Archivio mensile:marzo 2023

CFL209

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Con riferimento alla FAQ che affronta il tema delle progressioni tra le aree nel comparto delle Funzioni locali, si chiede di chiarire quale rapporto sussista tra numero di assunzioni dall’esterno e numero di progressioni verticali sia durante il cosiddetto periodo transitorio di prima applicazione del nuovo ordinamento che nella fase di applicazione a regime.

Il CCNL del 16 novembre 2022 ha tracciato una distinzione molto netta tra le due diverse tipologie di procedure di progressione verticale:

–          procedure “ordinarie”, la cui disciplina, ancorché richiamata nei contratti (si veda art. 15, comma 1 del richiamato CCNL), trae origine unicamente dalla legge (considerata anche la riserva di legge in materia);

–          procedure “speciali”, temporalmente limitate alla finestra temporale compresa tra il 1° aprile 2023 ed il 31 dicembre 2025, la cui disciplina è invece prevista nel CCNL (si veda art. 13 commi 6, 7, 8), con criteri valutativi e selettivi analoghi a quelli previsti dalla legge, con una parziale deroga al possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno e con rinvio a regolazioni di maggior dettaglio che dovranno essere adottate dagli enti, previo confronto sindacale.

Nella FAQ citata nel quesito posto è stato già chiarito quali siano gli elementi comuni e le differenze tra le due tipologie di procedure sopra ricordate (per ulteriori approfondimenti, si rinvia alla suddetta FAQ).

È utile ricordare che i contratti hanno potuto disciplinare procedure speciali di progressione verticale, nella fase di prima applicazione del nuovo ordinamento, in forza della norma contenuta nell’art. 52, comma 1-bis, penultimo periodo del d. lgs. n. 165/2001, introdotta dall’art. 3, comma 1, D.L. 9 giugno 2021, n. 80.

Tale norma prevede, come è noto, che “in sede di revisione degli ordinamenti professionali, i contratti collettivi nazionali di lavoro di comparto per il periodo 2019-2021 possono definire tabelle di corrispondenza tra vecchi e nuovi inquadramenti, ad esclusione dell’area di cui al secondo periodo, sulla base di requisiti di esperienza e professionalità maturate ed effettivamente utilizzate dall’amministrazione di appartenenza per almeno cinque anni, anche in deroga al possesso del titolo di studio richiesto per l’accesso all’area dall’esterno”.

Con la novella introdotta dall’art. 3 del D.L. 80/2019 – articolo, tra l’altro, rubricato “Misure per la valorizzazione del personale e per il riconoscimento del merito” – è stato conferito uno specifico mandato alla contrattazione nazionale di disciplinare, in sede di revisione degli ordinamenti professionali, sistemi di valorizzazione del personale in servizio, anche in deroga al titolo di studio richiesto dall’esterno, sulla base di criteri volti alla valorizzazione dell’esperienza e della professionalità maturata ed effettivamente utilizzata dall’amministrazione. Di tutta evidenza, in tale disposizione, la finalità di valorizzazione del personale interno.

Il legislatore ha non solo dato mandato alla contrattazione collettiva di disciplinare “speciali procedure di valorizzazione del personale”, ma ha anche reso possibile lo stanziamento di apposite risorse finanziarie finalizzate a sostenerne l’applicazione. Si tratta delle risorse di cui all’art. 1, comma 612, della Legge n. 234 del 30.12.2021 (Legge di Bilancio 2022).

Nel FAQ citata (i cui contenuti sono stati condivisi con Dipartimento della Funzione pubblica e Ministero dell’economia e delle finanze) si sostiene che le risorse stanziate ai sensi dell’art. 1, comma 612, della Legge n. 234 del 30.12.2021 (Legge di Bilancio 2022) – in una misura non superiore allo 0,55% del m.s. 2018 – possano essere integralmente destinate a progressioni verticali effettuate con procedura speciale.

Tale orientamento poggia sui seguenti dati normativi.

In primo luogo, sul citato comma 612 della legge di bilancio per il 2022. La norma prevede, per le amministrazioni statali, uno stanziamento aggiuntivo destinato ai rinnovi contrattuali del triennio 2019-2021 e, per le altre amministrazioni, la possibilità di stanziare risorse, a carico dei propri bilanci, entro i medesimi limiti finanziari. Si tratta, con ogni evidenza, di risorse destinate ad incrementi retributivi, seppure di una natura particolare, in quanto finalizzate a sostenere la fase di definizione e prima applicazione dei nuovi ordinamenti professionali. È utile ricordare che tali risorse sono state previste non per tutto il personale pubblico, ma solo per il personale interessato dal processo di revisione degli ordinamenti professionali. La destinazione integrale a progressioni verticali, effettuate con procedura speciale, in un periodo temporalmente definito, coincidente con la fase di prima applicazione del nuovo ordinamento professionale, appare dunque coerente con la loro natura (risorse destinate al rinnovo contrattuale) e con la loro esplicita finalizzazione (definire i nuovi ordinamenti professionali del personale).

In secondo luogo, l’orientamento anzidetto è supportato dalla disciplina contrattuale. L’art. 13, comma 8 del CCNL prevede, infatti, che le risorse in questione siano integralmente destinate alle progressioni verticali speciali poste in essere nella fase di prima applicazione dei nuovi ordinamenti (dal 1° aprile 2023 al 31 dicembre 2025).

Sulla base delle richiamate discipline, gli enti hanno dunque la possibilità di stanziare risorse contrattuali aggiuntive per le procedure speciali di progressione verticale effettuate ai sensi dell’art 13, commi 6, 7 e 8 del CCNL 16 novembre 2022 e dell’art. 52, comma 1-bis penultimo periodo del d. lgs. n. 165/2001, in una misura massima dello 0,55% del m.s. 2018 ed in coerenza con i fabbisogni di personale. Se decidono in tal senso, tutte le risorse stanziate sono destinate a progressioni verticali speciali della fase transitoria. È il caso di precisare che tali risorse possono essere previste in forza di una disposizione di contratto collettivo nazionale e, quindi, indipendentemente dalle condizioni che rendono possibile lo stanziamento di risorse destinate ad assunzioni, in base alle previsioni di legge che regolano le assunzioni nelle amministrazioni del comparto.

Ovviamente, gli enti continuano ad avere la possibilità di stanziare, in coerenza con i propri fabbisogni, anche le ordinarie risorse assunzionali, sussistendone le condizioni (in particolare per quanto concerne il rispetto dei parametri di sostenibilità finanziaria).

In tal caso, essi operano, tuttavia, nell’ambito delle previsioni di legge che regolano le assunzioni di personale. Dovranno, pertanto, garantire in misura adeguata l’accesso dall’esterno di cui è pianificata la copertura (cioè nella misura minima del 50% dei posti da coprire, finanziati con ordinarie risorse assunzionali).

In conclusione:

–          se gli enti decidono di stanziare le risorse ai sensi del comma 612, tutte le risorse stanziate sono destinate a progressioni verticali di cui all’art. 13;

–          se decidono di stanziare, in aggiunta alle prime, ordinarie risorse destinate ad assunzioni (nel rispetto dei limiti previsti dalla legge per le assunzioni di personale), dovranno garantire in misura adeguata l’accesso dall’esterno (almeno 50% dei posti finanziati con tali risorse).

 

FL208

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Quali sono le differenze e gli elementi comuni tra le progressioni tra le aree a regime ex art. 15 del CCNL 16/11/2022 e le progressioni tra le aree con la procedura transitoria di cui all’art. 13, comma 6 del medesimo CCNL?

1) DIFFERENZE

La prima differenza concerne i requisiti: nella procedura transitoria (fino al 31/12/2025), i requisiti sono quelli della tabella di C di Corrispondenza allegata al CCNL (titolo di studio + esperienza), che dà la possibilità di candidarsi anche a coloro che hanno un titolo di studio immediatamente inferiore a quello richiesto per l’accesso dall’esterno, ma sono in possesso di un numero maggiore di anni di esperienza; nella procedura a regime, i requisiti sono quelli previsti dall’art. 52, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165/2001.

La seconda differenza riguarda i criteri selettivi: nella procedura transitoria, i criteri sono quelli previsti dall’art. 13, comma 7, del CCNL 16 novembre 2022 (esperienza, titolo di studio e competenze professionali) e ciascuno di tali criteri deve avere un peso non inferiore al 20%; nella procedura a regime, i criteri sono quelli previsti dall’art. 15 del medesimo CCNL e dal nuovo art. 52, comma 1-bis del d. lgs. n. 165/2001 (valutazione positiva conseguita negli ultimi tre anni di servizio, titoli o competenze professionali, titoli di studio ulteriori rispetto a quelli richiesti per l’accesso dall’esterno, numero e tipologia degli incarichi rivestiti).

La terza differenza riguarda le relazioni sindacali: nella procedura transitoria, i criteri più specifici che declinano i criteri generali stabiliti dal contratto, nonché i pesi loro attribuiti, sono definiti dalle amministrazioni previo confronto con i sindacati; nella procedura a regime, non è previsto il previo confronto con i sindacati sui criteri.

La quarta differenza riguarda il finanziamento: le progressioni tra le aree effettuate con la procedura transitoria (fino al 31/12/2025) sono finanziate dalle risorse determinate ai sensi dell’art. 1, comma 612 della legge n. 234 del 30 dicembre 2021 (Legge di bilancio 2022) in misura non superiore allo 0,55% del monte salari dell’anno 2018, oltreché dalle facoltà assunzionali; quelle effettuate con la procedura a regime sono invece finanziate solo dalle facoltà assunzionali. Si ricorda che l’utilizzo delle facoltà assunzionali per le progressioni tra le aree, sia per le procedure a regime che per le procedure effettuate durante la fase transitoria, è possibile nella misura massima del 50% del fabbisogno. Le risorse di cui all’art. 1, comma 612, della legge n. 234 del 30 dicembre 2021, in quanto risorse attribuite alla contrattazione collettiva il cui utilizzo è limitato alla sola fase transitoria di prima applicazione del nuovo sistema di classificazione ai sensi dell’art. 52, comma 1-bis, penultimo periodo, del d.lgs. n. 165/2001, possono invece essere destinate integralmente alle progressioni tra le aree.

2) ELEMENTI COMUNI

In entrambi i casi:

  • vi è una procedura che prevede: un bando, una istanza di ammissione alla procedura da parte del dipendente, un’ammissione alla procedura dopo la verifica dei requisiti, una fase istruttoria per l’attribuzione dei punteggi, un ordine di merito finale tra i candidati in base al quale sono individuati coloro che conseguono la progressione nella nuova area;
  • la progressione deve essere prevista nel piano dei fabbisogni (oggi confluito nel PIAO);
  • occorre garantire che una percentuale almeno pari al 50% del personale reclutato con le ordinarie facoltà assunzionali sia destinata all’accesso dall’esterno, in base a quanto previsto dall’art. 52 comma 1-bis del d. lgs. n. 165/2001, in coerenza con i principi, anche di rango costituzionale, che regolano l’accesso alla PA.

*Orientamenti applicativi condivisi con il Dipartimento della Funzione Pubblica e con il Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato

Cosa sono legge delega e decreto legislativo

Cosa sono legge delega e decreto legislativo

Con la legge delega il parlamento attribuisce al governo la facoltà di disciplinare una materia definendo le linee guida generali. L’esecutivo poi delinea le norme di dettaglio con uno o più decreti legislativi.

Definizione

Nell’ordinamento italiano il governo ha tre strumenti per intervenire nel processo legislativo. Il primo è quello dell’iniziativa legislativa, tramite il quale l’esecutivo presenta al parlamento un disegno di legge da approvare tramite procedura ordinaria. Il secondo è quello del decreto legge, atto normativo utilizzato in caso di necessità e urgenza, che entra immediatamente in vigore ma necessita della conversione in legge da parte del parlamento entro 60 giorni.

L’ultimo è il decreto legislativo. Con questo atto il governo può autorizzare gli statuti speciali delle regioni, recepire regolamenti e direttive europee oppure normare altre materie seguendo le indicazioni impartite dal parlamento. Generalmente si fa ricorso a questo strumento per introdurre norme in settori dall’elevato contenuto tecnico, nell’attività di delegificazione o per introdurre riforme particolarmente vaste. È il caso, ad esempio, della riforma del fisco.

I decreti legislativi servono per: recepire direttive europee, approvare statuti regionali, attuare le leggi delega.

Per permettere al governo di adottare i decreti legislativi, l’articolo 76 della costituzione prevede che le camere attribuiscano all’esecutivo il proprio potere di legiferare. Ciò avviene attraverso l’approvazione di una cosiddetta legge delega. Attraverso questa norma il parlamento stabilisce una cornice di principi e criteri ai quali l’esecutivo deve attenersi per disciplinare una determinata materia. Per l’approvazione di questa legge si utilizza la procedura ordinaria.

Tale norma assegna anche un limite di tempo per l’esercizio di questo potere. Solitamente la scadenza è di un anno ma nei casi più complessi si può andare anche oltre. Successivamente l’esecutivo esercita la delega tramite l’approvazione dei decreti legislativi che devono essere trasmessi al presidente della repubblica per l’emanazione almeno 20 giorni prima della scadenza.

La delega può contenere anche disposizioni relative alle procedure successive all’entrata in vigore del decreto legislativo. Tali indicazioni generalmente dispongono che le commissioni parlamentari competenti per materia, o altri organi come la conferenza stato-regioni, esprimano un parere sullo schema di decreto. L’esecutivo può anche non recepire le indicazioni pervenute ma non può comunque discostarsi dai criteri e dalle scadenze imposte dal parlamento con la delega.

Dati

In passato la legge delega era uno strumento poco utilizzato ma più recentemente i governi hanno iniziato a ricorrere allo strumento in maniera più frequente.

Analizzando il quadro degli ultimi anni, possiamo osservare che le leggi delega approvate sono state 33 nella XVI legislatura (2008-2013), 42 nella XVII (2013-2018) e 24 nella XVIII (2018-2022). È probabile che la flessione registrata negli ultimi anni possa essere in parte attribuibile anche all’emergenza coronavirus. Durante l’esperienza del governo Conte II infatti, quando il parlamento non potè riunirsi per diverse settimane, le deleghe approvate sono state solamente 2. Con la fine della fase più acuta dell’emergenza però il ricorso allo strumento è tornato ad essere significativo. Sotto il governo Draghi infatti ne sono state approvate 15.

Quello dell’esecutivo Draghi è il terzo dato più alto in assoluto. Al primo posto troviamo invece il governo Renzi con 29 leggi delega approvate nel periodo compreso tra il 22 febbraio 2014 e il 12 dicembre 2016. Al secondo posto invece il governo Berlusconi IV con 22 deleghe approvate tra l’8 maggio 2008 e il 16 novembre 2011.

È però interessante valutare il peso che le varie deleghe hanno avuto nell’attività legislativa portata avanti dai diversi governi. Da questo punto di vista al primo posto si trova il governo Gentiloni con 12 deleghe sul totale delle 96 leggi approvate tra il 12 dicembre 2016 e il 1 giugno 2018, pari al 12,5% del totale. Seguono i governi Renzi e Conte I entrambi con valori percentuali superiori all’11%. Sopra il 10% anche il già citato governo Draghi (10,2%).

In questo quadro un dato ancora più interessante riguarda la percentuale di leggi delega di iniziativa governativa rispetto al totale di quelle di questo tipo. Ciò perché in questo caso, nonostante la possibilità di modificare il testo durante la discussione, il ruolo del parlamento diviene ancora più marginale. Con la maggioranza che tendenzialmente vorrà blindare il provvedimento presentato dal proprio esecutivo.

72,7% le leggi delega di iniziativa governativa rispetto al totale delle deleghe approvate.

Da questo punto di vista possiamo osservare che ci sono due esecutivi che presentano il 100% di leggi delega di iniziativa governativa. In entrambi i casi però abbiamo numeri piuttosto bassi. Si tratta dei governi Conte II (2 deleghe) e Letta (1). Al terzo posto il governo Berlusconi IV (81,8%). Seguono gli esecutivi Gentiloni (75%) e Draghi (73,3%).

Per quanto riguarda la produzione di decreti legislativi da parte dei governi, il sito del parlamento da la possibilità di valutare il numero di atti emanati in seguito all’approvazione di una legge delega da parte del parlamento. Da questo punto di vista l’esecutivo che ne ha pubblicati di più durante il suo mandato è stato quello di Paolo Gentiloni con 63. Seguono gli esecutivi Renzi (62) e Berlusconi (57).

Se si considerano il numero di decreti legislativi pubblicati dai vari governi a fronte delle deleghe approvate dal parlamento nello stesso periodo, possiamo osservare che il rapporto più elevato è detenuto proprio dall’esecutivo Gentiloni (5,25 Dlgs per ogni delega approvata). Seguono i governi Conte II e Letta (4 a 1) e il Berlusconi IV (2,59).

Analisi

Come abbiamo visto, negli ultimi anni il ricorso a questo strumento, così come a quello del decreto legge, è diventato sempre più frequente. Sebbene questo strumento sia funzionale per legiferare in materie complesse, il suo ricorso crescente è un indicatore della progressiva marginalità del parlamento nel processo decisionale.

Il ricorso alla delega in particolare evidenzia almeno tre aspetti critici: 

  1. i principi e i criteri direttivi contenuti nelle leggi delega approvate dal parlamento sono sempre più generici e imprecisi, tanto che spesso si parla di “deleghe in bianco”. In questo modo al governo viene lasciato ampio margine di manovra nella specifica definizione della disciplina. A maggior ragione poi quando è il governo l’autore del disegno di legge delega;
  2. la delega inoltre viene utilizzata sempre più spesso per disciplinare aspetti non tecnici ma dal grande rilievo politico. Ad esempio, nella XVII legislatura, sono state utilizzate deleghe per la realizzazione delle riforme del mercato del lavoro e della pubblica amministrazione; 
  3. con l’ampio utilizzo delle deleghe diminuisce la possibilità per l’opposizione di influire sui dettagli della normativa. Il parlamento si esprime infatti a priori e solo in minima parte successivamente con l’espressione dei pareri. In questo modo diviene più facile per il governo aggirare l’eventuale ostilità delle camere su temi politicamente controversi.

Ciò può essere sintomatico della volontà dei governi di evitare l’attenzione mediatica che un lungo dibattito nelle camere comporterebbe.

 

Cos’è il green deal europeo

Si tratta di un piano molto ambizioso, che mobilita ingenti risorse e che proprio per la sua portata costituisce una sfida non di poco conto per i prossimi anni.

Non è chiaro se la neutralità climatica sia compatibile con la crescita economica.

Inoltre il piano non è privo di criticità. Come ha evidenziato Greenpeacegli obiettivi fissati in sede europea potrebbero non essere sufficienti per raggiungere la neutralità climatica. Il che sarebbe ulteriormente complicato dal fatto che l’obiettivo portante del green deal, oltre alla sostenibilità, è la crescita economica. Come sottolinea anche l’agenzia europea per il clima (Eea, acronimo dell’inglese European environmental agency), la crescita è infatti strettamente connessa ad aumenti nella produzione, nel consumo e nell’utilizzo di risorse. E quindi inevitabilmente ha effetti dannosi sull’ambiente e sulla salute umana.

Economic growth is closely linked to increases in production, consumption and resource use and has detrimental effects on the natural environment and human health.

D’altro canto, anche qualora gli obiettivi fossero di per sé sufficienti a ridurre in modo efficace l’impatto ambientale, l’Europa non sembra essere sulla strada giusta per raggiungerli entro i tempi prestabiliti.

Per svolgere questa ricerca sullo stato di avanzamento del patto verde europeo, Deutsche Welle ha identificato 7 metriche di base, divise per settore e corrispondenti ai principali obiettivi individuati dalla commissione stessa. La prima consiste in un indicatore generico, relativo alle emissioni, misurate in tonnellate di Co2 equivalente. Due riguardano invece l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili e rilevano da una parte la quota sul consumo finale e dall’altra la capacità degli impianti. Un altro indicatore concerne gli edifici, in particolare le installazioni di pompe di calore. Infine, le emissioni delle auto per il settore dei trasporti, l’uso di pesticidi per l’agricoltura e la produzione di idrogeno per l’industria.

Gli indicatori relativi alle pompe di calore e alla potenza degli impianti di produzione di energia eolica e solare non sono ufficiali, ma ricostruiti sulla base del presupposto di non superare i 1,5 gradi centigradi di variazione complessiva delle temperature rispetto ai livelli pre-industriali. Mentre per la produzione di idrogeno ancora non sono disponibili i dati.

L’obiettivo di riduzione delle emissioni

Uno degli aspetti più problematici dell’impatto dell’uomo sulla Terra è l’emissione dei gas serra. Si tratta di un insieme di agenti inquinanti che comportano un’alterazione degli equilibri degli ecosistemi, danneggiando chi li abita. Per questa ragione, Deutsche Welle ha identificato i dati sulle emissioni complessive come il parametro più significativo per monitorare l’avanzamento dell’Europa rispetto al piano.

L’ultima proposta avanzata dalla commissione europea è quella relativa alla riduzione delle emissioni del 57% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Questo vorrebbe dire un consumo pari a 2mila megatone (mt) di Co2 equivalente, rispetto alle 4.687 registrate nel 1990. Stando ai dati più recenti, relativi al 2021, l’Ue ha ridotto le sue emissioni totali del 29,3% rispetto a 33 anni fa.

3.312 mt Co2 eq le emissioni di gas serra in Ue nel 2021.

Secondo l’Eea, con le misure vigenti si arriverebbe, nel 2030, a 3.109 mt. Quindi ben mille mt in più rispetto all’obiettivo (2mila mt) e con un calo pari ad appena il 33,7% rispetto ai livelli del 1990. Una prospettiva che vede quindi l’Europa ben lontana dal traguardo prefissato. Ma andiamo ad analizzare i dati disaggregati per paese (disponibili al 2020), per vedere quanto la situazione è migliorata nei singoli stati membri. Il quadro che ne emerge è piuttosto eterogeneo.

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DA SAPERE

I dati si riferiscono a tutti i gas alle emissioni in termini assoluti di tutti i gas a effetto serra (l’anidride carbonica, metano, ossido di diazoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruro di zolfo e trifluoruro di azoto), in tutti i settori. Le emissioni sono misurate in megatone (mt, pari a 1 milione di tonnellate) di Co2 equivalenti. Questa misura serve per uniformare l’impatto che ha una certa quantità di un gas serra rispetto alla medesima quantità di anidride carbonica. In questo modo è possibile sommare tutti gli effetti per capire complessivamente quanto incidono sull’ambiente.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eea
(pubblicati: martedì 13 Aprile 2021)

 

In tutti i paesi tranne 3 (Cipro, Austria e Irlanda) le emissioni di gas serra nell’atmosfera sono diminuite tra il 1990 e il 2020. In alcuni casi il calo è stato più marcato, per esempio a Malta dove ha superato il 90% o in Svezia dove ha sfiorato l’80%. Nei paesi più grandi e popolosi del continente la riduzione è stata più contenuta: si è attestata al 43% in Germania, al 32% in Italia, al 27% in Francia e ad appena il 5% in Spagna.

Il dato del 2020 va analizzato con attenzione.

È importante tuttavia sottolineare che i dati del 2020 possono essere fuorvianti. Si è trattato infatti dell’anno del lockdown per l’emergenza sanitaria da Covid-19, durante il quale molte attività che comportavano produzione o consumo di energia si sono temporaneamente fermate. Nel complesso quindi il calo è modesto e ben lontano dagli obiettivi posti dal green deal europeo. Se infatti andiamo ad analizzare la variazione tra 1990 e 2019, anziché 2020, vediamo che anche in Spagna si è registrato un aumento delle emissioni di gas serra (+14%) e che invece sono solo 3 i paesi dove il calo ha superato il 57%. Parliamo di Estonia, Romania e Lituania, con riduzioni oltre il 60%.

L’Italia e gli obiettivi del patto verde europeo

Nel nostro paese le emissioni di gas serra sono diminuite del 32% nel 2020 rispetto ai livelli del 1990. Del 25% se invece facciamo riferimento al 2019. Ma come si pone l’Italia rispetto agli altri obiettivi individuati?

Per quanto riguarda le energie rinnovabili, nel 2022 la commissione ha posto l’obiettivo di raggiungere, entro il 2030, un contributo delle energie rinnovabili pari al 45% del totale dei consumi finali. A oggi in Italia la quota è pari al 19%, secondo Eurostat. Appena 6 punti percentuali in più rispetto al 2010 e lievemente al di sotto della media Ue, pari quasi al 22%.

Sempre in ambito di energia pulita, un altro elemento è la potenza degli impianti solari ed eolici. In questa ricerca Deutsche Welle ha fatto riferimento alle stime e previsioni del centro studi Ember. L’obiettivo non ufficiale (perché la commissione non l’ha esplicitamente formulato) sarebbe quello di raggiungere, entro il 2030, una potenza dell’eolico pari a 476 Gw e del solare pari a 600 Gw.

Agli ultimi dati del 2021 l’Europa aveva raggiunto 186,3 Gw di energia eolica e 110,7 Gw di energia solare. Il contributo italiano era pari rispettivamente a 11,3 Gw per l’eolico e a 7,7 Gw per il solare. La potenza dell’eolico nel nostro paese è aumentata di circa 3 Gw tra 2010 e 2021. Mentre quella solare si è più che dimezzata, passando da 16,8 Gw nel 2010 a 7,7 nel 2021 (e soprattutto rispetto al 2020, quando era arrivata a 21,7 Gw).

Per il settore dei trasporti, uno dei principali responsabili dell’inquinamento atmosferico, l’obiettivo è di dimezzare le emissioni rispetto ai livelli del 2021. Si tratta infatti dell’ultimo traguardo proposto dalla commissione, nel 2022.

-55% le emissioni di gas serra prodotte dalle auto entro il 2030, rispetto ai livelli del 2021.

Per poi azzerarle del tutto entro il 2035. Uno dei modi per ridurre le emissioni nel settore dei trasporti, oltre a promuovere l’utilizzo di mezzi pubblici, è la diffusione delle auto a basse emissioni. Nonostante anche queste presentino degli ostacoli a livello ambientale (come la costruzione e lo smaltimento delle batterie in litio) e infrastrutturale. In un recente approfondimento abbiamo parlato, a questo proposito, della scarsa disponibilità di colonnine di ricarica nel nostro paese. Ormai la diffusione capillare di veicoli a basse emissioni e la totale rimozione di quelli inquinanti sembra essere tuttavia un passaggio obbligato nell’ottica della transizione ecologica. Ma in Italia c’è ancora molta strada da fare da questo punto di vista.

Stando all’ultimo aggiornamento di Istat sugli ambienti urbani, mediamente nei comuni capoluogo e nelle città metropolitane la diffusione di questo tipo di veicolo è ancora minoritaria rispetto alle auto a maggior potenziale inquinante.

13,5% delle auto circolanti nei comuni capoluogo italiani è a basse emissioni nel 2021.

Una quota che comunque è aumentata rispetto a 5 anni fa, quando si attestava all’8,9%. Sono notevoli le differenze a livello geografico. Nel nord-est del paese infatti la quota sfiora il 19%, mentre nelle isole non raggiunge il 7%.

I comuni capoluogo in cui la diffusione delle auto a basse emissioni supera il 20% si trovano tutti in Emilia-Romagna e nelle Marche, ad eccezione di Rovigo (in Veneto). Prima tra tutte Macerata con il 27,1%.

Le quote più basse si registrano invece nelle isole (in particolare in Sardegna, dove tutti i comuni capoluogo hanno incidenza inferiore al 6%), e sulle aree più vicine all’arco alpino. Nel settentrione, si riportano valori particolarmente bassi nei capoluoghi del Friuli-Venezia Giulia.

European data journalism network

Questo articolo è stato scritto nell’ambito dello European data journalism network, la piattaforma per le notizie data-driven sugli affari europei di cui openpolis fa parte. Il progetto sul green deal europeo è stato coordinato da Deutsche Welle e vi hanno preso parte, analizzando i dati relativi ad altri paesi europei, Voxeurop, Osservatorio Balcani Caucaso, Eurologus, Denik Referendum, Frontstory.pl, Pod črto e Altinget.

Foto: Abby Anaday – licenza

 

Il decreto Cutro colpisce i diritti dei richiedenti asilo Migranti

Il decreto Cutro colpisce i diritti dei richiedenti asilo Migranti

Il recente decreto restringe il campo di applicazione dello strumento della “protezione speciale”, introdotta nel 2018 al posto della protezione umanitaria. Si torna al passato, con il rischio dell’aumento dei migranti irregolari.

 

Il “decreto Cutro”, varato di recente dal governo, limita fortemente la protezione speciale, con l’effetto di ledere i diritti dei richiedenti asilo e il rischio di un aumento dei migranti irregolari sul territorio.

Nell’ultimo mese si è parlato molto della tragedia avvenuta a pochi metri della spiaggia di Cutro (Crotone), dove il 26 febbraio oltre cento migranti hanno perso la vita in un naufragio causato dal collasso dell’imbarcazione, proveniente dalla Turchia, che li trasportava. La risposta del governo è stata quella di introdurre, pochi giorni dopo, un decreto che pone ulteriori ostacoli nel percorso dei richiedenti asilo.

Il decreto 20/2023 (detto anche “decreto Cutro”), ancora non convertito in legge, si occupa di “disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione illegale”. Tra i vari temi, si sofferma sui flussi di lavoratori stranieri, sul rinnovo dei permessi di soggiorno e sul potenziamento della rete di centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr).

Uno dei cambiamenti più importanti e di maggiore impatto riguarda la protezione speciale. Ovvero una delle modalità attualmente esistenti per garantire l’asilo alle persone straniere presenti sul territorio italiano. Tale forma di protezione non viene eliminata, ma fortemente limitata, annullando di fatto le recenti riforme che l’avevano potenziata.

Cosa si intende con protezione speciale

Quella speciale è una forma di protezione straordinaria, introdotta nel 2018 dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, con il cosiddetto decreto sicurezzaal posto dell’abrogata protezione umanitaria.

Quest’ultima era una forma di protezione residuale riservata a chi, per gravi situazioni di carattere umanitario, non poteva essere allontanato dal territorio nazionale. L’aveva introdotta l’articolo 5 comma 6 del testo unico sull’immigrazione (d. lgs. 286/1998).

Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano.

Salute, età, rischio di trovarsi in situazioni difficili per cause esterne, ambientali o politiche: erano tutte ragioni per accordare la protezione umanitaria. Il decreto sicurezza ha però soppresso tale forma di asilo e l’ha sostituita con una serie di casi straordinari. Come lo sfruttamento lavorativo, la violenza domestica, le cure mediche, le calamità e gli atti di particolare valore civile.

In seguito, il decreto 130/2020 introdotto da Luciana Lamorgese, ministra dell’interno del secondo governo Conte, ha ampliato la categoria della protezione speciale. Contestualmente a questo ampliamento, si è verificato un aumento del numero di casi in cui tale forma di asilo è stata effettivamente accordata.

Negli anni tra il 2016 e il 2018, la protezione umanitaria è stata messa in atto all’incirca nel 21% delle domande di asilo. Sfiorando il 25% nel 2017 (per un totale di circa 20mila persone).

Si può notare invece che l’applicazione della protezione speciale ha avuto un raggio di gran lunga inferiore. Nel 2019 in maniera particolare è stata attuata soltanto nello 0,6% dei casi (per un totale di 616 persone) e nel 2020 nell’1,8% (757). Nel 2021, in seguito alla riforma Lamorgese che, come accennato, ha esteso l’applicazione della protezione speciale, la quota è salita al 13,7% (7.092 persone).

59.159 le persone che hanno ricevuto la protezione umanitaria tra 2016 e 2018.

Nei tre anni successivi (2018-2021), appena 8.465 persone hanno invece ricevuto la protezione speciale, circa 7 volte di meno. La quasi totalità è peraltro attribuibile all’anno 2021 e quindi al momento in cui l’applicazione è stata estesa.

Le strutture per richiedenti asilo e rifugiati.

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Le strutture per richiedenti asilo e rifugiati.

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Le modifiche introdotte dal decreto n.20

Il decreto 20/2023 non elimina la protezione speciale, ma ne attua una risignificazione giuridica e normativa rispetto all’ultima formulazione del 2020.

Il decreto elimina il diritto alla vita privata e familiare dai criteri per il divieto di espulsione.

L’articolo 7 in particolare modifica l’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione, sui criteri che determinano il divieto di espulsione, abrogando la parte aggiunta dal decreto Lamorgese nel 2020 (il terzo periodo del comma 1.1). Al rischio di subire persecuzioni, tortura e trattamenti inumani o degradanti, la riforma aveva aggiunto la potenziale violazione del diritto alla vita privata e familiare – un diritto fondamentale tutelato dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Affermando che “non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica.” Il “decreto Cutro” elimina tale periodo.

Si torna in questo senso alla concezione precedente, quella del decreto sicurezza, in cui i criteri per ottenere la protezione speciale erano molto rigidi. Facendo quindi un passo indietro rispetto alla riforma che aveva reso la protezione speciale un meccanismo capace, almeno in parte, di sopperire alla protezione umanitaria.

Le espulsioni e l’inefficace politica dei rimpatri

Modificando la normativa che definiva i casi in cui l’espulsione si riteneva non attuabile, il decreto facilita di fatto le espulsioni. Con “espulsione” si intende l’atto amministrativo o giudiziario con cui si obbliga lo straniero a lasciare il territorio nazionale. A differenza di procedure simili come il respingimento, l’espulsione prevede anche un divieto di reingresso per un periodo limitato di tempo.

L’atto di espulsione non comporta l’effettivo allontanamento.

Come evidenzia l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), il provvedimento amministrativo di espulsione si configura, ai sensi dell’articolo 2 della direttiva 2008/115/Ce (anche conosciuta come “direttiva rimpatri”), come “decisione di
rimpatrio
”. Ovvero come l’atto amministrativo che dichiara l’irregolarità del

soggiorno di un cittadino di paesi terzi e impone o attesta l’obbligo di rimpatrio. Che tuttavia non comporta l’effettivo allontanamento.

Il fine ultimo dell’espulsione è quindi quella di allontanare e rimpatriare i migranti. Tuttavia negli anni si è potuto constatare che i numeri dei rimpatri effettivi hanno sempre costituito una quota molto contenuta delle decisioni prese in questo senso.

Nel 2018 il 21% delle decisioni di rimpatrio si è concluso con un rimpatrio effettivo. Nel 2019 la quota è salita al 30%, mentre nel 2020 ha toccato il punto più basso del quadriennio (14%) e nel 2021 si è attestata al 15%.

Nonostante gli annunci nessun governo fino ad oggi è riuscito ad aumentare il numero di rimpatri in misura significativa. Con queste premesse quindi ridurre la possibilità di accedere a una qualsiasi forma di protezione non può che portare a una crescita del numero di irregolari. Significa incrementare il numero di persone che si trovano sul territorio in una situazione di presunta irregolarità, senza poter lavorare né integrarsi nel tessuto sociale e quindi spesso portate all’illegalità. Una situazione che crea soltanto sacche di disagio, con conseguenze negative sia per i cittadini che per i migranti stessi.

Foto: SeaWatch Italy

 

I dipendenti pubblici zavorrano i conti dell’Inps, pensioni in precario equilibrio

I dipendenti pubblici zavorrano i conti dell’Inps, pensioni in precario equilibrio

I dipendenti pubblici appesantiscono i conti dell’Inps. Il sistema resta in precario equilibrio. Quota 100 è stato un errore che peserà per anni.

pensione

Nel 2021 il conto nazionale delle pensioni pagate dall’Inps è aumentato dell’1,5%, portandosi a quota 238,27 miliardi di euro. Un incremento naturale e che non compromette gli equilibri di spesa delle rendite pubbliche.

Al netto della spesa assistenziale, il sistema tiene ma per quanto ancora? Le pensioni anticipate, soprattutto quelle di Quota 100, andranno a pesare gradualmente sui conti dell’Inps negli anni. Al punto che – come a avverte il presidente Pasquale Tridico – si rischia un patrimonio negativo di 92 miliardi fra sei anni.

Gestioni pensioni attive e passive

Ma cosa pesa in particolare sui conti dell’Inps?  Nel complesso – spiega tinerari Previdenziali – le entrate contributive sono cresciute del 6,58% nel 2021, a quota 208,64 miliardi di euro. Risultato che si deve confrontare con le uscite (pensioni) aumentate dell1,5% a quota 238,27 miliardi di euro. Per un saldo negativo di 30 miliardi. Soldi che l’Inps recupera normalmente dall’avanzo di gestione degli esercizi precedenti o dai trasferimenti statali.

Nel dettaglio sono 4 le gestioni previdenziali che presentano un saldo positivo alla fine del 2021. Si tratta di quelle dei lavoratori dipendenti (11,5 miliardi), i commercianti (654 milioni), i lavoratori dello spettacolo (288 milioni) e i lavoratori della gestione separata (7,7 miliardi).

Tutte le altre gestioni sono in rosso e in particolare quella dei dipendenti pubblici il cui saldo negativo ammonta a 37,49 miliardi di euro, parzialmente mitigato da 10,8 miliardi di trasferimenti dallo Stato. Seguono in misura molto minore le gestioni dei dipendenti delle FS, i coltivatori diretti, gli artigiani e i dirigenti ex INPDAI.

Il deficit dell’Inps

In altre parole, quasi l’intero deficit annuo dell’Inps per le pensioni è dovuto al peso di dipendenti pubblici e militari. Buco in parte compensato con trasferimenti da parte dello Stato dopo l’assorbimento dell’Inpap.

L’Inps ereditò dal ex ente previdenziale dei dipendenti pubblici un buco di ben 10,27 miliardi di euro, ai quali erano stati aggiunti circa 5,8 miliardi di passivo per il solo esercizio 2012. Un deficit che in 10 anni non è ancora stato risanato.

Ma quel che è peggio è che il disavanzo, sconquassato dalle pensioni anticipate, è destinato a non chiudersi, se non nel lungo periodo grazie alla contribuzione dei lavoratori dipendenti privati e, soprattutto, dei lavoratori iscritti alla gestione separata.

Il deficit è anche imputabile – spiega l’Inps – alla rivalutazione delle rendite in base all’inflazione. Ma anche per effetto del rinnovo innescato dalla sostituzione delle pensioni cessate con quelle di nuova liquidazione, con importi mediamente più elevati.

Per il 2022 si prevede un deficit Inps ancora in crescita, ben oltre i 35 miliardi. La cifra è preoccupante e resta sotto osservazione da parte del Governo impegnato a portare avanti una difficile riforma pensioni per il 2024.