Archivio mensile:agosto 2023

San Raimondo Noñnato

 

San Raimondo Nonnato


San Raimondo Nonnato

autore: Jerónimo Jacinto Espinosa anno: XVII sec. titolo: San Raimondo Nonnato luogo: Museo del Prado, Madrid
Nome: San Raimondo Nonnato
Titolo: Religioso
Nascita: 1200 circa, Portell (Spagna)
Morte: 31 agosto 1240, Cardona (Spagna)
Ricorrenza: 31 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Protettore:
delle ostetriche
Beatificazione:
9 maggio 1626, Roma , papa Urbano VIII
Canonizzazione:
13 agosto 1669, Roma , papa Clemente IX
S. Raimondo, soprannominato Nonnato (non nato) perchè venuto alla luce mediante operazione medica dopo la morte della madre, nacque nella Catalogna l’anno 1204 da nobile famiglia. Suo padre, dopo avergli per qualche tempo permesso di attendere agli studi, all’improvviso lo mandò a lavorare i campi.

Raimondo approfittò di questa solitudine per impiegare maggior tempo nell’orazione e per meditare le verità della fede. Visitava spesso una chiesa nella quale si venerava un’immagine della SS. Vergine verso cui fin dall’infanzia professava tenerissima devozione, ed a cui si raccomandava affinché gli facesse conoscere lo stato di vita che doveva eleggere. Dopo aver molto pregato, si sentì ispirato ad entrare nell’ordine della Beata Vergine della Mercede, fondato da poco tempo da San Pietro Nolasco. A questo scopo si portò a Barcellona dal suddetto S. Pietro Nolasco, generale dell’ordine, e dalle sue mani ottenne l’abito religioso. In questo istituto fece tanto progresso nel cammino spirituale, che dopo qualche anno di professione, fu giudicato degno di esercitare l’ufficio di redentore degli schiavi.

San Raimondo Nonnato

titolo San Raimondo Nonnato
autore Antonio del Castillo y Saavedra anno 1640-1650

Andato ad Algeri, dopo aver dato tutto il denaro per il riscatto degli schiavi, diede se stesso in ostaggio per ottenere la liberazione di quei cristiani, che correvano il pericolo di rinunziare alla loro fede. Però il suo generoso sacrificio non servì che ad irritare maggiormente i maomettani, i quali lo trattarono con tanta crudeltà che poco mancò non morisse fra le loro mani. Ma essendone stato avvertito il governatore della città, per paura che venendo a morire, perdesse la somma per cui era tenuto in ostaggio, proibì di maltrattarlo eccessivamente e minacciò di far pagare la somma che gli aspettava per il suo riscatto a coloro che l’avrebbero fatto morire. Avuta la libertà di girare per la città di Algeri, Raimondo se ne servì per visitare i cristiani e consolarli: e convertì pure al Cristianesimo parecchi mussulmani.

Cristo incorona San Raimondo Nonnato

titolo Cristo incorona San Raimondo Nonnato
autore Diego Gonzáles de Vega anno 1673

Avendo saputo questo, il governatore ne concepì tanto sdegno che, trasportato dall’ira, condannò il Santo ad essere impalato. S’interposero però quelli che erano interessati al commercio degli schiavi ed ottennero che gli fosse cambiata la pena con una lunga ed aspra flagellazione. Ciononostante Raimondo continuò a operare delle conversioni. Questa volta però il governatore non solo lo fece battere e frustare, ma lo fece condurre per le vie della città carico di catene, poi chiamò un carnefice che gli trapassò le labbra e gliele chiuse con un lucchetto, dandone la chiave in consegna al giudice. Così Raimondo fu ridotto al silenzio e poteva aprir bocca soltanto nelle ore di refezione. Stette così in prigione otto lunghi mesi, finchè S. Pietro Nolasco ebbe mandato il denaro per il riscatto.

Martirio di San Raimondo Nonnato

titolo Martirio di San Raimondo Nonnato
autore Vincenzo Carducci anno XVI-XVII sec.

Il Pontefice Gregorio IX, per onorare questo confessore di Cristo, lo creò cardinale. Ritornato a Barcellona nel suo convento, volle vivere da semplice religioso, fino al giorno in cui lasciò questa terra per volare a ricevere il premio, il 31 agosto 1240.

PRATICA Facciamo qualche sacrificio per i nostri fratelli.

PREGHIERA. Dio, che rendesti mirabile il tuo beato confessore Raimondo nel liberare i tuoi fedeli dalla cattività degli empi, concedici per sua intercessione, che sciolti dai lacci dei peccati, compiamo con libertà di spirito la tua volontà.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Cardona in Catalogna, san Raimondo Nonnato, che fu tra i primi compagni di san Pietro Nolasco nell’Ordine della Beata Maria Vergine della Mercede e si tramanda che abbia molto patito in nome di Cristo per la liberazione dei prigionieri.

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Domande Frequenti

  • Quando si festeggia San Raimondo Nonnato?

  • Quando nacque San Raimondo Nonnato?

  • Dove nacque San Raimondo Nonnato?

  • Quando morì San Raimondo Nonnato?

  • Dove morì San Raimondo Nonnato?

  • Chi erano i mercedari?

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Oggi 31 agosto si recita la novena a:

– San Gregorio Magno
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Fra Atlantide e la civiltà nuragica

Fra Atlantide e la civiltà nuragica.

Storici e studiosi sardi, in genere fuori dalla cerchia accademica, ma non per questo meno rigorosi, soprattutto da qualche anno, dedicano le loro ricerche alla storia nuragica: fra questi ricordo Sergio Frau, che da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo. Di contro, il Quotidiano la Repubblica, di cui è autorevole redattore, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, -e con quale spocchia- di dominare sull’Isola. Ma con la Repubblica, unu grustiu mannu di accademici, archeologi, sovrintendenti, accecati dall’eurocentrismo e dalla xenomania, dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi, costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza. Che produce oro, argento, rame, ambra, formaggi, sale, stoffe, vini, vetro. E la musica delle launeddas. Una Sardegna organizzata in una confederazione di libere e autonome comunità nuragiche, mentre altrove dominano monarchi, faraoni e tiranni. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà e all’egualitarismo; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati. Una Sardegna, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che opprimono i popoli. Che a migliaia per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù, si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Finchè i Cartaginesi prima e i Romani poi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola.

Francesco Casula 

(Articolo pubblicato sul Quotidiano “Il Sardegna” del 15-1-10)

Imposizione della lingua Italiana e repressione della lingua sarda

Imposizione della lingua italiana
e repressione della lingua sarda.

(Ieri sera a Marina Residence- Flumini di Quartu- nel bell’evento organizzato dall’Associazione “Tra Parola e Musica” su CHE FINE HA FATTO LA LINGUA SARDA, una straordinaria ANNA BROTZU ha letto con maestria il seguente testo tratto dall’opera “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”)

La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, si tenta di ridurla al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italici di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano con i Savoia prima e l’Italia unita poi.
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi e i Savoia occorre rendere ufficiale la lingua italiana: loro che parlavano francese! Tanto che quando nel 1861, il 17 marzo, Vittorio Emanuele II diventa re d’Italia, nella proclamazione che ne farà Cavour in Parlamento, diventerà, in francese, roi d’Italie!
Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Questo il vero motivo: non quello “ideologico” della civilizzazione, accampato da Carlo Baudi di Vesme che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…”.
Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini poverelli ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, giacché l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).
I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “italianizzazione” dell’intera storia italiana e della “snazionalizzazione” della Sardegna e dei Sardi.

Sant’ Alessandro

 

Sant’ Alessandro di Bergamo


Nome: Sant’ Alessandro di Bergamo
Titolo: Martire
Nascita: III secolo , Tebe
Morte: 26 agosto 303, Bergamo
Ricorrenza: 26 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione

Ai primi giorni d’autunno, l’esercito di Massimiano Cesare si trovava nelle valli svizzere, non lontano dalla conca del lago Lemano. Più che una guerra guerreggiata, lo aspettava una insidiosa guerriglia contro i fieri montanari del paese, sempre ribelli e costantemente inquieti.

Le Alpi, tutt’intorno, erano già incappucciate di neve. Faceva freddo. I soldati della legione risognavano la calda sabbia della loro terra natale. Era infatti una legione di soldati egiziani, detta Legione Tebana perché reclutata nella Tebaide, attorno alla città di Tebe.

Ad Agaunia, il primicerius Maurizio ordinò l’alt ai suoi legionari. Fece disporre il campo, in attesa di ordini da Octodurum. Da Octodurum, Massimiano Cesare ordinò che, in attesa di attaccar battaglia, si celebrasse un sacrificio propiziatorio agli dei.

I soldati cristiani della Legione Tebana si rifiutarono di eseguire l’ordine sacrilego. Massimiano minacciò rappresaglie, ma nessuno cedette. Giunse allora un reparto di littori per le misure disciplinari. Un soldato su ogni dieci della Legione Tebana cadde sotto il gladio. Ma i superstiti non si lasciarono intimorire, e si fecero vicendevolmente animo, spronati dal primicerius Maurizio. A Massimiano, mandarono a dire che la loro fedeltà agli insegnamenti del Signore era la più sicura garanzia della lealtà anche verso l’Imperatore. Seguì una seconda decimazione; poi una terza, finché tutti i legionari della cristiana legione furono giustiziati, ad Agaunia, in quell’autunno della fine del III secolo.

Anche il Sant’Alessandro festeggiato oggi, vien detto soldato della Legione Tebana, come molti altri Santi venerati nell’Italia settentrionale, perché aver appartenuto alla legione dei Martiri, per un cristiano e un soldato, appariva come il maggior titolo di nobiltà d’animo e di eroismo.

Egli sarebbe stato uno di quei pochi legionari i quali, trovandosi momentaneamente distaccati in altre località, sfuggirono all’eccidio di Agaunia, per subire poi il martirio in altri luoghi dove fiori la loro devozione.

Sant’Alessandro, per esempio, è l’amatissimo Patrono della città di Bergamo: perciò la leggenda lo fa morire a Bergamo, dopo essere sfuggito due volte al carcere e avere infranto gli idoli davanti al suo comandante e persecutore, Massimiano Cesare.

A lui, primo Martire e Patrono di Bergamo, è dedicata la Cattedrale della città, che sembra proteggere con la sua mole gli altri due bellissimi monumenti di Bergamo antica: la Chiesa di Santa Maria Maggiore, e la Cappella Colleoni, nel suggestivo e silenzioso scenario della Città Alta.

Al glorioso Patrono son dedicate poi altre due chiese nella Città Bassa: Sant’Alessandro della Croce e Sant’Alessandro in Colonna, tutt’e due ricche di antiche memorie. Il soldato egiziano, il superstite della Legione Tebana, ha dunque in Bergamo la sua seconda e più vera patria, dove al calore del sole si sostituisce il tepore dell’affetto, nell’estate della fede, che non conosce autunni.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Bergamo, sant’Alessandro, martire.

PROVERBIO. A San Alessandro acquaiolo o piove o si duole.

ICONOGRAFIA

Nell’iconografia Sant’Alessandro è raffigurato tradizionalmente in veste di soldato romano con un vessillo, a piedi o sopra un imponente cavallo. Spesso tiene in mano una palma, simbolo del martirio, o un giglio.

Sant'Alessandro

titolo Sant’Alessandro
autore Bernardino Luini anno 1525

Sant'Alessandro

titolo Sant’Alessandro
autore Ambito lombardo anno secolo XVII

Sant'Alessandro

titolo Sant’Alessandro
autore Ambito bergamasco anno 2003

Sono varie anche le riproduzioni del santo durante il momento del martirio come nella tela di Enea Salmeggia parte di un Ciclo delle storie di sant’Alessandro. Nell’opera il carnefice è raffigurato di spalle centrale alla tela nell’atto di riporre la spada nel fodero. A terra il capo e e il corpo acefalo del martire. Intorno, un popolo di osservanti pietrificato tra cui è presenta uno con la brocca dell’acqua chiesta da Alessandro per potersi lavare mani e faccia prima di essere martirizzato, come indicato da fra Celestino.

Martirio di Sant'Alessandro

titolo Martirio di Sant’Alessandro
autore Enea Salmeggia anno 1617

L’opera di Bernardino Luini raffigura il santo con i suoi tipici attributi: vestito come un soldato romano, tiene nella mano destra il vessillo e nella sinistra la palma del martirio.

Martirio di Sant’Alessandro

titolo Sant’Alessandro
autore Martirio di Sant’Alessandro anno 1693-1694

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  • Quando si festeggia Sant’ Alessandro di Bergamo?

     

  • Quando nacque Sant’ Alessandro di Bergamo?

     

  • Dove nacque Sant’ Alessandro di Bergamo?

     

  • Quando morì Sant’ Alessandro di Bergamo?

     

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  • Di quali comuni è patrono Sant’ Alessandro di Bergamo?

     

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San Bartolomeo


San Bartolomeo

autore: Pompeo Batoni anno: 1749 titolo: Martirio di San Bartolomeo luogo: Museo Nazionale di Palazzo Mansi, Lucca
Nome: San Bartolomeo
Titolo: Apostolo
Nascita: I sec, Cana, Galilea
Morte: I sec, Albanopolis, Caucasia
Ricorrenza: 24 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Festa
L’apostolo S. Bartolomeo era galileo e probabilmente pescatore come la maggior parte degli Apostoli. Scelto da Gesù, Natanaele, il suo nome originario, ebbe anch’egli la felice sorte di nutrire l’anima sua delle parole di vita che uscivano dal labbro benedetto del Divin Maestro per tutto il tempo della sua predicazione, e di essere testimonio dei suoi miracoli.

Insieme con gli altri Apostoli, predicò il Vangelo nella Giudea, operando miracoli e cacciando i demoni dagli ossessi. Nel giorno di Pentecoste ricevette egli pure la pienezza dello Spirito Santo, dopo di che annunziò intrepidamente il S. Vangelo agli Ebrei e soffrì come gli altri Apostoli obbrobri e battiture per amore di Gesù Cristo.

Rigettato dai Giudei, S. Bartolomeo si portò prima nella Libia, poi nell’Arabia, nelle Indie Orientali e nell’Armenia Maggiore. La sua parola, congiunta ad una vita mortificata e allo spirito di preghiera, operò un bene immenso.

Celebre è specialmente la conversione del re Polimio e della regina sua consorte.

Però tanto zelo eccitò la gelosia e il furore degli idolatri, i quali, spinti da odio diabolico, tramarono contro di lui. Per meglio riuscire nel sacrilego intento, attirarono dalla loro parte il fratello del re, Astiage, che incatenato il santo Apostolo lo condannò ad essere scorticato vivo.

Mentre essi compivano quest’opera, San Bartolomeo scongiurava il Signore perchè volesse perdonare ai suoi carnefici. I manigoldi, dopo avergli tolta la pelle, lo decapitarono.

Il corpo del santo Apostolo venne seppellito in Albanopoli, ove restò fino a quando l’imperatore Ottone II lo fece trasportare a Roma.

Gli fu edificata una chiesa nell’Isola Tiberina e il suo corpo si trova sotto l’altar maggiore, in un sarcofago di porfido.

PRATICA. Tutte le avversità, quando si mettono a confronto dei premi eterni che per esse ci saranno resi, non sono che ragnatele, ombra e fumo (S. Giovanni Crisostomo).

PREGHIERA. O Dio onnipotente ed eterno, che in questo giorno ci concedi di celebrare la festa del tuo beato Apostolo Bartolomeo e per questo ci riempi di santa gioia, deh! da’ alla tua Chiesa d’amare ciò che egli credette e di praticare ciò che insegnò.

MARTIROLOGIO ROMANO. Festa di san Bartolomeo Apostolo, comunemente identificato con Natanaele. Nato a Cana di Galilea, fu condotto da Filippo a Cristo Gesù presso il Giordano e il Signore lo chiamò poi a seguirlo, aggregandolo ai Dodici. Dopo l’Ascensione del Signore si tramanda che abbia predicato il Vangelo del Signore in India, dove sarebbe stato coronato dal martirio.

ICONOGRAFIA

Nell’iconografia san Bartolomeo viene spesso raffigurato come un uomo che porta sulle spalle la propria pelle come fosse un mantello e stringe in mano il coltello, simbolo del suo martirio. Un classico esempio lo troviamo nella magnifica Cappella Sistina di Michelangelo dove l’apostolo regge con la mano sinistra la sua pelle.

San Bartolomeo scuoiato, nel Giudizio Universale

titolo San Bartolomeo scuoiato, nel Giudizio Universale
autore MIchelangelo anno tra il 1536 e il 1541

L’atroce supplizio di Bartolomeo, scorticato vivo come viene tramandato da alcune fonti apocrife, sollecitò particolarmente la fantasia di molti artisti tra cui Andrea Vaccaro pittore napoletano vissuto nel XVII secolo o come la bellissima tela di Jusepe de Ribera.

Martirio di San Bartolomeo

titolo Martirio di San Bartolomeo
autore Andrea Vaccaro anno XVII sec
Martirio di San Bartolomeo

titolo Martirio di San Bartolomeo
autore Jusepe de Ribera anno 1616-18

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  • Quando si festeggia San Bartolomeo?

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  • Quando nacque San Bartolomeo?

  • Dove nacque San Bartolomeo?

  • Quando morì San Bartolomeo?

  • Dove morì San Bartolomeo?

  • Di quali comuni è patrono San Bartolomeo?

  • Chi erano gli apostoli?

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Gli apostoli

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Oggi 24 agosto si venera:

San Bartolomeo

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ApostoloL’apostolo S. Bartolomeo era galileo e probabilmente pescatore come la maggior parte degli Apostoli. Scelto da Gesù, Natanaele, il suo nome originario, ebbe anch’egli la felice sorte di nutrire l’anima…

Domani 25 agosto si venera:

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Oggi 24 agosto nasceva:

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Oggi 24 agosto si recita la novena a:

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I. Fu pur grande la vostra fede, o glorioso Sant’Alessandro, allorquando sebben elevato al rango di primo fra i capitani della legione Tebea, ed ammirato ed amato anche dagli stessi gentili, vi dichiaraste…
– San Ludovico (Luigi IX)
I. O degnissimo Figlio del Serafico Patriarca, san Lodovico, Voi tra lo pompe e le delizie d’una splendida corte, e tra i trambusti e le cure d’un vasto regno, mercè della divina grazia che imploraste…
– Santa Monica
I. Gloriosa santa Monica, che fino dall’età la più tenera, accogliendo con santa allegrezza le sante correzioni delle vostre istitutrici, vi emendaste con somma premura d’ogni più leggera imperfezione…

 

 

OPENPOLIS

ParoleChe cosa sono i voti di fiducia

L’esecutivo può decidere di mettere la fiducia su un disegno di legge per velocizzarne l’approvazione. I voti di fiducia nascevano per ricompattare la maggioranza in situazioni eccezionali ma sono diventati sempre più frequenti.

Definizione

Nei sistemi parlamentari come quello italiano, i cittadini non scelgono direttamente il governo. A differenza di quello che a volte viene fatto percepire durante le campagne elettorali infatti ad essere eletti direttamente dal popolo sono solamente i deputati e i senatori. Il presidente del consiglio, i ministri e i sottosegretari sono invece nominati dal presidente della repubblica.

Dopo la nomina però il governo, per poter entrare effettivamente in carica e svolgere quindi le proprie funzioni, deve prima ottenere l’approvazione della maggioranza del parlamento. Questo si esprime attraverso il cosiddetto voto di fiducia, regolato dall’articolo 94 della costituzione.

Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.

Nel tempo l’utilizzo di questo strumento si è sviluppato, tanto che oggi sono distinguibili ben 3 diversi tipi:

  • voto di fiducia su mozioni o risoluzioni, tra cui quelle utilizzate per sancire il sostegno parlamentare alla nascita di ogni nuovo esecutivo;
  • voto di sfiducia nei confronti del governo o di singoli ministri;
  • questione di fiducia su specifici progetti di legge la cui approvazione è considerata decisiva per l’attuazione del programma di governo.

Proprio quest’ultima tipologia è divenuta nel tempo la più ricorrente e fonte di un ampio dibattito, sia tra gli esponenti politici che accademici. Ciò perché l’apposizione della questione di fiducia su un disegno di legge di fatto blinda il provvedimento, facendo decadere anche tutti gli emendamenti presentati.

Tale modalità di voto di fiducia non è espressamente prevista dalla costituzione ed è di fatto regolata dalla consuetudine. Tanto che anche all’interno della dottrina c’è chi sostiene che, formalmente, un voto contrario del parlamento rispetto all’indicazione del governo non comporti necessariamente l’obbligo di dimissioni per quest’ultimo. Tale è però la prassi costituzionale che si è consolidata nel tempo e accettata da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni.

Dati

Considerando i dati relativi alle ultime 4 legislature, compresa quella attualmente in corso, i voti di fiducia su disegni di legge sono stati in totale 336. È stato il periodo compreso tra il 2013 e il 2018 quello in cui si è registrato il maggior numero di voti di questo tipo (108). Tuttavia nella legislatura che si è conclusa nel 2022 le fiduce sono arrivate quasi allo stesso livello (106).

In termini assoluti tra i singoli governi, è stato l’esecutivo guidato da Matteo Renzi ad aver fatto maggiormente ricorso allo strumento (66 voti). Seguono i governi Draghi (55) e Monti (51). Considerando però che nel nostro paese la durata dei governi è molto variabile e non coincide praticamente mai con l’intera legislatura, un buon modo per valutare quanto ogni governo ha fatto ricorso allo strumento è quello di analizzare il numero di questioni di fiducia poste in media al mese. In base a questo indicatore, al primo posto sale il governo Monti con 3 voti di fiducia di media ogni mese. Seguono l’esecutivo Draghi (2,89) e l’attuale guidato da Giorgia Meloni (2,6).

Questo contenuto è ospitato da una terza parte. Mostrando il contenuto esterno accetti i termini e condizioni di flourish.studio.
 
 

FONTE: elaborazione e dati openpolis
(ultimo aggiornamento: mercoledì 9 Agosto 2023)

 

L’esecutivo attualmente in carica ha quindi fatto massiccio ricorso allo strumento. In soli 10 mesi circa infatti (da ottobre 2022 ad agosto 2023) ha posto la questione di fiducia su disegni di legge in 26 occasioni.

Analisi

L’utilizzo sempre più ricorrente dei voti di fiducia sui disegni di legge, specie su quelli di conversione dei decreti, rappresenta una dinamica politica molto controversa e dibattuta.

Con la questione di fiducia il governo sterilizza il dibattito parlamentare.

Ponendo la fiducia infatti il governo lega la propria sopravvivenza a quella del provvedimento in discussione. In questo modo la maggioranza viene richiamata all’ordine, il dibattito sterilizzato ed eventuali posizioni in dissenso con il volere dell’esecutivo, anche da parte di chi lo sostiene, significativamente smorzate.

Con questo strumento certamente si velocizza l’iter legislativo ma al contempo si limitano in maniera considerevole le prerogative del parlamento. I componenti della maggioranza infatti non solo sono tenuti a votare favore del provvedimento se non vogliono far cadere il governo ma non hanno nemmeno la possibilità di presentare proposte di modifica ai testi che vengono di fatto blindati.

Per questo motivo tutte le forze politiche condannano puntualmente il ricorso alla fiducia quando siedono tra i banchi dell’opposizione, salvo poi farne un uso massiccio quando invece ricoprono incarichi di governo.

PROSSIMO POST
 
 
 
 

Santa Rosa da Lima


Santa Rosa da Lima

autore: Carlo Dolci anno: 1640-1687 ca. titolo: Santa Rosa luogo: Palazzo Pitti, Firenze
Nome: Santa Rosa da Lima
Titolo: Vergine
Nome di battesimo: Isabel Flores de Oliva
Nascita: 20 aprile 1586, Lima
Morte: 24 agosto 1617, Lima
Ricorrenza: 23 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Protettrice:
dei fioristigiardinieri
Beatificazione:
15 aprile 1668, Roma, papa Clemente IX
Canonizzazione:
12 aprile 1671, Roma, papa Clemente X
Fu il primo fiore dell’America meridionale. Nacque da ricchi genitori verso la fine del secolo XVI. Fu veramente una « rosa » che crebbe fra le spine; che la vita di lei è tutta un profumo di celestiali virtù tra eroiche penitenze. Fin da fanciulla si distinse per la pietà e per la docilità ai propri genitori. All’età di cinque anni fece il voto di perpetua verginità, eleggendosi per sposo Gesù Cristo. Appena seppe leggere, per prima cosa lesse la vita di S. Caterina da Siena, che scelse a protettrice e di cui cercò di imitare le virtù.

Cresciuta negli anni, cominciò a fare vita più ritirata. I genitori volevano che si sposasse, ma essa, benchè dolente per dover contraddire i genitori, stette ferma nel suo proposito.

Più tardi, meditando le parole del Vangelo: « Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri e vieni e seguimi », si ritirò in un monastero di Domenicane.

In questo nuovo stato di vita, si accrebbe in lei il fervore della carità verso il Signore e attese a vivere nel nascondimento, accettando i lavori più umili, più faticosi, facendo tutto allegramente, come penitenza dei propri peccati.

Questo suo grande amore verso il Signore fu messo a una prova che durò per 15 anni circa, durante i quali ebbe anche a patire persecuzioni da parte di estranei. Ebbe anche lo straordinario dono delle nozze mistiche.

In questa lotta, essa andava ripetendo: « Signore, fatemi soffrire di più, purché non mi sia tolto il vostro amore ». Passata finalmente la bufera, il Signore la volle consolare, favorendola di molte visioni.

S’intratteneva familiarmente con la sua protettrice S. Caterina da Siena, che le appariva di frequente, e Gesù Cristo in una apparizione le disse: O Rosa del mio cuore, tu sei la mia sposa. Ormai Gesù era l’unico suo pensiero e persino durante la notte vegliava pregando.

Gesù intrattenendosi con lei, le disse: « Preparati: gli sponsali si avvicinano ». E il giorno seguente, 24 agosto 1617, tra il pianto delle consorelle, lasciava questa terra, per andare incontro allo Sposo Celeste.

PRATICA. Bisogna ubbidire prima a Dio che agli uomini.

PREGHIERA. O Dio onnipotente, dispensatore di tutti i beni, che, avendo prevenuta con la rugiada della grazia celeste la beata Rosa, volesti che fiorisse nelle Indie come modello di verginità e di pazienza, da’ a noi tuoi servi che, correndo dietro l’odore delle sue virtù, meritiamo di divenire il buon odore di Cristo.

MARTIROLOGIO ROMANO. Santa Rosa, vergine, che, insigne fin da fanciulla per la sua austera sobrietà di vita, vestì a Lima in Perù l’abito delle Suore del Terz’Ordine regolare dei Predicatori. Dedita alla penitenza e alla preghiera e ardente di zelo per la salvezza dei peccatori e delle popolazioni indigene, aspirava a donare la vita per loro, giungendo a imporsi grandi sacrifici, pur di ottenere loro la salvezza della fede in Cristo. La sua morte avvenne il giorno seguente a questo.

ICONOGRAFIA

Santa Rosa da Lima è stata la prima santa iberoamericana, ed è divenuta popolare in America latina già appena dopo la sua morte ; dopo la canonizzazione, nel 1671, il suo culto si afferma anche in Italia meridionale trovando ampia diffusione tra i domenicani e la Santa, terziaria domenicana, viene rappresentata quasi sempre nel gruppo dei Santi che accompagnano l’ iconografia della Madonna del Rosario.

S. Rosa col Bambino Gesù

titolo S. Rosa col Bambino Gesù
autore Scuola di Cusco anno 1680-1700

L’abbigliamento con cui viene raffigurata di frequente la Santa è una tonaca bianca e un manto nero, quasi sempre la sua testa è cinta da una coroncina di rose per ricordare le penitenze a cui si è sottoposta da ragazza.

Visione di Santa Rosa da Lima

titolo Visione di Santa Rosa da Lima
autore Lazzaro Baldi anno 1668

La scelta di raffigurare episodi della vita della santa ebbe poco seguito, così come le immagine delle sue visioni mistiche, poco diffuse. Alcune eccezioni sono ad esempio il dipinto di Lazzaro Baldi “La visione di Santa Rosa da Lima” risalente al 1671 e conservato ad Ariccia nel Museo barocco. La Santa appare distesa attorniata da angeli e alle sue spalle il Cristo con una bilancia in mano, che le porge da una parte corone e scettri e dall’altra spine e cilici.

Nozze mistiche di Santa Rosa

titolo Nozze mistiche di Santa Rosa
autore Nicolás Correa anno 1691

Santa Rosa inoltre è stata inserita nella tradizionale iconografia dei Misteri Gaudiosi, Dolorosi e Gloriosi fra il gruppo dei Santi adoranti. Come detto ella è facilmente distinguibile per la presenza del manto nero e della corona di rose e spine sul capo, ha spesso le mani incrociate sul petto e si rivolge adorante verso il Bambino. Altro elemento presente nell’iconografia che la riguarda è l’usignolo, con il cui canto gareggiava mentre si trovava nell’eremo.

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Domande Frequenti

  • Quando si festeggia Santa Rosa da Lima?

  • Chi è il santo protettore dei fioristi?

  • Quando nacque Santa Rosa da Lima?

  • Dove nacque Santa Rosa da Lima?

  • Quando morì Santa Rosa da Lima?

  • Dove morì Santa Rosa da Lima?

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Oggi 23 agosto si venera:

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VergineFu il primo fiore dell’America meridionale. Nacque da ricchi genitori verso la fine del secolo XVI. Fu veramente una « rosa » che crebbe fra le spine; che la vita di lei è tutta un profumo di celestiali…

Domani 24 agosto si venera:

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ApostoloL’apostolo S. Bartolomeo era galileo e probabilmente pescatore come la maggior parte degli Apostoli. Scelto da Gesù, Natanaele, il suo nome originario, ebbe anch’egli la felice sorte di nutrire l’anima…
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I. Per quella vivissima consolazione che voi, o glorioso s. Agostino, arrecaste a Santa Monica vostra madre e a tutta quanta la Chiesa, allorquando, animato dall’esempio del romano Vittorino o dai discorsi…
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I. Per quello spirito singolarissimo d’orazione onde voi, o grande apostolo s. Bartolomeo, non lasciaste mai passar giorno senza prostrarvi più volte infine a terra in ossequio alla divina Maestà, malgrado…
– San Ludovico (Luigi IX)
I. O degnissimo Figlio del Serafico Patriarca, san Lodovico, Voi tra lo pompe e le delizie d’una splendida corte, e tra i trambusti e le cure d’un vasto regno, mercè della divina grazia che imploraste…
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I. Gloriosa santa Monica, che fino dall’età la più tenera, accogliendo con santa allegrezza le sante correzioni delle vostre istitutrici, vi emendaste con somma premura d’ogni più leggera imperfezione…

 

 

Beata Vergine Maria Regina

 

Beata Vergine Maria Regina


Beata Vergine Maria Regina

autore: Diego Velázquez anno: 1641-1644 titolo: Incoronazione della Vergine luogo: Museo del Prado, Madrid
Nome: Beata Vergine Maria Regina
Titolo: Regina del cielo e Madre di misericordia
Ricorrenza: 22 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Memoria liturgica
Patrona di:
Apricena

L’undici ottobre 1954, S. S. Pio XII istituì la festa della Regalità di Maria, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo il giorno 31 maggio; fu poi trasferita al 22 agosto, giorno ottavo dell’Assunzione, per sottolineare il legame della regalità di Maria con la sua glorificazione corporea.

Con tale festa il Papa ha voluto sigillare, con la sua autorità, la voce dei monumenti antichi e delle preghiere liturgiche e il senso del popolo cristiano, che attribuirono perennemente alla Vergine la dignità regale.

Non si tratta quindi di una nuova verità proposta al popolo cristiano, perché il fondamento e le ragioni della dignità regale di Maria, abbondantemente espresse in ogni età, si trovano nei documenti antichi della Chiesa e nei libri della sacra liturgia.

Infatti fin dai primi secoli della Chiesa Cattolica il popolo cristiano ha elevato preghiere e inni di lode e di devozione alla Regina del Cielo, sia nelle circostanze liete, sia, e molto più, nei periodi di gravi angustie e pericoli; nè vennero meno le speranze riposte nella Madre del Re Divino, Gesù Cristo; e la fede dí coloro che sempre credettero che la Vergine Maria, Madre di Dio, presiede all’universo con cuore materno, spesse volte fu premiata con grazie elette e divini favori.

Il primo e più profondo motivo della dignità regale di Maria consiste nella sua maternità divina. Poichè Cristo, per l’unione ipostatica è, anche come uomo, Signore e Re di tutta la creazione, così Maria, « la Madre del Signore », partecipa, benchè in modo analogo, alla dignità regale del suo Figlio.

A buon diritto quindi S. Giovanni Damasceno scrive: « Maria è veramente diventata la Signora di tutta la creazione, nel momento in cui divenne Madre del Creatore; e lo stesso Arcangelo Gabriele può dirsi l’araldo della dignità regale di Maria ».

La Beatissima Vergine è Regina non soltanto come conseguenza della maternità divina, ma anche per la parte singolare che, per volontà di Dio, ebbe nell’opera della Redenzione. Infatti come Cristo è nostro Signore e Re anche per il fatto che ci ha redenti col suo prezioso Sangue, così Maria, in modo analogo, è pure nostra Regina, perchè prese intima parte, come nuova Eva, all’opera redentrice di Cristo, novello Adamo, soffrendo con Lui ed offrendolo all’Eterno Padre.

E’ certo che in senso pieno, proprio e assoluto, soltanto Gesù Cristo, Dio e Uomo, è Re; tuttavia anche Maria, sia come Madre di Cristo Dio, sia come socia nell’opera del Divin Redentore e nella lotta contro i nemici e nel trionfo ottenuto su di essi, partecipa alla sua dignità regale.

Infatti da questa unione con Cristo Re deriva a Lei tale splendore e sublimità da superare l’eccellenza di tutte le cose create: da questa stessa unione con Cristo nasce quella regale potenza per cui Ella può dispensare i tesori del regno del Divin Redentore; infine dalla stessa unione con Cristo ha origine la inesauribile efficacia della sua materna intercessione presso il Figlio e presso il Padre.

Nessun dubbio pertanto che Maria SS.ma sopravanzi in dignità tutta la creazione e abbia su tutti il primato, dopo il suo Figliuolo.

Se il mondo oggi lotta senza tregua per assicurare la pace, l’invocazione del regno di Maria è più efficace di tutti i mezzi terreni per ottenere questo scopo.

Pertanto tutti i fedeli cristiani si sottomettano all’impero della Vergine Madre di Dio, la quale mentre dispone di un potere regale, arde di un materno amore.

PRATICA: Magnifichiamo con legittimo orgoglio di figli la regalità di Maria e proponiamo di riconoscere nella Vergine la nostra vera Madre e Regina. Proponiamo di avvicinarci con maggior fiducia al trono di grazia e di misericordia della Regina e Madre nostra, per chiedere soccorso nelle avversità, luce nelle tenebre, conforto nel dolore e nel pianto, e soprattutto per ottenere in terra quella pace che è il pegno della beatitudine eterna del Paradiso.

PREGHIERA: « …Vergine Augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, nè trionfi contro di me l’iniquo avversario » (S. Efrem).

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria della beata Maria Vergine Regina, che generò il Figlio di Dio, principe della pace, il cui regno non avrà fine, ed è salutata dal popolo cristiano come Regina del cielo e Madre di misericordia.

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Consolatrice degli AfflittiConsolatrice degli Afflitti. Questo il titolo attribuito a Maria, madre di Gesù, sin dai primi tempi del Cristianesimo. Ma da cosa deriva questa “natura…

Maria Madre della Chiesa

– Maria Madre della Chiesa
Madre dei fedeli e dei pastori della ChiesaIl giorno 11 febbraio 2018 su volontà di Papa Francesco la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha iscritto nel Calendario…

Beata Vergine Maria della Mercede

– Beata Vergine Maria della Mercede
Maria misericordiosaIl primo agosto del 1218, festa di San Pietro in Vincoli, il fondatore dei Mercedari Pietro Nolasco ebbe una visione della Santissima Vergine, la quale…

Nostra Signora del Pilar

– Nostra Signora del Pilar
Protettrice degli ispaniciLa parola pilar nella lingua spagnola significa letteralmente pilastro. Il 2 gennaio del 40 a Saragozza la Vergine apparve all’Apostolo Giacomo deluso…

Maria che scioglie i nodi

– Maria che scioglie i nodi
Risolutrice delle avversità Maria che scioglie i nodi è rappresentata in un dipinto del 1600 di Georg Melchior Schmidtner conservato nella chiesa di San Pietro ad Augusta (Augsburg)…

Madonna di Czestochowa

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Il quadro miracolosoUn’antica icona della Madonna Nera viene venerata fin dal secolo XIV a Jasna Góra. Secondo quanto tramanda la tradizione religiosa, l’icona sarebbe stata…

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ApparizioneSecondo la leggenda, l’immagine della Vergine fu ritrovata da alcuni fanciulli che accudivano un gregge dentro una grotta nell’880, dopo aver visto una…

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Oggi 22 agosto si venera:

Beata Vergine Maria Regina

Beata Vergine Maria Regina
Regina del cielo e Madre di misericordiaL’undici ottobre 1954, S. S. Pio XII istituì la festa della Regalità di Maria, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo il giorno 31 maggio; fu poi trasferita al 22 agosto, giorno ottavo dell’Assunzione…
 

Domani 23 agosto si venera:

Santa Rosa da Lima

Santa Rosa da Lima
VergineFu il primo fiore dell’America meridionale. Nacque da ricchi genitori verso la fine del secolo XVI. Fu veramente una « rosa » che crebbe fra le spine; che la vita di lei è tutta un profumo di celestiali…

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Oggi 22 agosto nasceva:

San Luigi Martin
Padre di S. Teresa di Gesù Bambino

Oggi 22 agosto si recita la novena a:

– Sant’ Agostino
I. Per quella vivissima consolazione che voi, o glorioso s. Agostino, arrecaste a Santa Monica vostra madre e a tutta quanta la Chiesa, allorquando, animato dall’esempio del romano Vittorino o dai discorsi…
– Sant’ Alessandro di Bergamo
I. Fu pur grande la vostra fede, o glorioso Sant’Alessandro, allorquando sebben elevato al rango di primo fra i capitani della legione Tebea, ed ammirato ed amato anche dagli stessi gentili, vi dichiaraste…
– San Bartolomeo
I. Per quello spirito singolarissimo d’orazione onde voi, o grande apostolo s. Bartolomeo, non lasciaste mai passar giorno senza prostrarvi più volte infine a terra in ossequio alla divina Maestà, malgrado…
– San Ludovico (Luigi IX)
I. O degnissimo Figlio del Serafico Patriarca, san Lodovico, Voi tra lo pompe e le delizie d’una splendida corte, e tra i trambusti e le cure d’un vasto regno, mercè della divina grazia che imploraste…
– Santa Monica
I. Gloriosa santa Monica, che fino dall’età la più tenera, accogliendo con santa allegrezza le sante correzioni delle vostre istitutrici, vi emendaste con somma premura d’ogni più leggera imperfezione…
– Santa Rosa da Lima
I. Ammirabile santa Rosa, eletta da Dio ad illustrare con la santità la più eccelsa la nuova cristianità dell’America o specialmente la capitale dell’immenso Perù, voi che, appena letta la vita di s. Caterina…

San Samuele

 

San Samuele


San Samuele

autore: John Singleton Copley anno: 1780 titolo: Eli e Samuel luogo: Wadsworth Atheneum, Stati Uniti
Nome: San Samuele
Titolo: Giudice e profeta d’Israele
Nascita: 1070 a. C circa, Rama, Palestina
Morte: 950 a. C circa, Israele
Ricorrenza: 20 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione

Svolge la sua missione nella seconda metà dell’XI secolo a.C., durante il regno di Saul e i primi anni di quello di Davide. I diversi capitoli a lui dedicati presentano in ruoli diversi: capo militare, giudice, veggente, sacerdote, profeta. In seguito è considerato intercessore del popolo come Mosè, uomo di preghiera, come Aronne perfino Levita, pur prevalendo la natura di profeta. Le diverse tradizioni sono concordi nel presentarlo come un servitore disinteressato di Dio e del popolo.

Chiamato al ministero profetico

Samuele l'infante

titolo Samuele l’infante
autore Joshua Reynolds anno 1776

Nato in un contesto di amore matrimoniale, eccezionale al punto da essere notato dalla Bibbia, da Elkana e Anna che lo ha richiesto incessantemente al Signore e al quale lo «cede» Samuele («nome di Dio») è assimilato a Gedeone attraverso il genere letterario dell’«annuncio», che verrà usato per l’Emmanuele, il Battista e Gesù.

La madre, liberata dalla sterilità, segnala la futura liberazione del popolo dai Filistei, in conformità alla sua preghiera: «Il Signore solleva dalla polvere il misero e innalza il povero dall’immondizia». Samuele diventa profeta con gradualità, dopo cicli di formazione come indicano le tre chiamate del racconto «pedagogico», segnando un passaggio nella concezione del profeta da uomo della visione a mediatore della Parola.

Samuele «non lasciò andare a vuoto una sola delle parole del Signore… e la parola di Samuele giunse a tutto Israele come parola del Signore». Egli trasmette ora un messaggio di giudizio contro la corrotta casa di Eli o verso Saul, ora è mediatore di una parola di luce, di esortazione, di liberazione. Samuele risulta inoltre coerente e disinteressato.

Dopo l’istituzione del re quale nuova guida si ritira umilmente e chiede il giudizio popolare in relazione alla trasparenza del suo operato. Diventa inflessibilmente la coscienza critica del re Saul che offre un sacrificio compiendo un atto di insubordinazione, accetta il pentimento sincero del popolo, non rifiuta la compagnia del gruppo estatico dei «profeti», senza lasciarsi coinvolgere nei loro gesti stravaganti.

Media il passaggio dalla giudicatura alla monarchia

«Giudice per tutto il tempo della sua vita», non è chiaro il ruolo avuto nell’istituzione della monarchia. Alcuni testi lo presentano decisamente contrario. Samuele giudica infatti un vero peccato la richiesta del popolo di avere un re, in quanto segno di un rifiuto della regalità divina, imitazione dell’idolatria degli altri popoli, rischio per la libertà e l’equa distribuzione dei beni che si sarebbero concentrati nel potere di uno solo.

Altri passi lo attestano favorevole, in quanto Samuele esegue un comando del Signore, ungendo Saul come «principe» e poi come «re» e ripetendo in seguito l’unzione per Davide. È probabile che Samuele abbia acconsentito e incoraggiato il graduale nascere della monarchia vedendo in essa il rimedio provvidenziale contro i Filistei, collaborando così al sorgere di quel messianismo regale, sottolineato da Isaia e dai salmi regali e pienamente realizzato in Cristo.

Samuele viene ricordato il 20 agosto nei martirologi occidentali e nei sinassari bizantini. L’iconografia riprende alcuni episodi della sua vita: la sua consacrazione al tempo di Silo, il sacrificio dell’agnello per salvare Israele contro i Filistei, l’unzione di Davide.

MARTIROLOGIO ROMANO. Commemorazione di san Samuele, profeta, che, chiamato da Dio fin da piccolo e divenuto poi giudice in Israele, unse, per ordine del Signore, Saul re sul suo popolo; e dopo che Dio ebbe ripudiato costui per la sua infedeltà, diede l’unzione regale anche a Davide, dalla cui stirpe sarebbe nato Cristo.

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Oggi 20 agosto si venera:

San Samuele

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Giudice e profeta d’IsraeleSvolge la sua missione nella seconda metà dell’XI secolo a.C., durante il regno di Saul e i primi anni di quello di Davide. I diversi capitoli a lui dedicati presentano in ruoli diversi: capo militare…
 

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San Pio X

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Sant' Alberto Chmielowski

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MICHELA MURGIA : La Scrittrice

 

 

MICHELA MURGIA: La scrittrice

La vincitrice del Premio Campiello che sogna una Sardegna indipendente (1972-)

Nasce a Cabras nel 1972. Di formazione cattolica è stata educatrice[ ed animatrice nell’Azione Cattolica, ricoprendo il ruolo di Referente Regionale del settore Giovani. Ha ideato uno spettacolo teatrale rappresentato nella piana di Loreto al termine del pellegrinaggio nazionale dell’Azione Cattolica del settembre 2004, al quale ha assistito anche Papa Giovanni Paolo II.

Ma rispetto alla sua vita, ecco quanto lei stessa scrive nel suo Sito ufficiale: “Sono nata in Sardegna e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine. Mi sono diplomata in una scuola tecnica e dopo ho fatto studi teologici, ma questo non ha fatto di me una teologa, almeno non più di quanto studiare filosofia faccia diventare la gente filosofa. Non mi piace essere definita giovane, a 37 anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto. Non fumo, non porto gioielli preziosi, detesto i graziosi cadaveri dei fiori recisi, i giornalisti che mi chiedono quanto c’è di autobiografico e gli aspiranti pubblicatori che mi mandano da valutare romanzi che non leggerò mai, perché preferisco di gran lunga i saggi. Sono vegetariana, ma so riconoscere le occasioni in cui si può fare uno strappo. Per etica politica mi definisco di sinistra, e nel mio ordine interiore quella parola ha ancora senso. Sono sposata, e questo mi ha resa una persona più trattabile, anche se mi rendo conto che a leggere questa biografia non si direbbe”

Nel 2006 ha pubblicato Il mondo deve sapere, la tragicomica storia di una ragazza al lavoro in un call center che ha poi ispirato il film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti.  Dal libro è stata anche tratta un’opera teatrale per la regia di David Emmer.

Michela Murgia racconta, con tono esilarante e con ironia,  la storia una ragazza laureata, Camilla, che trova impiego come telefonista presso il call-center di un’azienda che vende elettrodomestici porta a porta, offrendo una versione del precariato vissuto in prima persona, sulla propria pelle e dunque visto dall’interno.

Nel 2008 ha pubblicato Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede: ovvero oltre l’Isola oleografica delle cartoline e dei depliant turistici, rivelandone la storia, le leggende, i riti e le scaramanzie, il carattere della sua gente: una sorta di guida insomma ai luoghi meno esplorati di un’Isola. dai mille misteri a cominciare dai suoi abitanti, così diversi e dissonanti rispetto agli italiani.

Questa storia – scrive Murgia –  è un viaggio in compagnia di dieci parole, dieci concetti alla ricerca di altrettanti luoghi, più uno. Undici mete, perché i numeri tondi si addicono solo alle cose che possono essere capite definitivamente. Non è così la Sardegna, dove ogni spazio apparentemente conquistato nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatamente, conservando la misteriosa verginità delle cose solo sfiorate.

Nel maggio 2009 ha pubblicato il romanzo Accabadora, una storia che intreccia nella Sardegna degli anni cinquanta i temi dell’eutanasia e dell’adozione. Il romanzo è uscito in traduzione tedesca nel 2010 per l’editore Wagenbach. Con questo libro ha vinto la sezione narrativa del Premio Dessì nel settembre 2009, il SuperMondello nell’ambito del Premio Mondello nel maggio 2010 e nel settembre dello stesso anno il Premio Campiello.

A proposito di Accabadora Angiola Codacci-Pisanelli, sul Settimanale L’espresso del 05-06-2009  scrive: “Sarebbe bello leggere ‘Accabadora’ di Michela Murgia (Einaudi) senza sapere cosa vuol dire il titolo, e scoprire insieme alla protagonista, Maria, qual è la professione segreta della sua madre adottiva, Tzia Bonaria Urrai. Sarebbe bello ma non si può: la quarta di copertina lo spiega subito. ‘Acabar’ in spagnolo significa finire, e nella Sardegna di ieri – e forse di oggi – ‘accabadora’ è ‘colei che finisce’, colei che porta al moribondo e alla famiglia stremati dall’agonia la ‘dolce morte’. Ma non è un libro sull’eutanasia, questo romanzo della Murgia, un’altra esordiente che la febbre di nomi nuovi lancia nelle librerie in questo 2009. Malgrado la foto funerea in copertina, c’è più amore che morte in queste pagine, e c’è uno stile che disegna ogni personaggio, ogni scena, ogni frase con l’accuratezza con cui Tzia Bonaria Urrai cesella le asole. Maria nasce, quarta figlia femmina non voluta, in una famiglia poverissima, cresce come “filla de anima” di una vecchia sarta che cuce per i clienti i vestiti della festa e, quando serve l’ultimo ‘cappotto’: lo dice lei stessa ridendo tra sé, con un umorismo che corre sottotraccia per tutto il libro. Quando intuisce di cosa la sua madre “de anima” vorrebbe farla erede, Maria fugge. Ma neanche Torino è abbastanza lontana, anche lì ci sono drammi segreti, amori impossibili, e il richiamo di un destino che diventa tale solo quando lo si accetta”.

Nel 2011 ha pubblicato Ave Mary, il libro, come ci tiene a sottolineare l’autrice, non è un saggio ma una conversazione con le donne e sulle donne. Contrariamente al titolo, non è un libro su Maria, ma proprio da Maria – madre di Gesù – trae spunto per discutere delle condizioni impari con cui la donna, attraverso i secoli, ha sempre dovuto combattere.

 

 

Presentazione del testo [tratto da Accabadora, Ed. Einaudi, Torino, 2009, pagine 3-9].

Maria «la quarta» femmina di una madre vedova, Anna Teresa Listru, per cui rappresenta un problema, un’ulteriore bocca da nutrire, l’errore dopo tre cose giuste più che una figlia da amare.  finisce a vivere in casa di Bonaria Urrai. Diventa così fill’ e anima  di Tzia Bonaria: una vecchia da quando era giovane, vestita di nero, vedova di un marito che non l’aveva mai sposata. Ma, per fortuna ricca. Perché se non fosse nata ricca, Bonaria Urrai avrebbe fatto la fine di tutte quelle rimaste senza uomo, altro che prendersi una fill’e anima.

Ma perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che si fa fatica a comprendere a Soreni, di qui i commenti malevoli della gente, che accompagnano le loro camminate in quelle strade del paese che sembrano emerse dalle case stesse come scarti sartoriali, ritagli, scampoli sbilenchi, ricavate una per una dagli spazi casualmente sopravissuti al sorgere irregolare delle abitazioni, che si tenevano in piedi l’una all’altra come vecchi ubriachi dopo la festa del patrono.

Ma il mistero è presto svelato: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, per farla crescere e farne la sua erede, sottraendola alla povertà estrema della sua vera famiglia, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Maria abituata a pensarsi, lei per prima, come «l’ultima», è  sorpresa dal rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo.

Ma c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce. Quello che tutti sanno è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa a chi è stremato dall’agonia. Ma Maria, inizialmente non lo immagina e non lo sospetta neppure. Quando lo scopre e se ne avvede segue il consiglio della maestra Luciana: Ti serve un’altra vita, dove nessuno sappia chi sei, di chi o di cosa sei figlia. Per ricominciare altrove, tagliarsi il cordone in un momento preciso dell’esistenza seclto da lei, senza levatrici né debiti apparenti.

E Maria fugge a Torino. Ma ritorna. Come richiamata da un destino che si accetta.

 

CAPITOLO PRIMO

“Fillus de anima.

È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.
Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l’errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava da sola per terra a fare una torta di fango impastata di formiche vive, con la cura di una piccola donna. Muovevano le zampe rossastre nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo e lo zucchero di sabbia. Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive. Quando la bambina sollevò la testa dal fango, vide accanto a sé Tzia Bonaria Urrai in controluce che sorrideva con le mani appoggiate sul ventre magro, sazia di qualcosa che le aveva appena dato Anna Teresa Listru. Cosa fosse con esattezza, Maria lo capì solo tempo dopo.

Andò via con Tzia Bonaria quel giorno stesso, tenendo la torta di fango in una mano, e nell’altra una sporta piena di uova fresche e prezzemolo, miserabile viatico di ringraziamento.
Maria sorridendo intuiva che da qualche parte avrebbe dovuto esserci un motivo per piangere, ma non riuscì a farselo venire in mente. Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo, nel momento misterioso in cui le figlie bambine decidono da sole cosa è meglio impastare dentro il fango delle torte. Per anni ricordò invece il cielo caldo e i piedi di Tzia Bonaria nei sandali, uno che usciva e uno che si nascondeva sotto l’orlo della gonna nera, in un ballo muto di cui a fatica le gambe seguivano il ritmo.
Tzia Bonaria le diede un letto solo suo e una camera piena di santi, tutti cattivi. Lì Maria capì che il paradiso non era un posto per bambini. Due notti stette zitta vegliando con gli occhi tesi nel buio per cogliere lacrime di sangue o scintille dalle aureole. La terza notte si fece vincere dalla paura del sacro cuore col dito puntato, reso visibilmente minaccioso dal peso di tre rosari sul petto zampillante. Non resistette più e gridò. Tzia Bonaria aprì la porta dopo nemmeno un minuto, trovando Maria in piedi accanto al muro che stringeva il cuscino di lana irsuta eletto a cucciolo difensore. Poi guardò la statua sanguinante, più vicina al letto di quanto fosse sembrata mai. Prese sottobraccio la statua e la portò via senza una parola; il giorno dopo sparirono dalla credenza anche l’acquasantiera con santa Rita disegnata dentro e l’agnello mistico di gesso, riccio come un cane randagio, feroce come un leone. Maria ricominciò a dire l’Ave solo dopo un po’, ma a bassa voce, perché la Madonna non sentisse e la prendesse sul serio nell’ora della nostra morte amen.

Quanti anni avesse Tzia Bonaria allora non era facile da capire, ma erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse pazientemente di esser raggiunta dal tempo in ritardo. Maria invece era arrivata troppo tardi anche al ventre di sua madre, e sin da subito aveva fatto 1’abitudine a essere l’ultimo pen­siero di una famiglia che ne aveva già troppi. Invece in ca­sa di quella donna sperimentava l’insolita sensazione di es­sere diventata importante. Quando la mattina si lasciava alle spalle la porta e stringeva il sussidiario verso la scuo­la, aveva la certezza che se si fosse voltata l’avrebbe tro­vata li a guardarla, appoggiata allo stipite come a regger­ne i cardini.

Maria non lo sapeva, ma era soprattutto di notte che la vecchia c’era, in quelle notti comuni senza nessun pecca­to a cui dare la colpa di essere svegli. Entrava nella came­ra silenziosamente, si sedeva davanti al letto dove lei dor­miva e la fissava nel buio. In quelle notti la ragazzina, che. tra i pensieri di Bonaria Urrai credeva di essere il primo, dormiva senza ancora conoscere il peso di essere l’unico.

Perché Anna Teresa Listru avesse dato la figlia mino­re alla vecchia, a Soreni lo si capiva anche troppo bene. Ignorando i consigli della gente di casa aveva sbagliato ma­trimonio, passando i successivi quindici anni a lamentarsi di quell’uomo che si era dimostrato capace di far bene una sola cosa. Con le vicine, Anna Teresa Listru amava lagnar­si di come il marito non fosse riuscito a esserle utile nem­meno in morte, avendo magari la buona grazia di crepare in guerra per lasciarle una pensione. Riformato per sua po­chezza, Sisinnio Listru era finito stupidamente come era vissuto, schiacciato come un acino nel torchio sotto il trat­tore di Boreddu Arresi, per cui faceva ogni tanto il mez­zadro. Rimasta vedova con quattro figlie femmine, Anna Teresa Listru da povera si era fatta misera, imparando a fare il bollito – diceva – anche con 1’ombra del campani­le. Adesso che Tzia Bonaria aveva chiesto Maria in figlia, non le sembrava vero di poter infilare tutti i giorni nella minestra anche due patate dei terreni degli Urrai. Se il prezzo era la creatura, poco male: lei di creature ne aveva ancora altre tre.

Perché invece Tzia Bonaria Urrai si fosse presa in casa la figlia di un’ altra a quell’ età, davvero non lo capiva nes­suno. I silenzi si allungavano come ombre quando la vec­chia e la bambina passavano per le vie insieme, suscitan­do code di discorsi a mezza voce sugli scanni del vicinato. Bainzu il tabaccaio si beava di scoprire come anche un ric­co, invecchiando, avesse bisogno di due mani per farsi pu­lire il culo. Ma Luciana Lodine, la figlia grande dell’idrau­lico, non vedeva necessità di procurarsi un’ erede per sop­perire a quello che poteva fare qualunque serva pagata bene. Ausonia Frau, che di culi ne sapeva più di un’infer­miera, amava chiudere il discorso sentenziando che nean­che la volpe vuole morire sola, e a quel punto nessuno di­ceva più nulla.

Certo, se non fosse nata ricca, Bonaria Urrai avrebbe fatto la fine di tutte quelle rimaste senza uomo, altro che prendersi una fill’e anima. Vedova di un marito che non l’aveva mai sposata, in altre condizioni sarebbe forse sta­ta bagassa, oppure suora di casa o di convento, con le im­poste sempre chiuse e il nero addosso finché avesse avuto respiro. A rubarle l’abito da sposa era stata la guerra, an­che se qualcuno in paese diceva che non era vero che Raf­faele Zincu sul Piave c’era morto: più facile che, furbo’ com’era, avesse trovato femmina lì, e si fosse risparmiato il viaggio per venire a spiegare. Forse era questo il motivo per cui Bonaria Urrai era vecchia da quando era giovane, e nessuna notte a Maria sembrava nera come la sua gon­na. Ma di vedove di mariti vivi il paese era pieno, lo sape­vano le donne che sparlavano e lo sapeva anche Bonaria Urrai, per questo quando usciva ogni mattina a prendere il pane nuovo al forno, camminava con la testa alta e non si fermava mai a parlare, tornando a casa dritta come la ri­ma di un’ ottava cantata.

In quella decisione di prendere una fill’ e anima, la co­sa più difficile per Bonaria non era stata certo la curiosità della gente, ma la reazione iniziale della bambina che si era portata in casa. Dopo sei anni di notti passate a con­dividere l’aria di una sola stanza con le tre sorelle, era evi­dente che lo spazio che Maria considerava suo non anda­va oltre la lunghezza del braccio. L’arrivo nella casa di Bo­naria Urrai sconvolse questa geografia interiore; tra quelle mura gli spazi solo suoi erano cosi ampi che la bambina ci mise alcune settimane a capire che dalle porte delle molte camere chiuse non sarebbe comparso nessuno a dire «Non toccare, questo è mio». Bonaria Urrai non fece mai l’erro­re di invitarla a sentirsi a casa propria, né aggiunse altre di quelle banalità che si usano per ricordare agli ospiti che in casa propria non si trovano affatto. Si limitò ad aspet­tare che gli spazi rimasti vuoti per anni prendessero gra­dualmente la forma della bambina, e quando in capo a un mese le porte delle stanze erano state tutte aperte per ri­manere tali, ebbe la sensazione di non aver sbagliato a la­sciar fare alla casa. Una volta che si senti forte della nuo­va confidenza acquisita con quelle mura, Maria cominciò a mostrarsi via via più curiosa della donna che l’aveva con­dotta a viverci.

– Di chi siete figlia voi, Tzia? – disse un giorno, con la bocca piena di minestra.

– Mio padre si chiamava Taniei Urrai, era quel signo­re là …

Bonaria indicò la vecchia foto brunita appesa sopra il camino, dove Daniele Urrai impettito nel corpetto di velluto dimostrava forse trent’ anni, e tutto poteva sembrare alla bambina fuorché il padre della vecchia che aveva da­vanti. Bonaria le lesse l’incredulità sul viso roseo.

– Lì era giovane, io non ero ancora nata, – precisò.

– E mamma non ne avevate? – incalzò Maria, che evidentemente con l’idea che si potesse essere figlie di un pa­dre non aveva particolare confidenza.

– Certo che ne avevo, si chiamava Anna. Ma è morta tanti anni fa anche lei.

– Come mio padre, – aggiunse seria Maria. – A volte

lo fanno.

Bonaria rimase stupita da quella precisazione. – Cosa?

– Lo fanno. Muoiono prima che nasciamo -. Maria la

guardò paziente. Poi aggiunse malvolentieri: – Me lo ha detto Rita, la figlia di Angela Muntoni. Anche a lei suo babbo era morto prima.

Durante la spiegazione il cucchiaio si agitava nell’ aria come l’archetto di un orchestrale.

– Si, alcuni lo fanno. Ma non tutti, – disse Bonaria, os­servandola con un sorriso vago.

– Non tutti, certo, – convenne Maria. – Uno almeno deve rimanere. Per i bambini. Ecco perché i genitori so­no sempre due.

Bonaria annui, infilando a sua volta il cucchiaio nella minestra, convinta di aver chiuso il discorso.

– Voi eravate due?

Bonaria finalmente capi, e senza smettere di mangiare, parlò con il tono quasi casuale che aveva usato fino a quel momento.

– Si, eravamo due. Il mio sposo è morto anche lui.

– Oh. È morto … – fece eco Maria dopo un istante, indecisa tra il sollievo e il dispiacere.

– Si, – fece Bonaria a sua volta seria. – A volte lo fanno. Con il conforto di quella personale statistica, la bam­bina riprese a soffiare piano sulla minestra. Ogni tanto, sollevando gli occhi dai vapori del cucchiaio, incrociava quelli di Tzia Bonaria, e le veniva da sorridere.

Da quel momento, quando Bonaria usciva al mattino a comprare il pane, Maria prese ad aspettarla seduta al ta­volo della cucina con i piedi ciondoloni, contando in silen­zio i colpi della scarpa di gomma contro la sedia finché sa­peva i numeri. Intorno a tre volte cento Tzia Bonaria tor­nava, e allora prima di andare a scuola mangiavano pane caldo e fichi infornati.

– Mangia Maria, che ti crescono le tette! – cosi diceva Tzia, battendosi una mano sul poco seno rimastole.

Maria ridendo mangiava i frutti a due a due, poi corre­va in camera con i semi dei fichi ancora tra i denti a con­trollare, perché tutto quello che diceva Tzia Bonaria era legge di Dio in terra. Eppure in tredici anni che visse con lei, nemmeno una volta Maria la chiamò mamma, che le madri sono una cosa diversa”.

 

Giudizio critico

Valeria Parrella  nel Settimanale Grazia scrive: “Michela Murgia, attingendo alla potenza della letteratura, traspone il dibattito attuale su testamento biologico ed eutanasia in un universo mitico, donandoci la possibilità di tornare a pensarvi senza urlare, con la giusta forza e delicatezza”.

Mentre Paola Pittalis sul Quotidiano La Nuova Sardegna sostiene:”È lei, l’accabadora, la protagonista del primo romanzo di Michela Murgia. Sullo sfondo una questione etica, tra le più delicate e drammatiche che la modernità abbia prodotto. Senza che mai Michela Murgia, con grande eleganza, cavalchi il dibattito sull’eutanasia riferendosi a episodi della cronaca recente. […] Nel romanzo la scommessa etica diventa una scommessa narrativa e linguistica. Una narrazione senza idillio e senza retorica, senza luoghi comuni. Una lingua nitida, densa di aforismi e di ossimori, di immagini che colgono il segreto legame fra vita e morte”.

A sua volta Natalia Aspesi su la Repubblica a proposito di Ave Mary commenta: “Da un paio d’anni per fortuna c’è stato un risveglio di brontolii femminili colti, intelligenti, creativi, appassionati, impeccabili, sottoforma di saggi di successo […]. In questo fervore di scrittura femminile molto terrena, che chiama in causa i poteri contemporanei, la politica, la televisione, la pubblicità, le escort e le ministre con il tacco a spillo, appare finalmente il personaggio più inaspettato, umano e celestiale, antico ed eterno, celebre e sconosciuto, mitico e universale, da imitare e inimitabile: la Madonna. […] Ave Mary intreccia sapienza e ironia, Sacre Scritture e vita, non dando tregua a tutti gli e errori che credenti chic e atei devoti hanno scritto e soprattutto diffuso attraverso la televisione.

ANALIZZARE

Sbaglia chi pensasse che Accabadora sia un romanzo sull’eutanasia. Il tema del fine vita è collaterale, ha affermato la scrittrice in una intervista. Il tema centrale è invece la comunità. Che, nella sua scrittura torna sempre.

Credo – è sempre la Murgia ad affermarlo – che alla letteratura spetti il compito di restituire la realtà desiderata. Siccome vivo in un contesto in cui si tenta di isolare il singolo, reagisco raccontando storie in cui la comunità, al contrario, lo sostiene.

Storie emotivamente molto forti in cui  mette in stretto rapporto – come ha scritto Angiola Codacci- Pisanelli sull’Espresso – la modernità/attualità di relazioni e sentimenti con le tradizioni ancestrali di una terra, un’isola, che sembra ancora mantenere intatte usanze arcaiche e superstizioni antiche che sopravvivono ad ogni forma di progresso.

Fra queste ataviche usanze e tradizioni la scrittrice di Cabras rievoca e descrive, almanaccando, l’accabadora e il suo gesto amorevole e finale che pone fine alle sofferenze dei malati terminali, quasi fosse un ultima madre per chi invoca una morte liberatoria. Ma quando Maria intuisce una delle attività della sua madre de anima, Tzia Bonaria Urrai, scappa. Ma ritorna.

Come succede ai personaggi di molti scrittori sardi: pensiamo ai Diavoli di Nuraiò di Flavio Soriga, un universo di personaggi e figure, soprattutto di giovani, che, incatenati al villaggio, “a sa bidda” e alla “prigione” Sardegna, non vedono l’ora di evadere. E si allontanano ma poi ritornano.

Così Maria. Perché molte cose che credeva di aver lasciato sulla riva da cui la nave per Genova si era staccata a suo tempo,ritornavano una dopo l’altra, come pezzi di legno sulla spiaggia dopo una mareggiata…lentamente tornarono a uno a uno visi, voci e luoghi dell’infanzia in cui era cresciuta, e Maria si scoprì ad abitarli, senza chiedere permesso.

Il  rientro di Maria in Sardegna non aveva stupito nessuno. Perché «E’ il debito del fill’e anima», dicevano a Soreni come fosse un destino a cui era impossibile sottrarsi.

E per la madre carnale, Anna Teresa Listru quella figlia frutto del suo più grosso errore era ora mutata nel migliore dei suoi investimenti.

Accabadora è un romanzo bello e avvolgente, di grande impatto emotivo, incarnato dentro un contesto storico e ambientale preciso: la Sardegna degli anni ’50, ma insieme senza tempo. Un romanzo forte e drammatico, elegiaco e poetico, scritto con cura e accuratezza, con un lessico semplice e scabro, inframezzato da locuzioni in lingua sarda, che riesce a rapirti, emozionarti e incantarti. A tal punto che, segnatamente quando riesce a evocare storia e tradizioni, con i colori, i sapori e i profumi dell’infanzia, il lettore sperimenta e vive un’impressione di letizia, come se avesse attraversato un paese amabile e felice.

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-Madonna sovversiva

“In un’estate dove curiosamente scarseggiano i libri cult, compresi quelli da spiaggia, c’è un passaparola che corre fra le lettrici, in particolare quelle che hanno trovato (o ritrovato) il gusto di analizzare la condizione femminile, cioè la loro, e i suoi numerosi disastri. E forse per catturare l’attenzione ci voleva un’autrice insolita come Michela Murgia, entrata nell’olimpo letterario con la super premiata, «Accabadora», ma che si tiene alla larga da ogni star system e se apre bocca in qualche talk show riesce anche a dire qualcosa di intelligente. E intelligente, oltre che coraggiosa da parte di una “credente organica e non marginale” come lei stessa si definisce, è la scelta di “Ave Mary”, (Einaudi Stile Libero, pp. 166, e 16), rilettura dell’icona cattolica per eccellenza, la Madonna.
Mitizzata fino a farne scomparire l’umanità, è la tesi di Michela Murgia, Maria è stata usata dalla Chiesa attraverso i secoli per giustificare il dominio maschile, anche se non erano stati i preti ad inventarlo. Nella narrazione ecclesiastica la ragazza di Nazareth che accetta l’annuncio dell’Angelo diventa lo stereotipo della “donna che dice sì”, creatura docile e ubbidiente a quel che le viene chiesto: come moltitudini di sue simili dovranno fare nei confronti della famiglia e della religione. Ma di Maria e della sua vita ricca di sorprese c’è un’altra narrazione possibile. Proprio con quel sì a una gravidanza misteriosa, inaccettabile secondo l’ordine sociale dei tempi, la ragazza compiva una scelta sovversiva, proprio come sarà il messaggio del Cristo. Non è una Madonna in chiave femminista quella della Murgia, quanto una figura storica riletta attraverso i Vangeli e altri testi dimenticati da una chiesa che nel ‘900 aveva poi trasformato Maria «in una statuina da nicchia»“.

[ Chiara Valentini, L’espresso, 05/08/2011]

-La femina agabbad6ri : sacerdotessa del mistero

“C’è a Luras, in Gallura, un museo: Galluras. Il nome vorrebbe richia­mare «le Gallure», cioè le diverse parti di questa ampia cuspide della Sardegna che, pur omogenea nei costumi e nel linguaggio, si differen­zia nella configurazione geografica e nella dimensione storico-tradi­zionale. Tra gli altri oggetti del museo, su un cuscino ricamato fa bella (!) mostra di sé un martello di legno.

Era lo strumento di morte, il mazzuolo che la femina agabbad6ri (dallo spagnolo acabar,  «terminare»), usava per finire una persona sofferente che «non riusciva a morire».

Probabilmente l’arnese esposto nel museo è un modello, una copia di quello che era in realtà lo strumento di morte, ben più solido e pesan­te: chi scrive lo ha visto, più di una trentina di anni fa nelle mani di un centenario, nipote di una vera femina agabbad6ri. Era un rustico maz­zuolo di legno di olivastro stagionato, reso lucido dall’uso per essere passato negli anni in tante mani. Non un martello costruito da un arti­giano, ma un corto spezzone di ramo, lungo poco meno di trenta centi­metri, con una conferenza di circa 45. Il manico, corto e robusto, con­sentiva la presa sicura per assestare un unico colpo, pesante e deciso. Veniva usato, si dice, soltanto da donne forti, sempre e solo donne, vere «benefattrici» della piccola umanità dei paesi e delle campagne galluresi, quando sembrava che la morte, dispensatrice di quiete ma anche di estenuanti agonie, si divertisse a utilizzare tutta la sua trista cattiveria prolungando il tempo dello strazio. E allora, eccola lì, la donna della notte che accorreva al capezzale dei sofferenti per «mi­gliorare le condizioni del moribondo» favorendone il passaggio a  «miglior vita» , come affermano gli studiosi Alessadro Bucarelli (pre­maturamente scomparso qualche anno fa) e Carlo Lubrano, docenti all’Università di Sassari, nella loro opera Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina acabbadora.

Di questi riti tribali come le accabadoras (o femina agabbadori, in gallurese) rimangono memorie e anche tracce. Queste “terminator” al femminile, si pensa abbiano agito fino alla metà del secolo XIX, anche se alcuni studiosi sostengono che in qualche parte dell’isola abbiano operato in data a noi più vicina.

Il filologo Zenodoto (vissuto nel III secolo a.C., ebbe da Tolomeo Fi­ladelfo l’incarico di bibliotecario e si occupò soprattutto di studi ome­rici) parla di una colonia di Cartaginesi, nominata da Eschilo, che, ve­nuta in Sardone (Sardegna), sacrificava a Saturno i vecchi ultrasettan­tenni. Il sacrificio veniva consumato mentre tutt’intorno la gente si ab­bracciava sorridendo come durante una festa: in simili occasioni pian­gere e disperarsi sarebbe stato per i Cartaginesi quantomeno disdicevo­le, se non addirittura sacrilego. Pare che proprio da queste lontane usanze derivi anche l’espressione “riso sardonico”: il riso forzato dei Sardi, il riso amaro dei vinti, per dirla con il poeta Francesco Masala,

Anche per lo storico Timeo di Siracusa (vissuto all’incirca tra il 356 e il 260 a.C.) sarebbe stato costume dei Sardonii far precipitare i parenti più stretti, diventati vecchi e sofferenti, dall’ alto di una rupe o dall’ orlo di una tomba già scavata, mentre i figli ridevano enfatizzando la finta felicità che provavano nel togliere la vita a chi l’aveva loro donata.

A questo punto, nell’impossibilità di datare con esattezza la fine di cotanta barbarie, non resta che prendere per buone, sempre restando nello statuto indefinito dell’ipotesi, le parole del «mio»  testimone cen­tenario che verrà presentato fra poco. Dalle sue dichiarazioni e da un conteggio all’indietro fino agli anni in cui la sua antenata   «avrebbe esercitato», si può approssimativamente desumere che l’opinione co­mune sulla datazione di questa pratica può coincidere con quella che risulta dalle affermazioni del centenario. E che l’«eutanasia nuragica»  – sempre negata – avveniva, in tempi non troppo remoti, anche nella civilissima Gallura. Così risulta dalla confessione sofferta del cente­nario cui ci si riferiva poc’anzi e che ripeto pari pari com’era avvenu­ta; già annotata, peraltro, nel mio Antica terra di Gallura”.

[Franco Fresi, La Sardegna dei misteri, Ed. Newton compton, Roma, 2010, pagine 101-102].

 

 

Lettura [brano tratto AVE MARRY – E la chiesa inventò la donna, di Michela Murgia, Einaudi editore, Torino, 2011, pagine 121-123]

Mi disegnano così

[…] Jessica Rabbit, che nel famoso film di Robert Zeme­ckis è la prosperosa e sensuale femme fatale moglie del co­niglio Roger, si difendeva dalle accuse di cattiveria con disarmante fatalismo: «lo non sono cattiva, è che mi di­segnano cosi! » Involontario manifesto di tutti i soggetti privi di voce propria, la felice battuta di Jessica contiene un’evidenza che si estende ben oltre il tratto di matita del cartoonist: quando si è impossibilitati a rivelare da soli la propria verità, è il modo in cui veniamo raccontati l’unica strada che ci rende intellegibili agli altri. Solo che spesso quella strada conduce da qualche altra parte.

Non esistono narrazioni prive di conseguenze: nem­meno la più innocente delle fiabe lascia il mondo come lo ha trovato. Se persino Cappuccetto Rosso è un affare serissimo, a maggior ragione devono esserlo i racconti su Dio, perché da quella narrazione passa da sempre anche la storia dell’uomo, della donna e del mondo in cui essi vivono. Questa accortezza va tenuta a mente soprattutto quando si raccontano storie ai bambini. È dalle storie che i bambini ricavano inconsapevolmente i codici segreti per aprire la cassaforte del mondo. Una delle prime storie che tutti impariamo è quella dettata dal contesto religioso in cui abbiamo avuto la ventura di nascere, una storia che passa anche attraverso le parole che sono state scelte per raccontarcela. Sul nostro accesso all’immaginario del racconto biblico ha infatti influito molto la traduzione di cui disponiamo, che in molti casi risente dell’intenzione cul­turale di chi l’ha costruita. Per esempio il termine greco diàkonos che si incontra spesso nelle lettere di san Paolo e che significa «servitore», nel testo biblico approvato dal­la Cei viene tradotto in due modi diversi a seconda che si riferisca a un uomo (allora diventa «diacono») oppure a una donna (che invece è tradotta come « collaboratrice»). È evidente che pur di non offrire materiale speculativo alle teorie sul sacerdozio femminile, in questo caso non si è esitato a tradire il testo paolino. Il famoso passo del profeta Isaia che viene ritenuto una profezia messianica – «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (Is 7,14) – contiene un altro esem­pio di traduzione eterodiretta, perché la parola almà, che in italiano e in greco viene resa con «vergine», in ebraico significa semplicemente «fanciulla, giovane donna in età da marito» e non vergine in senso biologico, che in ebrai­co si dice betulà. L’intenzionalità del traduttore in questa libera interpretazione del testo è sin troppo evidente ed è su quella secolare traduzione che hanno fondato la loro fede generazioni di donne e di uomini.

Le religioni di matrice biblica conoscono bene l’impor­tanza delle parole: il racconto biblico ci mette davanti a una realtà figlia di un Dio Narratore, perché è stata proprio la sua Parola potente a dare forma alle cose: tutto quello che chiamiamo realtà esiste perché Dio lo ha raccontato. Il suo è stato il più potente degli abracadabra, meraviglio­sa parola di origine aramaica che sembra significhi proprio «io creerò come parlo».

La storia biblica racconta che l’umanità è sorta «a im­magine e somiglianza» del suo Narratore, una espressio­ne affascinante e misteriosa che ha fatto diventare matte  generazioni di esegeti, perché immagine e somiglianza può davvero voler dire tutto e il suo contrario. È certo impor­tante stabilire cosa possa significare per l’uomo e per la donna essere a immagine e somiglianza di Chi li ha narra­ti per primo; ma interessa infinitamente di più indagare il processo inverso, ripercorrendo il complesso percorso che ribalta gli attori del racconto e trasforma Dio da soggetto narratore a oggetto narrato.

Dio ha raccontato l’uomo e la donna a sua immagine, ma gli uomini e le donne a immagine di cosa si sono raccontati Dio? Tutti i credenti sono a loro modo vittime delle false narrazioni su Dio. Qui interessano soprattutto le ferite che queste narrazioni hanno causato e continuano a causare alle donne, .a quelle credenti e anche a tutte le altre: dobbiamo capire le storie che hanno generato i mondi dove tutte abbia­mo dovuto prendere cittadinanza, spesso nostro malgrado. I credenti consapevoli del fatto che tradizione e tradimento sono parole con la stessa radice comprenderanno bene che non si tratta di una ricerca speculativa: risponde al dovere di cercare rimedio alla sofferenza causata dalle narrazioni distorte che da sempre tentano di fondare su Dio ogni ge­rarchia di dignità tra gli uomini e le donne.

È certamente fondamentale smettere di fare a Nostro Signore lo stesso torto che ha subito Jessica Rabbit: quel­lo di essere raccontato per come non è. Ma è ancora più urgente invertire le narrazioni su di noi, perché spesso fi­niamo per definirci (o vederci definite) a immagine e so­miglianza del Dio che ci è stato cucito addosso. Indagare quelle storie, decostruirle e cercarne di alternative è un indispensabile atto spirituale e politico che non va lascia­to ai soli recinti specialistici: Dio è affare di tutti, giacché tutti siamo affar suo.

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

Approfondimenti

Prendendo spunto dal romanzo Accabadora approfondisci il tema dell’eutanasia e argomenta il tuo punto di vista anche in relazione ai fatti clamorosi che hanno riempito le cronache giornalistiche in questi ultimi anni (Caso Englaro ecc.)

 

Confronti

Come il protagonista dei Diavoli di Nuraiò di Flavio Soriga Gabriele Pintus, scappa dalla Sardegna per andare per le stradine d’Europa, ma poi ritorna a Nuraiò; anche Maria, la protagonista di Accabadora,  abbandona il suo paese, Soreni, per andare a Torino, ma anche lei rientra in Sardegna dopo poco tempo. Confronta le due “fughe” e i due “ritorni” individuandone analogie e diversità.

 

Ricerche (anche a mezzo internet)

Ricostruisci la figura dell’Accabadora in Sardegna, ricorrendo anche a Internet e alla ormai vasta documentazione e letteratura sul tema (in particolare vedi Eutanasia ante litteram in Sardegna, Sa femmina accabbadora di Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, Scuola sarda editrice, Cagliari, 2003)

Spunti vari

-Analizza la figura della Madonna, così come viene delineata da Michela Murgia in Ave Mary.

– Il problema del precariato giovanile, oggi.

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

-Il mondo deve sapereRomanzo tragicomico di una telefonista precaria, IBSN edizioni, Milano, 2006.

-Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, Ed. Einaudi, Torino, 2008

-Accabadora, Ed. Einaudi, Torino, 2009.

Ave Mary, Ed. Einaudi, Torino, 2011.

Opere sull’Autore

-Angiola Codacci-Pisanelli, Sotto il vestito della festa, L’espresso, 05-06-2009.

-Natalia Aspesi, Madre Nostra, dove sei nei cieli? Eva e Maria, così la Chiesa ha sacrificato la donna, la Repubblica, 21 Maggio, 2011.

Federica Coradduzza, Michela Murgia: “Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede” , Fonte www.einaudi.it. 2011.

Questo testo è tratto dalla mia “Letteratura e civiltà della Sardegna” (Ed. Grafica del Parteolla, volume II, Dolianova 2013, pagine 187-208) e costituisce il capitolo 13.

Riguarda la sua attività letteraria e le sue opere fino al 2013, anno in cui il volume è pubblicato.

Grazia Deledda e la Lingua Sarda

GRAZIA DELEDDA
E LA LINGUA SARDA

Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: la lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza – ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso magari inespresse ma presenti nel corso della narrazione. Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.
Poteva non operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori, specie di romanzi, di utilizzare il sardo, negato proibito e persino criminalizzato dalla politica dei tiranni sabaudi. Non c’è quindi da meravigliarsi che gli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri.
Ma Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, spesso meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” – lo sostiene il linguista Massimo Pittau e io sono d’accordo – come in :”Venuto sei? –che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? – Accatadu fattu l’as?; o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo – Cando est gai, andamus.

Vi sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”). O addirittura intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più: è un’imprecazione). Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano: Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) o Avete compriso?”.

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana. Scrive a questo proposito la critica sarda Paola Pittalis :”L’uso dei sardismi linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità – è il caso di Elias Portolu – è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere bilingue”. E aggiunge:”La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile: deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale…ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana”.

Francesco Casula

San Giovann8 Eudes

San Giovanni Eudes


Nome: San Giovanni Eudes
Titolo: Sacerdote
Nome di battesimo: Jean Eudes
Nascita: 14 novembre 1601, Argentan,Francia
Morte: 19 agosto 1680, Caen, Francia
Ricorrenza: 19 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Memoria facoltativa
Beatificazione:
25 aprile 1909, Roma, papa Pio X
Canonizzazione:
31 maggio 1925, Roma, papa Pio XI

Giovanni nacque il 14 novembre 1601 da pia e modesta famiglia a Ri, un villaggio vicino ad Argentan nella Normandia. Fin da giovinetto diede prova di grande virtù e di profonda pietà, dimostrando una particolar devozione alla SS. Eucarestia ed a Maria Vergine.

Alunno dei Gesuiti nel collegio di Caen, compì brillantemente gli studi di Lettere e di Filosofia, dai Padri Gesuiti di Caen, ricevendone una solida formazione umana e spirituale. II 25 marzo 1623, entrò a far parte della Congregazione dell’Oratorio: venne ordinato sacerdote il 20 dicembre 1625; fu discepolo del cardinale Pierre de Bérulle e iniziò la sua attività pastorale dedicandosi alla cura degli appestati e alle missioni popolari. Ebbe fama di grande predicatore.

Fondò nel 1641 la Congregazione di Nostra Signora della Carità del Rifugio, un istituto religioso femminile destinato al recupero delle prostitute in cerca di redenzione: l’Ordine ottenne l’approvazione di papa Alessandro VII il 2 gennaio 1666.
Consacrato sacerdote a Parigi, incominciò subito a esercitare con zelo il suo apostolato, da essere definito dal celebre Padre Olier di San Sulpizio: « La rarità del suo secolo ».
Si dedicò quindi alle missioni e percorse la Normandia, una parte della Bretagna, la Borgogna, la Piccardia, la Sciampagna, la Brie, riportando ovunque grandissimi frutti.

Con l’approvazione del cardinale Richelieu, nel 1643 Giovanni Eudes abbandonò l’Oratorio e decise di dedicarsi alla formazione del clero secondo i dettami del Concilio di Trento: a tale scopo, il 25 marzo 1643 fondò a Caen la Congregazione di Gesù e Maria, una società di vita apostolica destinata particolarmente alla direzione dei seminari e alle missioni parrocchiali; nel 1674, la congregazione ottenne la particolare protezione di papa Clemente X.

Si fece promotore e diffusore della devozione ai Sacri cuori (in onore dei quali nel 1637 scrisse il libello “La vita e il regno di Gesù”) e compose l’ufficio liturgico delle messe per le feste del Cuore Immacolato di Maria (celebrata per la prima volta nel 1648) e del Sacro Cuore di Gesù (1672). Dopo vent’anni di oratorio, ispirato dal Signore, fondò, assieme a cinque suoi compagni, la « Congregazione dei Sacerdoti di Gesù e di Maria » per la formazione dei chierici. Scopo della sua Congregazione è la direzione dei Seminari, le missioni al popolo e gli esercizi al clero. Diede ancora vita ad altre sante istituzioni, quali l’Ordine di Nostra Signora della Carità, l’Istituto del Buon Pastore d’Angers, e la Società del Cuore ammirabile della Madre di Dio.

Giovanni si impegnò particolarmente a promuovere il culto liturgico e la devozione ai Cuori Sacratissimi di Gesù e di Maria, celebrandone per il primo le feste ogni anno e lasciando alla sua Congregazione di celebrarle con grande solennità. Per questo ebbe dal Pontefice Leone XIII il bel titolo di autore del culto liturgico dei Cuori Sacratissimi di Gesù e di Maria.

Acceso di amore ardentissimo verso questi due Cuori amabili, ne scrisse l’ufficio liturgico, istituì in loro onore confraternite, e compose ammirabili libri di pietà.

Fedelissimo al Papato e suo strenuo difensore, oppose un argine all’ eresia dei Giansenisti che in quei tempi devastava la Chiesa di Dio. Non si lasciò sviare né da odii, né da persecuzioni, né da calunnie, ma, qual fedele seguace di Gesù, pregò e perdonò ai suoi nemici.

All’età di 79 anni, affranto dalle fatiche e dagli anni, ripetendo di continuo i nomi soavissimi di Gesù e di Maria, tante volte invocati in vita, spirò santamente a Caen il 19 agosto 1680.

S. Pio X lo dichiarò beato e Pio XI lo ascrisse al catalogo dei Santi nell’anno 1925. La sua statua fu collocata nella basilica di S. Pietro, assieme a quelle dei santi fondatori di ordini religiosi.

PRATICA. — Imitiamo S. Giovanni Eudes nella sua ardente devozione ai Cuori Sacratissimi di Gesù e di Maria.

PREGHIERA. O Signore, che per promuovere il culto al tuo Cuore sacratissimo e a quello immacolato della tua Madre, ti sei degnato di eleggere il beato Giovanni, concedici che seguendo i tuoi esempi giungiamo, sotto la sua protezione, anche noi al tuo dolcissimo amplesso nel cielo.

MARTIROLOGIO ROMANO. San Giovanni Eudes, sacerdote, che si dedicò per molti anni alla predicazione nelle parrocchie e fondò poi la Congregazione di Gesù e Maria per la formazione dei sacerdoti nei seminari e quella delle monache di Nostra Signora della Carità per confermare nella vita cristiana le donne penitenti; incrementò moltissimo la devozione verso i sacri Cuori di Gesù e di Maria, finché a Caen nella Normandia in Francia si addormentò piamente nel Signore.

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Domande Frequenti

  • Quando si festeggia San Giovanni Eudes?

     

  • Quando nacque San Giovanni Eudes?

     

  • Dove nacque San Giovanni Eudes?

     

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  • Dove morì San Giovanni Eudes?

     

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