Archivi giornalieri: 9 marzo 2023

Smart working: a chi si rivolge la proroga del lavoro da remoto

Smart working: a chi si rivolge la proroga del lavoro da remoto

Rinviato a fine giugno lo smart working per i lavoratori fragili.
Sulla norma del Milleproroghe che ha reintrodotto sino a fine giungo il diritto al lavoro da remoto esclusivamente per i dipendenti pubblici e privati “fragili” e genitori di prole che ha meno di 14 anni, si registrano dei contrasti interpretativi.
Il diritto in questione può essere fatto valere a due condizioni.
La prima è che nel nucleo familiare non ci sia un altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito (per sospensione o cessazione dell’attività lavorativa), oppure, non ci sia un genitore non lavoratore.
La seconda è che la modalità di lavoro sia compatibile con le i caratteri della prestazione che deve essere resa.
Sulla Gazzetta Ufficiale 49 del 27 febbraio 2023 è stata pubblicata la conversione del decreto 198/2022 (legge 14/2023).

1. Prorogato sino a fine giugno il lavoro da remoto per le persone fragili

Il lavoro da remoto in scadenza 30 marzo, viene prorogato sino a fine giugno per i lavoratori del settore pubblico e del settore privato cosiddetti “fragili”, vale a dire, coloro che sono affetti da gravi patologie indicate dal Ministero della Salute nel decreto del 4 febbraio 2022.
I giuslavoristi sono d’accordo con l’interpretazione della norma nel senso del riconoscimento di un diritto al lavoro da remoto “integrale”, e sul fatto che il ricorso allo smart working sia riconosciuto anche se ci sia incompatibilità delle mansioni con il lavoro svolto da remoto, senza che la retribuzione percepita venga ridotta.

2. L’esercizio del diritto dei genitori con figli under 14

In relazione alla portata della previsione normativa del Milleproroghe per il genitore di figli minori di 14 anni nel privato, ci sono due correnti di pensiero che si scontrano.
Se l’organigramma aziendale non prevede il lavoro agile, il genitore di figli minori di 14 anni ne avrà diritto lo stesso.
Lo sostiene Arturo Maresca, professore ordinario di diritto del lavoro all’Università La Sapienza di Roma, intervistato dal quotidiano Il Sole 24 ore.
Se l’azienda prevede una simile modalità di esecuzione del lavoro, il genitore ne avrà diritto secondo la disciplina che stabilisce l’imprenditore, alternando i giorni di presenza da remoto e la collocazione temporale della prestazione che vale anche per gli altri dipendenti.
Questa interpretazione è condivisa da molti giuslavoristi e associazioni datoriali.
Al contrario, ci sono altri giuslavoristi e i sindacati, secondo i quali la norma, a causa della mancanza di limitazioni espresse, garantirebbe un diritto assoluto a lavorare sempre fuori dei locali aziendali, prestando la propria attività sempre da remoto.

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3. La disciplina che prevede l’impresa

La norma si limita a riconoscere il diritto di questi genitori a potere lavorare in modo agile senza dare una definizione del contenuto e della sua misura, alternando giorni di presenza e giorni di lavoro da remoto.
In una simile prospettiva, il genitore di figli minori di 14 anni, stando alla relativa norma , ha diritto al lavoro agile, esercitandolo secondo la disciplina che prevede l’impresa.
Sempre secondo il Professor Maresca, dovrebbe essere riconosciuto il diritto del dipendente al lavoro agile, non il diritto al lavoro da remoto.
Il lavoro agile prevede come requisito l’alternanza tra lavoro in presenza e lavoro da remoto, senza la quale non si configura lo smart working.
A questo proposito, se l’attività viene svolta esclusivamente da remoto, non si parla  di lavoro agile, ma di lavoro da remoto, vale a dire, un rapporto di lavoro, dove il modo nel quale lo stesso viene eseguito si incentra sul fatto che il dipendente lavora sempre da remoto, senza che ci sia alternanza.

4. Lo smart working “integrale”

L’altro punto di vista è dell’avvocato Aldo Bottini, anche lui intervistato dal quotidiano Il Sole 24 ore, secondo il quale, eventuali accordi individuali o collettivi che limitino esclusivamente a determinati giorni il lavoro da remoto, si devono intendere superati dalla norma di legge che sembra attribuire il diritto a uno smart working, “integrale».
A differenza dei cosiddetti lavoratori “fragili”, il diritto è condizionato alla compatibilità del lavoro agile con le caratteristiche della prestazione.
Questo preclude un simile lavoro a coloro che possono lavorare esclusivamente in presenza, lasciando la possibilità di negarlo dove si possa dimostrare che il lavoratore in questione non sia compatibile con la prestazione, vale a dire, che l’alternanza tra presenza e lavoro da remoto, prevista dagli accordi, sia indispensabile per svolgere le relative mansioni.
Non essendo una prova facile, rappresenta una possibilità nella maggior parte dei casi più teorica che pratica.

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La ricerca in Europa, una questione di genere Disparità di genere

La ricerca in Europa, una questione di genere Disparità di genere

Il numero di ricercatori universitari è in aumento nella maggior parte dei paesi Ue. Le donne incontrano ancora maggiori barriere in questo tipo di carriera, in primo luogo da un punto di vista contrattuale.

 

Secondo la definizione offerta da Eurostat, un ricercatore è un professionista impegnato nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi, nonché nella gestione dei progetti in questione. Si tratta dell’esito di un percorso che inizia con il dottorato di ricerca, di cui abbiamo parlato in un recente approfondimento.

Analizziamo i dati relativi al numero di ricercatori nei paesi dell’Unione europea, alla loro incidenza sulla popolazione totale, e alla loro variazione nel tempo. Soffermandoci in particolare sulle disuguaglianze, a oggi ancora persistenti, tra ricercatori e ricercatrici. Queste ultime sono più esposte a difficoltà e barriere durante il loro percorso e le loro condizioni lavorative continuano a essere in media inferiori rispetto a quelle dei colleghi di sesso maschile.

I ricercatori in Europa

Nel corso dell’ultimo decennio il numero di ricercatori nell’Unione europea ha visto un sostanziale aumento: +24% tra 2012 e 2021. In Lussemburgo e a Malta in particolare la cifra è più che raddoppiata. Mentre sono 5 gli stati che hanno riportato un calo, seppur modesto: Romania, Slovacchia, Irlanda, Estonia e Bulgaria. Stando all’ultimo aggiornamento disponibile, i ricercatori universitari in Europa sono più di 630mila.

638.232 i ricercatori universitari in Ue nel 2021.

A ospitarne il numero più elevato in termini assoluti è la Germania (120mila, circa il 19% del totale). Seguono Francia (14%) e Spagna (11%). L’Italia, l’altro grande paese dell’Ue per numero di abitanti, si posiziona al quarto posto (dopo la Polonia), con quasi 59mila ricercatori.

La situazione cambia però significativamente se analizziamo i dati in rapporto al numero di abitanti. In tal caso, non sono i paesi più popolosi a registrare i dati più elevati.

La Danimarca detiene in questo senso il record europeo, con oltre 300 ricercatori universitari ogni 100mila abitanti. Segue il Portogallo con 280. Agli ultimi posti si posizionano invece Romania (32) e Bulgaria (48). L’Italia, con 99 ricercatori ogni 100mila abitanti, è al quartultimo posto in Europa e ben al di sotto della media, pari a circa 143.

L’accesso delle donne alla ricerca universitaria

La ricerca è uno degli ambiti di maggiore interesse per quanto riguarda la parità di genere. Infatti si tratta di posizioni lavorative di elevato prestigio, dove tradizionalmente la presenza maschile è dominante.

Come afferma l’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), che ha realizzato un apposito reportla ricerca in Europa è ancora caratterizzata da una marcata sotto-rappresentazione delle donne. Secondo i dati raccolti dall’istituto, le donne nel 2018 costituivano appena un terzo dei ricercatori presenti nell’Unione europea.

Gli ostacoli all’inclusione delle donne nell’ambito della ricerca universitaria sono vari. Tra questi, le discriminazioni rispetto all’accesso ai fondi, siano esse consapevoli o frutto di un bias cognitivo. Ma anche la cultura e l’ambiente, spesso percepito come tossico, maschilista o respingente, stando a numerose testimonianze.

Le donne incontrano ancora barriere nella propria carriera.

In parte, la presenza maschile e femminile incide diversamente nei diversi settori della ricerca. Le donne sono nettamente in minoranza negli ambiti tecnici come le ICTs o l’ingegneria. Mentre sono la maggioranza nelle scienze biologiche o negli studi ambientali o umanistici. Oltre a questo, le donne affrontano difficoltà molto maggiori nel loro percorso di avanzamento di carriera e la loro presenza rispetto a quella maschile diminuisce fortemente all’aumentare del livello e del prestigio della posizione, come mostrano i dati di She figures.

Ma la disparità di genere si manifesta anche, con particolare forza, a livello di contratto. Le ricercatrici donne sono infatti molto più spesso precarie rispetto ai loro colleghi uomini. I dati più recenti su tale divario, forniti da Eige, sono relativi al 2019.

18 su 27 gli stati Ue in cui le ricercatrici universitarie sono più spesso precarie rispetto ai loro colleghi uomini (2019).

Il divario più marcato si registra in Danimarca (quasi 10 punti percentuali di differenza) e risulta elevato anche in Ungheria, Grecia, Malta e Austria (tutte sopra i 6 punti percentuali). Mentre in 9 paesi dell’Unione lo scarto è a vantaggio delle donne: in questo caso, il dato più elevato è quello riportato dalla Lettonia (6 punti).

Foto: Università campus bio-medico di Roma – licenza

 

La complessità delle stime del divario retributivo di genere Europa

La complessità delle stime del divario retributivo di genere Europa

La retribuzione media per le donne è inferiore rispetto a quella degli uomini ma la situazione in Europa varia molto da paese a paese a causa di determinati fattori.

 

La parità retributiva per lo stesso lavoro o per lavori di pari valore è sancita nei trattati europei sin dal 1957 ed è un principio che è stato recepito all’interno dell’ordinamento comunitario. Il divario retributivo di genere è la principale misura strutturata per avere un’idea di questo fenomeno ma la presenza di un valore positivo non segna per forza la presenza di questo tipo di dinamica.

Il divario retributivo di genere 

Questo indicatore è calcolato considerando la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne a prescindere dal numero di ore lavorate (comprendendo quindi lavori full-time e part-time). Rappresenta quindi un quadro dell’economia nel suo complesso, considerando persone con diverse qualifiche, contratti, età e settori occupazionali, registrati attraverso delle rilevazioni specifiche.

Le cause di questo divario sono molteplici.

È però una misura complessa da interpretare. Dal momento che si intende rappresentare il mondo retributivo in generale, questa percentuale non esprime soltanto la disparità di guadagno a parità di lavoro ma anche particolari caratteristiche dei lavori in cui uomini e donne principalmente trovano occupazione e la diversità delle posizioni tendenzialmente ricoperte. Inoltre, mancano importanti informazioni che potrebbero spiegare ulteriormente questo divario come ad esempio la condizione familiare e eventuali attività da caregiver.

13% quanto le donne guadagnano mediamente in meno degli uomini nell’economia europea nel suo complesso (Eurostat, 2020).

Il dato varia sensibilmente all’interno dei paesi dell’Unione. I valori più alti si registrano in Lettonia (22,3%), Estonia (21,1%) e Austria (18,9%). Al contrario, quelli più bassi si riportano in Slovenia (3,1%), Romania (2,4%) e Lussemburgo (0,7%).

 

 

Al contrario, quelli più bassi si riportano in Slovenia (3,1%), Romania (2,4%) e Lussemburgo (0,7%). L’Italia è al quartultimo posto a quota 4,2%, un valore di 8,8 punti percentuali in meno rispetto alla media europea.

Grazie alle rilevazioni che sono state fatte, è possibile cercare di capire quali caratteristiche del mercato del lavoro riportano dei divari maggiori. Un’informazione sicuramente utile per avere un’idea del fenomeno ma che purtroppo non risulta disponibile per tutti gli stati europei.

Una delle prime analisi che si possono fare è quella che riguarda la differenza tra contratti di lavoro part-time e full time. Se si valutano i primi, i divari retributivi più ampi sono registrati nei Paesi Bassi (22%), Malta (21%) e Spagna (20,6%) mentre i valori più bassi sono riportati in Danimarca (0,7%), Lituania (0,1%) e Portogallo (0,1%).

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta il divario retributivo di genere dal punto di vista del tipo di contratto stipulato. Il divario retributivo di genere è la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne espressa in termini percentuali. È calcolato tenendo in considerazione le imprese con più di dieci impiegati e tutti i lavori ad eccezione del settore agricolo, della difesa e degli enti sovranazionali. Non sono compresi contratti di lavoro irregolari, apprendistati e prestazioni di economia informale. Non ci sono limiti al numero di ore lavorate alla settimana, includendo quindi anche i lavori part-time. Al momento dello scarico, i dati non sono disponibili per tutti gli stati europei.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat.
(ultimo aggiornamento: lunedì 3 Ottobre 2022)

 

Andando invece a vedere i secondi, i paesi caratterizzati dalle percentuali maggiori sono Lettonia (24,1%), Ungheria (18,4%) e Finlandia (18,1%). I divari più contenuti sono invece registrati in Spagna (6,5%), Romania (2,2%) e Belgio (-0,2%).

In Italia il divario è negativo sia per i lavori part-time che per quelli full-time.

Un caso peculiare è invece quello italiano, unico stato in cui entrambi i divari sono negativi, sia quello dei contratti full-time (-1,6%) che quello dei part-time (-5,1%). Un divario negativo indica una situazione in cui nel complesso dell’economia le donne guadagnano di più a livello di salario orario rispetto agli uomini. Secondo Eurostat, questo tipo di valore può spesso essere spiegato dalla selezione delle persone che vengono considerate nello studio, soprattutto in paesi in cui il tasso di occupazione femminile è minore. Le donne che entrano nel mercato del lavoro possono avere infatti dei livelli di educazione diversi rispetto agli uomini.

Un altro elemento di differenza è rappresentato dai lavori nel settore pubblico e nel privato. I paesi in cui il divario di genere è maggiore per il settore pubblico sono la Lettonia (18,4%), la Finlandia (16,8%) e il Portogallo (15,6%) mentre è minore in Romania (0,2%), Cipro (-0,3%) e Polonia (-0,6%).

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta il divario retributivo di genere negli ambienti di lavoro pubblici e privati. Il divario retributivo di genere è la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne espressa in termini percentuali. È calcolato tenendo in considerazione le imprese con più di dieci impiegati e tutti i lavori ad eccezione del settore agricolo, della difesa e degli enti sovranazionali. Non sono compresi contratti di lavoro irregolari, apprendistati e prestazioni di economia informale. Non ci sono limiti al numero di ore lavorate alla settimana, si includono quindi anche i lavori part-time. Al momento dello scarico, i dati non sono disponibili per tutti gli stati europei.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat.
(ultimo aggiornamento: lunedì 3 Ottobre 2022)

 

Per quel che riguarda i lavori privati, le percentuali più alte sono registrate in Germania (22,6%), Lettonia (20,9%) e Repubblica Ceca (20,3%) mentre quelle più basse sono riportate in Romania (10%), Slovenia (8,6%) e Belgio (8,5%). Tendenzialmente, i divari retributivi sono più ampi nel settore privato che nel settore pubblico.

Analizzando i diversi settori economici, il divario è maggiore per il settore della finanza e delle attività assicurative. Questo dato risulta maggiore rispetto al divario complessivo per tutti gli stati europei in cui è stato calcolato, ad eccezione di Spagna e Belgio.

Unire più misure: il gender overall earning gap

Come è già stato detto, il divario retributivo di genere non coglie delle differenze che potrebbero in parte spiegare questa divergenza che sussiste tra le retribuzioni maschili e quelle femminili. Ci sono però degli aspetti che non sono completamente considerati all’interno di questa misura. Per esempio, l’utilizzo del salario orario è funzionale per appianare i contratti di lavoro full-time e part-time ma non permette di cogliere le diverse concentrazioni tra i due tipi di contratto. Non si considerano inoltre le differenze che sussistono a livello di occupazione.

10,8% la differenza di occupazione tra uomini e donne nel mercato del lavoro europeo (Eurostat, 2021).

Nel tentativo di riunire tutte queste informazioni in un unico numero, Eurostat ha elaborato nel 2018 una misura sperimentale chiamata gender overall earning gap. Si considerano tre indicatori principali: il tasso di occupazione maschile e femminile, il salario medio orario e il numero di ore lavorate in un mese. All’interno dell’Unione europea, questo valore era pari al 37% nel 2018 (ultimo dato disponibile). Significa che considerando l’economia nel suo complesso, le donne in media guadagnavano il 37% in meno rispetto agli uomini a prescindere dalla condizione occupativa e dal numero di ore lavorate. Il divario retributivo di quell’anno era pari al 14,4% quindi la considerazione di questi elementi ha amplificato questa differenza. Il dato presenta delle variazioni all’interno degli stati membri.

Nel 2018 i paesi che riportavano le percentuali maggiori erano Paesi Bassi (44,2%), Austria (44,2%), Italia (43%) e Germania (41,9%). Al contrario, in Slovenia (21%), Portogallo (20,6%) e Lituania (20,4%) i valori erano minori.

Foto: wochintechchat – licenza

 

Il supporto dei servizi per l’infanzia all’occupazione femminile #conibambini

Il supporto dei servizi per l’infanzia all’occupazione femminile #conibambini

L’Italia è uno dei paesi dove meno donne con figli lavorano. L’occupazione femminile è più bassa nei territori con carenze di servizi per l’infanzia.

 
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L’Italia è uno degli stati Ue più in ritardo nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Soprattutto dopo la nascita di un figlio, il tasso di occupazione femminile – già basso – cala. Così nella maggior parte dei paesi dell’Unione le donne con 3 figli lavorano più di quelle italiane con un unico bambino.

55,5% donne italiane tra 20 e 49 anni con un figlio occupate nel 2021. In Slovenia, Portogallo, Danimarca e Svezia la quota con 3 figli è attorno all’80%.

All’origine di questo tipo di divari vi sono diversi fattori: da quelli sociali e culturali alle politiche familiari e di genere adottate in ciascuno stato. Un aspetto di primo piano nella promozione dell’occupazione femminile è costituito dall’accessibilità dei servizi per l’infanzia e lo sviluppo della rete educativa tra 0 e 6 anni.

Oltre a rappresentare il primo tassello delle politiche di contrasto alla povertà educativa, l’estensione di asili nido e scuole per l’infanzia è un supporto anche alla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Le attività di cura nel nucleo familiare, per stereotipi di genere, ricadono spesso sulle donne. Limitandone così le potenzialità e le possibilità di inclusione nella società attiva.

27,9% donne inattive in Ue per cui il motivo principale è la necessità di accudire bambini o adulti bisognosi di assistenza (8% tra gli uomini).

Anche per questo motivo l’approvazione, alla fine dello scorso novembre, dei nuovi obiettivi sull’estensione dei servizi educativi per l’infanzia riguarda il nostro paese così direttamente.

Dal 2002 l’Ue promuove la diffusione di nidi, servizi e scuole per l’infanzia, da offrire ad almeno il 33% dei bimbi sotto i 3 anni e al 90% di quelli tra 3 e 5 anni. Dall’anno scorso sono stati innalzati rispettivamente al 45 e al 96% in vista del 2030. Vai a “Che cosa prevedono gli obiettivi di Barcellona sugli asili nido”

Approfondiamo meglio la posizione dell’Italia rispetto agli altri paesi Ue nell’occupazione femminile, oggi segnata da profondi divari interni. Gap che molto spesso coincidono con quelli nell’offerta di servizi.

Come varia l’occupazione tra le donne che hanno figli

In Europa, in media, circa il 71% delle donne tra 20 e 49 anni sono occupate. Una quota inferiore rispetto agli uomini della stessa età (80,5%), ma che non varia in modo così sensibile tra chi ha figli e chi no.

Lavora infatti il 71,9% delle donne senza figli, il 70,9% di quelle con un figlio, il 72,6% in presenza di due figli. Il calo drastico si ha in presenza di 3 o più figli, dove il tasso di occupazione scende al 57,5%.

L’Italia si attesta su livelli più bassi di 15-18 punti rispetto alla media Ue. Lavora il 56,3% delle donne senza figli, quota che scende al 55% circa con uno o due figli e crolla al 40,2% con 3 figli.

Nel confronto europeo emerge come le donne italiane con un figlio risultino occupate molto meno spesso di quelle con 3 figli in altri paesi. Ad esempio la Slovenia (dove lavora l’82,8% delle madri con 3 figli tra 20 e 49 anni), il Portogallo (80,4%), la Danimarca (79,1%), la Svezia (79%). Sono 22 su 27 i paesi in cui le donne con 3 figli hanno tassi di occupazione superiori a quelle italiane con un solo bambino.

I divari interni sull’occupazione femminile

Il ritardo del nostro paese nel confronto europeo è l’esito di profondi divari interni. Nel 2021 i giovani tra 25 e 34 anni lavorano nel 62,6% dei casi, quota che scende al 54% tra le donne. Mentre nell’Italia settentrionale questa percentuale si avvicina al 68%, nel mezzogiorno crolla al 34,9%.

2 volte il tasso di occupazione femminile nel nord rispetto al mezzogiorno.

Nella fascia tra 35 e 44 anni il tasso occupazione femminile è del 62,4%: oltre 10 punti in meno della media (72,9%). Anche in questo caso con ampie distanze tra nord (74,5% di donne occupate) e mezzogiorno (42,1%).

La strategia per ridurre i divari interni, riavvicinando l’Italia agli standard europei, passa anche dall’estensione dei servizi per la prima infanzia. Un aspetto sottolineato anche dalla recente raccomandazione europea sul tema.

La disponibilità di servizi di assistenza a costi sostenibili e di alta qualità incide in modo altamente positivo sulla situazione occupazionale dei prestatori di assistenza, in particolare delle donne.

Sono generalmente i territori con meno servizi per l’infanzia ad avere una minore occupazione femminile, e viceversa. La relazione va letta nei due sensi, in un circolo vizioso che si autoalimenta.

Nei territori in cui poche donne lavorano, la percezione della necessità di servizi è spesso inferiore; allo stesso tempo, in mancanza di nidi, la possibilità per le donne con figli di lavorare viene di fatto fortemente limitata. Creando un disincentivo evidente all’occupazione femminile.

Nel 2021, l’età media delle partorienti è stata superiore ai 30 anni, tanto per le cittadine straniere quanto per le donne italiane (33,1 anni). Nella fascia tra 35 e 44 anni, così come in quella delle 25-34enni, i territori con maggiore occupazione femminile sono anche quelli con i servizi per l’infanzia più sviluppati.

Sono 20 le province in cui oltre il 75% delle donne 35-44 anni lavorano: tutte – tranne una – superano l’offerta media nazionale di nidi (27,2%), attestandosi spesso nelle prime posizioni in Italia per ampiezza del servizio. Tra queste, Ravenna, Bologna, Perugia, Trieste, Firenze, Reggio nell’Emilia e Aosta. In tutti territori appena citati, un’occupazione femminile vicina o superiore all’80% si associa a un’offerta superiore ai 40 posti ogni 100 bambini. Addirittura quasi 50 a Ravenna (48,6%) e Bologna (46,5%).

L’unica eccezione è rappresentata da Belluno: tasso di occupazione femminile all’82,7% e 25,4 posti ogni 100 bambini. Meno della media nazionale, sebbene non troppo distante.

Al contrario, dove i servizi scarseggiano anche l’occupazione femminile è molto più bassa.

L’offerta educativa nei territori con minore occupazione femminile

Sono 12 le province dove meno del 40% delle donne tra 35 e 44 anni sono occupate. Nessuna raggiunge i 20 posti nido ogni 100 bambini presenti.

Parliamo dei territori di Palermo, Vibo Valentia, Barletta-Andria-Trani, Siracusa, Catania, Cosenza, Agrigento, Enna, Caserta, Messina, Caltanissetta e Napoli. L’offerta più ampia tra questi si riscontra nella città metropolitana di Messina (18,9 posti ogni 100 bambini). Tuttavia il capoluogo si attesta su un dato inferiore (8,1% nel 2020) e la quota di comuni dell’ex provincia che offrono il servizio è pari al 34,3% del totale. Più di quanto rilevato nel 2013 (27,8% di comuni attrezzati), ma meno dell’attuale media nazionale (59,3%) e del mezzogiorno (46%).

Gli altri territori a bassa occupazione femminile presentano un’offerta di gran lunga inferiore rispetto a quella messinese. In particolare le province di Cosenza
Caserta e Caltanissetta, tutte con 8,9 posti ogni 100 residenti sotto i 3 anni. Molto lontani dalla vecchia soglia del 33% fissata in sede Ue, per non parlare della nuova del 45%.

Gli stessi capoluoghi delle 3 province citate si attestano tra l’11,1% di Cosenza e il 15,5% di Caltanissetta. In termini di diffusione sul territorio, offrono servizi per la prima infanzia 45,2% dei comuni casertani, il 30% di quelli cosentini e il 18,2% di quelli nisseni. Cifre che fanno il paio con quelle sulle poche donne che lavorano in queste aree.

Una relazione da non dare per scontata

Certamente la relazione va letta in entrambe le direzioni, ovvero i territori con minore occupazione potenzialmente esprimono una minore domanda di servizi. Ma ridurre tutto a quest’unica dimensione sarebbe parziale, e i dati sembrano suggerire che tale interpretazione vada data sempre meno per scontata.

Come abbiamo avuto modo di approfondire in passato, nelle regioni del mezzogiorno, dove gli asili nido sono molto meno diffusi, è molto più alta anche la quota di anticipatari alla scuola dell’infanzia. Ciò significa che una domanda latente del servizio esiste.

Perché se è proprio nei territori con pochi asili nido che gli anticipi sono più frequenti vuol dire che è la scuola dell’infanzia a farsi carico di una domanda che già oggi esiste, pur non essendo intercettata dall’offerta di nidi, ancora inadeguata in molte aree del paese.

Serve un’offerta che la sostenga, in modo da ridurre i divari, tanto di genere quanto educativi.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi ad asili nido e servizi prima infanzia sono di fonte Istat.

Foto: Israel Andrade (unsplash) – Licenza

 

Processo civile in Cassazione: un nuovo protocollo d’intesa

Processo civile in Cassazione: un nuovo protocollo d’intesa

 
 

Il 1° marzo 2023 è stato sottoscritto il “Protocollo d’intesa sul processo civile in cassazione” per conto della Corte Suprema di cassazione, della Procura Generale della Corte di cassazione, dell’Avvocatura Generale dello Stato e del Consiglio Nazionale Forense hanno siglato. L’obiettivo è di costruire insieme una prassi organizzativa e un’interpretazione condivisa di alcune delle modifiche normative.

Leggi il Protocollo d’intesa sul processo civile in cassazione

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Indice

1. La cessazione di validità dei precedenti protocolli

La riforma civile Cartabia (decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149) ha comportato una rilevante riforma del processo civile in cassazione, estendendo e rafforzando il processo civile telematico e sottolineando il ruolo fondamentale dei principi di chiarezza e sinteticità degli atti e di collaborazione tra le parti e il giudice. Le rinnovate direttrici che sono a base della novella hanno imposto di aggiornare e ricalibrare i vari Protocolli d’intesa già intercorsi tra la Corte Suprema di cassazione, la Procura Generale della Corte di cassazione, l’Avvocatura Generale dello Stato e il Consiglio Nazionale Forense, che per l’effetto hanno cessato di avere validità.

2. L’obiettivo del Protocollo

Tramite la sottoscrizione, il I° marzo, di un Protocollo unico, destinato a ricomprendere e superare quelli sinora siglati, le parti hanno inteso manifestare la volontà comune di costruire insieme:

  • una prassi organizzativa,
  • un’interpretazione condivisa di alcune delle modifiche normative,

nella convinzione che:

  • la modalità maggiormente efficace per produrre il cambiamento culturale richiesto dalla riforma risulti quello del pieno e fattivo coinvolgimento di tutti i soggetti del processo sui quali ricade la comune responsabilità di farlo funzionare,
  • nessuna significativa modifica del modo di essere e funzionare della Corte di Cassazione può prescindere dal consenso e dal contributo della classe forense.

3. I contenuti

In 55 pagine il documento si occupa di:

  • regole redazionali degli atti processuali,
  • disposizioni per il rito camerale unificato,
  • procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi ex art. 380 bis c.p.c.,
  • digitalizzazione degli atti nei processi civili,
  • costituzione del gruppo dei referenti per l’attuazione del protocollo,
  • abrogazione dei precedenti protocolli.

Al protocollo sono altresì allegati due elenchi:

  • codici materia,
  • atti di parte e allegati codificati.

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FORMATO CARTACEO

Formulario Annotato del Processo Penale dopo la Riforma Cartabia

Il presente formulario, aggiornato al D.Lgs. 10 ottobre 2022, n.150 (Riforma Cartabia) e alla Legge 30 dicembre 2022, n. 199, di conv. con mod. del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162 (Decreto Nordio), rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per l’Avvocato penalista, oltre che per i Giudici di pace o per gli aspiranti Avvocati, mettendo a loro disposizione tutti gli schemi degli atti difensivi contemplati dal codice di procedura penale, contestualizzati con il relativo quadro normativo di riferimento e corredati dalle più significative pronunce della Corte di Cassazione, oltre che dai più opportuni suggerimenti per una loro migliore redazione.La struttura del volume, divisa per sezioni seguendo sostanzialmente l’impianto del codice di procedura penale, consente la rapida individuazione degli atti correlati alle diverse fasi processuali:Giurisdizione e competenza – Giudice – Pubblico ministero – Parte civile – Responsabile civile – Civilmente obbligato – Persona offesa – Enti e associazioni – Difensore – Gli atti – Le notificazioni – Le prove – Misure cautelari personali – Riparazione per ingiusta detenzione – Misure cautelari reali – Arresto in flagranza e fermo – Indagini difensive e investigazioni difensive – Incidente probatorio – Chiusura delle indagini – Udienza preliminare – Procedimenti speciali – Giudizio – Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica – Appello – Ricorso per cassazione – Revisione – Riparazione per errore giudiziario – Esecuzione – Rapporti giurisdizionali con le autorità straniere.Specifiche sezioni, infine, sono state dedicate al Patrocinio a spese dello stato, alle Misure cautelari nei confronti degli enti (D.Lgs. n. 231 del 2001) ed al Processo penale davanti al Giudice di pace (D.Lgs. n. 274 del 2000).L’opera, infine, è anche corredata da un’utilissima appendice, contenente schemi riepilogativi e riferimenti normativi in grado di rendere maggiormente agevole l’attività del legale.Valerio de GioiaGiudice penale in servizio presso il Tribunale di Roma.Paolo Emilio De SimoneGiudice penale in servizio presso il Tribunale di Roma.

 

Valerio de Gioia – Paolo Emilio De Simone | Maggioli Editore 2023

89.30 €

 

La complessità delle stime del divario retributivo di genere Europa

La complessità delle stime del divario retributivo di genere Europa

La retribuzione media per le donne è inferiore rispetto a quella degli uomini ma la situazione in Europa varia molto da paese a paese a causa di determinati fattori.

 

La parità retributiva per lo stesso lavoro o per lavori di pari valore è sancita nei trattati europei sin dal 1957 ed è un principio che è stato recepito all’interno dell’ordinamento comunitario. Il divario retributivo di genere è la principale misura strutturata per avere un’idea di questo fenomeno ma la presenza di un valore positivo non segna per forza la presenza di questo tipo di dinamica.

Il divario retributivo di genere 

Questo indicatore è calcolato considerando la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne a prescindere dal numero di ore lavorate (comprendendo quindi lavori full-time e part-time). Rappresenta quindi un quadro dell’economia nel suo complesso, considerando persone con diverse qualifiche, contratti, età e settori occupazionali, registrati attraverso delle rilevazioni specifiche.

Le cause di questo divario sono molteplici.

È però una misura complessa da interpretare. Dal momento che si intende rappresentare il mondo retributivo in generale, questa percentuale non esprime soltanto la disparità di guadagno a parità di lavoro ma anche particolari caratteristiche dei lavori in cui uomini e donne principalmente trovano occupazione e la diversità delle posizioni tendenzialmente ricoperte. Inoltre, mancano importanti informazioni che potrebbero spiegare ulteriormente questo divario come ad esempio la condizione familiare e eventuali attività da caregiver.

13% quanto le donne guadagnano mediamente in meno degli uomini nell’economia europea nel suo complesso (Eurostat, 2020).

Il dato varia sensibilmente all’interno dei paesi dell’Unione. I valori più alti si registrano in Lettonia (22,3%), Estonia (21,1%) e Austria (18,9%). Al contrario, quelli più bassi si riportano in Slovenia (3,1%), Romania (2,4%) e Lussemburgo (0,7%).

 

 

Al contrario, quelli più bassi si riportano in Slovenia (3,1%), Romania (2,4%) e Lussemburgo (0,7%). L’Italia è al quartultimo posto a quota 4,2%, un valore di 8,8 punti percentuali in meno rispetto alla media europea.

Grazie alle rilevazioni che sono state fatte, è possibile cercare di capire quali caratteristiche del mercato del lavoro riportano dei divari maggiori. Un’informazione sicuramente utile per avere un’idea del fenomeno ma che purtroppo non risulta disponibile per tutti gli stati europei.

Una delle prime analisi che si possono fare è quella che riguarda la differenza tra contratti di lavoro part-time e full time. Se si valutano i primi, i divari retributivi più ampi sono registrati nei Paesi Bassi (22%), Malta (21%) e Spagna (20,6%) mentre i valori più bassi sono riportati in Danimarca (0,7%), Lituania (0,1%) e Portogallo (0,1%).

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta il divario retributivo di genere dal punto di vista del tipo di contratto stipulato. Il divario retributivo di genere è la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne espressa in termini percentuali. È calcolato tenendo in considerazione le imprese con più di dieci impiegati e tutti i lavori ad eccezione del settore agricolo, della difesa e degli enti sovranazionali. Non sono compresi contratti di lavoro irregolari, apprendistati e prestazioni di economia informale. Non ci sono limiti al numero di ore lavorate alla settimana, includendo quindi anche i lavori part-time. Al momento dello scarico, i dati non sono disponibili per tutti gli stati europei.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat.
(ultimo aggiornamento: lunedì 3 Ottobre 2022)

 

Andando invece a vedere i secondi, i paesi caratterizzati dalle percentuali maggiori sono Lettonia (24,1%), Ungheria (18,4%) e Finlandia (18,1%). I divari più contenuti sono invece registrati in Spagna (6,5%), Romania (2,2%) e Belgio (-0,2%).

In Italia il divario è negativo sia per i lavori part-time che per quelli full-time.

Un caso peculiare è invece quello italiano, unico stato in cui entrambi i divari sono negativi, sia quello dei contratti full-time (-1,6%) che quello dei part-time (-5,1%). Un divario negativo indica una situazione in cui nel complesso dell’economia le donne guadagnano di più a livello di salario orario rispetto agli uomini. Secondo Eurostat, questo tipo di valore può spesso essere spiegato dalla selezione delle persone che vengono considerate nello studio, soprattutto in paesi in cui il tasso di occupazione femminile è minore. Le donne che entrano nel mercato del lavoro possono avere infatti dei livelli di educazione diversi rispetto agli uomini.

Un altro elemento di differenza è rappresentato dai lavori nel settore pubblico e nel privato. I paesi in cui il divario di genere è maggiore per il settore pubblico sono la Lettonia (18,4%), la Finlandia (16,8%) e il Portogallo (15,6%) mentre è minore in Romania (0,2%), Cipro (-0,3%) e Polonia (-0,6%).

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta il divario retributivo di genere negli ambienti di lavoro pubblici e privati. Il divario retributivo di genere è la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne espressa in termini percentuali. È calcolato tenendo in considerazione le imprese con più di dieci impiegati e tutti i lavori ad eccezione del settore agricolo, della difesa e degli enti sovranazionali. Non sono compresi contratti di lavoro irregolari, apprendistati e prestazioni di economia informale. Non ci sono limiti al numero di ore lavorate alla settimana, si includono quindi anche i lavori part-time. Al momento dello scarico, i dati non sono disponibili per tutti gli stati europei.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat.
(ultimo aggiornamento: lunedì 3 Ottobre 2022)

 

Per quel che riguarda i lavori privati, le percentuali più alte sono registrate in Germania (22,6%), Lettonia (20,9%) e Repubblica Ceca (20,3%) mentre quelle più basse sono riportate in Romania (10%), Slovenia (8,6%) e Belgio (8,5%). Tendenzialmente, i divari retributivi sono più ampi nel settore privato che nel settore pubblico.

Analizzando i diversi settori economici, il divario è maggiore per il settore della finanza e delle attività assicurative. Questo dato risulta maggiore rispetto al divario complessivo per tutti gli stati europei in cui è stato calcolato, ad eccezione di Spagna e Belgio.

Unire più misure: il gender overall earning gap

Come è già stato detto, il divario retributivo di genere non coglie delle differenze che potrebbero in parte spiegare questa divergenza che sussiste tra le retribuzioni maschili e quelle femminili. Ci sono però degli aspetti che non sono completamente considerati all’interno di questa misura. Per esempio, l’utilizzo del salario orario è funzionale per appianare i contratti di lavoro full-time e part-time ma non permette di cogliere le diverse concentrazioni tra i due tipi di contratto. Non si considerano inoltre le differenze che sussistono a livello di occupazione.

10,8% la differenza di occupazione tra uomini e donne nel mercato del lavoro europeo (Eurostat, 2021).

Nel tentativo di riunire tutte queste informazioni in un unico numero, Eurostat ha elaborato nel 2018 una misura sperimentale chiamata gender overall earning gap. Si considerano tre indicatori principali: il tasso di occupazione maschile e femminile, il salario medio orario e il numero di ore lavorate in un mese. All’interno dell’Unione europea, questo valore era pari al 37% nel 2018 (ultimo dato disponibile). Significa che considerando l’economia nel suo complesso, le donne in media guadagnavano il 37% in meno rispetto agli uomini a prescindere dalla condizione occupativa e dal numero di ore lavorate. Il divario retributivo di quell’anno era pari al 14,4% quindi la considerazione di questi elementi ha amplificato questa differenza. Il dato presenta delle variazioni all’interno degli stati membri.

Nel 2018 i paesi che riportavano le percentuali maggiori erano Paesi Bassi (44,2%), Austria (44,2%), Italia (43%) e Germania (41,9%). Al contrario, in Slovenia (21%), Portogallo (20,6%) e Lituania (20,4%) i valori erano minori.

Foto: wochintechchat – licenza

 

Infanzia

 politiche familiari e di genere adottate in ciascuno stato. Un aspetto di primo piano nella promozione dell’occupazione femminile è costituito dall’accessibilità dei servizi per l’infanzia e lo sviluppo della rete educativa tra 0 e 6 anni.

Oltre a rappresentare il primo tassello delle politiche di contrasto alla povertà educativa, l’estensione di asili nido e scuole per l’infanzia è un supporto anche alla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Le attività di cura nel nucleo familiare, per stereotipi di genere, ricadono spesso sulle donne. Limitandone così le potenzialità e le possibilità di inclusione nella società attiva.

27,9% donne inattive in Ue per cui il motivo principale è la necessità di accudire bambini o adulti bisognosi di assistenza (8% tra gli uomini).

Anche per questo motivo l’approvazione, alla fine dello scorso novembre, dei nuovi obiettivi sull’estensione dei servizi educativi per l’infanzia riguarda il nostro paese così direttamente.

Dal 2002 l’Ue promuove la diffusione di nidi, servizi e scuole per l’infanzia, da offrire ad almeno il 33% dei bimbi sotto i 3 anni e al 90% di quelli tra 3 e 5 anni. Dall’anno scorso sono stati innalzati rispettivamente al 45 e al 96% in vista del 2030. Vai a “Che cosa prevedono gli obiettivi di Barcellona sugli asili nido”

Approfondiamo meglio la posizione dell’Italia rispetto agli altri paesi Ue nell’occupazione femminile, oggi segnata da profondi divari interni. Gap che molto spesso coincidono con quelli nell’offerta di servizi.

Come varia l’occupazione tra le donne che hanno figli

In Europa, in media, circa il 71% delle donne tra 20 e 49 anni sono occupate. Una quota inferiore rispetto agli uomini della stessa età (80,5%), ma che non varia in modo così sensibile tra chi ha figli e chi no.

Lavora infatti il 71,9% delle donne senza figli, il 70,9% di quelle con un figlio, il 72,6% in presenza di due figli. Il calo drastico si ha in presenza di 3 o più figli, dove il tasso di occupazione scende al 57,5%.

L’Italia si attesta su livelli più bassi di 15-18 punti rispetto alla media Ue. Lavora il 56,3% delle donne senza figli, quota che scende al 55% circa con uno o due figli e crolla al 40,2% con 3 figli.

Nel confronto europeo emerge come le donne italiane con un figlio risultino occupate molto meno spesso di quelle con 3 figli in altri paesi. Ad esempio la Slovenia (dove lavora l’82,8% delle madri con 3 figli tra 20 e 49 anni), il Portogallo (80,4%), la Danimarca (79,1%), la Svezia (79%). Sono 22 su 27 i paesi in cui le donne con 3 figli hanno tassi di occupazione superiori a quelle italiane con un solo bambino.

I divari interni sull’occupazione femminile

Il ritardo del nostro paese nel confronto europeo è l’esito di profondi divari interni. Nel 2021 i giovani tra 25 e 34 anni lavorano nel 62,6% dei casi, quota che scende al 54% tra le donne. Mentre nell’Italia settentrionale questa percentuale si avvicina al 68%, nel mezzogiorno crolla al 34,9%.

2 volte il tasso di occupazione femminile nel nord rispetto al mezzogiorno.

Nella fascia tra 35 e 44 anni il tasso occupazione femminile è del 62,4%: oltre 10 punti in meno della media (72,9%). Anche in questo caso con ampie distanze tra nord (74,5% di donne occupate) e mezzogiorno (42,1%).

La strategia per ridurre i divari interni, riavvicinando l’Italia agli standard europei, passa anche dall’estensione dei servizi per la prima infanzia. Un aspetto sottolineato anche dalla recente raccomandazione europea sul tema.

La disponibilità di servizi di assistenza a costi sostenibili e di alta qualità incide in modo altamente positivo sulla situazione occupazionale dei prestatori di assistenza, in particolare delle donne.

Sono generalmente i territori con meno servizi per l’infanzia ad avere una minore occupazione femminile, e viceversa. La relazione va letta nei due sensi, in un circolo vizioso che si autoalimenta.

Nei territori in cui poche donne lavorano, la percezione della necessità di servizi è spesso inferiore; allo stesso tempo, in mancanza di nidi, la possibilità per le donne con figli di lavorare viene di fatto fortemente limitata. Creando un disincentivo evidente all’occupazione femminile.

Nel 2021, l’età media delle partorienti è stata superiore ai 30 anni, tanto per le cittadine straniere quanto per le donne italiane (33,1 anni). Nella fascia tra 35 e 44 anni, così come in quella delle 25-34enni, i territori con maggiore occupazione femminile sono anche quelli con i servizi per l’infanzia più sviluppati.

Sono 20 le province in cui oltre il 75% delle donne 35-44 anni lavorano: tutte – tranne una – superano l’offerta media nazionale di nidi (27,2%), attestandosi spesso nelle prime posizioni in Italia per ampiezza del servizio. Tra queste, Ravenna, Bologna, Perugia, Trieste, Firenze, Reggio nell’Emilia e Aosta. In tutti territori appena citati, un’occupazione femminile vicina o superiore all’80% si associa a un’offerta superiore ai 40 posti ogni 100 bambini. Addirittura quasi 50 a Ravenna (48,6%) e Bologna (46,5%).

L’unica eccezione è rappresentata da Belluno: tasso di occupazione femminile all’82,7% e 25,4 posti ogni 100 bambini. Meno della media nazionale, sebbene non troppo distante.

Al contrario, dove i servizi scarseggiano anche l’occupazione femminile è molto più bassa.

L’offerta educativa nei territori con minore occupazione femminile

Sono 12 le province dove meno del 40% delle donne tra 35 e 44 anni sono occupate. Nessuna raggiunge i 20 posti nido ogni 100 bambini presenti.

Parliamo dei territori di Palermo, Vibo Valentia, Barletta-Andria-Trani, Siracusa, Catania, Cosenza, Agrigento, Enna, Caserta, Messina, Caltanissetta e Napoli. L’offerta più ampia tra questi si riscontra nella città metropolitana di Messina (18,9 posti ogni 100 bambini). Tuttavia il capoluogo si attesta su un dato inferiore (8,1% nel 2020) e la quota di comuni dell’ex provincia che offrono il servizio è pari al 34,3% del totale. Più di quanto rilevato nel 2013 (27,8% di comuni attrezzati), ma meno dell’attuale media nazionale (59,3%) e del mezzogiorno (46%).

Gli altri territori a bassa occupazione femminile presentano un’offerta di gran lunga inferiore rispetto a quella messinese. In particolare le province di Cosenza
Caserta e Caltanissetta, tutte con 8,9 posti ogni 100 residenti sotto i 3 anni. Molto lontani dalla vecchia soglia del 33% fissata in sede Ue, per non parlare della nuova del 45%.

Gli stessi capoluoghi delle 3 province citate si attestano tra l’11,1% di Cosenza e il 15,5% di Caltanissetta. In termini di diffusione sul territorio, offrono servizi per la prima infanzia 45,2% dei comuni casertani, il 30% di quelli cosentini e il 18,2% di quelli nisseni. Cifre che fanno il paio con quelle sulle poche donne che lavorano in queste aree.

Una relazione da non dare per scontata

Certamente la relazione va letta in entrambe le direzioni, ovvero i territori con minore occupazione potenzialmente esprimono una minore domanda di servizi. Ma ridurre tutto a quest’unica dimensione sarebbe parziale, e i dati sembrano suggerire che tale interpretazione vada data sempre meno per scontata.

Come abbiamo avuto modo di approfondire in passato, nelle regioni del mezzogiorno, dove gli asili nido sono molto meno diffusi, è molto più alta anche la quota di anticipatari alla scuola dell’infanzia. Ciò significa che una domanda latente del servizio esiste.

Perché se è proprio nei territori con pochi asili nido che gli anticipi sono più frequenti vuol dire che è la scuola dell’infanzia a farsi carico di una domanda che già oggi esiste, pur non essendo intercettata dall’offerta di nidi, ancora inadeguata in molte aree del paese.

Serve un’offerta che la sostenga, in modo da ridurre i divari, tanto di genere quanto educativi.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi ad asili nido e servizi prima infanzia sono di fonte Istat.

Foto: Israel Andrade (unsplash) – Licenza

 

Resta alto il numero di femminicidi in Italia e in Europa Europa

Resta alto il numero di femminicidi in Italia e in Europa Europa

Con femminicidio si intende l’omicidio di una donna in quanto donna. Insieme ad altre redazioni dello European journalism network, abbiamo ricostruito l’incidenza di tale fenomeno nel nostro paese e in Europa. Nonostante le numerose difficoltà di misurazione.

 

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La violenza di genere è una delle principali forme di violazioni dei diritti umani, in tutte le società. Alla sua radice c’è una cultura patriarcale che alimenta storici divari di genere, secondo i quali la donna ricopre un ruolo inferiore all’interno della società, in ogni suo ambito. Dall’istruzione al mondo lavorativo, dalle relazioni di coppia al lavoro di cura familiare. Una visione che non contempla nessuna emancipazione della donna dai ruoli prescritti e che troppo spesso si traduce in atti di violenza psicologica o fisica.

Gli episodi di violenza contro le donne avvengono principalmente, anche se non solo, nella sfera domestica. Sono nelle gran parte dei casi parenti, partner o ex partner della vittima a commetterli. E quando tali violenze sfociano nell’omicidio vengono definite, con diverse accezioni, “femminicidi“.

Dei paesi che hanno partecipato alla data unit e che sono riusciti a reperire questa informazione, solo Cipro individua nel proprio ordinamento giuridico il reato di femminicidio. Gli altri (Grecia, Serbia, Francia, Austria, Germania e Francia) non hanno un riconoscimento legale vero e proprio. Analogamente nel caso italiano esistono aggravanti per la violenza domestica e sessuale, ma a oggi non esiste un aggravante per il movente di genere. Era proprio l’obiettivo del disegno di legge Zan, che è però stato respinto.

L’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), il principale riferimento statistico su questa materia, lo definisce come l’omicidio di una donna per via della sua appartenenza di genere. Riprendendo la definizione della commissione statistica dell’Onu, adottata anche da Istat in Italia.

Femicide is broadly defined as the killing of a woman or girl because of her gender.

Insieme ad altre 15 redazioni che fanno parte dello European data journalism network (Edjnet), sotto la direzione del Mediterranean institute for investigative reporting (Miir), abbiamo raccolto i dati più recenti sugli omicidi di donne e sui femminicidi per illustrare la situazione almeno nei 15 paesi che è stato possibile considerare.

Abbiamo in primo luogo riscontrato una oggettiva difficoltà a trovare i dati, soprattutto per via della scarsa armonizzazione a livello europeo tra le categorie utilizzate. I principali riferimenti sono stati il report 2021 di Eige e l’ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat), oltre a fonti a livello nazionale: in Italia, Istat e il ministero dell’interno. Un altro elemento problematico è quello legato alle tempistiche, anche giudiziarie, necessarie per individuare il colpevole e i suoi moventi, e quindi per definire se si tratta di un omicidio o, specificamente, di un femminicidio. Ragione per cui spesso i dati più recenti erano precedenti al 2019. Il che inoltre ha reso difficile una valutazione dei cambiamenti in corrispondenza della pandemia da Covid-19.

Femminicidi: definizioni e dati in Europa

Se consideriamo soltanto i crimini catalogati come “femminicidi” negli stati analizzati dalla ricerca (i 27 paesi membri e la Serbia) vediamo che si hanno informazioni abbastanza esaustive fino al 2018, l’ultima data per cui sono disponibili dati ufficiali a livello europeo (nuovi dati Eige sul 2020 saranno disponibili non prima del 2024). Nel 2018, sappiamo che hanno avuto luogo 425 femminicidi in 16 stati. Per il 2019 e il 2020 invece abbiamo informazioni solo su 8 stati, e per il 2021 su 7. Come accennato, è rilevante qui il fattore temporale, visto che bisogna attendere le conclusioni dei processi per venire a conoscenza dell’autore del delitto e del movente.

3.232 i femminicidi in 20 stati Ue tra 2010 e 2021, secondo le stime Edjnet e Miir.

Un dato che però, occorre evidenziare, costituisce una forte sottostima. Mancano infatti i dati relativi a 8 stati membri (Polonia, Bulgaria, Irlanda, Danimarca, Lussemburgo, Belgio, Portogallo e Romania), per i quali non è stato possibile reperire i dati. Inoltre, si tratta di cifre molto lontane dai 6.593 omicidi commessi da familiari o (ex) partner riportati da Eurostat.

Ci sono altri elementi che aiuterebbero a identificare i femminicidi, per elaborare stime anche prima dell’esito dei processi, identificati dall’ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) e dall’ente Onu per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile (Un Women) all’interno del loro framework statistico per misurare i femminicidi e i crimini basati sul genere della vittima. Tuttavia tali elementi sono altrettanto problematici.

Gli indicatori sono disponibili, ma mancano le informazioni richieste.

Per esempio si considera se l’omicidio è avvenuto in seguito a un episodio di violenza sessuale o se vittima e autore si trovavano in una posizione gerarchica l’uno rispetto all’altra. Informazioni che purtroppo sono raramente disponibili, rendendo problematica una efficace misurazione del fenomeno. A maggior ragione se consideriamo che i vari paesi dell’Unione europea seguono categorie e definizioni differenti, ancora non armonizzate.

Date tali difficoltà, il modo più idoneo per stimare il numero di femminicidi è ricorrere alla categoria domestica. Si tratta infatti di una fattispecie di omicidio misurata dalla maggior parte dei paesi Ue. Ed è senza dubbio l’ambito in cui più spesso le donne vengono uccise in quanto donne, seppur non l’unico.

Nel 2020 si sono registrati, in totale, 745 omicidi di questo tipo nei 15 stati per cui abbiamo informazioni. Vediamo che gli stati Ue si differenziano ampiamente da questo punto di vista, sia come numero di episodi in termini assoluti che come incidenza sul totale della popolazione di sesso femminile.

2,14 omicidi di donne commessi da familiari o (ex) partner in Lettonia ogni 100mila donne nel 2020, il dato più elevato d’Europa.

In Lettonia si sono registrati 2,14 omicidi ogni 100mila donne, in ambito domestico, per un totale di 22 episodi. Segue la Lituania con 0,87 (13 in numeri assoluti). Il dato più basso lo riporta invece la Grecia (0,16).

225 gli omicidi volontari di donne commessi da familiari o (ex) partner in Germania nel 2020, il dato più elevato d’Europa.

paesi baltici si distinguono negativamente dagli altri paesi dell’Unione anche per l’incidenza di omicidi volontari di donne in generale, a prescindere dal contesto e dall’autore. Anche in questo caso il record è detenuto dalla Lettonia, con 4,09 casi ogni 100mila donne (per un totale di 42), sempre nel 2020. Più del doppio di Lituania ed Estonia che, con 1,95 e 1,43 rispettivamente, occupano il secondo e terzo posto, e molto al di sopra di tutti gli altri paesi dell’Ue.

Una situazione che in Italia fatica a migliorare

Stando all’ultimo aggiornamento del ministero dell’interno, nel 2022 in Italia si sono registrati 319 omicidi di cui 125 con vittime di sesso femminile (circa il 39%). Un totale di 140 episodi hanno avuto luogo in un contesto domestico e in questo caso 103 hanno colpito donne (quasi il 74%). Se specifichiamo ulteriormente, sono stati 67 i delitti commessi da partner o ex partner, 61 con vittime donne, ovvero il 91%.

Diminuiscono gli omicidi, ma non quelli in ambito domestico.

A fronte di una generale diminuzione degli omicidi volontari dagli anni ’90 a oggi – rileva Istat – si mantiene elevato il numero di donne che vengono uccise da persone a loro vicine. Anzi, proporzionalmente (come incidenza sul totale degli omicidi), si tratta addirittura di un dato in crescita, rispetto ad altre tipologie.

In generale l’Italia presenta il secondo dato più basso d’Europa per incidenza degli omicidi sul totale della popolazione: 0,48 ogni 100mila abitanti. Più elevato solo di quello del Lussemburgo (0,32) e ben al di sotto della media Ue (0,89). Anche per quanto riguarda gli omicidi di donne il dato italiano è inferiore alla media Ue (0,38 contro 0,66).

Tuttavia se negli anni il numero di uomini vittime di omicidio si è fortemente ridotto nel nostro paese, lo stesso non si può dire delle donne, per le quali il miglioramento è stato molto più lento e contenuto. Indice del fatto che si tratta di un problema strutturale che richiede delle politiche specifiche. Nei primi anni ’90, riporta Istat, per ogni donna uccisa erano uccisi 5 uomini. Nel tempo tale rapporto è gradualmente diminuito fino ad arrivare nel 2021 a 1,6.

Se poi consideriamo le uccisioni di donne solo da parte di familiari, partner o ex partner della vittima, vediamo che la loro incidenza è lievemente diminuita (da 0,36 nel 2012 a 0,32 nel 2021). Ma è aumentata in rapporto al totale degli omicidi di donne.

85,3% degli omicidi di donne in Italia sono commessi da familiari o (ex) partner (2020).

Nel 2012 la quota si attestava invece al 74%, oltre 10 punti percentuali in meno.

L’incidenza degli omicidi di donne commessi in ambito domestico è rimasto sostanzialmente invariato, registrando soltanto un lieve, seppur oscillante, calo. Il picco si è registrato nel 2013, quando sono state uccise da un parente o un (ex) partner 0,42 donne ogni 100mila. Mentre nel 2020 la cifra è scesa a 0,32.

Risulta invece marcatamente in aumento il rapporto tra gli omicidi in ambito domestico e il totale degli omicidi volontari di donne. Nel 2017, il momento in cui è stata più bassa, la quota si attestava al 73% circa. Mentre nel 2020 ha superato l’85%, dopo un graduale incremento.

Quello della violenza di genere e dei femminicidi è un fenomeno complesso e strutturale, che risulta particolarmente difficile da contrastare. Nel tempo subisce dei miglioramenti di entità minima, rimanendo quasi invariato rispetto al parallelo calo complessivo di atti violenti e di omicidi in generale, almeno nel mondo occidentale. Questo perché si tratta di un problema specifico e profondamente radicato nella cultura patriarcale, che per essere affrontato necessita innanzitutto di un ribaltamento dei valori. L’istruzione, l’inclusione lavorativa delle donne, una maggiore condivisione degli oneri familiari, sono i punti di partenza per prevenirlo.

European data journalism network

Questo articolo è stato scritto nell’ambito dello European data journalism network, la piattaforma per le notizie data-driven sugli affari europei di cui openpolis fa parte. Il progetto sui femminicidi e la violenza di genere è stato coordinato dal Mediterranean institute for investigative reporting (Miir).

Foto: Luca Profenna – Non una di meno

 

Santa Francesca Romana

Santa Francesca Romana


Santa Francesca Romana

autore: Francesco Naselli anno: 1608 titolo: Dipinto con Santa Francesca Romana luogo: Basilica di San Giorgio fuori le mura, Ferrara
Nome: Santa Francesca Romana
Titolo: Religiosa
Nome di battesimo: Francesca Bussa de’ Leoni
Nascita: 1384, Roma
Morte: 9 marzo 1440, Roma
Ricorrenza: 9 marzo
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Patrona di:
RomaSpinea
Canonizzazione:
29 maggio 1608, Roma, papa Paolo V

Nel 1384 nasceva a Roma, da nobile famiglia, Francesca, la santa che seppe nella vita coniugale, prepararsi una corona fulgentissima per il cielo.

Ancora tenera fanciullina mostrò grande amore alla virtù e alla vita nascosta: schivando gli infantili divertimenti, si dava con grande fervore alla pietà e alla mortificazione.

Giovanetta di 11 anni, manifestò ai genitori il desiderio di consacrarsi a Dio, ma ebbe un rifiuto, anzi per ubbidienza nel 1396 contrasse matrimonio con Lorenzo Ponzani, nobile signore romano.

Nel nuovo stato di vita, due furono le preoccupazioni della Santa: conservare la grazia di Dio schivando le compagnie pericolose, i banchetti, gli spettacoli e tutti i cattivi divertimenti; procurare di essere ubbidiente ai voleri dello sposo, pronta ai doveri familiari, per cui soleva dire che una donna maritata deve lasciare all’istante ogni pratica di devozione, quando ha da attendere alle sue cose domestiche.

L'elemosina di santa Francesca Romana

titolo L’elemosina di santa Francesca Romana
autore Giovan Battista Gaulli anno 1675

Divenuta madre, pose ogni cura per educare nell’innocenza e nel timore di Dio i suoi figliuoli e per essi chiedeva al Signore che la loro vita fosse tale da meritare un bel posto in cielo.

Sempre numerose furono le sue mortificazioni, ma crebbero a dismisura quando riuscì ad ottenere dal marito il permesso di diportarsi secondo che la sua pietà le ispirava. Fu allora che, sotto la guida di un saggio confessore, fece mirabili progressi nella via della perfezione. L’orazione era continua sulle sue labbra e sapeva tramutare il lavoro in preghiera.

Il 15 agosto 1425, con nove compagne, si offrì come oblata della Vergine nella basilica di Santa Maria Nova al Foro. Per otto anni le Oblate continuarono a vivere nelle proprie famiglie, sino al marzo del 1433, quando, acquistata una casa nel rione Campitelli dalla famiglia Clarelli suoi parenti, ai piedi del Campidoglio, cominciarono a condurvi vita comune.

I piccoli difetti che talvolta per umana fragilità commetteva, le erano stimolo a vieppiù mortificarsi e a vigilare su se stessa, specialmente sulla lingua, il grande pericolo delle donne.

Il Signore non mancò di provare la sua serva con gravi sventure: infatti, quando a causa dello scisma, suo marito fu confinato e spogliato d’ogni bene e il suo primogenito ritenuto in ostaggio, mostrò tutta la sua rassegnazione alla volontà di Dio, non dicendo altro che le parole del santo Giobbe: « Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore ».

Poco tempo dopo potè rivedere liberi il marito e il figlio, ma venne allora la morte a rapirle il consorte. Libera dai legami coniugali, si ritirò nel monastero che ella aveva fondato in Roma. Presentatasi con una fune al collo e a piedi nudi, fu dalle suore ricevuta con grande gioia e quasi subito eletta superiora.

Fu favorita da Dio del dono della profezia e della visione quasi continua dell’Angelo Custode, col quale familiarmente conversava.

Morì l’anno 1440 e fu subito onorata con culto pubblico, benché venisse canonizzata solo nel 1608.

PRATICA. Cerchiamo di tener viva nella nostra mente la presenza del nostro Angelo Custode e valiamoci del suo aiuto in ogni occasione.

PREGHIERA. O Signore, che fra gli altri tuoi doni decorasti la tua beata serva Francesca con la familiare presenza del suo Angelo, deh, concedi, per la sua intercessione, che meritiamo di raggiungere gli Angeli in Paradiso.

MARTIROLOGIO ROMANO. Santa Francesca, religiosa, che, sposata in giovane età e vissuta per quarant’anni nel matrimonio, fu moglie e madre di specchiata virtù, ammirevole per pietà, umiltà e pazienza. In tempi di difficoltà, distribuì i suoi beni ai poveri, servì i malati e, alla morte del marito, si ritirò tra le oblate che ella stessa aveva riunito a Roma sotto la regola di san Benedetto.