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Umberto I di Savoia (1878-1900)di Francesco CasulaUmberto I di Savoia, re d’Italia dal 1878 al 1900 fu responsabile (o comunquecorresponsabile in quanto capo dello stato) delle scelte più devastanti e perniciose, chefurono prese dai Governi, che operarono durante il suo regno, nei confronti della Sardegna.In modo particolare nel campo economico e fiscale, nel campo ambientale (con ladeforestazione selvaggia), nel campo delle libertà civili e della democrazia, con leggiliberticide e una repressione feroce.1. campo fiscale.Le tasse che la Sardegna paga sono superiori alla media delle tasse che pagano le altreregioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive GiuseppeDessì nel romanzo Paese d’ombre: “La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato leimposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sullasola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse.In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi afucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato daiCarabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentassedi difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano larassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”1.a. tassa sul macinatoDurante il suo regno permarrà l’imposta sul macinato (istituita nel 1868 ed abolita nel1880), l’imposta più odiosa di tutte, “perché gravava sulle classi più povere, consumatrici dipane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinatonelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello”2.b. aggio esattorialeScrive lo storico Ettore Pais:”Nelle altre province del regno l’aggio esattoriale ha una mediache non supera il 3%,, in Sardegna non è minore del 7% e in alcuni comuni arriva persino a14%”3.A dimostrazione che la pressione fiscale in Sardegna era fortissima e comunque più forteche nelle altre regioni ne è una riprova il fatto che dal 1 gennaio 1885 al 30 giugno 1897 –anni in cui Umberto I è re – si ebbero in Sardegna “52.060 devoluzioni allo stato diimmobili il cui proprietario non era riuscito a pagare le imposte, contro le 52.867 delle altreregioni messe insieme”4.Ed ancora nel 1913 – regnante il figlio Vittorio Emanuele III, di cui vedremo – , la mediadelle devoluzioni ogni 1000.000 abitanti era 110,8 in Sardegna e di 7,3 nel regno, è sempreNitti nel libro sopra citato a scriverlo.2. Campo economico1
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In seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto abeneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda.Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini,vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato.La “Guerra delle tariffe con la Francia – scrive ancora Giuseppe Dessì in Paese d’ombre –aveva interrotto le esportazioni in questo paese e diversi istituti bancari erano falliti.Clamoroso fu il fallimento del Credito Agricolo Industriale Sardo e della Cassa delRisparmio di Cagliari.Mentre Raimondo Carta Raspi annota: ”Nel solo 1883 erano stati esportati a Marsiglia26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Malauguratamente il protezionismo a beneficio delleindustrie del nord e la conseguente guerra doganale paralizzarono per alcuni anni questocommercio e l’isola ne subì un danno gravissimo non più rifuso coi nuovi trattati doganali”5.Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in comal’intera economia sarda. Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industrialisiderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – sostiene Gramsci – aicontadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli ebuoi.Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 epersino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzodel latte. Anche come conseguenza di ciò arrivano in Sardegna gli spogliatori di cadaveri.(Vedi Pimpiria).3. Campo ambientaleL’Isola del«grande verde»,che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadichee ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storiadocumenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio disecoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle stradeferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con FeniciCartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e perdedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli efuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato. Essi infattibruciarono persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre itoscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conteBeltrami devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna, mandò in fumo il patrimoniosilvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmodelle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento.Scriverà Eliseo Spiga :” lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”6.2
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Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operatadal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alladeforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sosfruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsii frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzupro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta alforestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).E Giuseppe Dessì, sempre nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: La salvaguardia delleforeste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad esseretenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno.5. Nel campo delle liberta e della democrazia. La “Caccia grossa” e i fatti di Sanluri.Umberto I non fu solo connivente con la politica coloniale, autoritaria, repressiva eliberticida dei Governi di fine Ottocento, da Crispi in poi, ma un entusiasta sostenitore:appoggiò le infauste “imprese” in Africa (con l’occupazione dell’Eritrea (1885-1896) edella Somalia (1889-1905), che tanti lutti e spreco di risorse finanziarie comportò: ben6.000 uomini (morirono nella sola battaglia e sconfitta di Adua nel 1896 e 3.000 cadderoprigionieri).Fu altrettanto sostenitore del tentativo, di imporre leggi liberticide da parte del governo delgenerale Pelloux nel 1898, tendenti a restringere le libertà (di associazione , riunione ecc)garantite dallo Statuto. Sempre nel 1898 (8 e 9 maggio), “le truppe del generale FiorenzoBava Beccaris spararono sulla folla inerme uccidendo circa 80 dimostranti e ferendone piùdi 400”7.EbbeneilreUmberto,ribattezzatodaglianarchiciRe mitraglia, forse per premiare ilgenerale stragista per la portentosa “impresa” non solo lo insignì della croce dell’Ordinemilitare di savoia ma in seguito lo nominerà senatore!Questo in Italia. In Sardegna l’anno seguente nel 1899 assisteremo alla “Caccia grossa”! Ilcapo del governo, il generale Pelloux – quello delle leggi liberticide che non passerannosolo per l’ostruzionismo parlamentare della Sinistra – invierà in Sardegna un vero e proprioesercito che, con il pretesto di combattere il banditismo, nella notte fra il 14 e il 15 maggioarrestò migliaia di persone.Ecco come descrive la Caccia grossa Eliseo Spiga ”Lo stato rispondeva la banditismocingendo il Nuorese con un vero e proprio stato d’assedio, senza preoccuparsi,,,di un’interasocietà che si vedeva invasa e tenuta in cattività come un popolo conquistato…Ed ecco gliarresti, a migliaia donne, vecchi e ragazzi…sequestrate tutte le mandrie e marchiate colfatidico GS, sequestro giudiziario…venduti in aste punitive tutti i beni degli arrestati e deiperseguiti…Gli arrestati furono avviati a piedi, in catene, ai luoghi di raccolta, Un sequestrodi persona in grande, per fare scuola”8.Ma la Sardegna, la repressione poliziesca durante il regno di Umberto I l’aveva conosciutaanche prima del 1899, in particolare a Sanluri. In questo grosso centro del Campidano, in unclima di povertà, di incertezza e disperazione, il 7 agosto 1881, scoppiò una sommossa3
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popolare contro il carovita e gli abusi fiscali, (Su trumbullu de Seddori), sommossa repressaviolentemente: ci furono 6 morti.Il fatto suscitò notevole apprensione in tutta l’Isola. e in gran parte della terra ferma, per imorti e per le gravi conseguenze giudiziarie. .L’8 novembre 1882 ebbe inizio il “Processo” giustamente chiamato della fame, perchévenivano processati dei poveracci morti di fame: Tale processo per il numero degli imputatie per la sua durata, (terminò il 26 febbraio 1883) fu ritenuto uno dei più importantidell’isola.La sentenza fu molto pesante, soprattutto verso alcuni imputati giovanissimi: Vennecondannato a 10 anni di reclusione Franceschino Garau Manca, detto “Burrullu” di anni 16,mentre Giuseppe Sanna Murgano di anni 19 ed Antonio Marras Ledda di anni 18 furonocondannati a 16 anni di Lavori Forzati.Note Bibliografiche1. Giuseppe Dessì, prefazione di Sandro Maxia, Ed. Ilisso, Nuoro 1998, pagina 292.2 Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 440.3. F. Pais Serra, Antologia storica della Questione sarda a cura di L. Del Piano, Cedam,Padova, 1959, pagina 245.4. F. Nitti, Scritti nella Questione meridionale, Laterza, Bari, 1958, pagina 1625. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 882.6. Eliseo Spiga, La sardità come utopia, note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006,pagina 161.7. Franco della Paruta, Storia dell’Ottocento, Ed. Le Monnier, Firenze, 1992, pagina 461.8. Eliseo Spiga, La sardità come utopia, note di un cospiratore, op. cit. pagina 162.4
Archivio mensile:agosto 2017
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BOCCIATA LA SCUOLA (ITALIANA) IN SARDEGNA
Fra tutte le venti regioni, gli alunni sardi, registrano i peggiori risultati: sono i più bocciati e i più rimandati. Nella scuola Secondaria di secondo grado il 28,6 per cento ha la sospensione di giudizio, cioè rimandato e, l’11,4 è stato bocciato. Solo il 60 per cento promosso.
Il numero più alto di alunni bocciati si registra nelle scuole professionali con il 17,3 per cento: significa che quasi uno su cinque ripete lo stesso anno, mentre il 31% è rimandato. Sale il dato nei Tecnici dove i rimandati sono il 32,8 per cento e il 14,4 per cento i non ammessi alla classe successiva.
Anche nelle Secondarie di Primo grado si registrano risultati negativi per l’anno scolastico appena terminato: in Italia la percentuale degli ammessi alla classe successiva è il 97,7, in Sardegna si sta sotto la media con il 97,2 e il 2,8 per cento di bocciati. E la dispersione scolastica è la più alta d’Italia: un ragazzo su quattro non arriva al diploma.
Gli studenti sardi sono più tonti di quelli italiani? O poco inclini allo studio e all’impegno? E i docenti sono più scarsi o più severi? Io non credo. Come non penso che svolgano più un ruolo determinante la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), anche se certamente influenzano negativamente i risultati scolastici.
E allora?
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E allora i motivi veri sono altri: attengono alle demotivazioni, al senso di lontananza e di estraneità di questa scuola. Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente. La scuola italiana in Sardegna infatti è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda.
E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.
Di qui la mortalità e la dispersione scolastica.
Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici.
Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Di qui la necessità che nelle scuole di ogni ordine e grado si inserisca la lingua e la cultura sarda, come materia curriculare. Altrimenti i record negativi della scuola in Sardegna permarranno. E continuare a piangersi addossso e a lamentarci servirà a poco.
Il manifesto
Il Manifesto
IL Fatto
UNIONE
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Beata Vergine Maria Regina
L’undici ottobre 1954, S. S. Pio XII istituì la festa della Regalità di Maria, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo il giorno 31 maggio; fu poi trasferita al 22 agosto, giorno ottavo dell’Assunzione, per sottolineare il legame della regalità di Maria con la sua glorificazione corporea.
Con tale festa il Papa ha voluto sigillare, con la sua autorità, la voce dei monumenti antichi e delle preghiere liturgiche e il senso del popolo cristiano, che attribuirono perennemente alla Vergine la dignità regale.
Non si tratta quindi di una nuova verità proposta al popolo cristiano, perché il fondamento e le ragioni della dignità regale di Maria, abbondantemente espresse in ogni età, si trovano nei documenti antichi della Chiesa e nei libri della sacra liturgia.
Infatti fin dai primi secoli della Chiesa Cattolica il popolo cristiano ha elevato preghiere e inni di lode e di devozione alla Regina del Cielo, sia nelle circostanze liete, sia, e molto più, nei periodi di gravi angustie e pericoli; nè vennero meno le speranze riposte nella Madre del Re Divino, Gesù Cristo; e la fede dí coloro che sempre credettero che la Vergine Maria, Madre di Dio, presiede all’universo con cuore materno, spesse volte fu premiata con grazie elette e divini favori.
Il primo e più profondo motivo della dignità regale di Maria consiste nella sua maternità divina. Poichè Cristo, per l’unione ipostatica è, anche come uomo, Signore e Re di tutta la creazione, così Maria, « la Madre del Signore », partecipa, benchè in modo analogo, alla dignità regale del suo Figlio.
A buon diritto quindi S. Giovanni Damasceno scrive: « Maria è veramente diventata la Signora di tutta la creazione, nel momento in cui divenne Madre del Creatore; e lo stesso Arcangelo Gabriele può dirsi l’araldo della dignità regale di Maria ».
La Beatissima Vergine è Regina non soltanto come conseguenza della maternità divina, ma anche per la parte singolare che, per volontà di Dio, ebbe nell’opera della Redenzione. Infatti come Cristo è nostro Signore e Re anche per il fatto che ci ha redenti col suo prezioso Sangue, così Maria, in modo analogo, è pure nostra Regina, perchè prese intima parte, come nuova Eva, all’opera redentrice di Cristo, novello Adamo, soffrendo con Lui ed offrendolo all’Eterno Padre.
E’ certo che in senso pieno, proprio e assoluto, soltanto Gesù Cristo, Dio e Uomo, è Re; tuttavia anche Maria, sia come Madre di Cristo Dio, sia come socia nell’opera del Divin Redentore e nella lotta contro i nemici e nel trionfo ottenuto su di essi, partecipa alla sua dignità regale.
Infatti da questa unione con Cristo Re deriva a Lei tale splendore e sublimità da superare l’eccellenza di tutte le cose create: da questa stessa unione con Cristo nasce quella regale potenza per cui Ella può dispensare i tesori del regno del Divin Redentore; infine dalla stessa unione con Cristo ha origine la inesauribile efficacia della sua materna intercessione presso il Figlio e presso il Padre.
Nessun dubbio pertanto che Maria SS.ma sopravanzi in dignità tutta la creazione e abbia su tutti il primato, dopo il suo Figliuolo.
Se il mondo oggi lotta senza tregua per assicurare la pace, l’invocazione del regno di Maria è più efficace di tutti i mezzi terreni per ottenere questo scopo.
Pertanto tutti i fedeli cristiani si sottomettano all’impero della Vergine Madre di Dio, la quale mentre dispone di un potere regale, arde di un materno amore.
PRATICA: Magnifichiamo con legittimo orgoglio di figli la regalità di Maria e proponiamo di riconoscere nella Vergine la nostra vera Madre e Regina. Proponiamo di avvicinarci con maggior fiducia al trono di grazia e di misericordia della Regina e Madre nostra, per chiedere soccorso nelle avversità, luce nelle tenebre, conforto nel dolore e nel pianto, e soprattutto per ottenere in terra quella pace che è il pegno della beatitudine eterna del Paradiso.
PREGHIERA: « …Vergine Augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, nè trionfi contro di me l’iniquo avversario » (S. Efrem).
NEWSLETTER LAVORO n. 795 del 17 agosto 2017
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San Giacinto Odrovaz
Nacque a Kamień in Slesia attuale Polonia dalla nobile ed antichissima famiglia Odrovaz, nell’anno 1183. Fin da giovanetto mostrò grande inclinazione alla virtù ed al raccoglimento. I suoi genitori lo affidarono ad ottimi maestri nella nativa città, poi venne mandato all’Università di Praga ed indi in Italia all’Università di Bologna.
Quando ritornò in patria ricco di virtù e di sapere, fu dallo zio Ivo, vescovo di Cracovia, impiegato nella amministrazione della vasta diocesi. Tutte queste occupazioni non gli impedirono di compiere i suoi doveri verso Dio.
Tenerissimo verso i poveri e verso i derelitti, spendeva tutte le sue entrate in elemosine con tanta generosità che talvolta riduceva se stesso nell’indigenza. Nell’anno 1218, dovendo lo zio Ivo fare un viaggio a Roma, condusse seco Giacinto. Quivi il nostro Santo conobbe S. Domenico, già celebre per la fama dei suoi miracoli, per la sua predicazione, e per la fondazione del nuovo ordine religioso. Il desiderio che anche la Polonia partecipasse dei vantaggi che S. Domenico procurava alla Chiesa, mosse Ivo e Giacinto a domandargli qualche suo discepolo, onde fondare anche nella loro patria conventi di Predicatori.
Domenico prese quattro domestici del vescovo Ivo, li vestì dell’abito religioso, li istruì e li mandò in patria, nel giro di soli sei mesi: tra questi vi era pure Giacinto. Aveva allora 35 anni.
Partirono da Roma a piedi e senza alcuna provvista. Quando Giunsero a Cracovia, il popolo che li attendeva li salutò come ambasciatori di Dio. In breve tutta la diocesi fu cambiata: i vizi furono debellati e si incominciò a vivere una vita di fervore e di fede.
Ma, essendo la Polonia un campo troppo ristretto per lo zelo di Giacinto, si recò a portare la buona parola in Livonia, Svezia, Danimarca, Norvegia, Scozia, si inoltrò nella Russia, fino al Mar Nero, e giunse anche alla Cina.
Nelle sue peregrinazioni apostoliche Giacinto si fermò parecchio nella città di Kiovia, allora capitale della Russia, ed ivi edificò un gran convento. Venuta l’invasione dei Tartari, il nostro Santo fu costretto a fuggire coi suoi compagni ed attraversata miracolosamente la Vistala sul suo mantello, giunse a Cracovia.
Due anni dopo visitò tutti i fedeli da lui evangelizzati e li confermò nella fede. Avendogli Iddio rivelato che era vicino il giorno della sua morte, ritornò nuovamente in patria, dove lo colse la febbre. Recatosi in chiesa, domandò e ricevette il S. Viatico e l’Estrema Unzione, e nel giorno dell’Assunta, 15 agosto 1257, volò al cielo a ricevere il premio delle sue grandi fatiche apostoliche.
PRATICA. Facciamo una preghiera, un’offerta o un sacrificio per la diffusione del Vangelo.
PREGHIERA. O Signore, che ci allieti ogni anno colla festa del tuo santo confessore Giacinto, concedici propizio che, mentre ne celebriamo la festa, ne imitiamo anche le azioni.
Cassazione
Al lavoro fa troppo caldo? Il lavoratore può rifiutarsi di lavorare…
Richiedi una consulenza su questo argomento
In questi giorni di caldo eccezionale sono ancora tanti i lavoratori che devono comunque andare a lavoro, perchè sono già andati in ferie in precedenza o perchè lavoratori stagionali o per altre svariate ragioni, magari dovute a datori di lavoro poco attenti. Ma cosa succede se al lavoro fa troppo caldo? Il lavoratore può rifiutarsi di lavorare? Cosa prevede la legge?
In base all’articolo 2087 del codice civile il datore di lavoro è obbligato a tutelare la salute e l’integrità fisica e morale del lavoratore, per fare ciò deve adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che sono necessarie, in base alla tipologia di lavoro e sulla base dell’esperienza e della tecnica.
Il Microclima nel T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro
Anche il Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, D. lgs 81/2008, impone al datore di lavoro di valutare tutti i rischi derivanti da esposizione ad agenti fisici, fra cui il microclima.
Questi infatti possono comportare rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, sia nell’immediato che nel lungo periodo.
In tal senso quindi il datore di lavoro, nel redarre il DVR, documento per la valutazione dei rischi, deve tener conto anche del fattore microclima sul luogo di lavoro, sia che si tratti di un ambiente di lavoro troppo freddo, sia se al lavoro fa troppo caldo.
Sentenza della Cassazione sul microclima a lavoro
Anche la Cassazione ha riconosciuto al lavoratore il diritto di astenersi dal lavoro senza perdere il diritto alla retribuzione nel caso di temperature proibitive.
Nell’ultima sentenza disponibile risalente al 2015, la Cassazione si è pronunciata in merito ad un caso di alcuni lavoratori che a causa del freddo eccessivo si erano astenuti dal lavoro.
Leggi anche: Al lavoro fa freddo? Il lavoratore può astenersi dal lavorare
Per gli Ermellini era stata legittima l’astensione dal lavoro, in quanto riconducibile alla impossibilità di eseguire la prestazione lavorativa dovuta alla temperatura troppo bassa nell’ambiente di lavoro.
Pertanto i lavoratori avevano il diritto ad essere retribuiti, anche senza aver effettuato la prestazione lavorativa.
Cassa Integrazione per caldo o freddo eccessivi
Anche l’INPS ha previsto la possibilità per le aziende di ricorrere alla Cassa Integrazione Ordinaria nel caso di eccessive temperature.
La CIG in edilizia ad esempio può essere richiesta nelle condizioni climatiche più critiche cioè quando il caldo o il freddo sono proibitivi.
La CIG infatti viene riconosciuta dall’Inps per il lavoro con temperature superiori ai 34 gradi.
Cosa fare se al lavoro fa troppo caldo
In conclusione il lavoratore, nel caso in cui a lavoro fa troppo caldo, può andare via e chiedere un permesso se:
- il caldo eccessivo è dovuto a malfunzionamenti degli impianti di climatizzazione;
- se il caldo è dovuto a eventi atmosferici eccezionali.
Nel caso in cui il lavoratore è obbligato a lavorare nonostante le alte temperature, ci sono comunque norme e prassi da seguire per evitare danni alla propria salute.
Proprio in questi giorni l’INAIL e il Ministero della Salute hanno rilasciato un’utile guida sui buoni comportamenti da seguire quando si è costretti a stare a lavoro nonostante le temperature eccessivamente calde.
Nell’opuscolo, che trovate a fondo articolo, si trovano ottimi consigli sulle situazioni che potrebbero verificarsi nei luoghi di lavoro quando il caldo è eccessivo. Ad esempio:
- Cosa fare in caso di colpo di calore del lavoratore;
- cos’è lo stress termico nei luoghi di lavoro;
- chi sono i lavoratori a rischio;
- quali sono i fattori di rischio.
Nella guida inoltre si possono trovare ottimi consigli sia per i lavoratori che per i datori di lavoro.
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Santa Chiara
Nacque Chiara nell’anno 1193 da nobili e ricchi genitori in Assisi, e fin da giovanetta dimostrò una grande pietà e devozione. In quegli anni la fama del suo concittadino Francesco cominciava ad allargarsi, e Chiara, decisa di consacrarsi al suo Signore, si presentò a lui per comunicargli il suo ardente desiderio di ritirarsi dal mondo. Francesco riconobbe in questa piissima giovane la chiamata di Dio e perciò la confermò nel suo proposito di consacrare a Gesù Cristo la sua verginità.
Venuto il giorno stabilito, Chiara fuggì dalla casa paterna e si portò alla chiesa di S. Damiano ove Francesco, assistito dai suoi monaci, le tagliò i capelli e la rivestì del ruvido saio di penitenza di cui egli era già ricoperto.
I suoi parenti, oltremodo irritati per questa sua risoluzione, tentarono in vari modi, anche colla violenza, di sottrarla al sacro ritiro, ma Chiara, colla grazia del Signore, superò ogni ostacolo.
Poco dopo si unirono a lei numerose vergini, e perfino sua sorella Agnese: tutte si esercitavano nell’orazione e nelle mortificazioni quotidiane della vita comune, di cui Chiara dava un sì chiaro esempio. Dormiva sulla nuda terra, qualche volta tormentandosi ancora nelle brevi ore di riposo con sarmenti o con duro legno che usava per guanciale. Portava sempre ai fianchi un aspro cilicio, digiunava tre volte alla settimana a pane ed acqua.
Devotissima del SS. Sacramento, passava lunghe ore innanzi all’altare, assorta in profonda meditazione. E Gesù la ricompensò di questo suo affetto anche col dono dei miracoli. Infatti avendo una volta i Saraceni tentato di invadere il suo monastero, Chiara, animata da fiducia nel Signore, quantunque inferma, prese tra le mani l’ostensorio e fattasi portare alla finestra minacciata del monastero tracciò sugli infedeli un gran segno di croce dicendo: « Non permettere o Signore che le anime in te fidenti cadano in mano di bestie ». Una luce vivissima allora investì gli assalitori accecandoli, mentre una forza arcana rovesciava le scale e precipitava a terra i predoni.
S. Chiara era pure devota della passione di Gesù Cristo, che meditava versando copiosissime lacrime. Da questa devozione attinse tanto amore alla santa povertà che ricusò perfino le proposte fattele dal Papa Gregorio IX di una povertà più mitigata, ed ottenne per sè e per le sue suore quello che chiamò « il privilegio della povertà ».
Negli ultimi anni di sua vita, Chiara fu molestata da continue infermità e patimenti corporali, ma colla sua preghiera fervente ottenne dal Celeste Sposo una pazienza invitta, e fra i suoi dolori si dimostrò sempre contenta e serena.
Prima di morire fece testamento: non per lasciare beni temporali, ma bensì per lasciare alle figliuole del suo cuore la santa povertà come loro divisa, come loro difesa e come loro gloria, e a 60 anni di età, piena di meriti, nell’anno 1253 rese la sua bell’anima a Dio.
PRATICA. Mettiamo tutta la nostra confidenza in Gesù Eucaristico e saremo liberati da ogni male, specie dal peccato.
PREGHIERA. Esaudiscici, o Dio nostro Salvatore, affinchè, come ci allietiamo della festa della tua beata vergine Chiara, così veniamo ammaestrati nella devozione.
San Lorenzo
San Lorenzo
Nacque ad Osca in Spagna nel 226 da nobilissimi e santi genitori. Tanti furono i doni che ricevette nei Sacramenti del Battesimo, Cresima ed Eucaristia, che sembrò prevenuto dalla grazia; mentre era ancora bambino s’astenne sempre da ogni divertimento puerile e fu a tutti modello di docilità e santa innocenza. Ricevuta la prima istruzione in patria, passò a Saragozza per apprendere lettere, ed in questa celebre Università i suoi progressi furono sì rapidi e meravigliosi, che era ritenuto il migliore di tutti gli allievi. In questo tempo il Vescovo di quella città, vedendo in lui un tal candore di vita, gli conferì gli ordini dell’Ostiariato, del Lettorato ed Esorcistato.
Trovandosi nella penisola Iberica il futuro Papa Sisto II, allora arcidiacono della Chiesa Romana, avendo udito parlare delle virtù di Lorenzo, lo condusse seco a Roma, ove personalmente ebbe cura della sua formazione. All’età di 17 anni, per il suo progresso nella scienza e nella virtù, fu dal Pontefice Fabiano ordinato accolito, sei anni dopo suddiacono e quindi diacono: aveva 27 anni. Nel 258, essendo stato eletto alla Cattedra di Pietro Sisto II, Lorenzo divenne arcidiacono della Chiesa Romana, càrica che corrisponde alla attuale dignità cardinalizia.
Ma mentre la Chiesa lavorava e si espandeva ognor più fra i pagani, specie per l’infuocata predicazione di Lorenzo, si scatenò la persecuzione di Valeriano che al dire di San Dionisio fu delle più terribili.
Lorenzo fu imprigionato e torturato. Poco tempo dopo anche S. Sisto venne preso e condannato al carcere. Mentre il Pontefice veniva barbaramente trascinato dalla soldatesca, gli si fece incontro Lorenzo che col volto bagnato di lacrime incominciò ad esclamare: « Dove vai, o Padre, senza il tuo figlio? Per dove ti incammini, o santo sacerdote, senza il tuo diacono? ». Sisto gli rispose: « Io non ti lascio né ti abbandono, o figlio, ma a te spettano altri combattimenti… Dopo tre giorni mi seguirai… Prendi le ricchezze ed i tesori della Chiesa e distribuiscili a chi tu meglio credi ».
Lorenzo fece diligente ricerca di quanti poveri e chierici potè trovare nei quartieri di Roma e distribuì loro tutte le ricchezze. Poscia, salutati per l’ultima volta i Cristiani, si portò da Valeriano che già l’aveva fatto chiamare, ed all’intimazione di recargli i beni della Chiesa, promise che entro tre giorni glieli avrebbe mostrati. Percorse le vie della città, raccolse un gran numero di poveri e glieli condusse dicendo: « Ecco qui i beni della Chiesa! ». Ma quell’uomo irritato gridò: « Come hai tu ardito beffarti di me?… Io so che tu brami la morte… Ma non credere di morire in un istante poichè io prolungherò i tuoi tormenti ». Ordinò infatti che Lorenzo fosse posto su una graticola di ferro rovente ed arrostito lentamente. Ma nel cuore del Martire ardeva un incendio ben maggiore! Quando fu bruciato da una parte, il carnefice ordinò che lo rivoltassero, ed avendo gli aguzzini ubbidito, il Martire con volto sereno disse: « Ora potete mangiare, perchè la mia carne è già cotta abbastanza ».
Nuovi insulti uscirono dalla bocca del prefetto, ma il Martire, cogli occhi rivolti al cielo si offriva al Signore invocando su Roma la divina misericordia, per incoraggiare ancora una volta i Cristiani presenti. Tra questi spasimi spirò la sua grande anima. Era il 10 agosto 258.
PRATICA. Sopportate con pazienza e rassegnazione le sofferenze della vita ed offritele a Dio per la propagazione della fede.
PREGHIERA. Dacci, te ne preghiamo, Dio onnipotente, la grazia di estinguere le fiamme dei nostri vizi, tu che desti al beato Lorenzo la forza di superare il fuoco dei suoi tormenti.