Archivi giornalieri: 11 marzo 2023

Le nuove scuole che verranno costruite in Abruzzo Abruzzo Openpolis

Le nuove scuole che verranno costruite in Abruzzo Abruzzo Openpolis

L’edilizia scolastica è fondamentale per il sistema educativo. Il Pnrr prevede la demolizione e ricostruzione di scuole vetuste in Abruzzo. Un quadro sulla regione, con un focus dedicato a Montesilvano, dove insiste il progetto che riceve più finanziamenti.

 

La condizione dell’edilizia scolastica è la vera cartina tornasole dello stato del sistema educativo. Spazi adeguati alla didattica, luminosi e ben riscaldati possono sembrare requisiti minimi, ma sono esigenze particolarmente sentite dalle scuole del territorio. In Italia come in Abruzzo.

Nella regione il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) finanzia la demolizione e ricostruzione di 6 scuole. Gli interventi più importanti saranno a Montesilvano (Pescara) e Roseto degli Abruzzi (Teramo).

I fondi del Pnrr sull’edilizia scolastica arrivano per noi nel momento giusto. La nostra scuola, costruita negli anni sessanta, risponderà così alle nuove norme sull’edilizia scolastica, innovandosi anche dal punto di vista della didattica

L’edilizia scolastica abruzzese è vetusta

In Abruzzo circa 9 edifici scolastici statali su 10 sono stati costruiti appositamente per un uso scolastico, più della media nazionale (80%). Parliamo però di un patrimonio edilizio abbastanza vetusto, dal punto di vista del risparmio energetico e non solo.

Nell’anno scolastico 2020/21, il 45,6% degli edifici abruzzesi risultava costruito prima del 1975 – contro una media nazionale del 41,7%. Su 1.066 strutture censite a quella data, inoltre, il 63,3% (675) dichiarava la presenza di qualche tipo di accorgimento per il risparmio energetico.

6 su 10 gli edifici scolastici in Abruzzo dotati di accorgimenti per il risparmio energetico.

Parliamo di elementi basilari per ridurre i consumi, come la presenza di vetri o serramenti doppi, di cui è dotato il 42,3% degli edifici scolastici abruzzesi (media Italia 40,7%). Oppure l’isolamento della coperture (22,2% a fronte del 24,4% nazionale) o delle pareti esterne (15,2% in Abruzzo, in linea con la media italiana del 14,6%).

Presi complessivamente, gli accorgimenti energetici risultano più presenti in Abruzzo rispetto al resto del paese (57,5% gli edifici con accorgimenti in Italia, contro il 63,3% della regione). Ma la media abruzzese è molto distante dagli standard raggiunti da altre regioni con ampie aree montane. Ad esempio Veneto (prima regione in Italia con il 79,1%), Valle d’Aosta (73,4%), Lombardia (71,9%).

L’unico accorgimento in cui l’Abruzzo supera ampiamente la media nazionale è la zonizzazione dell’impianto termico, presente in poco più di un terzo delle scuole italiane (34,9%) e nel 44% di quelle abruzzesi. Ma la quota resta inferiore rispetto a quelle di Veneto (56,5%), Marche (52,9%), Umbria (48,3%), Lombardia (46,3%) e Basilicata (45,7%).

L’opportunità del Pnrr da non sprecare

Per queste ragioni gli investimenti del Pnrr sono così importanti. In particolare gli 1,19 miliardi previsti per la costruzione di nuove scuole sostenibili, con ambienti di apprendimento all’avanguardia. Risorse che dovrebbero consentire la costruzione di oltre 200 nuove scuole, di cui 6 previste in Abruzzo.

Sono 6 le aree individuate per l’Abruzzo, per un totale di 14.540 mq e un importo complessivo richiesto di circa 33,9 milioni di euro, in base alle graduatorie pubblicate nel maggio dello scorso anno. Cinque interventi su 6 riguarderanno edifici in classe energetica G, quella meno efficiente, il restante si trova in classe F.

Due importanti interventi riguarderanno la “Fedele Romani” di Roseto degli Abruzzi (quasi 10 milioni di euro) e la primaria “Francesco Rossi” dell’Aquila (5,8 milioni). In quest’ultimo caso, però, la ricostruzione sarà delocalizzata rispetto all’attuale edificio in attesa di abbattimento.

Ma l’intervento più importante dal punto di vista economico in Abruzzo riguarda l’istituto comprensivo “Troiano Delfico” a Montesilvano, in provincia di Pescara. Parliamo di più di 10 milioni di euro per la demolizione e ricostruzione della sede principale dell’istituto, in via San Francesco, che ospita la scuola secondaria di primo grado. In totale 4.200 metri quadri, attualmente in classe energetica G, per oltre 450 studenti coinvolti.


Vincenza Medina

Vincenza Medina, dirigente della Troiano Delfico da 6 anni, non nasconde la sua soddisfazione: “Siamo da sempre attenti alle misure di sicurezza – afferma a Abruzzo Openpolis – in questi anni abbiamo realizzato delle migliorie in tal senso, ma sempre dal punto di vista organizzativo, mai strutturale. Anche perché queste competenze sono di responsabilità dell’ente proprietario dell’edificio. Per questo siamo felici che il comune abbia deciso di investire sul nostro istituto”.

La nuova scuola sarà anche più inclusiva.

Il progetto è importante. La scuola si dovrebbe allargare anche a un’area oggi di pertinenza, oltre che a un vicino parcheggio. Ci saranno anche due palestre da 200 metri quadri l’una e un adeguato spazio mensa: “Il tutto dovrebbe svilupparsi su 4 livelli. Abbiamo sempre fatto molta attenzione all’inclusività, ma oggi i nostri alunni disabili sono costretti alle classi del piano terra. Con la nuova scuola ci saranno invece alcuni ascensori“, racconta Medina.

Il Pnrr a servizio, dunque, di una delle zone che in Abruzzo si va più espandendosi. Montesilvano, infatti, è il terzo comune più popoloso della regione (dopo la vicina Pescara e L’Aquila) ed è anche quello che ha visto negli ultimi decenni l’incremento demografico più evidente, passando da circa 7mila abitanti nel 1951 agli attuali 53mila.

Con il Pnrr i due plessi della secondaria di primo grado saranno riunificati.

I minori sono in aumento, per questo occorrono scuole adeguate e sicure: “Oggi la nostra secondaria di primo grado ha anche una succursale in via D’Annunzio, che con la nuova scuola sarà riunificata alla sede principale”, afferma la dirigente della “Troiano Delfico”, che annovera nel suo istituto comprensivo anche una scuola dell’infanzia (circa 240 alunni) e una primaria (più di 500 bambini e bambine).

Gli investimenti sull’edilizia scolastica del Pnrr

Nei prossimi anni più di 5 miliardi di euro investiranno l’edilizia scolastica in Italia con il solo Pnrr. Oltre agli 1,19 previsti per la costruzione di nuove scuole, 3,9 miliardi andranno a ristrutturazioni e riqualificazioni dell’esistente, 300 milioni per la costruzione e la ristrutturazione delle palestre scolastiche.

Senza contare i 4,6 miliardi per i nidi e le scuole d’infanzia, nonché tutti gli altri progetti del Pnrr che per concretizzarsi dovranno prevedere opere di natura strutturale. Ad esempio il piano per l’estensione del tempo pieno (960 milioni) si baserà anche sulla creazione o ristrutturazione degli spazi per le mense, per almeno 1.000 edifici. Oppure il piano scuola 4.0 (2,1 miliardi), per cui si prevede la cablatura di 40mila edifici scolastici e la trasformazione di almeno 100.000 classi in ambienti di apprendimento innovativi. Oltre ai fondi per la rigenerazione urbana, che come abbiamo raccontato stanno andando anche per scuole e nidi.

Fortunatamente noi non abbiamo problemi con la progettazione perché abbiamo un corpo docente agguerrito. La mole di lavoro schiacciante ricade invece sulle procedure amministrative e quindi sulle segreterie. Attualmente partecipiamo a tre avvisi del Pnrr con poche unità di personale amministrativo.

La vera sfida sarà quindi utilizzare queste risorse in modo coordinato, per non disperderle. Non solo guardando alle singole misure del Pnrr, ma anche alle risorse già stanziate in passato sul comparto. Linee di finanziamento numerose e spesso gestite da soggetti diversi, con il rischio di creare sovrapposizioni.

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Foto: istituto Troiano – Delfico (Le Scuole)

 

Quanto consuma il settore dei trasporti Ambiente

Quanto consuma il settore dei trasporti Ambiente

I trasporti sono un elemento fondamentale per l’economia e la società, ma dipendono ancora largamente da fonti di energia inquinanti. In Italia, il 91% dei consumi finali è attribuibile a prodotti petroliferi.

 

I trasporti sono un settore fondamentale nelle nostre società. Permettono infatti lo spostamento di merci ma anche di persone, creando interconnessione e mobilità e quindi una maggiore apertura. Una tendenza in aumento, in un mondo sempre più globalizzato. Allo stesso tempo però i trasporti sono anche tra i principali fattori di pressione sul clima, come afferma la European evironmental agency (Eea). Essi sono infatti responsabili, in Europa, di oltre un quinto di tutte le emissioni di Co2. Oltre a diffondere nell’ambiente vari altri composti chimici inquinanti e nocivi per la salute umana come l’ozono, il pm10, il pm2,5 e il biossido di azoto.

Per questo è importante favorire l’utilizzo delle energie rinnovabili in questo settore. A livello sia comunitario che nazionale sono stati posti a tal fine una serie di obiettivi. Tuttavia a oggi nel nostro paese i trasporti continuano a rappresentare una quota molto elevata dei consumi totali. E i prodotti petroliferi, i più dannosi per l’ambiente, continuano a costituire la fonte di energia più importante.

Gli obiettivi comunitari e nazionali per dei trasporti meno inquinanti

L’Unione europea ha esplicitato da anni ormai la necessità di riformare profondamente il settore dei trasporti, con una maggiore consapevolezza delle problematiche ambientali.

Con la direttiva Ue 2009/28, ha fissato un obiettivo concreto in questo senso: gli stati membri erano tenuti a raggiungere una quota dei consumi finali lordi coperti da energia proveniente da fonti rinnovabili pari al 10% entro il 2020. Nel 2019, stando all’ultimo aggiornamento del gestore dei servizi energetici (Gse), la quota risultava ampiamente superata in 4 paesi. Parliamo di Estonia (45%), Svezia (30%), Finlandia (21%) e Paesi Bassi (12,5%). In Italia invece il dato si attestava al 9%.

Gli stati membri scelgono la propria strategia e i propri traguardi.

Successivamente, con la direttiva 2018/2001, si è individuato un traguardo ulteriore, fissato per il 2030: il 14%. Tuttavia tale obiettivo si applica specificamente ai fornitori di prodotti energetici al settore dei trasporti e pertanto non si può considerare un obiettivo nazionale. Gli stati membri sono invece tenuti a definire la propria strategia nazionale per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030 dal Clean energy for all Europeans package. Specificamente, attraverso un documento programmatico denominato “piano nazionale integrato energia e clima” (Pniec). Quello italiano, presentato alla commissione europea nel dicembre 2019, fissa la quota a un ambizioso 22%.

22% la quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti entro il 2030, secondo l’obiettivo nazionale italiano.

Il settore dei trasporti, una panoramica europea

Si tratta di un settore che come abbiamo detto è fondamentale, ma il cui peso non è analogo in tutti gli stati dell’Ue. Parliamo in questo senso sia di peso relativo (rispetto agli altri settori, come quota dei consumi complessivi) che come contributo attribuibile in base alla popolazione residente.

Spicca in questo senso il Lussemburgo, il paese Ue che riporta il dato di gran lunga più elevato sia come quota di energia consumata nel settore dei trasporti (51,4%) che come consumo in rapporto alla popolazione (279 ktep ogni 100mila abitanti).

Come incidenza dei trasporti nei consumi totali, Cipro e Malta riportano i dati più alti dopo quello lussemburghese: rispettivamente 41,9% e 41%. Mentre per quanto riguarda il consumo rispetto alla popolazione, al Lussemburgo seguono, a distanza, Austria e Slovenia. Con rispettivamente 89,3 e 85,3 ktep ogni 100mila abitanti.

L’Italia si trova piuttosto in linea con la media Ue: leggermente al di sopra per quanto concerne il peso del settore sui consumi totali (31% contro il 29% dell’Ue) e lievemente al di sotto invece nel caso del consumo in rapporto alla popolazione (59 ktep ogni 100mila abitanti contro 61).

In Italia il progresso è ancora lento

Negli anni, nel nostro paese il consumo attribuibile al settore dei trasporti si è progressivamente ridotto. Si tratta tuttavia di un calo modesto, appena superiore al 10% in un periodo di 15 anni, come mostrano i dati del gestore dei servizi energetici (Gse).

-11% l’energia consumata dai trasporti in Italia, tra 2005 e 2019, secondo il Gse.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati si riferiscono ai consumi finali di energia nel settore dei trasporti, per tipologia di fonte energetica. I “prodotti petroliferi” comprendono gasolio/diesel, benzine, cherosene, Gpl e altro, mentre i “biocarburanti” comprendono biodiesel e benzine bio (provenienti da fonti energetiche rinnovabili). Ktep è l’unità di misura utilizzata per misurare l’energia e corrisponde alla tonnellata equivalente di petrolio – il tep rappresenta la quantità di energia rilasciata dalla combustione di una tonnellata di petrolio.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Gse
(pubblicati: martedì 1 Giugno 2021)

 

A diminuire è stato soprattutto il consumo di prodotti petroliferi, passato da 43.427 a 36.414 ktep tra 2005 e 2019 (-16%), e in particolare di benzina, passata da poco più di 14mila a meno di 8mila ktep (-46%). Anche se bisogna evidenziare che Gpl e cherosene hanno, al contrario, visto un incremento: rispettivamente pari al 61% e al 32%.

Mentre è aumentato del 16% l’uso di elettricità (da 853 a 992 ktep), del 200% quello di gas naturale (da 380 a 1.147) e del 622% quello di biocarburanti (da 177 a 1.276). Quest’ultimo aumento così marcato si deve, come rileva il Gse, ai meccanismi pubblici di sostegno che obbligano a miscelare i prodotti petroliferi con dei biocarburanti (previsti dalla direttiva Ue 2015/1513). Un elemento di impatto fortemente positivo, anche se occorre evidenziare che i biocarburanti costituiscono ancora una componente minoritaria dei consumi totali dei trasporti (circa il 3%).

Tuttavia i prodotti petroliferi continuano a costituire la fonte di energia più importante per i trasporti in Italia: il 91% – con un calo di 6 punti percentuali rispetto al 2005, quando si attestavano al 97%. Una diminuzione che è stata piuttosto costante e graduale negli anni.

Foto: Egor Myznik – licenza

 

La ricerca in Europa, una questione di genere Disparità di genere

La ricerca in Europa, una questione di genere Disparità di genere

Il numero di ricercatori universitari è in aumento nella maggior parte dei paesi Ue. Le donne incontrano ancora maggiori barriere in questo tipo di carriera, in primo luogo da un punto di vista contrattuale.

 

Secondo la definizione offerta da Eurostat, un ricercatore è un professionista impegnato nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi, nonché nella gestione dei progetti in questione. Si tratta dell’esito di un percorso che inizia con il dottorato di ricerca, di cui abbiamo parlato in un recente approfondimento.

Analizziamo i dati relativi al numero di ricercatori nei paesi dell’Unione europea, alla loro incidenza sulla popolazione totale, e alla loro variazione nel tempo. Soffermandoci in particolare sulle disuguaglianze, a oggi ancora persistenti, tra ricercatori e ricercatrici. Queste ultime sono più esposte a difficoltà e barriere durante il loro percorso e le loro condizioni lavorative continuano a essere in media inferiori rispetto a quelle dei colleghi di sesso maschile.

I ricercatori in Europa

Nel corso dell’ultimo decennio il numero di ricercatori nell’Unione europea ha visto un sostanziale aumento: +24% tra 2012 e 2021. In Lussemburgo e a Malta in particolare la cifra è più che raddoppiata. Mentre sono 5 gli stati che hanno riportato un calo, seppur modesto: Romania, Slovacchia, Irlanda, Estonia e Bulgaria. Stando all’ultimo aggiornamento disponibile, i ricercatori universitari in Europa sono più di 630mila.

638.232 i ricercatori universitari in Ue nel 2021.

A ospitarne il numero più elevato in termini assoluti è la Germania (120mila, circa il 19% del totale). Seguono Francia (14%) e Spagna (11%). L’Italia, l’altro grande paese dell’Ue per numero di abitanti, si posiziona al quarto posto (dopo la Polonia), con quasi 59mila ricercatori.

La situazione cambia però significativamente se analizziamo i dati in rapporto al numero di abitanti. In tal caso, non sono i paesi più popolosi a registrare i dati più elevati.

La Danimarca detiene in questo senso il record europeo, con oltre 300 ricercatori universitari ogni 100mila abitanti. Segue il Portogallo con 280. Agli ultimi posti si posizionano invece Romania (32) e Bulgaria (48). L’Italia, con 99 ricercatori ogni 100mila abitanti, è al quartultimo posto in Europa e ben al di sotto della media, pari a circa 143.

L’accesso delle donne alla ricerca universitaria

La ricerca è uno degli ambiti di maggiore interesse per quanto riguarda la parità di genere. Infatti si tratta di posizioni lavorative di elevato prestigio, dove tradizionalmente la presenza maschile è dominante.

Come afferma l’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), che ha realizzato un apposito reportla ricerca in Europa è ancora caratterizzata da una marcata sotto-rappresentazione delle donne. Secondo i dati raccolti dall’istituto, le donne nel 2018 costituivano appena un terzo dei ricercatori presenti nell’Unione europea.

Gli ostacoli all’inclusione delle donne nell’ambito della ricerca universitaria sono vari. Tra questi, le discriminazioni rispetto all’accesso ai fondi, siano esse consapevoli o frutto di un bias cognitivo. Ma anche la cultura e l’ambiente, spesso percepito come tossico, maschilista o respingente, stando a numerose testimonianze.

Le donne incontrano ancora barriere nella propria carriera.

In parte, la presenza maschile e femminile incide diversamente nei diversi settori della ricerca. Le donne sono nettamente in minoranza negli ambiti tecnici come le ICTs o l’ingegneria. Mentre sono la maggioranza nelle scienze biologiche o negli studi ambientali o umanistici. Oltre a questo, le donne affrontano difficoltà molto maggiori nel loro percorso di avanzamento di carriera e la loro presenza rispetto a quella maschile diminuisce

Anche con il governo Meloni si fa un uso massiccio dei decreti legge Governo e parlamento

Anche con il governo Meloni si fa un uso massiccio dei decreti legge Governo e parlamento

L’attuale esecutivo è primo, tra quelli degli ultimi anni, per numero medio di decreti legge pubblicati al mese. Ciò nonostante la stessa leader di Fratelli d’Italia avesse criticato ampiamente questa pratica quando sedeva all’opposizione.

 

Il 24 febbraio scorso è entrato in vigore il decreto legge 13/2023, ribattezzato giornalisticamente “decreto Pnrr ter”. Con questo provvedimento il governo Meloni ha voluto ridisegnare in maniera significativa la struttura della governance del piano nazionale di ripresa e resilienza nelle amministrazioni centrali dello stato. Inoltre sono state introdotte ulteriori semplificazioni volte anche in questo caso a velocizzare le procedure riguardanti il piano.

Pochi giorni dopo invece è stato pubblicato anche il Dl 16 del 2023 che prevede nuove disposizioni urgenti per la protezione temporanea di persone provenienti dall’Ucraina. Con questi ultimi 2 atti salgono a 18 i decreti legge che l’attuale esecutivo ha già pubblicato in appena 4 mesi. Un valore molto rilevante che pone momentaneamente il governo Meloni al primo posto fra gli esecutivi degli ultimi 10 anni per numero di decreti legge pubblicati mediamente ogni mese.

4,5 i decreti legge pubblicati in media al mese dal governo Meloni.

Il conflitto ucraino – così come altri fronti di crisi – ha certamente influito in maniera significativa anche sulle iniziative portate avanti dal governo italiano. Tuttavia è indubbio che questi dati evidenziano la contraddittorietà delle affermazioni fatte in passato dall’attuale presidente del consiglio Giorgia Meloni. Quando sedeva tra i banchi dell’opposizione infatti la leader di Fratelli d’Italia era stata molto critica su questo punto.

Il Decreto Rilancio è un decreto legge d’urgenza del Governo. Cosa c’è di così urgente da scavalcare il Parlamento nel bonus monopattini, nella lievitazione delle poltrone delle società pubbliche e nella sanatoria dei clandestini? Abbiamo ancora una Costituzione in Italia?

I numeri del governo Meloni

Considerati complessivamente gli esecutivi delle ultime 4 legislature, quello che ha emanato il maggior numero di decreti legge in termini assoluti è stato il governo Berlusconi (80). Seguono poi i governi Draghi (64) e Renzi (56). Con 18 decreti Meloni è quindi ancora molto distante da queste cifre.

Tuttavia l’attuale esecutivo è in carica da appena 4 mesi. Vista la durata variabile dei governi italiani in effetti, per avere un dato affidabile conviene valutare la media dei decreti legge pubblicati al mese.

Messa in questi termini, il governo Meloni passa al primo posto con una media di 4,5 Dl pubblicati ogni 30 giorni. Seguono i governi Draghi (3,2) e Conte II (3,18). Da notare però che questi ultimi hanno dovuto far fronte alla pandemia da Covid-19.

L’eccessiva proliferazione dei decreti legge peraltro tende a saturare le agende del parlamento che quindi ha poco tempo per dedicarsi ad altro. Come noto infatti i Dl devono essere convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione in gazzetta ufficiale. Se ciò non avviene le misure in essi contenute decadono.

Quando vengono pubblicati contemporaneamente troppi decreti legge il parlamento non ha tempo per dedicarsi ad altro. Vai a “Che cosa sono i decreti legge”

Questa dinamica trova conferma anche nell’attuale legislatura. Le leggi approvate alla data del 2 marzo infatti sono 13 in totale. L’84,6% di queste (11 su 13) è costituito da conversioni di decreti legge. Fanno eccezione solamente la legge di bilancio per il 2023 e la legge che istituisce una commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere. Quest’ultima peraltro è l’unica norma di iniziativa non governativa approvata. 

Anche con Meloni si guida il paese a colpi di decreto

Il governo attualmente in carica ha quindi sostanzialmente monopolizzato la produzione legislativa, riempiendo inoltre le commissioni e le aule del parlamento di decreti legge da convertire. E lo ha fatto in maniera molto più significativa rispetto ai suoi predecessori.

In proporzione, il governo Meloni ha fatto maggiore ricorso ai decreti legge rispetto ai suoi predecessori.

Se si confrontano le leggi di iniziativa governativa approvate dai parlamenti delle ultime 4 legislature, possiamo osservare come la percentuale di conversioni presentate dal governo Meloni e già approvate sia particolarmente elevata. Anche in questo caso infatti l’attuale esecutivo si trova al primo posto come incidenza delle leggi di conversione rispetto al totale delle norme di iniziativa governativa già approvate. Al secondo posto troviamo il governo Draghi (80%). Seguono i governi Conte II e Monti (74,5%).

GRAFICO
DA SAPERE

Il grafico mostra le leggi approvate in base all’iniziativa di ogni singolo governo, indipendentemente dalla data di approvazione definitiva. In alcuni casi infatti l’iter parlamentare di una legge può proseguire anche successivamente alla caduta del governo che aveva presentato la proposta. Questa scelta è stata fatta perché lo scopo dell’analisi è valutare quanto ha inciso il ricorso al decreto legge nell’attività legislativa di ciascun governo.

Nel grafico non sono conteggiate le ratifiche di trattati internazionali. Questo perché sono atti solitamente dalla scarsa rilevanza politica e che sono adottati con maggioranze bipartisan. Inoltre spesso ne vengono approvate molte in blocco. Dato che la XIX legislatura è appena iniziata, ancora nessuna ratifica è stata approvata. Tenerne conto avrebbe quinti comportato una sovrastima nel ricorso alle leggi ordinarie da parte dei governi precedenti.

FONTE: elaborazione e dati openpolis
(ultimo aggiornamento: martedì 7 Marzo 2023)

 

Come risulta evidente dal grafico, anche per gli esecutivi precedenti la quota di leggi di conversione approvate dal parlamento era maggioritaria rispetto alle altre tipologie di Ddl governativi. Tuttavia c’era stato spazio per la presentazione, anche per l’esecutivo, di norme ordinarie. Cosa che con il governo attualmente in carica non è ancora avvenuta. Da questo punto di vista al primo posto troviamo il governo Berlusconi IV con circa il 30% di leggi ordinarie approvate rispetto al totale delle norme di iniziativa governativa presentate. Seguono i governi Renzi (25%) e Conte I (23,5%).

Gli altri atti e la distanza tra comunicazione e realtà

Per completezza di informazione occorre precisare che il governo in carica non ha presentato al parlamento solamente decreti legge da convertire.

Come già ricordato infatti l’esecutivo ha già presentato alle camere anche la sua prima legge di bilancio. Inoltre, dall’insediamento a palazzo Chigi, il governo ha prodotto nuove norme anche attraverso 4 decreti legislativi. Si tratta dei decreti: 

  • 200 del 2022 sulla riorganizzazione degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs);
  • 201 del 2022 sul riordino della disciplina dei servizi pubblici locali;
  • 203 del 2022 sulla revisione delle norme in tema di protezione contro l’esposizione alle radiazioni ionizzanti;
  • 206 del 2022 sull’adeguamento delle procedure di contrattazione per il personale delle forze armate.

Va sottolineato però che il decreto legislativo è solo il secondo passaggio di un procedimento che inizia con l’approvazione di una legge delega da parte del parlamento. In questo caso quindi sono le camere a definire la cornice dell’intervento che non potrà discostarsi di molto da quanto previsto.

Inoltre, come già anticipato, l’attuale parlamento non ha ancora approvato nessuna legge di questo tipo. Di conseguenza, logicamente, questi decreti rappresentano un lascito delle legislature precedenti che avevano maggioranze anche molto diverse da quella attuale. Nel caso in esame quindi questi atti, anche per i settori che vanno a normare, non sono particolarmente rilevanti per valutare l’operato dell’attuale governo.

Oltre ai decreti legislativi occorre ricordare che, tra camera e senato, risultano attualmente in discussione anche 17 disegni di legge ordinari presentati dal governo, di cui 11 ratifiche di trattati internazionali e una legge delega. Nessuna di queste proposte tuttavia ha ancora concluso l’iter parlamentare.

Quando sedevano all’opposizione, gli esponenti di Fdi erano stati molto critici verso l’abuso dei decreti legge.

Nonostante la legge di bilancio rappresenti certamente un passaggio importante per qualunque governo, in sintesi possiamo quindi dire che finora l’attuale esecutivo ha guidato il paese a colpi di decreto legge. Una prassi adottata spesso dai governi degli ultimi anni, di tutti i colori politici. Abbiamo rilevato in precedenti approfondimenti come certamente in questi primi mesi della XIX legislatura le crisi da affrontare non siano mancate. Dalle conseguenze, economiche e umanitarie, della guerra in Ucraina all’alluvione nelle Marche e alla frana sull’isola di Ischia.

Tuttavia in questo caso è interessante rilevare come Fratelli d’Italia, unico partito che negli ultimi anni era sempre stato all’opposizione e che era stato molto critico nei confronti di questa prassi, si sia immediatamente allineato ai suoi predecessori non appena arrivato al governo.

Quello del partito di Meloni non è certamente un caso isolato. Si tratta semmai dell’ennesima dimostrazione di come spesso ci sia un’importante distanza tra la comunicazione politica quando si siede all’opposizione e le misure da mettere in atto quando invece si occupano posizioni di responsabilità.

Foto: Facebook – Giorgia Meloni

 

Modificare la governance del Pnrr può ritardare l’attuazione del piano Mappe del potere

Modificare la governance del Pnrr può ritardare l’attuazione del piano Mappe del potere

Con un nuovo decreto il governo ha cambiato molti aspetti della governance del Pnrr. Utili o meno che siano, cambiamenti di questo tipo richiedono comunque molto tempo per essere realizzati. Tempo che potrebbe essere usato per attuare il Pnrr.

 

A maggio 2021 il governo Draghi aveva varato un decreto intitolato “Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Dl 77/2021). Come da titolo con questo provvedimento è stata disegnata la struttura di governance del Pnrr nelle amministrazioni centrali dello stato.

A meno di 2 anni di distanza il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni ha approvato un nuovo decreto (Dl 13/2023). Il provvedimento stravolge completamente alcuni aspetti chiave della governance prevista in precedenza.

Il quadro inizialmente delineato dal governo Draghi non era ovviamente esente da critiche. In prossimi approfondimenti dunque entreremo più nel merito delle variazioni introdotte cercando di valutarne l’utilità e l’efficacia.

Al netto di questo tuttavia un primo problema riguarda le tempistiche, visto che le modifiche introdotte non sono di quelle che possono essere attuate in tempi stretti. Viene da chiedersi dunque se una scelta di questo tipo aiuterà o meno il governo, e quindi il paese, a rispettare le scadenze previste per l’attuazione del Pnrr.

Ogni misura contenuta nel Pnrr deve essere completata rispettando un rigido cronoprogramma che prevede il raggiungimento di scadenze intermedie e finali. Vai a “Cosa sono le milestone e i target del Pnrr”

Si tenga presente che alcune scadenze (12) sono previste già per marzo, mentre altre (15) per giugno. Nel frattempo poi sono anche in corso le trattative per la revisione del Pnrr.

Non è chiaro quindi quali organi si occuperanno del monitoraggio e dell’attuazione di impegni così ravvicinati nel bel mezzo di una fase di transizione.

Trasparenza, informazione, monitoraggio e valutazione del PNRR

Il tuo accesso personalizzato al Piano nazionale di ripresa e resilienza

Accedi e monitora

 

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Le principali novità introdotte

Sono molte le novità introdotte dal Dl 13/2023. In questa sede però ci limiteremo a segnalare solo alcune delle principali modifiche alla governance del Pnrr. Modifiche contenute nella parte prima del decreto e in particolare negli articoli 1 e 2.

L’ispettorato sostituirà il servizio centrale presso la ragioneria, mentre a palazzo Chigi viene istituita una nuova struttura di missione Pnrr.

Si tratta innanzitutto della nascita della struttura di missione Pnrr presso la presidenza del consiglio dei ministri (art. 2 comma 1) e della nascita dell’ispettorato generale per il Pnrr presso la ragioneria generale dello stato (articolo 1 comma 4 lett. e). L’ispettorato sostituisce quello che fino a questo momento era stato l’organo più importante nel sistema di governance, ovvero il servizio centrale per il Pnrr. Alcune competenze di questo ufficio inoltre sono trasferite alla nuova struttura di missione istituita presso la presidenza del consiglio. Tra queste vi è quella di rappresentare il punto di contatto nazionale per l’attuazione del Pnrr nelle interlocuzioni con la Commissione europea.

Un’altra funzione importante della nuova struttura di missione è quella di assicurare il supporto all’autorità politica delegata in materia di Pnrr nella sua azione di indirizzo e coordinamento. Stiamo parlando in sostanza del ministro Raffaele Fitto. Trattandosi di un ministro senza portafoglio il fatto che si avvalga di un ufficio istituito presso palazzo Chigi appare del tutto coerente.

La nuova struttura di missione risponderà al ministro Fitto. Ma anche l’ispettorato dovrà fornirgli supporto.

Allo stesso tempo però è previsto che anche l’ispettorato assicuri il supporto all’autorità politica. E ciò nonostante tale struttura resti gerarchicamente incardinata presso la ragioneria generale dello stato e dunque presso il ministero dell’economia. Non è previsto quindi un trasferimento degli uffici a palazzo Chigi (questa modifica in effetti era già stata introdotta per il servizio centrale a novembre 2022). È bene specificare che nonostante i cambiamenti, a questorgano restano molte delle competenze chiave che erano del servizio centrale. Tra queste ad esempio la responsabilità della gestione del fondo di rotazione e dei connessi flussi finanziari, nonché la gestione del sistema di monitoraggio sull’attuazione delle riforme e degli investimenti del Pnrr.

Ma possibili cambiamenti sono previsti anche in tutte quelle amministrazioni centrali titolari di interventi del Pnrr. A queste infatti è data la possibilità, tramite regolamento, di riorganizzare la struttura preposta alle attività di gestione monitoraggio e controllo degli interventi previsti dal Pnrr. Questo potrà anche comportare la decadenza di incarichi dirigenziali di livello generale e non generale. Ragion per cui sarà necessario anche procedere con nuove nomine.

Al momento è impossibile sapere quante delle amministrazioni opereranno cambiamenti di questo tipo e per questo sarà necessario monitorare i regolamenti organizzativi di ciascuna delle organizzazioni coinvolte.

Infine si segnala che il decreto prevede anche la soppressione del tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale e la modifica di alcune competenze della cabina di regia Pnrr e della segreteria tecnica.

I tempi di un decreto e dei provvedimenti attuativi

Per verificare l’utilità e l’efficacia di queste modifiche sarà necessaria un’analisi attenta sia del decreto che dei successivi provvedimenti attuativi. Sicuramente però qualcosa possiamo già dire in merito alle tempistiche.

Intanto è importante tenere presente che si tratta di un decreto legge. Dunque anche se da un punto di vista formale le norme contenute al suo interno sono già in vigore queste dovranno poi essere convertite in legge entro 60 giorni. La legge di conversione peraltro potrebbe cambiarle anche in misura considerevole, oppure potrebbe non essere proprio approvata, facendole quindi decadere.

Di conseguenza è irragionevole pensare che l’attuazione del decreto prenda avvio prima che sia approvata la legge di conversione. Al momento comunque il provvedimento, presentato il 24 febbraio, ha appena iniziato il proprio iter parlamentare.

Poi una volta approvato comincerà il secondo tempo delle leggi, che in questo caso appare particolarmente complesso.

Dopo il lavoro del parlamento, l’implementazione di una legge passa nelle mani di ministeri e agenzie pubbliche. Un secondo tempo delle leggi spesso ignorato, ma che lascia molte norme incomplete. Vai a “Che cosa sono i decreti attuativi”

Si tenga presente che a metà febbraio il governo Meloni si trovava ancora a dover emanare 142 decreti attuativi, e questo solo considerando le leggi approvate quando era in carica. Molti altri provvedimenti devono invece ancora essere approvati per attuare le leggi adottate nel corso del primo governo Conte (20), del secondo (69) e del governo Draghi (239).

Nel caso del provvedimento in esame non si può essere certi di quanti provvedimenti attuativi saranno necessari. Oltre a quelli già individuati, alcuni potrebbero emergere in seguito, anche in virtù della legge di conversione. Inoltre come anticipato l’articolo 1 del decreto fornisce a tutte le amministrazioni titolari la possibilità di rivedere l’organizzazione delle strutture preposte alla gestione degli interventi legati al Pnrr. Tuttavia non stabilisce quali e quante di queste procederanno in questa direzione. Ognuna di quelle che deciderà in tal senso comunque dovrà approvare un decreto ministeriale per modificare il proprio regolamento organizzativo.

Si tratta anche in questo caso di una procedura tutt’altro che rapida, tanto che per velocizzarla si è fatto ricorso a un meccanismo semplificato (D.l. 173/2022 art. 13). Anche la procedura semplificata comunque prevede che questi regolamenti siano approvati con decreto del presidente del consiglio, su proposta del ministro competente, di concerto con il ministro per la pubblica amministrazione e con quello
dell’economia e delle finanze. Il tutto deve essere prima approvato dal consiglio dei ministri e ricevere il parere del consiglio di stato. E questa, come anticipato, è la procedura semplificata.

In aggiunta si dovranno emanare altri decreti ministeriali di natura non regolamentare con cui definire i compiti di queste nuove strutture. Anche questi per essere adottati seguiranno un iter piuttosto complesso che passa anche per le mani del capo dello stato (l.400/1988 art. 17).

Nomine e operatività delle strutture

Una volta approvati i regolamenti attuativi poi si dovrà in molti casi provvedere alle nomine di livello dirigenziale generale e non generale. Un aspetto che di per sé lascia molti interrogativi. Visto che i dirigenti delle strutture erano già operativi e non è chiara l’utilità di una loro sostituzione.

In via ordinaria la facoltà di sostituire dirigenti pubblici prima dello scadere del loro mandato è fornita a un nuovo governo solo in pochi casi particolari. Vai a “Che cos’è e come funziona lo spoils system”

A ogni modo anche stavolta si tratta di una procedura che in alcuni casi può richiedere molto tempo. Si consideri ad esempio che per nominare il segretario generale del ministero del turismo sono stati necessari circa 125 giorni dalla nascita del nuovo esecutivo. Nonostante si tratti in assoluto del dirigente più importante del dicastero.

È vero che le norme introdotte prevedono che i dirigenti in carica rimangano al loro posto fino alla nomina dei successori. Tuttavia si può ipotizzare che non tutti i funzionari estromessi dal loro incarico lavoreranno a pieno regime fino all’ultimo giorno e che, più in generale, queste sostituzioni produrranno inevitabili rallentamenti.

Qualsiasi organizzazione richiede del tempo, dal momento della sua istituzione, prima di iniziare a funzionare a pieno regime.

Inoltre, anche risolte le nomine e tutte le altre complicazioni di natura formale, è facile ipotizzare che un ufficio neo istituito richiederà del tempo prima di entrare in funzione e ne richiederà ancora di più per operare a pieno regime. È bene ricordare che in molti casi si tratta di organizzazioni complesse, come la struttura di missione Pnrr presso la presidenza del consiglio e l’ispettorato generale per il Pnrr. Questi organi inoltre dovranno relazionarsi con tutti gli altri soggetti coinvolti nell’attuazione del Pnrr facendo valere le proprie prerogative.

Non è da escludere peraltro che nei primi tempi possano emergere anche conflitti di attribuzione tra i diversi uffici. Non da ultimi questi due, visto che la ripartizione delle loro competenze appare a tratti poco chiara.

In conclusione è probabile che il governo Meloni abbia valutato molto negativamente la macchina amministrativa del Pnrr in funzione quando è entrato in carica. Altrimenti non è chiaro per quali ragioni abbia deciso di intraprendere un percorso così lungo e complesso. E il tutto in una materia come il Pnrr in cui la capacità di attuare gli interventi nei tempi stabiliti rappresenta una priorità inderogabile per accedere ai finanziamenti europei.

Foto: governo.it

 

Quante risorse per la cooperazione allo sviluppo

Quante risorse per la cooperazione allo sviluppo

Il principale impegno dei paesi donatori è quello di destinare all’aiuto pubblico allo sviluppo lo 0,70% del proprio reddito nazionale lordo. Un traguardo che dovrebbe essere raggiunto entro il 2030.

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Definizione

Per misurare l’impegno di un paese donatore è internazionalmente riconosciuto come indicatore il rapporto tra fondi destinati nell’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) e il reddito nazionale lordo (Rnl). In questo modo, nella cooperazione allo sviluppo, viene evidenziato il peso delle risorse investite da un determinato paese rispetto alla sua ricchezza nazionale.

Il traguardo più noto in questo settore prevede che i paesi donatori contribuiscano all’aiuto pubblico allo sviluppo destinando a questo settore almeno lo 0,70% del proprio reddito nazionale lordo.

0,70% il rapporto Aps/Rnl che i paesi donatori si sono impegnati a raggiungere entro il 2030.

In particolare i membri comitato Ocse Dac (development assistance committee) hanno assunto questo come obiettivo già dal 1970. Con l’adozione del rapporto Pearson infatti, questi paesi ritenevano di poter raggiungere il traguardo entro i successivi 5 o 10 anni.

We therefore recommend that each aid-giver increase commitments of official development assistance to the level necessary for net disbursements to reach 0.70 per cent of its gross national product by 1975 or shortly thereafter, but in no case later than 1980.

Purtroppo però così non è stato. Per questo nel 2015 le Nazioni unite hanno riproposto questo traguardo inserendolo nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (Sdg 17.2). Attualmente quindi il rinnovato impegno dei paesi donatori è quello di arrivare a quota 0,70% Aps/Rnl entro il 2030.

Ma l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile prevede un altro traguardo che deve essere raggiunto dai paesi donatori e che in questo caso riguarda i paesi a più basso livello di sviluppo. Ovvero i cosiddetti least developed countries (Ldcs). A questi paesi infatti i donatori si sono impegnati a destinare una quota di Aps compresa tra lo 0,15 e lo 0,20% del reddito nazionale lordo.

0,15 – 0,20% la quota di reddito nazionale lordo che i donatori si sono impegnati a destinare ai paesi Ldcs.

Anche in questo caso l’Agenda 2030 ha solo riaffermato un impegno che in realtà era già stato assunto in precedenza. Nel 2011 con il programma di azione per gli Ldcs ma ancor prima nel 1981, nel corso della conferenza di Parigi delle Nazioni unite.

Sul piano nazionale invece, l’Italia adotta questi obiettivi innanzitutto come membro delle Nazioni unite, dell’Unione europea e del comitato Dac dell’Ocse. Obblighi che derivano direttamente dall’essere membri di queste organizzazioni, ulteriormente rafforzati dall’articolo 1 della legge che disciplina il settore della cooperazione allo sviluppo (l. 125/2014).

La cooperazione allo sviluppo […] persegue, in conformità coi programmi e con le strategie internazionali definiti dalle Nazioni Unite, dalle altre organizzazioni internazionali e dall’Unione europea, gli obiettivi fondamentali volti a: a) sradicare la povertà e ridurre le disuguaglianze […]; b) tutelare e affermare i diritti umani […]; c) prevenire i conflitti, sostenere i processi di pacificazione

Per entrare più nell’operativo, l’articolo 12 della legge stabilisce poi che sia varato un documento triennale di programmazione in cui vengono indicate la visione strategica, gli obiettivi e le priorità della politica italiana di cooperazione allo sviluppo.

Dati

Considerati complessivamente i paesi Ocse Dac nel 2021 hanno investito nel settore della cooperazione allo sviluppo 185 miliardi di dollari (a prezzi correnti). Un valore in crescita rispetto all’anno precedente, ma solo in termini assoluti. Infatti confrontando questo importo con il reddito nazionale lordo complessivo di questi paesi emerge un rapporto Aps/Rnl pari allo 0,33%. Ovvero una cifra identica a quella dell’anno precedente e ben distante dall’obiettivo dello 0,70%.

Meglio hanno fatto i paesi europei del gruppo Dac. Considerati complessivamente infatti questi arrivano allo 0,50% Aps/Rnl. D’altronde dei 5 paesi hanno già raggiunto l’obiettivo 0,70, 4 sono membri Ue. Purtroppo però l’Italia non rientra tra questi ma tra i 14 che non hanno nemmeno raggiunto lo 0,30%.

Ma le cose cambiano notevolmente se invece che valutare gli importi in relazione alla ricchezza nazionale si osservano i valori assoluti. Da questo punto di vista, ad esempio, gli Stati Uniti, che in termini relativi si trovano in fondo alla classifica, si posizionano saldamente al primo posto. Con 47,8 miliardi di dollari infatti gli Usa contribuiscono per quasi il 26% di tutto l’aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi Dac.

Allo stesso tempo comunque è utile tenere presente che, se considerati complessivamente, i paesi Dac dell’Unione europea contribuiscono per quasi 83 miliardi di dollari, pari al 44,5% del totale.

Analisi

Raggiungere lo 0,70 entro il 2030 è un obiettivo importante assunto dall’Italia e più in generale dai paesi donatori. Così come importante è l’impegno relativo ai paesi Ldcs. Stando ai dati 2021 tuttavia solo pochi stati possono effettivamente sostenere di aver contribuito a pieno alla crescita dei paesi meno sviluppati.

L’Italia purtroppo rientra tra quei donatori che non solo ancora non raggiungono gli obiettivi, ma che si trovano anche piuttosto distanti dal traguardo. L’aspetto più preoccupante dei dati italiani però riguarda il loro andamento incostante negli anni.

Dopo una crescita importante tra 2014 e 2017 infatti il rapporto Aps/Rnl italiano è calato drammaticamente nei due anni successivi. Il 2021 poi ha rappresentato un nuovo anno di crescita ma non è affatto chiaro se questa possa essere considerata stabile oppure di carattere episodico congiunturale.

Questa instabilità peraltro deve essere considerata come il frutto delle scelte dei governi che si sono succeduti. Infatti le risorse destinate al canale multilaterale sono cresciute in modo stabile negli anni, perché legate a impegni di finanziamento obbligatori verso le organizzazioni internazionali di cui l’Italia fa parte. Quelle allocate sul canale bilaterale invece sono state storicamente discontinue. Segno della mancanza di una stabile politica di indirizzo, capace di una programmazione pluriennale. Questo perché la classe politica, al di là di quanto dichiarato dalla legge (L.125/2014), non è mai riuscita a rendere la cooperazione allo sviluppo parte integrante e qualificante della politica estera italiana. E questo a tutto detrimento della posizione internazionale del paese.

Il canale multilaterale dell’aiuto riguarda quelle risorse destinate da un paese donatore alle organizzazioni multilaterali di sviluppo. I fondi bilaterali invece sono gestiti direttamente dal donatore. Vai a “Cosa sono il canale bilaterale e il canale multilaterale”

Per questo sarebbe importante che l’Italia si dotasse di una strategia il più possibile condivisa, stabilizzando le risorse destinate al canale bilaterale in un chiaro percorso di crescita. Come sostenuto dalla campagna 070 inoltre sarebbe fondamentale definire obiettivi intermedi da perseguire per raggiungere i traguardi previsti dall’Agenda 2030.

L’articolo è stato redatto grazie al progetto “Cooperazione: mettiamola in Agenda!”, finanziato dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Le opinioni espresse non sono di responsabilità dell’Agenzia.

 

Il supporto dei servizi per l’infanzia all’occupazione femminile #conibambini

Il supporto dei servizi per l’infanzia all’occupazione femminile #conibambini

L’Italia è uno dei paesi dove meno donne con figli lavorano. L’occupazione femminile è più bassa nei territori con carenze di servizi per l’infanzia.

 

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L’Italia è uno degli stati Ue più in ritardo nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Soprattutto dopo la nascita di un figlio, il tasso di occupazione femminile – già basso – cala. Così nella maggior parte dei paesi dell’Unione le donne con 3 figli lavorano più di quelle italiane con un unico bambino.

55,5% donne italiane tra 20 e 49 anni con un figlio occupate nel 2021. In Slovenia, Portogallo, Danimarca e Svezia la quota con 3 figli è attorno all’80%.

All’origine di questo tipo di divari vi sono diversi fattori: da quelli sociali e culturali alle politiche familiari e di genere adottate in ciascuno stato. Un aspetto di primo piano nella promozione dell’occupazione femminile è costituito dall’accessibilità dei servizi per l’infanzia e lo sviluppo della rete educativa tra 0 e 6 anni.

Oltre a rappresentare il primo tassello delle politiche di contrasto alla povertà educativa, l’estensione di asili nido e scuole per l’infanzia è un supporto anche alla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Le attività di cura nel nucleo familiare, per stereotipi di genere, ricadono spesso sulle donne. Limitandone così le potenzialità e le possibilità di inclusione nella società attiva.

27,9% donne inattive in Ue per cui il motivo principale è la necessità di accudire bambini o adulti bisognosi di assistenza (8% tra gli uomini).

Anche per questo motivo l’approvazione, alla fine dello scorso novembre, dei nuovi obiettivi sull’estensione dei servizi educativi per l’infanzia riguarda il nostro paese così direttamente.

Dal 2002 l’Ue promuove la diffusione di nidi, servizi e scuole per l’infanzia, da offrire ad almeno il 33% dei bimbi sotto i 3 anni e al 90% di quelli tra 3 e 5 anni. Dall’anno scorso sono stati innalzati rispettivamente al 45 e al 96% in vista del 2030. Vai a “Che cosa prevedono gli obiettivi di Barcellona sugli asili nido”

Approfondiamo meglio la posizione dell’Italia rispetto agli altri paesi Ue nell’occupazione femminile, oggi segnata da profondi divari interni. Gap che molto spesso coincidono con quelli nell’offerta di servizi.

Come varia l’occupazione tra le donne che hanno figli

In Europa, in media, circa il 71% delle donne tra 20 e 49 anni sono occupate. Una quota inferiore rispetto agli uomini della stessa età (80,5%), ma che non varia in modo così sensibile tra chi ha figli e chi no.

Lavora infatti il 71,9% delle donne senza figli, il 70,9% di quelle con un figlio, il 72,6% in presenza di due figli. Il calo drastico si ha in presenza di 3 o più figli, dove il tasso di occupazione scende al 57,5%.

L’Italia si attesta su livelli più bassi di 15-18 punti rispetto alla media Ue. Lavora il 56,3% delle donne senza figli, quota che scende al 55% circa con uno o due figli e crolla al 40,2% con 3 figli.

Nel confronto europeo emerge come le donne italiane con un figlio risultino occupate molto meno spesso di quelle con 3 figli in altri paesi. Ad esempio la Slovenia (dove lavora l’82,8% delle madri con 3 figli tra 20 e 49 anni), il Portogallo (80,4%), la Danimarca (79,1%), la Svezia (79%). Sono 22 su 27 i paesi in cui le donne con 3 figli hanno tassi di occupazione superiori a quelle italiane con un solo bambino.

I divari interni sull’occupazione femminile

Il ritardo del nostro paese nel confronto europeo è l’esito di profondi divari interni. Nel 2021 i giovani tra 25 e 34 anni lavorano nel 62,6% dei casi, quota che scende al 54% tra le donne. Mentre nell’Italia settentrionale questa percentuale si avvicina al 68%, nel mezzogiorno crolla al 34,9%.

2 volte il tasso di occupazione femminile nel nord rispetto al mezzogiorno.

Nella fascia tra 35 e 44 anni il tasso occupazione femminile è del 62,4%: oltre 10 punti in meno della media (72,9%). Anche in questo caso con ampie distanze tra nord (74,5% di donne occupate) e mezzogiorno (42,1%).

La strategia per ridurre i divari interni, riavvicinando l’Italia agli standard europei, passa anche dall’estensione dei servizi per la prima infanzia. Un aspetto sottolineato anche dalla recente raccomandazione europea sul tema.

La disponibilità di servizi di assistenza a costi sostenibili e di alta qualità incide in modo altamente positivo sulla situazione occupazionale dei prestatori di assistenza, in particolare delle donne.

Sono generalmente i territori con meno servizi per l’infanzia ad avere una minore occupazione femminile, e viceversa. La relazione va letta nei due sensi, in un circolo vizioso che si autoalimenta.

Nei territori in cui poche donne lavorano, la percezione della necessità di servizi è spesso inferiore; allo stesso tempo, in mancanza di nidi, la possibilità per le donne con figli di lavorare viene di fatto fortemente limitata. Creando un disincentivo evidente all’occupazione femminile.

Nel 2021, l’età media delle partorienti è stata superiore ai 30 anni, tanto per le cittadine straniere quanto per le donne italiane (33,1 anni). Nella fascia tra 35 e 44 anni, così come in quella delle 25-34enni, i territori con maggiore occupazione femminile sono anche quelli con i servizi per l’infanzia più sviluppati.

Sono 20 le province in cui oltre il 75% delle donne 35-44 anni lavorano: tutte – tranne una – superano l’offerta media nazionale di nidi (27,2%), attestandosi spesso nelle prime posizioni in Italia per ampiezza del servizio. Tra queste, Ravenna, Bologna, Perugia, Trieste, Firenze, Reggio nell’Emilia e Aosta. In tutti territori appena citati, un’occupazione femminile vicina o superiore all’80% si associa a un’offerta superiore ai 40 posti ogni 100 bambini. Addirittura quasi 50 a Ravenna (48,6%) e Bologna (46,5%).

L’unica eccezione è rappresentata da Belluno: tasso di occupazione femminile all’82,7% e 25,4 posti ogni 100 bambini. Meno della media nazionale, sebbene non troppo distante.

Al contrario, dove i servizi scarseggiano anche l’occupazione femminile è molto più bassa.

L’offerta educativa nei territori con minore occupazione femminile

Sono 12 le province dove meno del 40% delle donne tra 35 e 44 anni sono occupate. Nessuna raggiunge i 20 posti nido ogni 100 bambini presenti.

Parliamo dei territori di Palermo, Vibo Valentia, Barletta-Andria-Trani, Siracusa, Catania, Cosenza, Agrigento, Enna, Caserta, Messina, Caltanissetta e Napoli. L’offerta più ampia tra questi si riscontra nella città metropolitana di Messina (18,9 posti ogni 100 bambini). Tuttavia il capoluogo si attesta su un dato inferiore (8,1% nel 2020) e la quota di comuni dell’ex provincia che offrono il servizio è pari al 34,3% del totale. Più di quanto rilevato nel 2013 (27,8% di comuni attrezzati), ma meno dell’attuale media nazionale (59,3%) e del mezzogiorno (46%).

Gli altri territori a bassa occupazione femminile presentano un’offerta di gran lunga inferiore rispetto a quella messinese. In particolare le province di Cosenza
Caserta e Caltanissetta, tutte con 8,9 posti ogni 100 residenti sotto i 3 anni. Molto lontani dalla vecchia soglia del 33% fissata in sede Ue, per non parlare della nuova del 45%.

Gli stessi capoluoghi delle 3 province citate si attestano tra l’11,1% di Cosenza e il 15,5% di Caltanissetta. In termini di diffusione sul territorio, offrono servizi per la prima infanzia 45,2% dei comuni casertani, il 30% di quelli cosentini e il 18,2% di quelli nisseni. Cifre che fanno il paio con quelle sulle poche donne che lavorano in queste aree.

Una relazione da non dare per scontata

Certamente la relazione va letta in entrambe le direzioni, ovvero i territori con minore occupazione potenzialmente esprimono una minore domanda di servizi. Ma ridurre tutto a quest’unica dimensione sarebbe parziale, e i dati sembrano suggerire che tale interpretazione vada data sempre meno per scontata.

Come abbiamo avuto modo di approfondire in passato, nelle regioni del mezzogiorno, dove gli asili nido sono molto meno diffusi, è molto più alta anche la quota di anticipatari alla scuola dell’infanzia. Ciò significa che una domanda latente del servizio esiste.

Perché se è proprio nei territori con pochi asili nido che gli anticipi sono più frequenti vuol dire che è la scuola dell’infanzia a farsi carico di una domanda che già oggi esiste, pur non essendo intercettata dall’offerta di nidi, ancora inadeguata in molte aree del paese.

Serve un’offerta che la sostenga, in modo da ridurre i divari, tanto di genere quanto educativi.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi ad asili nido e servizi prima infanzia sono di fonte Istat.

Foto: Israel Andrade (unsplash) – Licenza

 

San Costantino

 

San Costantino


Nome: San Costantino
Titolo: Re e martire
Nascita: 520 circa, Cornovaglia
Morte: 9 maggio 576, Kintyre, Scozia
Ricorrenza: 11 marzo
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione

La Chiesa greca, ma non quella latina, riserba un posto importante, tra i suoi Santi, al più celebre Costantino della storia, cioè all’Imperatore romano che riconobbe ai cristiani la libertà di culto, e che favorì in molti modi – anche con la sua conversione – la diffusione e l’affermazione del Cristianesimo nel mondo romano.

L’Imperatore Costantino è perciò stato onorato, addirittura con il titolo di « pari agli Apostoli » o anche di « tredicesimo Apostolo ». Si tratta di una tradizione assai antica in Oriente; ma si può pensare che, più che a ragioni religiose, la sua devozione sia legata a motivi politici, anzi dinastici, per esaltare gli Imperatori bizantini che del grande Costantino furono eredi e successori.

Costantino, imperatore, non figura tra i Santi della Chiesa cattolica, ma non mancano santi con il nome di Costantino, e proprio oggi ne sono festeggiati due insieme.

Del primo, che il Martirologio dice « confessore a Cartagine », non si sa però nulla, oltre a questa generica notizia. Poco più noto è anche l’altro San Costantino odierno, il quale però appare degno del suo augusto nome, in quanto fu anch’egli sovrano terreno, oltre che degno della gloria dei Santi.

Non era latino, ed era anzi nato ai margini del mondo romano, figlio di un Re della Cornovaglia, la rocciosa penisola che si protende verso l’Atlantico, nella parte più meridionale e occidentale dell’isola inglese. Figlio di Re, erede al trono, e infine Re egli stesso, Costantino non fu, a quanto pare, nella sua gioventù e anche nella maturità, né specchio di virtù né modello di pietà. Aveva sposato la figlia del Re di Bretagna, ma non fu neanche marito esemplare. Soltanto alla morte della moglie, già anziano, conobbe una profonda trasformazione spirituale. Fu allora che il vedovo Re di Cornovaglia si ritirò, per qualche anno, nel silenzio di un monastero dedicato a San David, cioè a un altro Re peccatore e penitente. Fece ancora di più, perché Costantino si unì a San Colomba, o Columba, il grande monaco irlandese che per primo portò e fece fiorire il Cristianesimo in terra di Scozia, fondandovi monasteri di vita severa e attiva. La Scozia, che allora aveva ancora il nome latino di Caledonia, era popolata da tribù barbare e indomite: gli Scotti e, più a settentrione, i Pitti. Neanche le legioni romane avevano potuto soggiogarle, e per difendere i confini della Britannia dalle loro incursioni era stato necessario costruire gigantesche muraglie, o valli, che sbarravano il paese da levante a ponente.

Nella terra dei feroci Pitti, San Costantino e San Colomba svolsero insieme la loro missione, non soltanto difficoltosa, ma anche pericolosa. Ottennero molte conversioni, fondarono chiese, crearono monasteri, ma a un certo punto i barbari Pitti presero una breve e sanguinosa rivincita sui loro benefattori, conclusasi con un massacro dei cristiani. Così, nel 598, il Re di Cornovaglia diventato missionario cristiano, restò vittima della violenza dei barbari Pitti.

MARTIROLOGIO ROMANO. In Scozia, san Costantino, re, discepolo di san Colomba e martire.