Archivi giornalieri: 7 agosto 2023

Ma I NURAGICI CONOSCEVANO LA SCRITTURA?

MA I NURAGICI CONOSCEVANO LA SCRITTURA?

di Francesco Casula

Nei testi scolastici ufficiali continuiamo a leggere che “l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici”: esattamente come sostiene l’archeologo Donald B. Harden. Da non pochi anni però alcuni studiosi sardi hanno iniziato a mettere in discussione la storiografia ufficiale affermando che la scrittura in Sardegna era nota molti secoli prima: la conoscevano infatti e l’utilizzavano i cosiddetti “Nuragici”, gli scribi sacerdoti dell’età del bronzo finale e del ferro. A sostenerlo è soprattutto lo studioso oristanese Gigi Sanna (1) che si occupa con una rigorosa e ormai trentennale ricerca, dell’interpretazione di antichissimi documenti di scrittura in metallo, in pietra e in ceramica, rinvenuti in Sardegna e non solo. Egli è così arrivato alla conclusione, esposta in libri (in modo particolare in Sardoa Grammata e nel testo di didattica I geroglifici dei Giganti- Introduzione allo studio della scrittura nuragica), e in numerosi articoli e saggi, che i cosiddetti Nuragici conoscessero, leggessero e utilizzassero vari system alfabetici.
“La Stele di Nora – scrive Gigi Sanna – è, insieme alle minuscole ‘tavolette’ rinvenute in un ripostiglio nei pressi del Nuraghe Tzricotu di Cabras (con le quali condivide identici “principii” e modalità di scrittura), un bellissimo documento attestante il ruolo dell’altissima e raffinatissima scuola scribale nuragica della Sardegna (già operante dalla fine del Secondo Millennio a.C.) e non prodotto scrittorio di quella “fenicia”. Lo dimostrano, senza margini di dubbio, le recenti scoperte della scrittura e della stessa lingua nuragica; il rinvenimento del “coccio” nuragico di Orani (con segni alfabetici e contenuto identici a quelli della stele norense; la rilettura di questa in base a stupefacenti scoperte epigrafiche (ad es. i due “shalom” laterali della lastra, individuati dalla dott. Alba Losi dell’Università di Parma) che spingono nella direzione di letture aggiuntive rispetto alla “normale” lettura retrograda; la conferma dell’esistenza di una scrittura “numerica” a rebus, che dà al documento un significato eccezionale nella stessa storia generale della scrittura consonantica; la stupefacente comparsa del nome di un “santo” nuragico (LPHSY > EPHISY), oggi celeberrimo santo cristiano dell’Isola, alla fine della scritta (nome di persona che sostituisce l’improbabile, anche perché rarissimo, nome del dio Pumay).
Il Sanna dunque fa risalire con certezza alla cultura specifica alfabetica dei nuragici la Stele di Nora: lo confermerebbe in modo incontestabile anche il ritrovamento recente di un documento: un ciondolo scritto, di pietra grigio-scura, di forma ellissoidale (cm.7,5×4,3) contenente dei segni di scrittura graffiti in entrambe le facce alcuni dei quali solo apparentemente “fenici” perché scritti con il codice fenicio.
A conferma della presenza della “scrittura nuragica” inoltre, nel corso di un ventennio e più di ricerca, lo studioso oristanese ha proposto, oltre alla suddetta stele, più di trecento documenti, in vario supporto scrittorio scritti in diversi periodi “nuragici”. Oltre alle quattro “tavolette” bronzee (più propriamente “sigilli”: i sigilli dei ‘Giganti’ di Monte ‘e Prama) di Tzricotu di Cabras e ai “cocci di Orani”, ricordiamo il “brassard” di Is Locci – Santus di San Giovanni Suergiu, il sigillo di S. Imbenia di Alghero, lo spillone di Antas di Fluminimaggiore, il coccio del Nuraghe Alvu di Pozzomaggiore, la pietra del Nuraghe Pitzinnu di Abbasanta, il coccio di Su Pranu di Selargius, la pietra di YHW di Aidomaggiore, la fusaiola “nuraghetto” di Su Cungiau de is mongias di Uras, la pietra della capanna di Perdu Pes di Paulilatino, il frammento di “alyl” (crogiolo) del Nuraghe Addanas (Cossoine), la scritta dell’archetto della chiesetta campestre di San Nicola di Trullas di Semestene, la pietra di Jerzu, il ciondolo di Solarussa. Naturalmente ricordiamo anche e soprattutto la barchetta fittile di s’Urbale di Teti, unico documento, per ora, “accettato” dalla scienza accademica in quanto, sottoposto a perizia, è stato giudicato essere stato scritto all’incirca nel IX secolo a.C. E, notizia fondamentale, con i segni graffiti “ante coctionem”.
Tantissimi documenti dunque, tutte belle prove attinenti non solo alla disciplina epigrafica ma anche a quella scientifica storica in quanto “fonti dirette” o di conoscenza primaria. Le prove insperate che servono per far passare la Sardegna dalla preistoria alla storia, anche quella più conosciuta, del Mediterraneo.
“Eppure c’è da scommettere – scriveva specificamente per la stele e scrive ancora Sanna per gli altri documenti – che da parte dei soliti negazionisti e dei cosiddetti feniciomani si cercherà di soffocare il tutto con il più rigoroso silenzio”.
Perché, evidentemente, si tratta di verità “scomode”, che mettono in discussione e il più delle volte inficiano vecchie certezze di accademici e sovrintendenti che su di esse hanno costruito le loro carriere e i loro successi. Ad iniziare dall’inglese Donald Harden.
Nota Bibliografica
1. Gigi Sanna, Sardôa grammata, Ed. S’Alvure, Oristano, 2004

L A STRAGE DI BOLOGNA

Di fronte al tentativo di negare verità storiche e anche processuali, ripubblico il mio articolo pubblicato su “In Terris”, nell’anniversario della strage di Bologna “2 agosto 1980: 43 anni fa la strage di Bologna”

43 anni orsono, il 2 agosto del 1980, alle 10,25, un improvviso boato coprì le mille voci festose dell’affollata stazione ferroviaria di Bologna. Una potentissima bomba era scoppiata nella sala d’aspetto di seconda classe, provocando il crollo dei piani superiori dove si trovavano gli uffici dell’azienda di ristorazione Cigar. Crolla anche la pensilina per ben 30 metri e la potente esplosione investe anche il treno Ancona-Chiasso, che era in sosta al primo binario.
Il bilancio delle vittime è terribile: 85 morti e 200 feriti. L’attentato è subito denominato “strage di Bologna”, così come l’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura del 12 dicembre 1969, con i suoi 17 morti e 88 feriti, era già passato alla storia come la “strage di Milano”. Ha il triste primato di essere la più grande dell’intera storia dell’Italia repubblicana.
Il presidente Sandro Pertini, prontamente accorso a Bologna, essendo già accertato, con la prova evidente del cratere provocato dalla bomba, che si era trattato di un attentato, dopo la prima ipotesi che all’origine vi fosse stata l’esplosione di una caldaia, disse sgomento: “Siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia”.
Il settimanale “L’Espresso”, la settimana successiva, uscì con un numero speciale che in copertina aveva la riproduzione di un dipinto di Renato Guttuso, realizzato per l’occasione, cui è dato lo stesso titolo di una nota incisione di Francisco Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”, con l’aggiunta della data della strage, 2 agosto 1980, vicino alla firma del pittore siciliano.
Gli autori materiali dell’attentato e, ancor più, i loro ispiratori-mandanti-finanziatori sono sicuramente “mostri”, certamente, però, non folli. La Strage di Bologna è l’atto forse più eclatante del progetto eversivo che mirava, con una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, a creare in Italia uno stato di tensione e di paura diffusa e crescente ad auspicare e giustificare una svolta di tipo autoritario dell’azione governativa e dello stesso assetto istituzionale.
Furono gli inviati in Italia del settimanale inglese, “Observer”, in un servizio di cronaca e commento dell’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura del 12 dicembre del 1969, a scrivere per primi di “Strategy of Tension”, coniando una categoria interpretativa, che nella traduzione italiana, “strategia della tensione”, era destinata ad avere larga e perdurante condivisione. A livello di studiosi ma anche di pubblica opinione.
Illuminante è, al riguardo, il libro, “Dietro tutte le trame. Gianfranco Alliata e le origini della strategia della tensione” (Donzelli 2022), di Giovanni Tamburino, magistrato dal 1970 al 2015, componente, negli anni Ottanta, del Consiglio superiore della magistratura, oggi presidente dell’Archivio Flamigni. Il suo ricco Centro di documentazione, con costante attenzione al mondo della scuola e dell’università, promuove e coordina ricerche sulla stagione delle stragi e del terrorismo, animando anche la “Rete degli archivi per non dimenticare”.
Ha ribadito lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo messaggio inviato lo scorso anno all’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna: “L’immagine della stazione ferroviaria con l’orologio fermo al minuto della tremenda esplosione è divenuta simbolo della disumanità del terrorismo, dell’attacco sferrato al cuore della democrazia italiana e della risposta, ferma e solidale, che la società e lo Stato seppero dare agli eversori assassini. La strage di Bologna – ha continuato il Capo dello Stato – era iscritta in una strategia che mirava a destabilizzare le istituzioni e la sua matrice è stata accertata dalle conclusioni giudiziarie”.
Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Bologna, depositate nell’aprile di quest’anno, che in oltre 1.700 pagine ne elencano le prove “granitiche”, si legge: “In conclusione, deve ritenersi che l’esecuzione materiale della strage di Bologna sia imputabile a un commando di soggetti provenienti da varie organizzazioni eversive, tra i quali era presente Paolo Bellini, uniti dal comune obiettivo di destabilizzazione dell’ordine democratico, coordinati dai funzionari dei servizi segreti o da altri esponenti di apparati dello Stato, che a loro volta rispondevano delle direttive dei vertici della Loggia P2, cui avevano giurato fedeltà, con un vergognoso tradimento della Costituzione Repubblicana”.
È questa, secondo la Corte d’Assise di Bologna, l’articolata struttura che ha pensato, finanziato e realizzato la strage alla stazione di Bologna, come emerge dalle 1.714 pagine delle motivazioni della sentenza del processo che ha condannato Bellini all’ergastolo.
Avendo presente le finalità della strategia della tensione è facile comprendere perché fu scelta proprio la stazione di Bologna, il nodo ferroviario più importante in cui convergono treni e passeggeri di tutta Italia, come obiettivo dell’attentato, con la mefistofelica intelligenza di collocare la bomba nella sala d’attesa di seconda classe, per di più in fascia oraria di grande affollamento. Per di più il 2 agosto, quando nel pieno delle ferie è comune il proposito di liberarsi dalle fatiche, dalle preoccupazioni e dalle tensioni di un anno di lavoro.
Nella logica della strategia della tensione provocare tante vittime anonime, uomini e donne, di tutte le età e di tutte le regioni, compresi degli stranieri, avrebbe conseguito un effetto moltiplicatore, non momentaneo, nella creazione di un clima di paura e d’insicurezza propizio per il progetto eversivo.
Nel sito ufficiale dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna 2 agosto 1980 (http://www.stragi.it), nel quale, con una grande mole di documenti, immagini e testimonianze, sono ricostruite la strage e la vicenda politico-giudiziaria, in un’apposita sezione, “Le vittime”, è dato loro un volto e un’identità, personale e familiare. Ne cito solo due, Maria Fresu e la figlia Angela, una bambina di soli tre anni, che assieme a due amiche erano in viaggio per una breve vacanza sul Lago di Garda. I resti martoriati di Maria furono ritrovati e riconosciuti sono a fine dicembre. Era di una famiglia sarda, con ben sette fratelli, che vivevano in Toscana, a Montespertoli, come tanti isolani che, a seguito della crisi della mezzadria avevano occupato e ridato vita con l’attività agropastorale ai poderi delle colline toscane.
Le vittime, nel loro insieme, sono una fotografia emblematica dell’Italia popolare, frutto anche delle grandi migrazioni interne, che, grazie alle conquiste, anche salariali, del decennio precedente può permettersi persino brevi vacanze. Quest’Italia, come dai versi della bellissima canzone preveggente, “Viva l’Italia”, dell’anno prima, di Francesco De Gregori, “l’Italia che lavora”, “l’Italia presa a tradimento e colpita al cuore”, con la reazione delle istituzioni e dei cittadini seppe rispondere con fermezza e unità. Citando ancora i versi di De Gregori, si rivelò come “l’Italia che non ha paura, l’Italia che resiste”.

Carlo Felice Casula