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Il mobbing nel Jobs act | ||||
Candeloro (Inca): difficile affermarlo, impossibile dimostrarlo | ||||
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Lasciato per più di un anno inattivo, senza compiti, isolato, privo di scrivania e di un ufficio, costretto a sostare in piedi lungo il corridoio, poi spostato al cimitero, come sede di lavoro, per lo svolgimento delle pratiche. Ce n’è abbastanza per la Corte di Cassazione per stabilire l’esistenza di un comportamento persecutorio da parte del datore di lavoro, da configurarsi come mobbing e di conseguenza per condannare un Comune calabrese al pagamento del danno biologico, a titolo di risarcimento, in favore di un dipendente della polizia municipale. La sentenza n. 2142 del 27 gennaio è l’ultima, in ordine di tempo, in tema di mobbing, ma non ce ne sono molte altre dello stesso segno. Difficile è dimostrare l’intento persecutorio del datore di lavoro, base necessaria per il riconoscimento di comportamento mobbizzante, quasi impossibile quando mancano riferimenti legislativi certi, in grado di definirlo. A complicare le cose – spiega Silvino Candeloro, del collegio di presidenza Inca -, si è aggiunto il Jobs act che, eliminando ogni vincolo ai licenziamenti, incoraggia i datori di lavoro ad usare ogni mezzo per liberarsi di manodopera scomoda, per esempio, scegliendo di ‘risolvere’ rapporti di lavoro più costosi per favorire l’ingresso di persone con contratti più precari”. |
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Archivio mensile:marzo 2017
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INCA NAZIONALE
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Il mobbing nel Jobs act | ||||
Candeloro (Inca): difficile affermarlo, impossibile dimostrarlo | ||||
Lasciato per più di un anno inattivo, senza compiti, isolato, privo di scrivania e di un ufficio, costretto a sostare in piedi lungo il corridoio, poi spostato al cimitero, come sede di lavoro, per lo svolgimento delle pratiche. Ce n’è abbastanza per la Corte di Cassazione per stabilire l’esistenza di un comportamento persecutorio da parte del datore di lavoro, da configurarsi come mobbing e di conseguenza per condannare un Comune calabrese al pagamento del danno biologico, a titolo di risarcimento, in favore di un dipendente della polizia municipale. La sentenza n. 2142 del 27 gennaio è l’ultima, in ordine di tempo, in tema di mobbing, ma non ce ne sono molte altre dello stesso segno. Difficile è dimostrare l’intento persecutorio del datore di lavoro, base necessaria per il riconoscimento di comportamento mobbizzante, quasi impossibile quando mancano riferimenti legislativi certi, in grado di definirlo. A complicare le cose – spiega Silvino Candeloro, del collegio di presidenza Inca -, si è aggiunto il Jobs act che, eliminando ogni vincolo ai licenziamenti, incoraggia i datori di lavoro ad usare ogni mezzo per liberarsi di manodopera scomoda, per esempio, scegliendo di ‘risolvere’ rapporti di lavoro più costosi per favorire l’ingresso di persone con contratti più precari”. |
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Presentazione
L’Ute presenta la “controstoria” di Francesco Casula
GAVOI. Domani, alle ore 18, nella sala consiliare, l’Universidade libera de sos ansianos presenta l’opera dello scrittore di Ollolai, Francesco Casula: “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”. Dopo il… di Giovanni Maria Sedda

GAVOI. Domani, alle ore 18, nella sala consiliare, l’Universidade libera de sos ansianos presenta l’opera dello scrittore di Ollolai, Francesco Casula: “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”. Dopo il saluto della presidente dell’Universidade, Mariangela Maoddi, seguirà la relazione introduttiva di Tonino Bussu, poi si aprirà il dibattito a cui seguiranno le conclusioni dell’autore. «Francesco Casula con quest’opera – spiega Tonino Bussu – vuole “istrumprare” (cioè stendere a terra con la lotta sarda), Carlo Felice insieme a tutti i tiranni sabaudi e credo che ce l’abbia fatta con motivazioni profonde, con una ricca bibliografia, con citazioni di storici anche filosabaudi come Giuseppe Manno o Pietro Martini, ma anche di storici italiani, piemontesi o stranieri che della monarchia sabauda non hanno certo dato un giudizio lusinghiero in quanto era una delle monarchie più retrograde d’Europa». Infatti il libro di Casula narra di 226 anni di dominazione sabauda dal 1720, quando col trattato di Londra la Sardegna è stata donata ai principi di Savoia, che grazie al possesso della Sardegna hanno acquistano il titolo di re, fino al 1946, quando col referendum istituzionale l’Italia è diventata Repubblica e quindi l’ultimo re, Umberto II è andato in esilio. Durante i primi ottanta anni di Regno piemontese del Settecento solo nell’ultimo anno il re Carlo Emanuele IV, mise piede nell’isola, ma da esiliato. Fino ad allora nessun re piemontese si era degnato di visitare l’Isola grazie alla quale aveva potuto avere il titolo di re. «Ma quest’opera di Francesco Casula – prosegue Tonino Bussu – è una “controstoria” scritta dal punto di vista dei sardi e per capirla a fondo necessita una profonda rivoluzione culturale che coinvolga le scuole dove ancora oggi si insegna molto poco la storia della Sardegna, si conosce poco la nostra lingua e la nostra cultura. Ebbene con l’opera di Francesco Casula invece la nostra storia riemerge dal dimenticatoio, esce allo scoperto, perché prima era bandita dalla società. Per conoscere veramente la nostra storia e per avere una nuova coscienza nazionale sarda, è necessario un nuovo 28 aprile permanente, una nuova “cacciata” dei Savoia dalle strade e dalle piazze dei nostri paesi, e soprattutto
dalle nostre coscienze di Sardi per sostituirli con i nostri martiri, eroi, uomini illustri, poeti, scrittori, politici, uomini di cultura ecc. E per fare questo – conclude Tonino Bussu –abbiamo bisogno di opere come questa di Francesco Casula, abbiamo bisogno di riscrivere la nostra storia».
San Beniamino
Santa Balbina. un’altra delle delicate fanciulle nella storia della santità femminile, festeggiata oggi, abbiamo accennato ieri, parlando di suo padre Quirino, il Tribuno giustiziato sotto Adriano Imperatore, per aver mancato alla sua consegna di soldato e per aver preferito la conversione cristiana.
Con il padre, fu decapitata anche la fanciulla, trepida fidanzata di Gesù, e sul suo corpo sorse poi, nel quinto secolo, la chiesetta a lei dedicata e che ancora si può vedere, a Roma, vicino ai grandi ruderi delle Terme di Caracalla, presso ai pini della Passeggiata Archeologica.
Oggi è anche la sua festa, ma noi parleremo di un altro Santo del giorno: San Beniamino, unico di questo nome, vissuto in Persia verso il 400. Anche il Re persiano Isdeberge, adoratore del fuoco e del sole, perseguitava i Cristiani, e il diacono Beniamino fu da lui tenuto in carcere per due anni. Doveva essere un personaggio importante, anzi addirittura popolare, perché l’ambasciatore dell’Imperatore romano TPodosio, che negoziava un trattato di pace con il Re persiano, pose tra te condizioni anche quella di liberare l’illustre prigioniero.
Il Re Isdeberge, a sua volta, fece una controproposta: avrebbe liberato il diacono Beniamino se questi si fosse impegnato a cessare del tutto la sua opera di apostolato tra i persiani; e in questo senso parlò al prigioniero.
Vale la pena di riportare la risposta dell’intrepido cristiano, come ci è pervenuta dai Martirologi: « Non posso chiudere agli uomini le fonti della Grazia del mio Dio, disse Beniamino. Finché sarà in mio potere, illuminerò coloro che sono ciechi, mostrando loro la luce della verità. Non farlo, sarebbe incorrere nei castighi riserbati a coloro che nascondono i talenti del loro padrone ».
Si riferiva alla parabola evangelica del padrone che dà ai suoi servi i talenti d’oro, e al suo ritorno punisce quei servi che, oziosi e timorosi, li hanno nascosti, per paura di perderli, invece di metterli a frutto e di commerciarli fra gli uomini.
E in queste parole precise e decise, egli tracciava la linea di condotta di ogni cristiano, che non è solo depositario e custode dell’oro della verità, ma deve metterlo a frutto, donarlo al prossimo, insegnando e illuminando.
Fu liberato, malgrado queste sue ferme parole, per la pressione dell’ambasciatore romano; ma il fervente apostolo non perse tempo nei timori, e, come aveva dichiarato, riprese subito a istruire e a battezzare gli adoratori del fuoco.
Il Re persiano, libero dalla parola data, poté così di nuovo catturarlo, e gl’impose di rinnegare la fede, sacrificando al simulacro del sole.
I Romani, come si sa, giustiziavano i condannati, secondo l’uso militare, decapitandoli con la spada. Era, per quei tempi, una forma di esecuzione abbastanza civile, e non priva di guerresca nobiltà. I persiani, invece, come molti altri popoli orientali, escogitavano di volta in volta atroci supplizi con i quali finivano i loro prigionieri.
E di raffinata atrocità fu anche il supplizio riserbato a San Beniamino, che ebbe il corpo trapassato da spilloni. Il Santo lo accettò e lo preferì coraggiosamente ai castighi riserbati a coloro che nascondono i talenti della verità.