Archivi giornalieri: 18 marzo 2023

La bilancia commerciale fisica

La bilancia commerciale fisica

Se la differenza tra import e export misurata in moneta è più o meno stabile, non si può dire lo stesso se viene invece analizzata dal punto di vista dei materiali. Secondo dati Eurostat, nel 2021, l’Unione europea ha introdotto dal resto del mondo 3,6 tonnellate pro capite di beni mentre ne ha esportate 1,6.

Le esportazioni di beni finiti hanno un valore maggiore.

Questa dinamica è dovuta principalmente alla differenza dei prezzi tra beni importati e beni esportati. L’Europa infatti introduce principalmente materiali grezzi che tipicamente hanno un basso valore calcolato al chilogrammo. Al contrario, ciò che viene venduto all’esterno spesso è un bene finito che riporta un valore maggiore calcolato al chilogrammo. È quindi interessante approfondire l’analisi andando a vedere quali erano i materiali più importati nell’Unione europea.

Nel 2021, il materiale più importato nell’Unione europea nel suo complesso era quello per la produzione di energia da fonti fossili. Si tratta di 2,2 tonnellate pro capite. Andando invece a vedere le esportazioni, erano maggiori quelle delle biomasse (0,5 tonnellate pro capite) e anche in questo caso i materiali per l’energia (0,5). Le importazioni di fonti fossili superavano comunque le esportazioni con un valore più che doppio. Caso contrario invece per le biomasse, unico tipo di materiale per cui l’export era maggiore dell’import.

Per poter effettuare un confronto tra i paesi, è utile considerare la bilancia commerciale fisica, che come abbiamo detto è il saldo tra esportazioni e importazioni. Se questo numero è negativo, significa che l’export supera l’import, se è positivo al contrario ciò che viene introdotto è maggiore rispetto a ciò che viene commerciato oltre i confini. Approfondiamo più nel dettaglio questa dinamica a livello di singoli stati europei.

Con 21,7 tonnellate a persona, il Lussemburgo era lo stato in cui nel 2021 le importazioni superavano di più le esportazioni. Si trattava di un valore particolarmente alto rispetto a quello di altri paesi. Seguivano Malta (7,6), Belgio (6,1) e Danimarca (5,5). Erano invece quattro i paesi dell’Unione in cui le esportazioni erano maggiori. Si trattava della Bulgaria (-0,1 tonnellate a persona), della Svezia (-0,8), dell’Estonia (-2,2) e della Lettonia (-4,1). In questo scenario, l’Italia assieme alla Germania era l’ottavo paese per differenza import-export. Al pari della Germania riportava 2,7 tonnellate pro capite. Per tutti i paesi, le importazioni sono principalmente composte da materiali non lavorati.

Il consumo delle materie grezze

La necessità di importare questo tipo di beni è chiaramente innescata da una domandaEurostat ha cercato di calcolare considerando i consumi domestici e industriali ma le stime sono molto incerte. Si considera il fabbisogno nel suo complesso, compreso di importazioni e esportazioni.

Il consumo di materiali grezzi all’interno dell’Unione europea è in calo. Il picco maggiore è stato registrato tra il 2007 e il 2008, appena prima della crisi economica, che corrisponde a 18 tonnellate pro capite. Nel 2020, questo valore si attestava a 13,7 tonnellate a persona, all’incirca 6,1 miliardi di tonnellate in totale.

Nello stesso anno, tra i materiali più utilizzati vi erano i minerali non metallici. Questo è legato alle attività dell’industria delle costruzioni. L’utilizzo di materiali energetici stava invece vivendo un calo progressivo, con circa 1 punto percentuale di riduzione annuale.

Foto: Billy Freeman – licenza

 

Le città del sud spendono poco per lo sport Bilanci dei comuni

Le città del sud spendono poco per lo sport Bilanci dei comuni

Le amministrazioni possono fare molto per la promozione dello sport, dalla gestione delle infrastrutture al supporto alle attività delle società e associazioni del settore.

 

L’attività motoria e sportiva porta a evidenti benefici per la salute degli individui. Per praticare sport sono fondamentali infrastrutture dedicate ma anche associazioni, che vanno amministrate con continuità. Queste e altre funzioni possono essere coperte dai comuni che contabilizzano le relative uscite nei bilanci.

Sempre più persone praticano una qualche attività fisica nel tempo libero. Secondo Istat, si parla di più di un milione e mezzo tra chi ha più di tre anni. Con la pandemia sono però diminuite le persone che fanno sport in modo continuativo. Se nel 2020 lo faceva il 27,1% degli italiani, l’anno successivo questa quota è scesa di quasi 4 punti percentuali, attestandosi al 23,6%.

-3,5 punti percentuali di differenza tra chi praticava sport continuativamente nel 2020 e nel 2021 (Istat).

L’attuale stato dell’economia potrebbe penalizzare ulteriormente chi ha meno risorse e la ripresa dell’attività sportiva potrebbe non essere uniforme sul territorio, a discapito del meridione e dei piccoli comuni. Gli interventi delle amministrazioni sono quindi fondamentali per garantire l’accesso all’attività fisica e il supporto alle istituzioni sportive, spesso realtà molto giovani e radicate nel territorio.

Le spese dei comuni per lo sport e il tempo libero

I comuni iscrivono a bilancio le spese relative a questo ambito in una voce dedicata. Sono comprese al suo interno tutte le uscite per società e associazioni sportive. Si includono sia le spese per le manifestazioni e le iniziative da loro promosse che la formazione del personale adibito a queste attività.

Ma si contabilizzano anche le uscite per la gestione delle strutture legate alla pratica sportiva, quelle per attività ricreative e le iniziative di promozione dello sport.

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DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa per sport e tempo libero. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati. Tra le città italiane con più di 200mila abitanti non sono disponibili i dati di Palermo perché alla data di pubblicazione non risulta accessibile il bilancio consuntivo 2021.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2021
(consultati: lunedì 6 Marzo 2023)

 

Le prime città che riportano la spesa maggiore sono tutti capoluoghi del centro-nord: Padova (55,58 euro pro capite), Trieste (41,52), Firenze (31,99) e Venezia (27,81). Sono quattro i grandi comuni che riportano uscite inferiori ai dieci euro a persona, tre di questi sono del sud: Bari (9,05), Napoli (8,88), Roma (5,98) e Messina (5,60).

Se si prendono in considerazione tutte le amministrazioni italiane, la spesa media ammonta a 32,12 euro pro capite. I comuni che spendono di più si trovano tutti in territori a statuto speciale: la Valle d’Aosta (157,6) la provincia autonoma di Bolzano (128,17) e quella di Trento (66,39). Al contrario, si riportano mediamente le uscite minori in Puglia (14,96), Calabria (13,04) e Campania (11,78). Analizziamo dunque nel dettaglio la situazione della Valle d’Aosta per vedere quali sono le amministrazioni che sostengono le spese maggiori.

In circa 1 comune su 2, le spese sono maggiori rispetto alla media nazionale.

46 i comuni in cui la spesa pro capite supera la media nazionale

Di questi, 19 registrano uscite più ingenti rispetto alla media della regione. In due piccoli comuni le spese superano i mille euro pro capite: Rhemes-Notre-Dame (1.824,09) e La Magdeleine (1.149,70). Il capoluogo spende 45,14 euro pro capite, un valore maggiore rispetto alla media nazionale (32,12) ma non a quella regionale.

Argentera, comune del cuneese, è l’amministrazione italiana che spende di più per lo sport e il tempo libero, con uscite pari a 3.416,1 euro pro capite. Seguono il già citato Rhemes-Notre-Dame, Fortezza (Bolzano, 1348,47) e Forni di Sopra (Udine, 1.312,62). Sono dieci le amministrazioni in cui le spese superano i mille euro pro capite.

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I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto: jatocreate – licenza

 

Il governo Meloni e lo spoils system nei ministeri Mappe del potere

Il governo Meloni e lo spoils system nei ministeri Mappe del potere

Lo spoils system è un sistema fiduciario di selezione di alcuni altissimi funzionari pubblici. Vediamo le scelte compiute dai ministri nella selezione dei dirigenti più importanti dei dicasteri di cui sono alla guida.

 

A ogni cambio di governo il nuovo esecutivo può sostituire alcuni importantissimi dirigenti grazie a un meccanismo noto come spoils system. Una facoltà del tutto legittima e prevista dalle norme, che tutti gli esecutivi recenti hanno esercitato, da non confondere con il normale potere di nomina.

Lo spoils system è un modello fiduciario di selezione dei dirigenti pubblici da parte del vertice politico che deroga, per alcuni casi specifici, al principio generale di imparzialità. Vai a “Che cos’è e come funziona lo spoils system”

In generale nel sistema italiano la pubblica amministrazione è considerata indipendente dal sistema politico. Per questa ragione il principio dello spoils system si applica a pochi altissimi dirigenti tra ministeri e presidenza del consiglio. Di questi ultimi ci siamo occupati in un recente approfondimento.

Ora invece ci concentreremo sulle scelte effettuate dai ministri con portafoglio in merito ai dirigenti dei dicasteri di cui hanno la responsabilità politica.

27 i dirigenti dei ministeri nei confronti dei quali si applicano le norme relative allo spoils system: 6 segretari generali e 21 capi dipartimento.

Lo spoils system nei ministeri

Il decreto legislativo 165/2001 (articolo 19, comma 8) infatti prevede che dopo la nascita di un nuovo governo i ministri abbiano 90 giorni per scegliere se confermare o sostituire i dirigenti di vertice dei propri dicasteri. Trascorso questo periodo senza che sia stata assunta una decisione, l’incarico cessa automaticamente.

Quando si parla di ruoli apicali nei ministeri però bisogna fare delle distinzioni (articolo 19, comma 3). Se un dicastero ha al proprio vertice un segretario generale infatti è solo a questa figura che si riferisce la legge. Negli altri casi invece si rivolge ai capi dipartimento.

Nei ministeri in cui le direzioni generali sono strutture di primo livello è prevista la figura del segretario generale. Negli altri le strutture di primo livello sono invece i dipartimenti. Vai a “Come sono organizzati i ministeri”

Che siano posti sotto un segretario generale o sotto un dipartimento invece i direttori generali (ovvero le figure a capo di una direzione generale) non sono sottoposti al meccanismo dello spoils system.

Ma tra i ministeri esistono anche alcune eccezioni. Ai segretari generali dei ministeri della difesa e degli esteri e ai capi dipartimento del ministero dell’interno infatti non si applica questa norma. Questo perché in queste strutture i dirigenti appartengono necessariamente alle rispettive carriere e i loro incarichi operano in regime di diritto pubblico. Questo non vuol dire, è bene chiarirlo, che si tratti di funzionari sostanzialmente inamovibili, anzi.

Le scelte di conferma

Sono due i ministri che hanno optato per una scelta in completa continuità, Adolfo Urso (imprese e made in Italy) e Orazio Schillaci (salute). È vero che in entrambi i ministeri la scelta riguardava solo una figura, quella del segretario generale. In ogni caso permangono alcuni profili piuttosto interessanti che vale la pena sottolineare.

Per quanto riguarda il ministero della salute infatti se da un lato è vero che il ministro Schillaci non è una figura di partito, dall’altro è utile ricordare che il governo Meloni si è da subito caratterizzato per una lettura fortemente critica delle politiche sanitarie adottate in precedenza.

Proprio per questo può stupire che il nuovo ministro della salute abbia deciso di confermare il segretario generale scelto da Roberto Speranza. Peraltro, mentre con la nascita del secondo governo Conte il ministro Speranza si era limitato a confermare il dirigente in carica (Giuseppe Ruocco alla guida del ministero già dal 2017), con l’inizio del governo Draghi ha nominato un nuovo segretario generale. La decisione di scegliere Giovanni Leonardi dunque deve essere pienamente attribuita al ministro Speranza.

La conferma del segretario generale del ministero della salute appare contraddittoria con le critiche alla politica sanitaria degli esecutivi precedenti.

Presumendo che il ministro Speranza abbia adottato le proprie decisioni in accordo con il segretario generale che aveva appena nominato, c’è da chiedersi il senso di questa conferma. Un’ipotesi è che sul piano mediatico la maggioranza di centrodestra abbia deciso di proseguire con le posizioni critiche, mentre su quello pratico abbia optato per mantenere, in termini sostanziali, la linea adottata dall’esecutivo precedente.

Più coerente appare invece la conferma di Benedetto Mineo al vertice del ministero delle imprese e del made in Italy da parte del ministro Urso (Fratelli d’Italia). La nomina di Mineo durante il governo Dragni si deve infatti all’attuale ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti (Lega). Senza contare che qualche anno prima Mineo era stato nominato direttore dell’agenzia delle dogane da Giovanni Tria.

A ben vedere però il ministro Urso ha compiuto anche un’altra scelta di continuità, come abbiamo raccontato nell’approfondimento sullo spoils system a palazzo Chigi. Infatti, pur essendo Urso un ministro con portafoglio, ha ricevuto dalla presidente Meloni anche la delega a un ufficio della presidenza del consiglio. Si tratta della struttura che si occupa delle politiche spaziali e aerospaziali e, anche in questo caso, il ministro ha optato per una scelta di continuità.

Agricoltura e istruzione tendono alle conferme

Altri ministri, come è normale, hanno optato per confermare alcuni dei loro dirigenti e per cambiarne altri. In questo caso dunque parliamo di dicasteri in cui al vertice della struttura non si trova un segretario generale ma più capi dipartimento.

2 su 3 i capi dipartimento confermati dal ministro dell’agricoltura Lollobrigida.

Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia) ad esempio ha confermato 2 dei 3 capi dipartimento del ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. La scelta di Giuseppe Blasi a capo dipartimento politiche europee e internazionali non è stata una sorpresa. D’altronde tutti i governi hanno fatto lo stesso sin dal 2012. La conferma di Felice Assenza all’Ispettorato centrale della tutela della qualità invece era meno ovvia, viste le nomine ricevute dai ministri Bellanova (secondo governo Conte) e Patuanelli (governo Draghi).

Francesco Saverio Abate ha avuto un percorso simile, in questo caso però Lollobrigida gli ha preferito Stefano Scalera al dipartimento politiche competitive. Una scelta che può apparire curiosa visto che Scalera in passato ha ricevuto incarichi da diversi ministri di centrosinistra, sia in uffici di diretta collaborazione che a capo dell’agenzia del demanio. Andando indietro nel tempo però emerge come il primo a conferirgli questo incarico sia stato il Giulio Tremonti, durante il quarto governo Berlusconi.

Il ministro dell’istruzione Valditara invece ha sostituito un capo dipartimento e ne ha confermato un altro. Anche se a ben vedere si tratta quasi di due conferme. Infatti Carmela Palumbo, nominata al dipartimento per il sistema educativo al posto di Stefano Versari, aveva già ricoperto l’incarico tra il 2017 e il 2020. In quegli stessi anni peraltro, al vertice di un altro dei dipartimenti del vecchio ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca sedeva proprio l’attuale ministro Giuseppe Valditara.

Economia e ambiente, un rinnovamento quasi completo

Altri ministri hanno rinnovato quasi completamente la dirigenza di vertice. Tra questi Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’ambiente, e Giancarlo Giorgetti, alla guida di uno dei dicasteri più importanti dell’amministrazione statale, quello dell’economia.

1 su 4 gli incarichi confermati ai capi dipartimento del ministero dell’economia.

Dei 4 capi dipartimento in carica durante il governo Draghi solo il ragioniere generale dello stato, Biagio Mazzotta, è rimasto al suo posto. Diversamente è andata per il direttore generale del tesoro, Alessandro Rivera, figura di primissimo piano della pubblica amministrazione italiana. Secondo diverse ricostruzioni stampa peraltro la sua sostituzione non sarebbe avvenuta su impulso del ministro Giorgetti, ma piuttosto di palazzo Chigi.

Cambio anche al dipartimento delle finanze. In questo caso però la cosa è andata diversamente. Infatti Fabrizia Lapecorella, che ricopriva l’incaico dal 2008, è ora alla guida del dipartimento per le politiche europee della presidenza del consiglio. Una casella chiave nella gestione del Pnrr posta sotto la responsabilità del ministro Raffaele Fitto.

Infine un cambio si è avuto anche al dipartimento dell’amministrazione generale, del personale e dei servizi. Qui Giorgetti ha voluto Ilaria Antonini, già a capo del dipartimento per le politiche sulla famiglia della presidenza del consiglio.

Quasi la stessa proporzione anche al ministero dell’ambiente. Infatti il ministro Gilberto Pichetto Fratin (Forza Italia) ha confermato un capo dipartimento e ne ha sostituiti due. La nomina del quarto dirigente invece è stata la prima di un dipartimento di nuova istituzione: l’unità di missione per il Pnrr.

Segretari generali e spoils system

In alcuni ministeri poi sono stati sostituiti tutti i dirigenti. In 4 casi si trattava solo dei segretari generali, mentre in due ministeri di 8 capi dipartimento.

i ministeri in cui sono stati cambiati tutti i vertici. In 4 casi si è trattato esclusivamente del segretario generale.

Presso il ministero dell’università la segreteria generale è stata affidata a una dirigente della presidenza del consiglio, Francesca Gagliarducci, già capo del dipartimento del personale. Nei ministeri del lavoro e del turismo invece al segretario generale in carica è stato preferito un altro funzionario dello stesso dicastero.

Il ministero della cultura si trova ancora oggi privo di un segretario generale.

Al ministero del lavoro il dirigente ricopriva fino a quel momento il ruolo di direttore generale. Presso il ministero del turismo invece la scelta è ricaduta su una dirigente di seconda fascia, Barbara Casagrande. Una scelta maturata a lungo dalla ministra Santanchè. Per la nomina infatti sono stati necessari circa 125 giorni. Anche al ministero della cultura si è optato per il rinnovamento, visto che il segretario generale precedente non è stato confermato nei tempi richiesti. Anzi a quasi 150 giorni dalla nascita del nuovo governo ancora si attende la nuova nomina.

Alla giustizia e alle infrastrutture si cambia tutto

I ministeri della giustizia e delle infrastrutture, guidati rispettivamente da Nordio (indipendente) e Salvini (Lega), sono le strutture dove lo spoils system ha avuto l’applicazione più radicale. Qui sono stati sostituiti tutti i capi dipartimento.

Dei 3 dirigenti sostituiti da Salvini presso il ministero delle infrastrutture si segnala che uno, Mauro Bonaretti, è stato il segretario generale alla presidenza del consiglio di Matteo Rnzi (e capo di gabinetto del ministro Del Rio). Un’altra invece, Ilaria Bramezza, prima di essere chiamata al ministero da Giovannini è stata per 4 anni segretario generale del presidente della regione veneto Luca Zaia (Lega).

Dei 5 capi dipartimento della giustizia sostituiti 3 erano stati chiamati a svolgere l’incarico per la prima volta dalla ministra Cartabia. Tra questi il primo sostituito dal nuovo ministro Nordio è stato Carlo Renoldi, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Lo hanno seguito poi il capo del dipartimento affari di giustizia e quello della transizione digitale. Quest’ultimo è da precisare è rimasto in carica pochissimi mesi, vista la recentissima istituzione di questo dipartimento (Dl 152/2021).

Gemma Tuccillo era invece a capo del dipartimento per la giustizia minorile già dal 2017 (ministro Orlando – Partito democratico) mentre Barbara Fabbrini guidava il dipartimento dell’organizzazione giudiziaria dal 2018 (ministro Bonafede – Movimento 5 stelle).

Foto: ministero dell’economia e delle finanze

 

Genitorialità paritaria ancora lontana

Pochi mesi prima, a giugno, un decreto legislativo aveva introdotto ulteriori novità, in seguito all’approvazione di una direttiva europea sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare dei genitori.

Il ruolo dei congedi in questa prospettiva è fondamentale, specialmente in un paese dove il calo delle nascite è stato così importante negli ultimi anni.

Allo stesso tempo, non va ignorato come molti di questi strumenti continuino ad essere utilizzati in prevalenza dalle donne. Sintomo di carichi di cura familiare ancora molto sbilanciati nel nostro paese.

Genitorialità paritaria ancora lontana

Nel confronto europeo, è molto più frequente che siano le madri, e non i padri, a mettere in pausa il lavoro per poter accudire i figli.

Nel 2018, prima dell’emergenza Covid, i dati Eurostat mostravano come fosse donna il 91% di chi aveva interrotto il lavoro per accudire i bambini. Con una quota addirittura superiore alla media in 16 paesi Ue, tra cui l’Italia, al nono posto su 27 con il 95,9%.

Oltre 30 punti più della Svezia (61,8%), unico stato Ue dove le interruzioni del lavoro per accudire i bambini non riguardano le donne in oltre 3 casi su 4. Da notare come le quote più basse si registrino nei paesi scandinavi e del nord Europa. Oltre alla Svezia, Finlandia e Danimarca. Ma si collocano sotto la media Ue anche paesi mediterranei come Portogallo (84,1%) e Spagna (87,1%).

Lo strumento che consente di interrompere il lavoro è solitamente una combinazione di congedi parentali, di paternità e di maternità (44,2% dei casi, 48,4% per le sole donne in Ue). Seguono i soli congedi di maternità o paternità, in circa il 30% dei casi e i soli congedi parentali (1 interruzione su 10).

13,5% le donne italiane che hanno interrotto il lavoro per la cura dei minori senza alcun congedo (media Ue: 9,9%).

Nel 2018, tra le donne italiane che si sono astenute dal lavoro per la cura dei minori, il 13,5% lo ha fatto in assenza di congedi familiari. Tra gli uomini la quota sale al 38,3%.

Più delle rispettive medie Ue del 2018 (9,9% tra le donne, 19,7% tra gli uomini). Possibile segnale che gli strumenti previsti a quella data – prima cioè delle modifiche normative degli ultimi anni – non riuscissero a coprire l’intero fabbisogno.

I congedi parentali in Italia, prima e dopo il Covid

Ciò rende utile un approfondimento sulle richieste di congedo parentale, distinto per genere, dal momento che si tratta di un sostegno che sono i genitori a stabilire come ripartire tra loro. Con una sostanziale differenza rispetto ai congedi di paternità e maternità, obbligatori al netto di alcune eccezioni.

Nel 2017, gli uomini costituivano il 18,8% dei beneficiari dei congedi parentali tra i lavoratori dipendenti del privato. Negli anni successivi, la percentuale è cresciuta fino a superare il 20%. Il picco è stato raggiunto nel primo anno di emergenza Covid (22,3%), per poi riassestarsi sul 20,9% nel 2021.

La tendenza degli ultimi due anni, in particolare nel 2020, sconta l’effetto dei congedi parentali legati all’emergenza Coronavirus. Lungo l’intero arco temporale si registra un moderato trend di crescita. Tuttavia lo strumento resta ancora in massima parte utilizzato dalle donne, indice che nei nuclei familiari le attività di cura dei figli sono lontane dall’equilibrio tra padri e madri.

Le novità degli ultimi mesi sul sistema dei congedi

Monitorare l’andamento di questi indicatori nei prossimi anni sarà cruciale, alla luce delle nuove modifiche normative. Anche su impulso delle istituzioni europee, il sistema dei congedi a supporto della genitorialità ha attraversato diverse revisioni nel corso del 2022.

A giugno il decreto legislativo 105/2022, in attuazione di una specifica direttiva Ue, ha confermato come strutturale il congedo di paternità obbligatorio. Introducendo nell’ordinamento (Dlgs 151/2001) il nuovo articolo 27 bis, che estende la possibilità di usufruirne anche nei due mesi precedenti il parto (e non più solo nei 5 mesi successivi).

Il padre lavoratore, dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi, si astiene dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi, non frazionabili ad ore, da utilizzare anche in via non continuativa. Il congedo è fruibile, entro lo stesso arco temporale, anche in caso di morte perinatale del figlio.

Tra gli altri aspetti, il decreto 105 è intervenuto anche sui congedi parentali. Parliamo della possibilità di astenersi dal lavoro per 10 mesi (complessivi tra i 2 genitori) nei primi 12 anni di vita del bambino. Una durata già estensibile a 11 mesi nel caso sia il padre ad astenersi per almeno 3 mesi.

Con una serie di modifiche al testo unico in materia, lo strumento è stato ampliato su alcuni aspetti. L’età della bambina o del bambino entro cui il congedo è indennizzabile è stata aumentata da 6 a 12 anni. È inoltre cresciuta, da 6 a 9 mesi, la durata del congedo indennizzabile dall’Inps al 30% della retribuzione.

L’ultima legge di bilancio è nuovamente intervenuta su questo aspetto. Stabilendo che, per la durata massima di un mese di congedo e fino ai 6 anni di età del minore, l’indennità sia aumentata dal 30% all’80% della retribuzione.

L’importanza di estendere gli strumenti a supporto della genitorialità

I dati disponibili ancora non consentono di valutare l’efficacia delle recenti modifiche normative nel ricorso a questi strumenti. Per molto tempo sono stati rivolti esclusivamente alle donne, nella vecchia concezione che la cura dei figli spettasse principalmente – se non, di fatto, esclusivamente – alle madri.

Una visione non solo ingiusta ma che ha anche numerose conseguenze negative. Economiche, dal momento che l’Italia resta uno dei paesi con la minore occupazione femminile tra le madri e tra le donne in generale. Sociali, per la rinuncia del contributo femminile allo sviluppo del paese e l’impatto sul rischio povertà delle famiglie. Demografiche, per l’influenza del fenomeno su una natalità già declinante.

Negli ultimi anni, l’iniziativa – a livello nazionale ed europeo – va nella direzione di incentivare una maggiore parità nel ricorso a questi strumenti. Per promuovere una migliore distribuzione dei carichi familiari, una genitorialità paritaria e – in una certa misura – anche la stessa possibilità di vivere pienamente la paternità.

Obiettivi che riguardano la vita quotidiana delle famiglie, ma anche le possibilità di sviluppo del nostro paese nei prossimi decenni.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati utilizzati sull’interruzione dal lavoro per congedo o altro motivo nel confronto europeo sono di fonte Eurostat, quelli sull’andamento per l’Italia sono di fonte Inps.

Foto: Alfonso Scarpa – Licenza

 

Il governo disattende ancora la nostra richiesta di trasparenza Trasparenza

Il governo disattende ancora la nostra richiesta di trasparenza Trasparenza

La ragioneria generale dello stato ha risposto, in modo del tutto insoddisfacente, alla nostra richiesta di accesso agli atti con cui chiedevamo più dati sul Pn

 

 

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Lo scorso febbraio avevamo inviato al governo una seconda richiesta di accesso agli atti (Foia), per chiedere la pubblicazione di dati sul piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Il Foia o diritto di accesso generalizzato è uno strumento per ottenere dati e documenti di interesse pubblico in possesso delle amministrazioni. Vai a “Che cos’è il Foia”

In particolare, chiedevamo informazioni su aspetti cruciali del Pnrr che a oggi non sono accessibili in modo omogeneo e nella loro totalità:

  • bandi e gli avvisi pubblici sin qui pubblicati, con i relativi esiti;
  • le informazioni relative alla localizzazione delle risorse, dei progetti e dei soggetti attuatori coinvolti;
  • i progetti finanziati, il loro stato di avanzamento e l’ammontare di risorse economiche spese.

La risposta che abbiamo ricevuto dalla ragioneria generale dello stato (Rgs) è insoddisfacente, per non dire inaccettabile.

La (non) risposta del governo

A quasi un anno di distanza dal nostro primo Foia – che aveva dato esiti parzialmente positivi – il governo Meloni replica alla nostra seconda richiesta rinviandoci solamente ai dati già pubblicati. Informazioni che non sono neanche lontanamente sufficienti per monitorare la realizzazione di un programma cruciale come il Pnrr, che mette in campo una somma così ingente di risorse. Ci rispondono inoltre che dei generici “dati” – non si capisce quali – verranno aggiornati “in concomitanza” alla relazione del governo al parlamento, che solitamente si occupa solo di scadenze e misure, non di progetti.


Vai al documento originale

Sui progetti, l’unica fonte a disposizione oggi sono gli open data di Italia domani, a cui si fa riferimento nella risposta. Tuttavia, sono dati aggiornati al 31 dicembre 2021 e sottostimano ampiamente il numero di progetti in corso.

In base alla risposta della Rgs, se le informazioni disponibili sono quelle pubblicate, dobbiamo desumere quindi che a oggi in Italia nessuno ha un quadro completo di come sta andando il Pnrr. Viene quindi da chiedersi come sia stato possibile per il governo approvare recentemente un decreto legge per ristrutturare la governance che regola il piano. Oltre a dichiarare che entro aprile invierà a Bruxelles una richiesta di revisione del Pnrr.

La relazione al parlamento

Per legge l’esecutivo deve presentare al parlamento, con cadenza semestrale, un resoconto sullo stato di attuazione del Pnrr. Il governo guidato da Draghi ne ha condivise due nell’arco della sua attività, a distanza di 10 mesi l’una dall’altra e non di 6 come previsto: una a dicembre 2021 e una a ottobre 2022Il governo Meloni invece non ha ancora pubblicato nessuna relazione dall’inizio della sua attività a oggi. Dopo aver disatteso l’annuncio di una condivisione del documento alle camere a gennaio, ora la presentazione sembra rimandata ad aprile.

Non è chiaro il perché del riferimento alla relazione del governo sul Pnrr.

Tornando alla risposta che abbiamo ricevuto, possiamo quindi pensare che la relazione e i “dati aggiornati” saranno accessibili ad aprile. Ma quali dati? Come abbiamo visto in precedenza, le relazioni del governo alle camere sul Pnrr contengono aggiornamenti sull’avanzamento delle scadenze e quindi delle misure in agenda. Solo nella seconda relazione del governo Draghi si trova anche un allegato con l’elenco di tutti i bandi pubblicati finora. Ma per sapere quali progetti hanno vinto bisogna risalire al singolo avviso pubblico, trovare la singola graduatoria. Dati che inoltre non vengono pubblicati in formato aperto e riutilizzabile, ma all’interno di pdf non elaborabili.

L’aggiornamento dei dati

Se la risposta si riferisce a dati che verranno aggiornati nella relazione, è probabile che saranno solo quelli relativi alle scadenze. Ma questo non soddisferà la nostra richiesta di informazioni. Se invece si riferiscono ai dati sui progetti, viene da chiedersi perché se il governo ne è già in possesso – visto che intende pubblicarli il prossimo mese – non li ha ancora condivisi e non ce li ha inviati in risposta al Foia.

Ad avvalorare questa seconda ipotesi – cioè che il governo abbia almeno parte dei dati sui progetti – va considerato che ci sono alcuni enti locali che autonomamente condividono dati e informazioni sullo stato di avanzamento dei progetti finanziati dal Pnrr sul proprio territorio. È il caso di regioni come la Toscana, che condivide la localizzazione dei progetti, le risorse spese e l’avanzamento dei lavori. O come l’Emilia-Romagna e la Valle d’Aosta. Se questi enti raccolgono e rielaborano tali informazioni, possiamo pensare che le trasmettano anche alle amministrazioni centrali.

Ma perché non sono accessibili alla cittadinanza, sulla piattaforma governativa creata appositamente per questo e per informare su ogni aspetto del Pnrr?

Le mancanze di Italia domani

Come abbiamo già spiegato in diversi articolile lacune della piattaforma Italia domani sono numerose, soprattutto sui progetti. Cioè le opere, le infrastrutture che concretizzano gli investimenti del Pnrr.

5.246 progetti su cui sono reperibili informazioni negli open data di Italia domani. Sono connessi a sole 3 misure del Pnrr e sono aggiornati al 31 dicembre 2021.

Una sottostima grave dei progetti avviati dall’inizio del piano a oggi. Considerando che nella seconda relazione del governo Draghi al parlamento – che risale a ottobre 2022 – si legge che i progetti in corso sarebbero più di 73mila, per un valore complessivo di oltre 65 miliardi di euro.

Se quindi i dati in possesso del governo sono quelli di Italia domani – a cui infatti Rgs ci rimanda nella risposta al nostro Foia – possiamo chiederci se ci sia un problema di raccolta delle informazioni, oltre che di trasparenza. È vero che prima abbiamo fatto alcuni esempi di regioni che hanno messo in atto una propria raccolta, elaborazione e condivisione di dati, ma questo non vale per tuti gli enti locali. Soprattutto i comuni, particolarmente coinvolti nell’attuazione del Pnrr, potrebbero avere difficoltà in termini di competenze e personale a raccogliere i dati sui progetti attivi sul proprio territorio e quindi a trasmetterli alle amministrazioni centrali.

Qualunque sia la ragione – se più legata alla scarsa trasparenza o alle carenze della raccolta dati – resta una preoccupante constatazione da fare. E cioè che a oggi nessuno è in grado di sapere in modo omogeneo e per tutta Italia: quanti soldi sono stati spesi, per quali progetti, in quali territori e da quali enti.

Processi di revisione

Un’ultima questione su cui vale la pena riflettere è il contesto in cui si inserisce la risposta che abbiamo ricevuto.

L’esecutivo ha recentemente approvato il decreto legge 13/2023, entrato in vigore lo scorso 25 febbraio. Un provvedimento che modifica radicalmente la governance del Pnrr. Cioè la struttura con cui le amministrazioni centrali dello stato gestiscono la realizzazione del piano.

Al di là delle considerazioni sulle modifiche messe in atto, non è chiaro su quali basi il governo abbia elaborato questa nuova struttura se, come possiamo dedurre dalla risposta che ci hanno inviato – mancano così tante informazioni sul Pnrr. In particolare sull’aspetto più concreto: quello dei progetti.

Il governo modifica governance e agenda senza avere il quadro completo sull’andamento del Pnrr.

Considerando poi che l’obiettivo di questa revisione sarebbe quello di velocizzare l’attuazione del piano, è ancora più paradossale che abbiano preso queste decisioni senza avere un quadro aggiornato sull’andamento delle scadenze e quindi su eventuali ritardi.

Non solo, dobbiamo ricordare che trattandosi di un decreto legge il parlamento ha 60 giorni di tempo per approvarlo. È quindi fondamentale che il governo condivida prima di quel termine la relazione sull’attuazione del Pnrr con le camere. In caso contrario, i parlamentari non avranno neanche gli elementi minimi per valutare le modifiche alla governance ed eventualmente rivederle, anche in modo radicale.

Infine l’Italia ha dichiarato che, sempre entro aprile, invierà alla commissione europea una proposta di revisione del Pnrr, che comprenda anche l’integrazione del programma energetico RepowerEu. Anche in questo caso non è chiaro come l’esecutivo sta lavorando a questa proposta, senza avere la visione completa sull’andamento del piano.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: palazzo Chigi – Licenza

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Perché chiediamo al governo di accedere ai dati del Pnrr Il nostro impegno per la trasparenza
 
 

San Cirillo di Gerusalemme

 

San Cirillo di Gerusalemme


Nome: San Cirillo di Gerusalemme
Titolo: Vescovo e dottore della Chiesa
Nascita: 314, Gerusalemme
Morte: 18 marzo 386, Gerusalemme
Ricorrenza: 18 marzo
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Nacque in Gerusalemme nell’anno 314. Dopo aver appreso i primi rudimenti della letteratura e delle scienze profane, studiò Sacra Scrittura, con tanto ardore e profitto, da diventare un intrepido difensore della fede. Fatto adulto, S. Massimo, vescovo di Gerusalemme, lo consacrò sacerdote.

S. Cirillo si dedicò specialmente alla predicazione. Scrisse pure quelle meravigliose catechèsi, nelle quali la dottrina cristiana è esposta con limpidezza ammirabile, e i dogmi della fede solidamente difesi dagli attacchi degli Ariani.

Morto il santo vescovo Massimo, il Signore dispose che a suo successore venisse eletto S. Cirillo.

Il suo episcopato fu assai fortunoso. Dovette sostenere persecuzioni, ingiurie ed accuse da parte degli Ariani. Per sottrarsi alle violenze dei nemici, che in un conciliabolo lo avevano dichiarato decaduto dalla sua sede, dovette riparare a Tarso di Cilicia, presso il Vescovo di quella città. Morto l’imperatore Costanzo, Giuliano l’Apostata, suo successore, permise a tutti gli esuli il rimpatrio. S. Cirillo ritornò sollecito tra il suo gregge, dove con zelo apostolico si diede a confutare errori, correggere vizi, sopprimere abusi e rimettere nuovamente in vigore il vero culto cristiano.

Un secondo sacrificio chiese Dio a questo suo servo fedele, quando dovette nuovamente riprendere la via dell’esilio. Ritornò sotto l’imperatore Teodosio il Grande.

Due grandi avvenimenti illustrarono l’episcopato di S. Cirillo. Giuliano l’Apostata voleva smentire la profezia di Gesù Cristo circa la distruzione di Gerusalemme. E poichè questa infelice città aveva già sentito in tutto il suo rigore il peso della spada di Roma, Giuliano s’accinse a riedificarla.

S. Cirillo tentò di distogliere l’empio imperatore da un tale disegno e gli mosse severi rimproveri. Ma la sua parola non fece breccia sul cuore dell’Apostata.

Sappiamo ciò che avvenne: terremoti, folgori e fiamme distrussero le mura riedificate, incutendo spavento indicibile nei partigiani dell’imperatore e apportando allo stesso grande confusione.

Il secondo avvenimento è l’apparizione di una croce, che dal Calvario si estendeva fino al monte Oliveto, tanto splendente da vincere la luce del sole.

Già vecchio S. Cirillo intervenne al Concilio Ecumenico di Costantinopoli, dove fu condannata l’eresia di Macedonio e nuovamente l’ariana. Ritornato quindi fra il suo gregge quasi ottuagenario, si addormentò nel Signore nell’anno 386.

PRATICA. Ascoltiamo e mettiamo in pratica la parola di Dio.

PREGHIERA. Dacci, te ne preghiamo. Dio onnipotente, per intercessione del beato vescovo Cirillo, di avere di te, solo vero Dio, e di Colui che mandasti, Gesù Cristo, una tale conoscenza, che meritiamo di essere perpetuamente annoverati nelle pecorelle che ascoltano la sua voce