non consentirà di recuperare la regolarità contributiva. Le somme dovute saranno richieste con invito alla regolarizzazione. Per le quote dovute eccedenti l’importo dell’esonero INPS riconosciuto e comunicato a decorrere dal 29 novembre 2021 ci sarà un mese di tempo per il versamento.

Ne dà notizia l’INPS, con il Messaggio n. 4184 del 26 novembre 2021.

Esonero contributivo partite IVA: i requisiti di accesso al beneficio

Tra i requisiti per fruire dell’esonero in commento, il Decreto (MLPS-MEF) del 17 maggio 2021, ha previsto il possesso del requisito della regolarità contributiva, ossia il DURC.

A tal proposito, l’art. 47-bis del D.L. 25 maggio 2021, n. 73 ha specificato che la regolarità contributiva è verificata d’ufficio dagli enti concedenti a fare data dal 1° novembre 2021. A tale fine la regolarità contributiva è assicurata anche dai versamenti effettuati entro il 31 ottobre 2021. Resta in ogni caso fermo il recupero, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, degli importi fruiti a titolo di esonero in quanto non spettanti.

Accoglimento/reiezione istanza

In caso di accoglimento dell’istanza, la contribuzione dovuta eccedente l’importo dell’esonero concesso deve essere versata entro il 29 dicembre 2021.

In caso di comunicazione di reiezione, l’importo della contribuzione relativa all’annualità 2021 che risulti scaduta alla data della verifica di regolarità contributiva, ove non versata, sarà richiesto con l’invito a regolarizzare.

Con riferimento alle posizioni dei lavoratori autonomi iscritti alle Gestioni speciali autonome degli artigiani e commercianti e alla Gestione speciale autonoma dei coltivatori diretti, dei coloni e dei mezzadri, l’esonero ha ad oggetto solo la contribuzione 2021 con scadenza ordinaria di versamento entro la medesima annualità.

Pertanto, restano esclusi, in ogni caso, gli importi, pur compresi nella tariffazione 2021, di competenza di annualità pregresse il cui versamento doveva essere effettuato alle rispettive scadenze relative a ciascuna rata. Tali importi, in assenza di regolare versamento, saranno richiesti con l’invito a regolarizzare nella fase di attivazione della verifica di regolarità contributiva.

Esempio titolare artigiano

Prendiamo il caso di un titolare artigiano, iscritto alla gestione per l’intero anno 2021, con 3 rate di contribuzione fissa di competenza anno 2021 con scadenza entro il 31 dicembre 2021. L’importo contributivo è di 2.877,12 euro (959,04 euro*3). In tal caso, viene riconosciuto l’esonero per 1.438,56 euro, che verrà utilizzato a copertura integrale della prima rata 2021. Il residuo importo di 479,52 euro, invece, sarà utilizzato a copertura parziale della seconda rata 2021. Pertanto, il contribuente deve versare la differenza di 479,52 euro (959,04 euro – 479,52 euro) a saldo della seconda rata della contribuzione sul minimale di reddito.

Il versamento si effettua con F24 “causale AF”, entro il giorno 29 dicembre 2021. Entro il medesimo termine deve essere versata anche la terza rata, utilizzando la codeline messa a disposizione da parte dell’Istituto con l’imposizione contributiva di maggio 2021.

Domanda di riesame esonero contributivo partite IVA

Come detto in premessa, gli aventi diritto all’esonero contributivo per Partite IVA (lavoratori autonomi e liberi professionisti senza cassa) ai quali non è stato riconosciuto il beneficio, potranno presentare domanda di riesame.

La domanda di riesame può essere inviata tramite apposita funzionalità disponibile all’interno del proprio “Cassetto previdenziale”. Nell’istanza si potranno indicare i motivi a sostegno del riesame allegando idonea documentazione.

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Lista cattivi pagatori: cos’è, come funziona e come cancellarsi

Lista cattivi pagatori: cos’è, come funziona e come cancellarsi

Cos’è e come funziona la lista dei cattivi pagatori e quali debiti sono segnalati? Che effetti ci sono per i nuovi prestiti? Analisi completa

Persone fisiche, imprese, associazioni, ditte individuali ed amministrazioni pubbliche che intendono accedere al credito devono sapere che esistono archivi gestiti da società private del credito o dalla stessa Bankitalia (in cui vengono segnalati i clienti che devono restituire almeno 30mila euro), con la funzione di raccogliere le esposizioni debitorie di particolare rilevanza oltre a tutta una serie di situazioni di grave insolvenza.

L’archivio gestito da Bankitalia prende il nome di Centrale rischi (CR) ed è animato dalle informazioni che gli intermediari finanziari inviano mensilmente. Scopo della banca dati è fornire una fotografia recente (si può andare a ritroso al massimo di 36 mesi) dei debiti (mutui, prestiti e garanzie) contratti da persone fisiche e giuridiche, al fine di stabilire il merito creditizio e la capacità di accedere ad ulteriori finanziamenti.

Chiamarla “lista dei cattivi pagatori” è riduttivo (la CR raccoglie anche i dati dei prestiti estinti) ma è naturale che essere qualificati come insolventi all’interno della banca dati complica particolarmente l’accesso al credito. In tal senso l’archivio è uno dei tanti mezzi a disposizione delle banche per decidere se concedere o meno un finanziamento.

Analizziamo la questione in dettaglio.

Lista cattivi pagatori: cosa fa la Centrale rischi?

La funzione della Centrale dei rischi è raccogliere le informazioni fornite da banche e società finanziarie sui crediti concessi ai propri clienti.

Non è corretto affermare che la CR è solo una “lista di cattivi pagatori”. L’archivio registra infatti la storia creditizia dei debitori, con:

  • Informazioni positive, come il pagamento regolare delle rate e la chiusura dei finanziamenti;
  • Informazioni negative, che riguardano essenzialmente le difficoltà più o meno gravi di far fronte ai debiti.

In questo modo, gli intermediari hanno la possibilità di verificare il merito creditizio dei debitori, cioè la loro capacità di restituire il finanziamento. Per un potenziale cliente quanto descritto può tradursi in un accesso facilitato al credito, nel caso in cui questi abbia regolarmente saldato i precedenti mutui o prestiti.

Discorso diverso per chi è classificato come insolvente. L’accesso all’archivio permette infatti di conoscere:

  • Il livello di indebitamento complessivo del cliente;
  • Il tipo di finanziamento concesso;
  • La regolarità o meno dei pagamenti.

A questo punto spetta all’intermediario decidere se concedere o meno una nuova linea di credito sulla base della storia finanziaria del cliente.

In definitiva la CR ha per le banche una triplice utilità:

  • Fornire soluzioni su misura a coloro che sono già clienti, dal momento che, conoscendo l’intera storia creditizia del beneficiario, si evita il rischio che questi assuma obblighi superiori alle proprie risorse;
  • Valutare se concedere o meno un finanziamento a potenziali clienti;
  • Avere informazioni su soggetti collegati (ad esempio i garanti) sempre nell’ottica di valutarne il merito creditizio.

A tutela dei clienti è infatti previsto che l’accesso alla Centrale rischi possa avvenire soltanto per verificare lo status debitorio ovvero per difendersi in un procedimento giudiziario che riguardi il finanziamento stesso.

Quando si è segnalati alla CR?

In Centrale rischi sono raccolti i soli finanziamenti (come prestiti personali e mutui) e le garanzie che interessano un importo pari o superiore a 30 mila euro, la cosiddetta “soglia di censimento”.

Il limite si abbassa a 250 euro se il cliente ha gravi difficoltà nel far fronte al proprio debito. In tal caso, nel gergo di Centrale rischi, si parla di “sofferenza”. Tale è definito il soggetto valutato dalla banca come insolvente, cioè non in grado di far fronte ai propri debiti.

La classificazione in CR come soggetto insolvente è slegata da qualsiasi accertamento giudiziario. Un debito può infatti essere considerato in “sofferenza” indipendentemente dalla verifica in giudizio dello stato di difficoltà finanziaria.

Prima tuttavia di considerare un debitore in sofferenza la banca valuta la situazione finanziaria globale del cliente. Non è quindi sufficiente il ritardato pagamento di una rata per far scattare l’allarme insolvenza.

In sede di prima classificazione del debito come “sofferenza”, l’intermediario è tenuto a darne comunicazione al cliente.

Nel caso in cui quest’ultimo sia un consumatore, l’articolo 125 del Testo unico bancario (TUB), contenuto nel Dlgs. n. 385/1993, impone all’intermediario di informare preventivamente l’interessato, sia in caso di segnalazione a sofferenza che di inadempimento persistente, cioè scaduto da più di 90 giorni.

Quando termina la segnalazione alla centrale rischi

L’obbligo degli intermediari di inviare le informazioni alla Centrale rischi viene meno a partire dal mese nel corso del quale la posizione debitoria del cliente è scesa al di sotto della soglia di segnalazione.

I dati inviati in precedenza restano tuttavia nell’archivio CR e non vengono cancellati.

Invio dei dati alla CR

Il compito degli intermediari è quello di segnalare mensilmente alla Centrale rischi i rapporti di credito / garanzia dei propri clienti, con riferimento alla situazione in essere l’ultimo giorno del mese. I dati saranno poi inviati entro il 25° giorno del mese successivo.

Attenzione. La cadenza mensile non si applica al passaggio dei crediti a sofferenza. Questi infatti vengono comunicati tempestivamente alla CR.

Stessa sorte per:

  • Estinzione della segnalazione a sofferenza;
  • Regolarizzazione dei ritardi di pagamento, riguardanti singoli finanziamenti a scadenza;
  • Rientro degli sconfinamenti persistenti da più di 90 giorni, relativi a finanziamenti revolving.

Rettifica

Compito degli intermediari è altresì quello di rettificare eventuali errori nelle segnalazioni trasmesse. Una volta acquisita la rettifica, questa è comunicata a tutti gli intermediari che hanno ricevuto un’informazione errata.

Gli intermediari hanno responsabilità esclusiva circa:

  • La correttezza dei flussi informativi inviati alla CR;
  • La rettifica di eventuali errori.

La Banca d’Italia non può modificare di propria iniziativa le informazioni ricevute.

Lista cattivi pagatori, come cancellarsi

I dati presenti in CR non possono essere cancellati, a meno che non siano frutto di informazioni inesatte. In tal caso è necessario chiedere informalmente la rettifica o l’eliminazione all’intermediario che li ha inviati alla Centrale rischi.

Se il tentativo si dimostra infruttuoso, il cliente può presentare un reclamo scritto (lettera raccomandata A/R o email) all’Ufficio reclami dell’intermediario. Quest’ultimo è tenuto a rispondere entro 60 giorni.

In caso di omessa risposta o risposta insoddisfacente, l’interessato può presentare istanza all’Arbitro Bancario Finanziario (ABF).

Archivio storico

La funzione della CR è quella di raccogliere la storia “finanziaria” dei soggetti segnalati. Di conseguenza, nell’archivio resta traccia anche dei finanziamenti estinti.

E’ tuttavia previsto un limite temporale: gli intermediari possono consultare soltanto i dati relativi agli ultimi 3 anni.

Diritti dei soggetti segnalati

Chi viene segnalato alla Centrale rischi ha una serie di diritti, in particolare:

  • Accedere gratuitamente (di persona o delegando un altro soggetto) ai dati dell’archivio registrati a proprio nome;
  • Riservatezza dei dati raccolti, posto che soltanto agli intermediari è consentito conoscere le informazioni presenti in CR;
  • Possibilità di contestare i dati segnalati (nel caso in cui questi non siano veritieri) e chiederne la rettifica;
  • Essere informati per iscritto in caso di prima segnalazione negativa.

L’accesso ai dati della CR può avvenire:

  • Collegandosi al portale “it” muniti di credenziali SPID o CNS;
  • In alternativa compilando il modulo disponibile sul sito della Banca d’Italia ed inviarlo via posta o PEC ad una filiale della Banca d’Italia ovvero consegnarlo di persona.

Quali sono gli intermediari coinvolti?

Gli intermediari coinvolti nella fase di segnalazione dei crediti e di prelievo delle informazioni sono:

  • Le banche iscritte nell’apposito albo istituito ai sensi dell’articolo 13 del TUB, nello specifico banche italiane e filiali di banche UE o extra UE presenti sul territorio nazionale;
  • Società finanziarie iscritte all’albo di cui all’articolo 106 del TUB;
  • Società di cartolarizzazione dei crediti;
  • Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio;
  • Società di assicurazioni, nel caso in cui eroghino crediti.

Altre banche dati 

La Centrale rischi in Banca d’Italia non è la sola banca dati che raccoglie informazioni sui crediti vantati dagli intermediari finanziari. Esistono anche realtà private non soggette alla supervisione ed al coordinamento Bankitalia, quali CRIF Eurisc, Experian, CTC, Assilea.

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