Sicurezza – Morte del lavoratore – Costituzione di parte civile nel processo penale
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza resa in data 28/1/2011, il Tribunale di Trapani ha assolto L.L. dall’accusa di omicidio colposo asseritamente commesso ai danni del lavoratore G.P.; con la stessa sentenza il Tribunale di Trapani ha assolto la I.G. s.r.l. dall’illecito amministrativo alla stessa ascritto, ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, in conseguenza del comportamento contestato al L.
L’Imputato, in qualità di legale rappresentante della I.G. s.r.l. (società esercente attività di piscicoltura e acquacoltura con impianto di ingrasso e allevamento di tonni) era stato originariamente accusato dell’omicidio colposo del dipendente, G.P., annegato nel corso di un’operazione di controllo e di vigilanza delle gabbie dei tonni collocate a circa un miglio dal porto, a causa della mancata osservanza, da parte dello stesso, delle norme contravvenzionali specificamente indicate nel capo di imputazione.
Secondo i termini dell’accusa, il L., in violazione dei tradizionali parametri della colpa generica e della normativa sulla sicurezza del lavoro, aveva adibito il P. alle mansioni di controllo, vigilanza e ispezione dell’impianto di ingrasso e di allevamento dei tonni, mediante l’uso, da solo, di un natante aveva motore di potenza superiore 30 kW, nonostante il mancato conseguimento, da parte del lavoratore, della prescritta e obbligatoria patente nautica indispensabile per la conduzione dell’imbarcazione.
In occasione del fatto oggetto d’esame, il P., alle ore 1.30 del 6/6/2009, alla guida del natante messogli a disposizione dalla società datrice di lavoro, aveva raggiunto, come di consueto, l’impianto di allevamento e d’ingrasso dei tonni e, ivi giunto, per propria imperizia, rimaneva con l’elica del natante incastrata in una cima e, non riuscendo più a liberarsi, finiva, anche a causa delle avverse condizioni del mare, per essere sbalzato in mare e quindi per annegare.
A fondamento dell’assoluzione, il primo giudice – al di la dell’accertata esperienza ‘di fatto’ del lavoratore nella conduzione del natante (essendo lo stesso in possesso di tutti i requisiti per ottenere il rilascio del titolo di conduttore di traffico locale) – aveva evidenziato come non fosse stato possibile chiarire le cause effettive del decesso della vittima, non potendo ad esempio escludersi che la stessa avesse cercato rifugio in mare volontariamente nel tentativo di raggiungere le vicine gabbie dei tonni.
Su appello del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Trapani e delle parti civili costituite, con sentenza in data 26/6/2013, la corte d’appello di Palermo, in riforma della sentenza impugnata, ritenuta la responsabilità dell’imputato per i reati allo stesso ascritti, lo ha condannato alla pena di sei mesi di reclusione e dell’ammenda di euro 100,00, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, condannando altresì la I.G. s.r.l.
alla sanzione amministrativa di 300 quote del valore di euro 300,00 ciascuno, nonché alla sanzione interdittiva dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi per la durata di tre mesi.
Avverso la sentenza d’appello, a mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione l’Imputato e la I.G. s.r.l.
2. L’imputato propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione della legge processuale, per avere la corte territoriale utilizzato, ai fini della decisione, le risultanze dell’Inchiesta formale, effettuata dall’Ufficio Direzione marittima di Palermo ai sensi dell’art. 1241 cod. nav. acquisita in sede d’appello (ex art. 603, comma 2, cod. proc. pen.) nonostante l’opposizione della difesa, che aveva originariamente avanzato richiesta di giudizio abbreviato sulla base di un compendio probatorio privo di detta documentazione sopravvenuta.
Ciò posto, avendo il giudice d’appello fondato Integralmente la propria sentenza di condanna sul contenuto della documentazione acquisita in appello, lo stesso avrebbe inammissibilmente esteso la propria cognizione ad elementi probatori radicalmente non utilizzabili.
Con il secondo motivo, Il ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, per avere la corte d’appello del tutto omesso di pronunciarsi in ordine all’eventuale condanna in solido del responsabile civile, Z. Assicurazioni, pur in presenza della regolare citazione e dell’intervento di tale parte processuale.
Con l’ultimo motivo, l’imputato si duole della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, per avere la corte d’appello erroneamente applicato nella specie la disciplina in materia di sicurezza sul lavoro, attesa l’assoluta irrilevanza della violazione delle norme relative al rilascio delta patente nautica in relazione alle circostanze del decesso del P. (stasi dell’imbarcazione con aggrovigliamento della fune di ormeggio sull’elica della barca), ed avuto riguardo all’erronea interpretazione, da parte del giudice d’appello, della norma di cui all’art. 263 reg. cod. nav. (relativa all’abilitazione della vittima alla conduzione dell’imbarcazione in esame), tenuto conto della riconducibilità della figura del R. a quella del conduttore di traffico locale abilitato alla conduzione di navi di stazza lorda non superiori a 10 tonnellate, adibite al trasporto di merci nel circondario di iscrizione della nave e nei due circondari limitrofi.
Da ultimo, il ricorrente censura l’interpretazione delle norme sulla sicurezza del lavoro fatta propria dal giudice d’appello, là dove ha affermato che il documento di sicurezza della I.G. s.r.l. avrebbe dovuto essere redatto sulla base del decreto legislativo n. 271/1999, viceversa non applicabile nel caso di specie, trattandosi di nave da diporto non impiegata in attività di traffico commerciale (cfr. art. 4, lett. b), d.lgs. cit).
3. Con un primo motivo, la I.G. s.r.l. censura la sentenza impugnata (unitamente alle ordinanze di corrispondente contenuto pronunciate nel corso del giudizio) nella parte in cui ha ritenuto ammissibile la costituzione delle parti civili per la rivendicazione dei danni asseritamente subiti ad opera della società ricorrente, quale ente responsabile ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. In contrasto con l’orientamento su tale punto venutosi consolidando nella giurisprudenza nazionale e in quella sovranazionale della Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Con un secondo motivo la società ricorrente si duole della violazione della legge processuale e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’ammettere l’acquisizione agli atti del giudizio degli esiti dell’inchiesta formale esperita in sede amministrativa dalla Direzione marittima di Palermo, in assenza dei necessari requisiti di assoluta indispensabilità dell’atto istruttorio, ai fini del giudizio, richiesti dall’art. 603 cod. proc. pen.
Con un terzo motivo, la società ricorrente si duole della violazione di legge e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel pronunciare la condanna dell’imputato e, conseguentemente, della società ricorrente, in assenza di alcuna certezza in ordine alle cause concrete del decesso della vittima, senza procedere ad alcuna rigorosa confutazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, delle argomentazioni indicate dal primo giudice a fondamento della decisione di assoluzione pronunciata.
Sotto altro profilo, la corte territoriale avrebbe omesso di specificare l’immediato nesso di derivazione causale tra le violazioni ascritte alla colpa dell’imputato (a loro volta riflesse nell’accertamento di responsabilità operato a carico della I.G. s.r.l.) e il decesso del lavoratore, per altri versi incorrendo nel travisamento della prova relativa alla supposta disponibilità, da parte del lavoratore, al momento del fatto, di un unico natante, a dispetto della circostanza (riconosciuta dalla stessa sentenza di primo grado: cfr. pag. 2) secondo cui l’azienda aveva posto a disposizione del lavoratore un ulteriore natante denominato Shark 1 e un gommone della lunghezza di m. 8,90, per la cui conduzione non era indispensabile il conseguimento di alcuna patente nautica: premessa che avrebbe imposto al giudice di secondo grado la spiegazione delle ragioni per cui il lavoratore avesse deciso di usare l’imbarcazione più grande, nonostante la disponibilità di un mezzo per il cui uso non sarebbe stato necessario violare alcuna disposizione del codice della navigazione.
Allo stesso modo, secondo i rilievi critici articolati dalla società ricorrente, il giudice d’appello avrebbe omesso di giustificare adeguatamente le ragioni per cui il lavoratore deceduto avesse deciso di non esercitare il proprio controllo da terra (come peraltro previsto dalle disposizioni del piano di sicurezza della società datrice di lavoro) assumendo l’imprudente e improvvida iniziativa di imbarcarsi, peraltro attraverso l’utilizzazione di un mezzo per la cui conduzione non era in possesso della prescritta patente e senza indossare il salvagente, presente a bordo dell’imbarcazione, che gli avrebbe consentito di non annegare: circostanze nel loro complesso idonee a giustificare la qualificazione del comportamento del lavoratore nei termini dell’abnormità tale da dissolvere qualunque ipotetico nesso di causalità tra le asserite violazioni ascritte al datore di lavoro e il decesso del lavoratore.
Secondo la prospettazione critica della società ricorrente, la corte territoriale sarebbe inoltre incorsa in un’erronea interpretazione della disciplina relativa alla redazione del piano di sicurezza della società ricorrente, avendo impropriamente richiamato la disciplina di cui al decreto legislativo n. 271/1999 nella specie inapplicabile, ed avendo erroneamente richiamato la pretesa violazione della normativa di cui al d.p.r. n. 435/1991 in considerazione della accertata disponibilità, da parte del lavoratore deceduto, dei titoli idonei alla conduzione dell’imbarcazione utilizzata ai fini del traffico locale, di là dal trascurabile rilievo del dato formale.
Da ultimo, la società ricorrente – rimarcati gli aspetti di contraddittorietà, contenuti nella sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione del fatto, rispetto alle risultanze dell’inchiesta amministrativa condotta (alla cui stregua era risultata, quale causa del decesso del P. il relativo annegamento a seguito dell’ormeggiamento dell’imbarcazione utilizzata alla boa esistente in prossimità dell’impianto sottoposto a vigilanza) – ha inoltre evidenziato come la sentenza d’appello non avesse considerato l’avvenuta predisposizione, da parte della I.G. s.r.l, del dovuto piano di sicurezza, come attestato da tutta la documentazione prodotta e analìticamente richiamata in ricorso, senza neppure precisare in termini specifici la natura del supposto interesse della società datrice di lavoro eventualmente collegato al comportamento penalmente rilevante dell’imputato, ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
Con l’ultimo motivo d’impugnazione, la società ricorrente si duole della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata per aver omesso di pronunciare la condanna solidale della Z. Assicurazioni chiamata in giudizio quale responsabile civile.
Considerato in diritto
4. I ricorsi proposti dall’lmputato e dalla I.G. s.r.l. devono ritenersi fondati nei termini che seguono.
Deve trovare preliminarmente accoglimento la censura sollevata dalla I.G. s.r.l. con riguardo all’avvenuta ammissione della costituzione delle parti civili nel processo penale per la rivendicazione dei danni asseritamente subiti ad opera della società ricorrente, quale ente responsabile ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
Al riguardo, ritiene il collegio di far proprie le condivise argomentazioni illustrate in una precedente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass., Sez. 6, Sentenza n. 2251 del 05/10/2010, dep. 22/01/2011, Rv. 248791), secondo cui, nel processo instaurato per l’accertamento della responsabilità da reato dell’ente, non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l’istituto non è previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 e l’omissione non rappresenta una lacuna normativa, ma corrisponde ad una consapevole scelta del legislatore.
In particolare, la parte civile non è menzionata nella sezione II del capo III del decreto dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell’ente, né ad essa si fa alcun accenno nella disciplina relativa alle indagini preliminari, all’udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero nelle disposizioni sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di procedura penale contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa.
Peraltro, accanto alla materiale “assenza” di riferimenti riguardanti la parte civile, il d.lgs. 231/2001 contiene alcuni dati specifici ed espressi che confermano la volontà di escludere questo soggetto dal processo. Da un lato, vi è l’art. 27 che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente la limita all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili; dall’altro lato, appare particolarmente significativa la regolamentazione del sequestro conservativo, di cui all’art. 54. L’omologo istituto codicistico di cui all’art. 316 c.p.p. pone questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della “pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario”, sia delle “obbligazioni civili derivanti dal reato”, in quest’ultimo caso attribuendo alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro; invece, il citato art. 54 d.lgs. 231/2001 limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria (oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute all’erario), sequestro che può essere richiesto unicamente dai pubblico ministero.
Anche qui il legislatore ha compiuto una scelta consapevole, escludendo la funzione di garantire le obbligazioni civili, funzione che, nella struttura della norma eodicistica, presuppone la richiesta della parte civile (Cass., Sez, 6, Sentenza n. 2251/2010, cit.).
Deve dunque conclusivamente affermarsi, sulla base della disciplina positiva richiamata, come la costituzione di parte civile nel processo penale per la rivendicazione del risarcimento dei danni nei confronti dell’ente responsabile ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 non sia ammessa, con la conseguente nullità della corrispondente ammissione avvenuta nel corso del presente giudizio e della successiva condanna dell’ente al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.
5. Appaiono viceversa prive di fondamento le doglianze avanzate da entrambi i ricorrenti con riguardo all’asserita illegittimità dell’assunzione, In sede d’appello, degli atti relativi all’inchiesta formale esperita in sede amministrativa dalla Direzione marittima di Palermo con riguardo all’incidente occorso al P., avuto riguardo alla pretesa valenza ostativa della natura del rito abbreviato e alla dedotta insussistenza, in ogni caso, dei presupposti di legge per dar luogo alla ridetta acquisizione.
Sul punto, varrà richiamare l’orientamento fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità (che questo collegio condivide e ribadisce, anche in relazione al caso di specie, in ragione della ritenuta correttezza dell’interpretazione dei dati normativi ivi prospettata), ai sensi del quale il giudice di appello deve ritenersi tenuto ad ammettere le prove sopravvenute all’instaurazione del giudizio (quale quella oggetto dell’odierno esame), pur quando quest’ultimo sia stato celebrato in primo grado con il rito abbreviato, salvo che non si tratti di prove vietate dalla legge ovvero manifestamente superflue o irrilevanti (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 44947 del 17/10/2013, Rv. 257977).
La richiamata pronuncia di questa Corte ha al riguardo evidenziato come in tema di giudizio abbreviato, il potere d’integrazione probatoria ex officio attribuito al giudice dall’art. 441, comma quinto, cod. proc. pen. (per il quale quando il giudice ritiene di non potere decidere allo stato degli atti assume, anche, d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione) è preordinato alla tutela dei valori costituzionali che devono presiedere, anche nei giudizi a prova contratta, all’esercizio della funzione giurisdizionale e risponde, pertanto, alle medesime finalità cui è preordinato il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. in dibattimento. (V. Sez. 5 sent. n. 4648 del 19.12.2005, Rv 233632).
Tale potere del giudice è conseguente al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. che implica il controllo del giudice sull’attività del P.M. e poteri sostitutivi in caso di inerzia del P.M. o di incompletezza delle indagini preliminari.
Nessuna lesione dei diritti della difesa è in tal senso ipotizzabile dal momento che, allorché l’imputato richiede il giudizio abbreviato, non può non considerare, da un lato, anche la possibilità, prevista dalla legge, che il giudice acquisisca nuovi elementi e, dall’altro, che sopravvengano nuove prove.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, dunque, in caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove dopo il giudizio di primo grado, il giudice di appello, in presenza di istanza di parte, è tenuto a disporre la rinnovazione del dibattimento, con il solo limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate dalla legge ovvero manifestamente superflue o irrilevanti. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 39663 del 7.10.2010 dep. 10.11.2010, Rv 248437).
Inoltre, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mentre nell’ipotesi di cui al primo comma la rinnovazione è subordinata alla condizione che il giudice ritenga, nell’ambito della propria discrezionalità, che i dati probatori già acquisiti siano incerti e che l’incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisività, diversamente, nell’ipotesi del secondo comma, il giudice è tenuto a disporre la rinnovazione delle nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, ma con il limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 8382 del 22.1.2008 dep. 25.2,2008 Rv 239341).
Qualora la richiesta di rinnovazione del dibattimento nel giudizio di appello sia volta ad assumere nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, l’ammissione è subordinata solo al giudizio di superfluità e irrilevanza manifesta e cioè di prove del tutto incongrue rispetto al thema decidendum (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 552 del 13.3.2003 dep. 23 12.1.2004, Rv 227022).
Nel caso di specie, la Corte territoriale, ad esito del contraddittorio sul punto instaurato tra le parti, ha espressamente dato atto della specifica idoneità dell’atto istruttorio sopravvenuto ad assicurare una più opportuna e compiuta conoscenza dei fatti, avuto riguardo alla specificità dell’episodio oggetto d’esame, costituito da un infortunio sul lavoro occorso in mare (cfr. l’ordinanza della Corte d’appello di Palermo del 12/11/2012 in atti).
La decisione così assunta dalla corte palermitana deve ritenersi fondata sul vigore di un discorso giustificativo del tutto immune da vizi d’indole logica o giuridica, come tale idoneo a sottrarsi Integralmente alle censure al riguardo sollevate dagli odierni ricorrenti.
6. Del tutto fondate devono per converso ritenersi le censure critiche formulate dai ricorrenti in relazione al discorso giustificativo condotto dalla Corte d’appello con riguardo alla ricostruzione dei profili di colpa addebitabili all’imputato e al corrispondente riconoscimento del nesso di causalità tra le violazioni normative ascritte al L. e il decesso del P.
Osserva sul punto il Collegio come la Corte d’appello, nel rimarcare il proprio dissenso rispetto alla motivazione assolutoria articolata dal primo giudice, dopo aver ricostruito il quadro normativo in ipotesi applicabile al caso di specie (ed aver rilevato le supposte violazioni formali obiettivamente ascrivigli alla condotta del L.), abbia del tutto omesso di esplicitare in termini concreti – e, correlativamente, di tematizzare, sul piano probatorio – le questioni concernenti il riscontro ‘in fatto’ delle trasgressioni dell’imputato effettivamente rilevanti sul piano della tutela antinfortunistica del lavoratore e della relativa reale incidenza causale sullo sviluppo dinamico degli eventi ch’ebbero a condurre al decesso del P.; e ciò, tanto sul piano del riscontro dell’eventuale inadeguatezza delle imbarcazioni poste a disposizione del lavoratore (siccome in ipotesi prive delle necessarie dotazioni di sicurezza), quanto in relazione all’asserita adibizione del P. allo svolgimento di mansioni rispetto alle quali lo stesso non sarebbe stato adeguatamente formato, sì da esporlo all’assunzione di rischi lavorativi non fronteggiabili attraverso l’esplicazione delle proprie effettive e concrete capacità professionali.
Sul punto, il discorso condotto con insistenza dal giudice d’appello, con riferimento alla circostanza del mancato conseguimento, da parte del P., dei necessari titoli abilitativi alla conduzione dell’imbarcazione utilizzata, ovvero della violazione della disciplina rivolta alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve ritenersi minato da una misura d’irriducibile astrattezza, avendo la corte palermitana propriamente omesso di approfondire, tanto sul piano argomentativo quanto in termini probatori, il nesso di immediata e diretta derivazione causale del decesso del lavoratore per annegamento dall’ipotizzata violazione della disciplina concernente la conduzione di imbarcazioni nel traffico locale o dall’ipotizzata violazione della disciplina sull’iscrizione dell’imbarcazione Shark 2 negli appositi registri amministrativi, ovvero della normativa riguardante i requisiti d’idoneità soggettivi e oggettivi per la conduzione delle navi minori e dei galleggianti (art. 25 I. n. 472/1999: cfr. folio 9 e segg. della sentenza impugnata).
È appena il caso di evidenziare come la circostanza che il P. non dovesse (né potesse) essere incaricato dello svolgimento delle mansioni nella specie a lui affidate, in presenza delle asserite inadempienze del datore di lavoro, ancora non vale ad attestare, di per sé, il concreto riscontro del nesso di concreta derivazione causale tra le trasgressioni del datore di lavoro (e dunque tra la colpa di questi) e le occorrenze del decesso del lavoratore, avendo la corte territoriale propriamente trascurato di procedere alla confutazione della decisiva obiezione sul punto articolata dal primo giudice, secondo cui l’evento lesivo si sarebbe comunque verificato pur quando il datore di lavoro avesse in ipotesi rispettato tutte le norme protettive paratamente richiamate nella sentenza impugnata.
E ciò, tanto più in presenza dell’avvenuto accertamento, attestato dal primo giudice: 1) della regolare dotazione, dell’imbarcazione utilizzata dal P., della prescritta strumentazione di sicurezza (documentatamente attestato dal primo giudice: cfr. pag. 5 della sentenza di primo grado); 2) della (incontestata) pluriennale e sperimentata competenza marinaresca del lavoratore deceduto (cfr. pag. 6 della sentenza di primo grado); 3) della frequente ricorrenza dell’incidente occorso nella specie (consistito nell’attorcigliamento del cavo di ormeggio nell’elica dell’imbarcazione) indipendentemente dall’esperienza (in ipotesi ineccepibile) o dal conseguimento delle necessarie abilitazioni amministrative, da parte del responsabile della navigazione, o dall’entità dell’imbarcazione (cfr. la dichiarazione resa dal teste MR Capitano di Corvetta, richiamata alla pag. 14 della sentenza di primo grado).
Ed ancora, tanto più in assenza dì alcuna certezza probatoria circa le effettive modalità di verificazione del decesso del lavoratore (annegato tra i marosi in un quadro di pessime condizioni meteomarine: cfr. pag. 4 della sentenza di primo grado), a fronte del rilevato corretto funzionamento della pompa di sentina (destinata al drenaggio dell’acqua eventualmente imbarcata) (cfr. pag. 4 della sentenza di primo grado) e della riscontrata esistenza, al momento del rinvenimento dell’imbarcazione da parte dei soccorritori, di un utile spazio di riparo per il P. sulla parte dell’imbarcazione ancora non sommersa (cfr. pagg. 4-5 della sentenza di primo grado).
La corretta considerazione di tali occorrenze di fatto avrebbe necessariamente imposto, al giudice d’appello, un adeguato impegno argomentativo destinato ad articolare criticamente (in dissenso rispetto alla già pronunciata assoluzione dell’imputata in primo grado) le ragioni dell’avvenuta esclusione, oltre ogni ragionevole dubbio, della decisiva e autonoma incidenza causale di un’ipotesi di forza maggiore in nessun modo fronteggiabile, indipendentemente dalle prospettate inadempienze cautelari addebitabili al datore di lavoro del P.
Vale sul punto il richiamo al consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso (Cass., Sez – 4, Sentenza n. 43966 del 06/11/2009, Rv, 245526); e tanto, sul presupposto che, In tema di reati colposi, l’addebito soggettivo dell’evento richiede non soltanto che l’evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall’agente con l’adozione deIle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato (Sez. 4, Sentenza n. 16761 del 11/03/2010, Rv. 247017).
Il complesso delle considerazioni che precede, nell’evidenziare il riscontro di gravi lacune interpretative e motivazionali addebitabili alla sentenza impugnata, di questa impone l’annullamento, tanto con riguardo alla ritenuta colpevolezza dell’imputato, quanto in relazione alla conseguente responsabilità ascritta alla I.G. s.r.l., con il conseguente rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo per un nuovo esame.
7. L’accoglimento dei motivi di ricorso di cui al precedente par. 6 (e il conseguente annullamento della sentenza di condanna impugnata) vale a ritenere assorbito il doveroso esame delle censure, sollevate da entrambi i ricorrenti, riferite all’omessa pronuncia della condanna nei confronti della Z Assicurazioni, già citata e intervenuta in giudizio in qualità di responsabile civile.
P.Q.M.
Annulla la impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo altra Sezione per nuovo esame.