Archivi giornalieri: 1 marzo 2023

COVID-19

Social dialogue and collective bargaining in the hospital sector during the COVID-19 pandemic – EUROFOUND

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Segnalazione da Direzione Contrattazione 1

Il rapporto analizza il ruolo del dialogo sociale e della contrattazione collettiva nell’affrontare le sfide create o esacerbate dalla pandemia di Covid-19 nel settore ospedaliero. Esamina, inoltre, se il dialogo sociale esistente e i processi di contrattazione collettiva a livello nazionale siano stati adatti per affrontare queste nuove sfide. I risultati indicano che il livello e la natura del coinvolgimento delle parti sociali nelle risposte alla pandemia variavano fortemente in Europa. Il dialogo sociale e la contrattazione collettiva hanno svolto un ruolo di primo piano in alcuni paesi, mentre in altri le parti sociali sono state meno coinvolte. Sebbene non siano stati individuati cambiamenti sostanziali nelle istituzioni e nei processi del dialogo sociale, l’ampiezza delle questioni di cui si occupano si è estesa. Nei paesi con una lunga tradizione di cooperazione tra le parti sociali, il dialogo sociale e la contrattazione collettiva hanno svolto un ruolo di primo piano nell’affrontare alcune delle sfide poste dalla pandemia di Covid-19. I negoziati tra le parti sociali sono stati fondamentali per concordare le modifiche all’organizzazione del lavoro necessarie per affrontare la crisi sanitaria e l’assegnazione efficace di finanziamenti e risorse supplementari. In alcuni paesi come Bulgaria, Cipro, Cechia, Estonia e Malta, dove il dialogo sociale è meno sviluppato, vi è stato un forte aumento della contrattazione collettiva nel settore ospedaliero. Al contrario, nei paesi più colpiti da misure di austerità nel settore sanitario a seguito della crisi finanziaria del 2007-2008 – vale a dire Grecia, Portogallo e Spagna – e i cui sistemi sanitari non si erano ancora completamente ripresi dai tagli al personale e dal congelamento delle retribuzioni, i governi hanno attuato la legislazione senza il coinvolgimento delle parti sociali, il cui ruolo è rimasto limitato. La pandemia ha, quindi, favorito un maggior impegno delle parti sociali che si sono interessate ad argomenti che vanno oltre le tradizionali questioni della retribuzione e dell’orario di lavoro. La necessità di garantire la capacità della forza lavoro negli ospedali ha spesso richiesto il loro coinvolgimento nell’adeguamento delle pratiche di organizzazione del lavoro e nella ridistribuzione del personale, oltre ad altre misure relative alla protezione della salute e della sicurezza sul lavoro. I risultati rivelano che, laddove il dialogo sociale e la contrattazione collettiva hanno svolto un ruolo di primo piano nell’affrontare le sfide affrontate dal settore ospedaliero durante la pandemia di COVID-19, le risposte sono state migliori e più rapidamente sviluppate. Ciò evidenzia come il buon funzionamento del dialogo sociale e della contrattazione collettiva siano fondamentali per un settore ospedaliero forte e resiliente e possano aumentare la preparazione dell’Unione Europea a potenziali crisi sanitarie future.

Dipendenti Pubblici

Parere n. 93/2023 Nuovo codice di comportamento dei dipendenti Pubblici – Parere non favorevole – Richiesta chiarimenti

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Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

Il Consiglio di Stato ha espresso il parere previsto sullo schema di DPR recante modifiche al “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici” da ultimo definito con DPR 62/2013. I giudici amministrativi, esprimono importanti riserve in merito alle nuove regole introdotte dal provvedimento tra le quali evidenzia, quelle riferibili all’area dei doveri concernenti la tutela dell’immagine della pubblica amministrazione, in relazione “all’utilizzo delle nuove tecnologie, mezzi di informazione, social media. rilevando una indeterminatezza delle condotte sanzionabili favorita anche dall’utilizzo di espressioni linguistiche molte delle quali tratte dal linguaggio tecnico e lasciate prive di definizioni atte a esplicitarne il significato”egualmente, esprimono perplessità in relazione alle regole di condotta in materia di rispetto dell’ambiente, per le quali, secondo il Consesso, sarebbe opportuno fare “un’analisi che dia conto degli sprechi intervenuti nelle risorse e nei materiali e di quanto essi siano addebitabili a comportamenti individuali anziché a carenze di sistema ed al regime di finanziamento in consolidamento di bilancio (che, notoriamente, contraddice la raggiungibilità di standard ambientali virtuosi in assenza di investimenti nelle strutture fisiche della stessa p.a., oltre che, in generale, per tutti i cittadini destinatari di tali standard)”.Alla luce di queste valutazioni i giudici esprimono un parere non favorevole in quanto l’insieme delle nuove regole che il decreto si propone di introdurre, per la loro capacità di incidere come fonti di nuove responsabilità disciplinari e anche, a determinati effetti, penali, civili, amministrative e contabili sulla sfera dei diritti e delle libertà dei singoli, meritano di essere valutate, e attentamente ponderate da parte della stessa Amministrazione proponente, nella loro stretta necessità oltre che nella loro adeguatezza, quando si tenga conto che esse sono destinate ad applicarsi ai tanti contesti organizzativi e funzionali delle tante pubbliche amministrazioni.

Permessi sindacali

Nota 0009090-P-08/02/2023 Adempimenti relativi alla fruizione dei permessi sindacali per l’espletamento del mandato e per riunioni di organismi direttivi statutari ex CCNQ del 4 dicembre 2017, come modificato dal CCNQ19 novembre 2019

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Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

Il Dipartimento della Funzione pubblica si esprime in ordine agli adempimenti cui sono tenute le Amministrazioni in attuazione delle disposizioni contenute nel Contratto Collettivo Nazionale Quadro sulle prerogative sindacali nel settore del pubblico impiego del 4/12/2017, come modificato dal CCNQ 19 novembre 2019. In particolare, interviene sulle modalità di comunicazione dei dati di fruizione delle agibilità sindacali e di recupero di quelle fruite in eccedenza, con particolare riferimento agli obblighi di comunicazione da parte delle amministrazioni riguardanti la fruizione di tutte le prerogative sindacali da parte dei propri dipendenti, le procedure di recupero dei predetti permessi, nonché il recupero delle altre prerogative sindacali ( art.7 CCNQ) e permessi per riunioni di organismi direttivi statutari (art.13CCNQ).

ASAN88

 ASAN88

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Quale è la corretta applicazione dell’art. 67, comma 3 del CCNL area sanità 2016/2018 che garantisce l’assistenza legale e la consulenza tecnica anche nei procedimenti costituenti condizioni di procedibilità?

L’art. 67 in oggetto disciplina il patrocinio legale e tecnico legale da parte dell’Azienda o Ente dei dirigenti sanitari nei confronti dei quali si verifichi l’apertura di procedimenti di responsabilità civile o penale o di procedimenti giudiziali amministrativo contabili (si veda a tal proposito il penultimo periodo del comma 2 dell’art. 67). La medesima disposizione contrattuale ha per la prima volta esteso tale patrocinio anche ai “procedimenti costituenti condizioni di procedibilità nei giudizi di responsabilità” ovvero ai procedimenti giudiziari promossi ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c e alle procedure di mediazione.

È doveroso altresì precisare che nell’ambito applicativo appena descritto, l’Azienda o Ente assume ogni onere di difesa del dirigente, fin dall’apertura del procedimento e per tutti i gradi di giudizio ivi incluse le trattative e gli epiloghi conciliativi intragiudiziali, solo “a condizione che non sussista conflitto di interesse”. Pertanto, qualora vi sia un presunto conflitto di interessi anche solo potenziale (sempre presente nei giudizi amministrativo-contabili) l’Azienda o Ente dovrà procedere con il rimborso a posteriori delle spese legali sostenute in proprio dal dirigente solo “nel caso di conclusione favorevole del procedimento”. L’avvio di un procedimento nei confronti della sola struttura sanitaria rientra dunque nell’ambito delle casistiche e nei limiti di cui al comma 1 dell’articolo 67.

Il riferimento poi alle spese legali sostenute in proprio dal dirigente solo “nel caso di conclusione favorevole del procedimento” deve intendersi riferita ad un procedimento giurisdizionale conclusosi con una sentenza passata in giudicato che escluda la responsabilità civile o penale o amministrativo-contabile del dirigente e non certo ad un epilogo intragiudiziale di conciliazione tra le parti che precede il definitivo accertamento giudiziale delle responsabilità.

L’art. 67 inoltre nulla dispone in merito alla fase (prodromica non solo al procedimento giudiziale ordinario ma anche ai suddetti procedimenti costituenti condizioni di procedibilità) delle eventuali trattative stragiudiziali il cui avvio è comunque da comunicarsi (con invito a prendervi parte) al dirigente sanitario ai sensi dell’art. 13 della legge n. 24/2017, pena la preclusione dell’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa[1]. In tale fase, l’Azienda o Ente, ed eventualmente anche il dirigente sanitario che abbia accettato l’invito a prendervi parte con un proprio legale e consulente tecnico legale, condurranno l’istruttoria e la trattativa:

–       se concludibile con un accordo stragiudiziale risarcitorio che non consente il definitivo accertamento giudiziale delle responsabilità, con oneri di spesa, di rispettiva competenza, a proprio carico;

–       se non concludibile con un accordo stragiudiziale risarcitorio e successivo avvio di procedimento, l’assunzione da parte dell’Azienda di ogni onere di difesa del dirigente

Porta (PD): pensione anticipata “quota 103”, un miraggio per gli italiani all’estero

Porta (PD): pensione anticipata “quota 103”, un miraggio per gli italiani all’estero


Fabio-Porta ©-ClaudioCammarota

“Quota 103” (così come le due Quote precedenti, 100 e 102) è un classico al quale siamo oramai abituati: come pensare a una legge dimenticando i diritti degli italiani all’estero. Un pensionamento anticipato che teoricamente riguarda tutti i pensionandi italiani ma in realtà è inapplicabile a una gran parte degli italiani all’estero. Vediamo perché.

“Quota 103” è la nuova forma di pensione anticipata flessibile introdotta dalla Legge di Bilancio per il 2023 che si matura con almeno 62 anni di età e almeno 41 anni di contributi che possono essere perfezionati, grazie alle convenzioni internazionali di sicurezza sociale stipulate dall’Italia, anche tramite il meccanismo della totalizzazione dei contributi versati in Italia e all’estero. Quindi si tratta di un pensionamento anticipato fruibile anche dai nostri connazionali che vivono all’estero i quali hanno versato contributi in Italia, hanno compiuto 62 anni e che sommando i contributi versati ina quelli versati all’estero raggiungono l’anzianità contributiva di 41 anni.

Chi matura i nuovi requisiti previsti entro il 31 dicembre 2022 p Italia otrà ricevere la pensione a partire dal 1° aprile 2023 (1° agosto per i dipendenti pubblici). Chi, invece, li perfeziona dal 1° gennaio otterrà la prestazione trascorsi tre mesi dalla data di maturazione (sei mesi per gli statali).

Ma qual è il problema che ostacolerà l’accesso a “Quota 103” per i nostri connazionali all’estero? Il trattamento pensionistico in questione, fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, non è cumulabile con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, a eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5.000 euro lordi annui. Quindi per aver diritto al trattamento anticipato è praticamente necessaria la formale cessazione del lavoro ma visto che all’estero l’età pensionabile del Paese di residenza potrebbe essere posticipata rispetto a quella italiana (62 anni in questo caso) e gli interessati sarebbero quindi costretti a continuare a lavorare all’estero, la nuova pensione anticipata italiana non verrebbe concessa anche se fossero perfezionati i requisiti contributivi e anagrafici.

Un bel pasticcio. Sarebbe stato quindi opportuno che il legislatore avesse previsto una deroga per i residenti all’estero consentendo la possibilità di cumulare il pro-rata italiano con il reddito da lavoro percepito all’estero. Ma abbiamo oramai imparato che questa sensibilità non è appannaggio dei nostri Governi.

FABIO PORTA

 

Femminicidio

 secondo i quali la donna ricopre un ruolo inferiore all’interno della società, in ogni suo ambito. Dall’istruzione al mondo lavorativo, dalle relazioni di coppia al lavoro di cura familiare. Una visione che non contempla nessuna emancipazione della donna dai ruoli prescritti e che troppo spesso si traduce in atti di violenza psicologica o fisica.

Gli episodi di violenza contro le donne avvengono principalmente, anche se non solo, nella sfera domestica. Sono nelle gran parte dei casi parenti, partner o ex partner della vittima a commetterli. E quando tali violenze sfociano nell’omicidio vengono definite, con diverse accezioni, “femminicidi“.

Dei paesi che hanno partecipato alla data unit e che sono riusciti a reperire questa informazione, solo Cipro individua nel proprio ordinamento giuridico il reato di femminicidio. Gli altri (Grecia, Serbia, Francia, Austria, Germania e Francia) non hanno un riconoscimento legale vero e proprio. Analogamente nel caso italiano esistono aggravanti per la violenza domestica e sessuale, ma a oggi non esiste un aggravante per il movente di genere. Era proprio l’obiettivo del disegno di legge Zan, che è però stato respinto.

L’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), il principale riferimento statistico su questa materia, lo definisce come l’omicidio di una donna per via della sua appartenenza di genere. Riprendendo la definizione della commissione statistica dell’Onu, adottata anche da Istat in Italia.

Femicide is broadly defined as the killing of a woman or girl because of her gender.

Insieme ad altre 15 redazioni che fanno parte dello European data journalism network (Edjnet), sotto la direzione del Mediterranean institute for investigative reporting (Miir), abbiamo raccolto i dati più recenti sugli omicidi di donne e sui femminicidi per illustrare la situazione almeno nei 15 paesi che è stato possibile considerare.

Abbiamo in primo luogo riscontrato una oggettiva difficoltà a trovare i dati, soprattutto per via della scarsa armonizzazione a livello europeo tra le categorie utilizzate. I principali riferimenti sono stati il report 2021 di Eige e l’ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat), oltre a fonti a livello nazionale: in Italia, Istat e il ministero dell’interno. Un altro elemento problematico è quello legato alle tempistiche, anche giudiziarie, necessarie per individuare il colpevole e i suoi moventi, e quindi per definire se si tratta di un omicidio o, specificamente, di un femminicidio. Ragione per cui spesso i dati più recenti erano precedenti al 2019. Il che inoltre ha reso difficile una valutazione dei cambiamenti in corrispondenza della pandemia da Covid-19.

Femminicidi: definizioni e dati in Europa

Se consideriamo soltanto i crimini catalogati come “femminicidi” negli stati analizzati dalla ricerca (i 27 paesi membri e la Serbia) vediamo che si hanno informazioni abbastanza esaustive fino al 2018, l’ultima data per cui sono disponibili dati ufficiali a livello europeo (nuovi dati Eige sul 2020 saranno disponibili non prima del 2024). Nel 2018, sappiamo che hanno avuto luogo 425 femminicidi in 16 stati. Per il 2019 e il 2020 invece abbiamo informazioni solo su 8 stati, e per il 2021 su 7. Come accennato, è rilevante qui il fattore temporale, visto che bisogna attendere le conclusioni dei processi per venire a conoscenza dell’autore del delitto e del movente.

3.232 i femminicidi in 20 stati Ue tra 2010 e 2021, secondo le stime Edjnet e Miir.

Un dato che però, occorre evidenziare, costituisce una forte sottostima. Mancano infatti i dati relativi a 8 stati membri (Polonia, Bulgaria, Irlanda, Danimarca, Lussemburgo, Belgio, Portogallo e Romania), per i quali non è stato possibile reperire i dati. Inoltre, si tratta di cifre molto lontane dai 6.593 omicidi commessi da familiari o (ex) partner riportati da Eurostat.

Ci sono altri elementi che aiuterebbero a identificare i femminicidi, per elaborare stime anche prima dell’esito dei processi, identificati dall’ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) e dall’ente Onu per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile (Un Women) all’interno del loro framework statistico per misurare i femminicidi e i crimini basati sul genere della vittima. Tuttavia tali elementi sono altrettanto problematici.

Gli indicatori sono disponibili, ma mancano le informazioni richieste.

Per esempio si considera se l’omicidio è avvenuto in seguito a un episodio di violenza sessuale o se vittima e autore si trovavano in una posizione gerarchica l’uno rispetto all’altra. Informazioni che purtroppo sono raramente disponibili, rendendo problematica una efficace misurazione del fenomeno. A maggior ragione se consideriamo che i vari paesi dell’Unione europea seguono categorie e definizioni differenti, ancora non armonizzate.

Date tali difficoltà, il modo più idoneo per stimare il numero di femminicidi è ricorrere alla categoria domestica. Si tratta infatti di una fattispecie di omicidio misurata dalla maggior parte dei paesi Ue. Ed è senza dubbio l’ambito in cui più spesso le donne vengono uccise in quanto donne, seppur non l’unico.

Nel 2020 si sono registrati, in totale, 745 omicidi di questo tipo nei 15 stati per cui abbiamo informazioni. Vediamo che gli stati Ue si differenziano ampiamente da questo punto di vista, sia come numero di episodi in termini assoluti che come incidenza sul totale della popolazione di sesso femminile.

2,14 omicidi di donne commessi da familiari o (ex) partner in Lettonia ogni 100mila donne nel 2020, il dato più elevato d’Europa.

In Lettonia si sono registrati 2,14 omicidi ogni 100mila donne, in ambito domestico, per un totale di 22 episodi. Segue la Lituania con 0,87 (13 in numeri assoluti). Il dato più basso lo riporta invece la Grecia (0,16).

225 gli omicidi volontari di donne commessi da familiari o (ex) partner in Germania nel 2020, il dato più elevato d’Europa.

paesi baltici si distinguono negativamente dagli altri paesi dell’Unione anche per l’incidenza di omicidi volontari di donne in generale, a prescindere dal contesto e dall’autore. Anche in questo caso il record è detenuto dalla Lettonia, con 4,09 casi ogni 100mila donne (per un totale di 42), sempre nel 2020. Più del doppio di Lituania ed Estonia che, con 1,95 e 1,43 rispettivamente, occupano il secondo e terzo posto, e molto al di sopra di tutti gli altri paesi dell’Ue.

Una situazione che in Italia fatica a migliorare

Stando all’ultimo aggiornamento del ministero dell’interno, nel 2022 in Italia si sono registrati 319 omicidi di cui 125 con vittime di sesso femminile (circa il 39%). Un totale di 140 episodi hanno avuto luogo in un contesto domestico e in questo caso 103 hanno colpito donne (quasi il 74%). Se specifichiamo ulteriormente, sono stati 67 i delitti commessi da partner o ex partner, 61 con vittime donne, ovvero il 91%.

Diminuiscono gli omicidi, ma non quelli in ambito domestico.

A fronte di una generale diminuzione degli omicidi volontari dagli anni ’90 a oggi – rileva Istat – si mantiene elevato il numero di donne che vengono uccise da persone a loro vicine. Anzi, proporzionalmente (come incidenza sul totale degli omicidi), si tratta addirittura di un dato in crescita, rispetto ad altre tipologie.

In generale l’Italia presenta il secondo dato più basso d’Europa per incidenza degli omicidi sul totale della popolazione: 0,48 ogni 100mila abitanti. Più elevato solo di quello del Lussemburgo (0,32) e ben al di sotto della media Ue (0,89). Anche per quanto riguarda gli omicidi di donne il dato italiano è inferiore alla media Ue (0,38 contro 0,66).

Tuttavia se negli anni il numero di uomini vittime di omicidio si è fortemente ridotto nel nostro paese, lo stesso non si può dire delle donne, per le quali il miglioramento è stato molto più lento e contenuto. Indice del fatto che si tratta di un problema strutturale che richiede delle politiche specifiche. Nei primi anni ’90, riporta Istat, per ogni donna uccisa erano uccisi 5 uomini. Nel tempo tale rapporto è gradualmente diminuito fino ad arrivare nel 2021 a 1,6.

Se poi consideriamo le uccisioni di donne solo da parte di familiari, partner o ex partner della vittima, vediamo che la loro incidenza è lievemente diminuita (da 0,36 nel 2012 a 0,32 nel 2021). Ma è aumentata in rapporto al totale degli omicidi di donne.

85,3% degli omicidi di donne in Italia sono commessi da familiari o (ex) partner (2020).

Nel 2012 la quota si attestava invece al 74%, oltre 10 punti percentuali in meno.

L’incidenza degli omicidi di donne commessi in ambito domestico è rimasto sostanzialmente invariato, registrando soltanto un lieve, seppur oscillante, calo. Il picco si è registrato nel 2013, quando sono state uccise da un parente o un (ex) partner 0,42 donne ogni 100mila. Mentre nel 2020 la cifra è scesa a 0,32.

Risulta invece marcatamente in aumento il rapporto tra gli omicidi in ambito domestico e il totale degli omicidi volontari di donne. Nel 2017, il momento in cui è stata più bassa, la quota si attestava al 73% circa. Mentre nel 2020 ha superato l’85%, dopo un graduale incremento.

Quello della violenza di genere e dei femminicidi è un fenomeno complesso e strutturale, che risulta particolarmente difficile da contrastare. Nel tempo subisce dei miglioramenti di entità minima, rimanendo quasi invariato rispetto al parallelo calo complessivo di atti violenti e di omicidi in generale, almeno nel mondo occidentale. Questo perché si tratta di un problema specifico e profondamente radicato nella cultura patriarcale, che per essere affrontato necessita innanzitutto di un ribaltamento dei valori. L’istruzione, l’inclusione lavorativa delle donne, una maggiore condivisione degli oneri familiari, sono i punti di partenza per prevenirlo.

European data journalism network

Questo articolo è stato scritto nell’ambito dello European data journalism network, la piattaforma per le notizie data-driven sugli affari europei di cui openpolis fa parte. Il progetto sui femminicidi e la violenza di genere è stato coordinato dal Mediterranean institute for investigative reporting (Miir).

Foto: Luca Profenna – Non una di meno

 

Cos’è il decreto milleproroghe

Cos’è il decreto milleproroghe

È un decreto legge con cui il governo dispone il rinvio di determinate scadenze. Negli anni i settori di intervento di questo strumento sono diventati sempre più vasti, portando anche a degli abusi.

Definizione

Con il termine “milleproroghe” si fa riferimento a un decreto legge che il governo emana solitamente una volta all’anno. Il contenuto di tale norma prevede il rinvio di scadenze o dell’entrata in vigore di alcune disposizioni il cui mancato rispetto potrebbe provocare gravi problemi per cittadini, imprese e istituzioni. La funzione del decreto è quindi quella di affrontare con un unico atto una serie di termini che altrimenti dovrebbero essere trattati e risolti separatamente.

Ad esempio, il decreto per il 2023 prevede tra le altre cose:

  • la proroga delle autorizzazioni all’assunzione di personale all’interno di diverse agenzie e strutture ministeriali;
  • la proroga del termine per la presentazione della dichiarazione Imu da parte degli enti non commerciali;
  • la proroga dell’esenzione dall’obbligo di fatturazione elettronica per gli operatori sanitari;
  • la proroga dell’aggiudicazione dei lavori per gli interventi su asili e scuole dell’infanzia finanziati con il Pnrr;
  • la proroga della possibilità per i pubblici esercizi di piazzare dehors sul suolo pubblico;
  • il prolungamento fino al 2025 del contratto di espansione (una misura di sostegno alle imprese in difficoltà finanziarie e tesa a facilitare l’esodo anticipato verso la pensione del personale);
  • il rinvio del divieto di circolazione per i mezzi Euro 2 del trasporto pubblico locale.

Oltre ai rinvii delle scadenze il milleproroghe, come tutti i decreti legge, può prevedere anche l’introduzione di nuove misure. Nel decreto per il 2023 ad esempio si autorizza l’erogazione delle risorse di un fondo da 10 milioni di euro istituito dalla legge di bilancio per il 2022 a favore dei proprietari di abitazioni non utilizzabili a causa dell’occupazione abusiva.

Come illustrato dal dossier della camera relativo al decreto del 2018, tale atto venne adottato per la prima volta nel 2001 e da allora è divenuto una consuetudine. Secondo una parte della letteratura in materia tuttavia, norme assimilabili al milleproroghe erano già presenti negli anni novanta.

Trattandosi di un decreto legge a tutti gli effetti, come gli altri atti di questo tipo deve essere convertito in legge dal parlamento entro 60 giorni dalla sua pubblicazione. In caso contrario le norme in esso contenute decadono.

Col passare del tempo i settori di intervento su cui si va ad intervenire tramite questo strumento sono andati aumentando. Ciò però ha portato anche a degli effetti collaterali. Durante l’iter di conversione in parlamento infatti spesso il decreto milleproroghe si è arricchito di un ulteriore carico di norme che rispecchiavano le sensibilità e gli interessi dei partiti.

Dati

Come detto, l’utilizzo abituale di questo strumento può essere fatto risalire al 2001. Da allora infatti ne è stato pubblicato almeno uno tutti gli anni. Fanno eccezione il 2003, il 2004 ed il 2006 dove i Dl di questo tipo sono stati 2. Mentre nel 2017 e nel 2019 non ne è stato pubblicato nessuno. Nel 2018 però il decreto uscì a luglio.

Un altro elemento degno di nota riguarda il fatto che, dalla sua introduzione, il decreto milleproroghe ha affrontato un numero crescente di questioni. Una parziale conferma di questa tendenza la possiamo trovare analizzando il numero di articoli contenuto in ogni decreto di questo tipo.

Osservando l’andamento delle ultime legislature infatti, notiamo che questo dato (salvo alcune eccezioni) è stato via via crescente. Fino a raggiungere il picco di 82 articoli nel 2020. Negli ultimi anni invece l’ampiezza del decreto, pur restando consistente, è diminuita. Nel 2021 infatti il milleproroghe contava 37 articoli, nel 2022 invece erano 49. L’ultimo atto emanato ne contiene 46. Un numero comunque significativo se si considera che il primo atto di questo tipo ne contava appena 9.

Questo contenuto è ospitato da una terza parte. Mostrando il contenuto esterno accetti i termini e condizioni di flourish.studio.
 
 

FONTE: elaborazione e dati openpolis
(ultimo aggiornamento: martedì 21 Febbraio 2023)

 

Analisi

La natura di questo strumento e la mancanza di una regolamentazione organica sul suo utilizzo (parliamo infatti di un decreto legge sui generis) ha portato nel tempo anche a degli abusi. Con problemi sia di natura tecnica che politica.

problemi di natura tecnica riguardano i limiti che vincolano l’utilizzo del decreto legge. Si dovrebbe poter fare ricorso a questo strumento infatti solo in caso di necessità e urgenza e i suoi contenuti dovrebbero essere omogenei tra loro. Con il milleproroghe invece si interviene in settori anche molto diversi il cui unico elemento comune è la necessità di rinviare le scadenze. Per questo si è parlato di un atto omnibus, una norma cioè dal contenuto estremamente eterogeneo.

Sul tema è intervenuta la corte costituzionale che ha riconosciuto la legittimità dello strumento ma ha posto alcuni importanti paletti.

[Il decreto milleproroghe deve] obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal governo e dal parlamento.

Strettamente legati a questo tema vi sono anche i problemi di natura politica. Spesso infatti con il milleproroghe si è scelto di affrontare questioni spinose che non necessariamente prevedevano una scadenza temporale. Ma che, a causa delle pressioni da parte dell’opinione pubblica e dei gruppi di interesse, sarebbe stato più difficile affrontare singolarmente.

Spesso il decreto milleproroghe è stato sfruttato per far approvare le norme più controverse.

Per citare un esempio di questo tipo, con il decreto per il 2023 è stato disposto l’ennesimo rinvio sull’adeguamento dell’Italia alla cosiddetta direttiva Bolkestein. Tale norma prevede che i servizi pubblici e le concessioni siano affidati a privati solo per mezzo di una gara pubblica. Per l’Italia in particolare i problemi hanno riguardato le concessioni balneari, più volte prorogate anche dopo l’entrata in vigore della direttiva. Ciò peraltro ha comportato l’apertura da parte delle istituzioni europee di diverse procedure di infrazione a carico del nostro paese.

Della questione si era occupato da ultimo il governo Draghi attraverso la legge annuale sulla concorrenza per il 2021. Questa norma, che peraltro rientra tra le riforme previste dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), prevede sostanzialmente la conclusione delle attuali concessioni balneari entro la fine del 2023. È prevista poi un’eventuale proroga di un anno.

Durante l’iter parlamentare di conversione del decreto milleproroghe però sono stati approvati alcuni emendamenti che intervengono proprio su questo fronte. Sostanzialmente la scadenza delle concessioni viene allungata al 2024 mentre il termine ultimo per l’espletamento delle procedure di gara slitta al 2025.

Questa scelta non ha mancato di destare polemiche. A questo proposito però occorre precisare che la proroga delle concessioni non è in contrasto con il Pnrr. Il piano infatti prevede l’attuazione con cadenza annuale di una legge volta a facilitare la concorrenza e il libero mercato. Tuttavia non ci sono vincoli sui contenuti di questa norma. Le country specific recommendations per il 2019 e il 2020, che sono state la base per la definizione dei Pnrr, infanti non contengono indicazioni a proposito delle concessioni balneari.

La liberalizzazione del settore «non è formalmente inserita» nel piano nazionale per la ripresa […]. A una prima occhiata eventuali ritardi nell’attuazione degli interventi attesi non sembrerebbero incidere sui soldi europei del recovery fund. Ma nel più ampio insieme di impegni per la competitività il tema si potrebbe porre.

Al di là del Pnrr comunque occorre ricordare che è tuttora in corso una procedura di infrazione a carico del nostro paese e la situazione in questo senso potrebbe aggravarsi se non si giungerà a una soluzione su questo fronte. Lo stesso presidente della repubblica ha censurato questo nuovo rinvio e ha chiesto ulteriori interventi in materia da parte di governo e parlamento. Anche la commissione europea inoltre ha annunciato di stare studiando il provvedimento al fine di valutare eventuali incompatibilità con il diritto comunitario.

.Aram

 ASAN86a

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In caso di conferimento di un incarico di direttore di dipartimento ad un dirigente medico direttore di struttura complessa a rapporto di lavoro non esclusivo, può essere riconosciuta la maggiorazione dell’indennità di posizione parte variabile di cui all’art. 39, comma 9 del CCNL 08/06/2000, gravante sul bilancio?

Le disposizioni contrattuali del CCNL dell’Area della Sanità 2016/2018 relative al sistema degli incarichi non vietano espressamente la conferibilità di un incarico di direttore di dipartimento ad un dirigente medico direttore di struttura complessa a rapporto non esclusivo; resta fermo tuttavia che la retribuzione di posizione erogabile in tal caso è solo quella di cui al comma 11 dell’art. 91