Archivi giornalieri: 22 ottobre 2022

Cosa sono gli uffici di presidenza di camera e senato

Cosa sono gli uffici di presidenza di camera e senato

I presidenti di camera e senato svolgono un ruolo molto importante per il corretto funzionamento delle istituzioni parlamentari. Anche per questo, per esercitare i propri compiti, essi si avvalgono degli uffici di presidenza.

Ruolo e funzioni dei presidenti

Ciascuna delle due camere ha un ordinamento autonomo dagli altri poteri dello stato. Per questo sono le camere stesse a votare ciascuna il proprio regolamento ed eleggere il proprio presidente oltre agli altri componenti dell’ufficio di presidenza.

Ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l’Ufficio di presidenza.
Quando il Parlamento si riunisce in seduta comune, il Presidente e l’Ufficio di presidenza sono quelli della Camera dei deputati.

I presidenti rappresentano figure fondamentali sia per il funzionamento del parlamento che a livello istituzionale. In termini di gerarchia istituzionale infatti, il presidente del senato è anche la seconda carica dello stato e fa le veci del presidente della repubblica in caso d’impedimento. Il presidente della camera invece è la terza carica dello stato. Inoltre presiede il parlamento riunito in seduta comune, avvalendosi del suo ufficio di presidenza.

Nell’ambito delle proprie aule di appartenenza invece i presidenti hanno un potere sostanziale per tutto quanto riguarda l’organizzazione dei lavori, il rispetto delle norme interne e l’organizzazione amministrativa. Se pur con formulazioni diverse gli articoli 8 di entrambi i regolamenti d’aula elencano le attribuzioni dei presidenti, i quali:

  • rappresentano la propria aula;
  • assicurano il buon andamento dei suoi lavori, facendo osservare il regolamento;
  • assicurano il buon andamento dell’amministrazione dell’aula;
  • sovrintendono alle funzioni attribuite ai questori e ai segretari;
  • in applicazione delle norme del regolamento, danno la parola, dirigono e moderano la discussione, mantengono l’ordine, pongono le questioni, stabiliscono l’ordine delle votazioni, chiariscono il significato del voto e ne annunciano il risultato;
  • predispongono un calendario dei lavori e lo sottopongono all’approvazione della conferenza dei capigruppo (articolo 55 del regolamento del senato. Per quanto riguarda la camera invece il fatto che sia il presidente a predisporre il calendario non è esplicitato).

Proprio perché le loro funzioni sono fondamentali per il funzionamento delle camere, l’elezione dei presidenti è il primo compito che si trovano ad affrontare i parlamentari all’inizio di ogni legislatura (articolo 4 di entrambi i regolamenti).

Ruolo e funzioni di vice presidenti, questori e segretari

Una volta eletti i presidenti le aule procedono all’elezione degli altri componenti dell’ufficio di presidenza, che al senato prende il nome di consiglio di presidenza. Tra questi si trovano in entrambe le aule 4 vice presidenti3 questori e 8 segretari. A tale scopo ciascun parlamentare scrive sulla propria scheda 2 nomi per i vicepresidenti, 2 per i questori e 4 per i segretari. Sono eletti i parlamentari che ottengono più voti.

16 i componenti degli uffici di presidenza di camera e senato. Almeno in via ordinaria.

Qui però si inserisce una differenza nei regolamenti delle due aule. Alla camera infatti devono necessariamente essere presenti nell’ufficio di presidenza tutti i gruppi esistenti all’inizio della legislatura. Inoltre anche nel caso in cui a un certo punto della legislatura per qualsiasi ragione un gruppo si ritrovi privo di rappresentanza può fare richiesta d’integrazione. Per rispondere a questa esigenza dunque possono essere eletti segretari tanti deputati quanti sono necessari affinché ciascun gruppo sia rappresentato nell’ufficio di presidenzaAnche al senato in linea di principio si dovrebbe cercare di avere un rappresentante per ciascun gruppo. Tuttavia in questo ramo del parlamento possono essere eletti al massimo 2 segretari in aggiunta a quelli previsti in via ordinaria. L’articolo 12 del regolamento però aggiunge che se un gruppo parlamentare non è rappresentato nel consiglio di presidenza del senato, il capogruppo viene invitato a partecipare alle sue riunioni.

Quanto alle loro funzioni specifiche, i vice presidenti collaborano con il presidente e lo sostituiscono in caso di assenza o impedimento (art. 9).

Ai questori invece è attribuito il compito di vigilare sul buon andamento dell’amministrazione dell’aula secondo le direttive del presidente, sovrintendono al cerimoniale e all’ordine. Inoltre spetta a loro sovrintendere alle spese dell’aula e preparare il progetto di bilancio e il conto consuntivo (art.10).

segretari infine sovrintendono alla redazione del processo verbale, formano l’elenco dei parlamentari iscritti a parlare, danno lettura delle proposte e dei documenti, tengono nota delle deliberazioni e collaborano con il presidente per assicurare la regolarità delle operazioni di voto (art. 11).

I compiti degli uffici di presidenza

Se ciascuno dei componenti della presidenza ha dunque i suoi compiti specifici, gli articoli 12 dei regolamenti stabiliscono invece le attribuzioni degli uffici di presidenza. Se pur con alcune differenze tra i principali compiti degli uffici di presidenza di camera e senato rientrano:

  • la deliberazione del progetto di bilancio preventivo e il rendiconto consuntivo dell’aula;
  • la nomina, su proposta del presidente, del segretario generale dell’aula;
  • l’approvazione dei regolamenti interni dell’amministrazione e della biblioteca;
  • la deliberazione di sanzioni nel caso in cui un parlamentare ricorra alla violenza, provochi tumulti, o esprima minacce verso qualsiasi collega o membro del governo, o quando usi espressioni ingiuriose nei confronti delle istituzioni o del capo dello stato;
  • l’esame di tutte le altre questioni che gli siano poste dal presidente.

Il regolamento del senato inoltre prevede una serie d’incompatibilità e di cause di decadenza dagli incarichi nell’ufficio di presidenza che, almeno al momento, non sono previste dal regolamento della camera. A palazzo Madama infatti, è prevista l’incompatibilità tra questi incarichi e qualsiasi ruolo di governo. Inoltre la decadenza dall’incarico è prevista anche nel caso in cui il parlamentare cambi gruppo di appartenenza. Un’eventualità quest’ultima che tuttavia non si applica nei casi in cui la cessazione sia stata decisa dal gruppo e non dal senatore, oppure in caso di cessazione o fusione di gruppi parlamentari (art. 13 regolamento del senato).

 

Abbiamo speso meno fondi Pnrr del previsto #OpenPNRR

Abbiamo speso meno fondi Pnrr del previsto #OpenPNRR

Nella nota di aggiornamento al documento di economia e finanza il governo ha riconosciuto che i soldi spesi per gli investimenti legati al Pnrr sono stati meno di quanto preventivato. Questo significa che alcuni progetti sono in ritardo.

 

Negli ultimi giorni ha destato molto scalpore uno scontro verbale avvenuto tra Mario Draghi, presidente del consiglio uscente, e Giorgia Meloni, che si prevede gli subentrerà nell’incarico. La leader di Fdi infatti ha sostenuto (salvo poi abbassare i toni successivamente) che i ritardi nell’attuazione del Pnrr fossero “evidenti”. Draghi ha replicato che, se così fosse, le istituzioni europee non avrebbero valutato positivamente l’operato del nostro paese fin qui.

In effetti, alla fine di settembre la presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha annunciato l’ok all’invio al nostro paese della seconda rata di finanziamenti da 21 miliardi. Questo parere positivo da parte di Bruxelles è legato al raggiungimento delle 45 scadenze che il nostro paese doveva completare entro il primo semestre del 2022.

Qualche criticità tuttavia effettivamente c’è, come si legge anche in alcuni documenti ufficiali. Nella nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef) recentemente approvata dal governo, emerge infatti che il nostro paese entro quest’anno spenderà molti meno fondi europei rispetto a quanto inizialmente stimato. Ciò significa che molti cantieri ancora non sono stati avviati e che l’Italia dovrà velocizzare di molto i tempi per riuscire a concludere tutti i progetti entro il 2026, come previsto dal Pnrr. Un obiettivo difficile, data anche la storica difficoltà del nostro paese a spendere i fondi europei.

€ 15 mld la stima delle risorse del Pnrr che saranno effettivamente spese dal nostro paese nel 2022.

Secondo il documento tali ritardi sono dovuti in parte all’impennata dei costi delle opere pubbliche. Ma in parte anche alle difficoltà nel portare a compimento le complesse procedure richieste dal Pnrr. Anche per questo motivo è fondamentale un monitoraggio puntuale e costantemente aggiornato sullo stato di avanzamento di bandi e progetti. Cosa che tuttavia a oggi non è ancora a regime.

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Cosa dice la Nadef a proposito di Pnrr

Nella Nadef si stima che dei circa 191,5 miliardi di euro che l’Ue ha assegnato al nostro paese, soltanto 20,5 circa saranno spesi entro la fine dell’anno in corso. Considerando l’intero percorso del Pnrr sin qui (quindi anche con i dati relativi al 2021) la spesa complessiva avrebbe dovuto ammontare a 33,7 miliardi di euro circa. Con riferimento specifico al 2022 invece, possiamo osservare che il Def prevedeva una spesa totale di circa 29,4 miliardi di euro, 14,4 in più rispetto a quelli riportati nella Nadef (15 miliardi).

– 13,2 mld € fondi Pnrr spesi in meno dall’Italia rispetto a quanto previsto.

Per recuperare il tempo perso il nostro paese dovrà quindi spendere molti più soldi nei prossimi anni. Nello specifico: 40,9 miliardi nel 2023, 46,5 miliardi nel 2024, 47,7 miliardi nel 2025 e 35,6 miliardi nel 2026. Il che dà un’idea delle difficoltà che attendono il prossimo governo.

Come si può notare anche dal grafico, si prevede di recuperare gran parte del ritardo accumulato già il prossimo anno. 

Le misure a sostegno delle amministrazioni in difficoltà

Come già detto nell’introduzione, i ritardi nella “messa a terra” dei progetti sono da attribuire anche alle difficoltà che le pubbliche amministrazioni coinvolte stanno incontrando nell’espletare tutte le pratiche necessarie per avere accesso ai fondi del Pnrr.

La concreta attuazione dei progetti del Pnrr si sta rivelando complessa. […] Lo svolgimento dei bandi richiede tempo e spinge inevitabilmente la spesa prevista per il 2022 verso gli anni 2023-2026.

Da questo punto di vista sono gli enti locali i soggetti a essere maggiormente in difficoltà. Per ovviare a questi problemi il governo ha predisposto una serie di iniziative. Tra cui l’assunzione temporanea di personale destinato a supportare direttamente o indirettamente le amministrazioni coinvolte. In particolare è stato disposto il reclutamento di 1.000 esperti a supporto degli enti locali e 2.800 assunzioni per rafforzare le pubbliche amministrazioni del sud.

Anche in questo caso però si rilevano delle criticità. Per quanto riguarda i mille esperti, il numero è talmente limitato (si parla di alcune decine per ogni regione) che appare difficile riuscire a soddisfare tutte le richieste.

I posti di “tecnico Pnrr” sono pochi e non appetibili.

Difficoltà inoltre si sono registrate anche per i tecnici destinati agli enti del sud. In base alla seconda relazione del governo per il parlamento sull’attuazione del Pnrr, emerge infatti che si sono registrati diversi casi di mancata accettazione della proposta di assunzione. Il motivo è probabilmente da individuare nel fatto che tali posizioni sono state giudicate non appetibili, perché a tempo determinato e mal pagate.

Di conseguenza il governo si è visto costretto a “dirottare” altri funzionari della pubblica amministrazione con competenze analoghe per coprire il fabbisogno di personale richiesto. Questo ha evidentemente contribuito ad acuire i ritardi.

Le misure per far fronte all’aumento dei costi

Al di là delle difficoltà di carattere tecnico, la Nadef sottolinea che molti lavori non sono partiti o risultano in ritardo a causa dell’aumento del costo delle materie prime e dell’energia. Per questo motivo sono state introdotte una serie di misure volte a sostenere non solo la pubblica amministrazione ma anche le imprese coinvolte nella realizzazione dei progetti.

Tra queste si segnalano l’annullamento delle aliquote per l’elettricità e la diminuzione di quelle per il gas, i contributi straordinari per le imprese sotto forma di credito d’imposta e la riduzione delle accise e dell’Iva sui carburanti. È stato inoltre istituito un fondo per la realizzazione dei progetti che coinvolgono i comuni con più di 500mila abitanti ed è stato potenziato il fondo a sostegno della presentazione di proposte per gli importanti progetti comuni di interesse europeo (Ipcei).

Alcuni interventi di rilievo sono stati introdotti anche con il recente decreto aiuti ter. Tra le misure più significative ci sono l’istituzione del fondo per l’housing universitario finalizzato ad acquisire la disponibilità di nuovi posti letto per studenti. E l’estensione anche ai progetti finanziati con il Pnrr delle risorse contenute nel fondo per le opere indifferibili. Si dispone infine che le amministrazioni possano impiegare le risorse assegnate e non utilizzate per l’affidamento di appalti o per la concessione di contributi pubblici per far fronte ai maggiori oneri.

GRAFICO
DA SAPERE

Il grafico mostra come varia l’indebitamento netto della pubblica amministrazione nel 2022 a seguito dell’introduzione dei provvedimenti adottati dal governo per fronteggiare l’aumento del costo dell’energia e delle materie prime. I dati qui contenuti sono generali e non fanno riferimento esclusivamente alle misure mirate a dare attuazione al Pnrr.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Nadef
(ultimo aggiornamento: martedì 11 Ottobre 2022)

 
Le iniziative del governo per compensare l’aumento dei costi potrebbero non bastare.

Ulteriori interventi volti a mitigare l’aumento dei costi sono elencati all’interno della già citata relazione del governo per il parlamento. Si prevede innanzitutto l’introduzione di clausole per la revisione dei prezzi. Ad esempio, in caso di aumenti superiori al 5% del prezzo originario sono previste delle compensazioni fino all’80% dell’eccedenza. Per questa operazione possono essere recuperate le risorse assegnate nell’ambito degli stessi interventi ma non utilizzate. Solo nel caso in cui tali fondi non fossero sufficienti, le amministrazioni appaltanti possono fare ricorso alle risorse del fondo per la prosecuzione delle opere pubbliche. La cui dotazione è incrementata di 1 miliardo di euro per il 2022 e 500 milioni per il 2023.

Per le procedure di affidamento delle opere pubbliche avviate tra il 18 maggio e il 31 dicembre 2022 le stazioni appaltanti possono compensare l’aumento dei prezzi anche con il fondo per l’avvio di opere indifferibili che ha una dotazione iniziale pari a 7,5 miliardi di euro a cui sono stati aggiunti altri 1,3 miliardi con il decreto aiuti bis. Sono stati stanziati poi ulteriori 150 milioni di euro per il fondo per l’adeguamento dei prezzi.

GRAFICO
DA SAPERE

Il grafico mostra l’ammontare complessivo delle risorse stanziate dal governo per supportare le pubbliche amministrazioni nella realizzazione dei progetti finanziati con i fondi del Pnrr. Nella maggior parte dei casi le risorse vanno a coprire più annualità fino al termine del piano nel 2026. Da notare che non si tratta di fondi europei ma di risorse nazionali che sono state stanziate per far fronte all’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime che sta rallentando la realizzazione delle opere finanziate.

FONTE: elaborazione openpolis su dati governo

 

Infine per 15 misure di competenza degli enti locali è previsto un aumento automatico delle risorse assegnate di una quantità compresa tra il 10% e il 25%. Non è detto però che tutte queste iniziative siano sufficienti a recuperare il ritardo accumulato. Per questo il prossimo sarà un anno fondamentale.

Perché è importante proseguire nel monitoraggio

Se finora i ritardi nella realizzazione dei progetti Pnrr non hanno inciso sull’erogazione dei fondi da parte dell’Ue, con il passare dei mesi le cose cambieranno. Ci stiamo avviando infatti verso una fase in cui si devono iniziare a raggiungere i target stabiliti nel Pnrr.

I target (obiettivi) sono scadenze di carattere quantitativo come l’avvio e la conclusione di cantieri. Vai a “Cosa sono le milestone e i target del Pnrr”

Per questo motivo sarà di fondamentale importanza che il governo metta a disposizione al più presto i dati in suo possesso sull’avanzamento dei progetti. Solo così infatti sarà possibile verificare il raggiungimento di determinati target. In primis quelli da completare entro l’anno, tra cui l’aumento del gettito fiscale o la creazione di 7.500 nuovi posti letto per gli studenti.

Queste informazioni dovrebbero essere contenute nel sistema informativo Regis. In base a quanto emerge dalla relazione del governo per il parlamento la piattaforma è stata completata solo di recente e le varie amministrazioni stanno procedendo all’invio della documentazione. Attualmente sarebbero registrati nel sistema circa 73.000 progetti. Tuttavia, come abbiamo già spiegato in questo articolo, le informazioni contenute su Regis non appaiono a oggi accessibili alla cittadinanza, mentre i dati pubblicati sul portale Italia domani risultano aggiornati al 31 dicembre scorso.

€ 65 mld il valore complessivo dei progetti in corso caricati sulla piattaforma Regis (ma tuttora non disponibili per il monitoraggio civico).

Nella relazione si legge che le tempistiche con cui questi dati saranno resi disponibili dipenderà dalla velocità con cui le amministrazioni coinvolte nella realizzazione dei diversi interventi invieranno le informazioni richieste. Questo conferma il fatto che ad oggi in Italia nessuno ha un quadro complessivo aggiornato e puntuale di quello che sta accadendo. Un’evidenza particolarmente grave e a cui è necessario porre rimedio al più presto, evitando che il cambio di governo causi ulteriori ritardi.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: palazzo Chigi – Licenza

 

Quanto spendono i paesi comunitari per la protezione sociale Europa

Quanto spendono i paesi comunitari per la protezione sociale Europa

Garantire sostegno ai cittadini nei momenti di maggiore vulnerabilità sociale dall’infanzia fino alla vecchiaia è un pilastro fondante dell’Ue. Non c’è però ancora omogeneità nell’uso di risorse che gli stati membri fanno a questo scopo.

 

L’importanza delle misure di protezione sociale

La “protezione sociale” consiste in un insieme di politiche e programmi pensati per ridurre e prevenire la povertà e la vulnerabilità sociali delle persone durante il corso di tutta la loro vita, dall’infanzia fino alla vecchiaia.

Parliamo, in concreto, di schemi di reddito minimo garantito, indennità per malattia e infortunio, sussidi per la vecchiaia, per la maternità e per l’invalidità, ma anche di fondi dedicati al sostegno all’infanzia e aiuti alle persone con disabilità.

Tali benefici sono importanti non solo per i singoli lavoratori e le loro famiglie, ma per tutta la società. Fornendo assistenza sanitaria, sicurezza del reddito e servizi sociali, aumenta la produttività e si contribuisce alla dignità e alla piena realizzazione dell’individuo.

Come afferma l’Oil, l’accesso alla protezione sociale è un diritto fondamentale dell’essere umano e del cittadino. Ma tali politiche sono utili anche per la società nel suo complesso, per garantire coesione e anche resilienza in tempi di crisi.

Le risorse per l’assistenza sociale negli stati dell’Ue

Nonostante i suoi evidenti vantaggi, ad oggi la protezione sociale è una realtà limitata a pochi paesi del mondo – stima l’Oil che oltre della metà della popolazione globale non è raggiunta da alcuna misura di contrasto alla povertà e alle vulnerabilità sociali – e anche in Europa non risulta essere capillare né omogenea da paese a paese.

Eppure è considerata uno dei pilastri fondamentali alla base dell’Unione, come riportato nella carta europea dei diritti sociali.

8.777 € pro capite, la spesa media per le misure di protezione sociale in Ue, secondo Eurostat (2019).

 

Il primo paese per spesa in rapporto alla popolazione è il Lussemburgo, con quasi 22mila euro pro capite. Mentre le cifre più basse, al di sotto dei 2mila, si registrano in Romania e Bulgaria.

Nel complesso, le spese pro capite più elevate sono riportate dai paesi dell’Europa settentrionale, con una tradizione di stato sociale e spesso con maggiori disponibilità economiche. Mentre quelle più basse sono associate agli stati dell’area orientale del continente. Cifre intermedie si registrano invece nei paesi mediterranei: tra i circa 12mila euro pro capite della Francia e i 4mila di Malta.

Le spese per l’assistenza sociale aumentano, ma non sempre in modo significativo

Nel complesso in Europa la spesa per l’assistenza sociale è andata gradualmente aumentando. Se nel 2008 ammontava a 6.564 euro pro capite, dal 2010 superava i 7mila, e dal 2016 in poi si è attestata al di sopra degli 8mila.

Si tratta di un miglioramento che ha caratterizzato quasi la totalità degli stati membri, ma con diverse intensità. Guardiamo ad esempio i dati relativi agli stati più grandi.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati si riferiscono alla spesa, in euro pro capite, e si fermano al 2019 perché non sono disponibili quelli aggiornati al 2020 per Francia e Spagna. Il quadro di riferimento è Esspros (European system of integrated social protection statistics), che considera come “protezione sociale” le misure orientate ai nuclei familiari e ai singoli individui sulla base di uno specifico set di rischi e bisogni sociali. I principali sono: disabilità, malattia/assistenza sanitaria, vecchiaia, superstiti, famiglia/figli, disoccupazione, alloggio ed esclusione sociale. Sono inclusi gli schemi di assistenza garantiti ai non residenti, mentre sono esclusi quelli esteri garantiti ai residenti, in quanto il dato riguarda la spesa nazionale.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat
(pubblicati: venerdì 14 Ottobre 2022)

 

In tutti i più grandi paesi dell’Ue (Germania, Francia, Italia e Spagna) la spesa nazionale per gli schemi di protezione sociale è andata progressivamente aumentando nel corso del decennio. In particolare in Germania, dove è passata da poco meno di 10mila euro pro capite a oltre 12mila (+2.940 euro). Negli altri l’aumento è stato decisamente più contenuto, in particolare in Spagna (+559 euro pro capite).

Per quanto riguarda l’Italia, la cifra è passata da 7.797 euro pro capite nel 2011 a 8.787 nel 2019 (9.591 nel 2020, ma questo dato non è disponibile per tutti i paesi Ue). Dal 2011 al 2019 è quindi aumentata di circa 991 euro pro capite. In termini assoluti, si è passati da 463 a 525 miliardi di euro.

+13% la spesa per la protezione sociale in Italia, tra 2011 e 2019.

Un aumento quindi che risulta più contenuto rispetto a quello registrato mediamente nell’Unione, pari al 23%.

La Grecia è l’unico paese Ue in cui la spesa è diminuita.

Per quanto riguarda poi gli altri paesi dell’Ue, a registrare l’aumento più marcato è stata l’Estonia (+76%), seguita da Polonia (+60%) e Malta (+58%). Mentre l’unico stato membro in cui la spesa per protezione sociale si è ridotta è stata la Grecia (-19%), dove è passata da circa 57 a meno di 46 miliardi di euro, tra il 2011 e il 2019. Aumenti piuttosto contenuti hanno avuto luogo anche a Cipro (+5%), in Spagna e in Ungheria (in entrambe +11%). L’Italia è al quinto posto come stato con il miglioramento più contenuto.

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DA SAPERE

I dati si riferiscono alla spesa, in euro pro capite, e si fermano al 2019 perché quelli del 2020 non risultano disponibili per 15 stati dell’Unione. Il dato rappresenta un aggregato e corrisponde quindi alla media tra le seguenti funzioni: assistenza sanitaria, disabilità, vecchiaia e assistenza ai superstiti.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat
(pubblicati: venerdì 14 Ottobre 2022)

 

Se rapportiamo la spesa per assistenza sociale al Pil, la Francia è il paese Ue che, nel 2019, registra la percentuale più elevata: 31,2%. Seguono alcuni stati dell’Europa settentrionale, in primis Danimarca (30,2%) e Finlandia (29,6%). Gli unici a registrare invece una cifra inferiore al 15% sono Malta e Irlanda (rispettivamente 14,5% e 13,3%).

L’Italia è sesta per spesa/Pil, ma secondo i dati provvisori Eurostat sarebbe terza nel 2020.

L’Italia, con il 28,3%, è al sesto posto. Stando ai dati provvisori di Eurostat relativi al 2020, la quota italiana sarebbe salita al 33,4%, posizionandosi quindi appena dopo la Francia (35,7%) e l’Austria (33,8%), al terzo posto, per spesa in rapporto al Pil.

La Germania in particolare si distingue per l’elevata quota di spesa destinata all’assistenza sanitaria (10,1% del Pil), come anche i Paesi Bassi (9,4%) e la Francia (9%). Mentre sono i paesi scandinavi a dedicare la quota più elevata alle misure per la disabilità, in primis la Danimarca con il 4,8%.

L’Italia registra invece un doppio record, insieme alla Grecia, per le spese di assistenza agli anziani (rispettivamente il 13,9% e il 13,5%) e per quelle di aiuto ai superstiti (2,6% e 2,4%).

Come riporta Istat, quasi la metà di tutte le prestazioni erogate in Italia appartengono alla categoria dell’assistenza agli anziani. Più del doppio rispetto a quelle in ambito sanitario. Secondo i dati provvisori forniti da Eurostat l’Italia avrebbe speso nel 2020 più di 256 miliardi di euro per le misure protezione sociale dedicate agli anziani e circa 124 miliardi per le prestazioni di assistenza sanitaria. Appena lo 0,1% della spesa totale sarebbe invece andato all’ambito degli alloggi.

Foto: Nabeel Syed – licenza

 

Come si fanno le leggi

Come si fanno le leggi

Il percorso che porta all’entrata in vigore di una legge si articola in 4 passaggi: presentazione, approvazione, promulgazione e pubblicazione. Ciascuno di questi può assumere forme diverse a seconda dei casi specifici.

Nel nostro paese il potere legislativo appartiene al parlamento ma il percorso che porta all’entrata in vigore di una legge è lungo, complesso e vede la partecipazione di diversi altri attori. L’iter può essere sintetizzato in 4 passaggi: la presentazione di una proposta di legge, la discussione e l’approvazione del parlamento, la promulgazione da parte del presidente della repubblica e l’entrata in vigore.

Tutti i progetti di legge seguono questo iter salvo quelli costituzionali e di revisione costituzionale. In questo caso infatti è richiesta una procedura aggravata con un doppio voto da parte di entrambe le camere ad almeno 3 mesi di distanza l’uno dall’altro.

Oltre alle leggi esistono poi altri due “atti aventi forza di legge“: i decreti legge sono atti emanati dal governo per gestire situazioni emergenziali ed urgenti e devono essere convertiti in legge dal parlamento entro 60 aggiorni attraverso un’apposita norma. Attraverso le leggi delega invece il parlamento attribuisce al governo l’incarico di legiferare. In questo caso camera e senato si limitano a delineare la cornice dentro cui può muoversi l’esecutivo che emanerà poi uno o più decreti legislativi.

Da ricordare infine anche le leggi regionali, norme deliberate dal consiglio regionale e che non hanno una validità nazionale ma limitata a quel singolo territorio.

La presentazione

Il processo legislativo inizia con la presentazione al parlamento di una proposta, indifferentemente al senato o alla camera. Possono presentare un progetto di legge tutti i parlamentari, il governo, i cittadini (raccogliendo almeno 50mila firme), i consigli regionali e, su determinate materie, il consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel).

Al senato le proposte si chiamano disegni di legge mentre alla camera prendono il nome di proposte di legge (fanno eccezione i progetti del governo, denominati disegni di legge anche a Montecitorio). Queste devono avere un titolo ed essere redatte in articoli. Il testo della legge inoltre deve essere accompagnato da una relazione illustrativa.

I progetti presentati devono essere assegnati alla commissione permanente competente per materia. In questo passaggio il presidente dell’assemblea ricopre un ruolo di primo piano. Spetta a quest’ultimo infatti assegnare i progetti di legge alla commissione giusta e proporre all’assemblea le modalità con cui la commissione deve procedere nell’analisi della proposta. Vale a dire, in sede: 

  • referente;
  • redigente;
  • deliberante;
  • consultiva.

La discussione

La commissione in sede referente (il caso più comune) analizza la proposta, prepara un testo da sottoporre all’assemblea e redige una relazione. Nel corso dell’istruttoria, sono acquisiti i pareri di altre commissioni, di esperti, di associazioni di categoria o altri rappresentanti di interessi particolari. Anche esponenti del governo possono partecipare a questa fase e alla formazione del testo.

La commissione può stabilire di trattare insieme due o più progetti che vertono sullo stesso argomento al fine di presentare un’unica relazione e un solo testo per la discussione in assemblea. In questo caso i testi si dicono “abbinati”. Può anche decidere di adottare uno solo dei progetti presentati come testo base per la discussione o può procedere – eventualmente incaricando un comitato ristretto al suo interno – alla stesura di un testo unificato dei diversi progetti. In questa fase possono essere presentate anche delle proposte di modifica, gli emendamenti, su cui la commissione è chiamata a esprimersi approvandoli o respingendoli.

Il grosso del lavoro sui progetti di legge viene fatto in commissione.

Una volta esaurita la discussione, la commissione vota il progetto definitivo e nomina un relatore incaricato di presentare all’assemblea il testo predisposto. È possibile anche presentare delle relazioni di minoranza qualora alcuni parlamentari non condividano il testo definitivo.

La discussione in assemblea si apre con l’illustrazione della proposta da parte del relatore e con l’eventuale intervento di un rappresentante del governo. Seguono le dichiarazioni dei parlamentari che si esprimono sulle linee generali del progetto. Inizia poi l’esame dei singoli articoli attraverso la votazione degli emendamenti (che possono essere proposti anche in questa fase) presentati al testo approvato dalla commissione. Infine, dopo le dichiarazioni di voto e l’esame di eventuali ordini del giorno, l’aula procede alla votazione sul progetto nel suo complesso.

Una volta che un ramo del parlamento ha approvato una proposta di legge, l’iter prosegue nell’altra camera. Se questa però approva delle modifiche al testo, anche minime, la proposta deve tornare dov’era iniziato l’iter per una nuova approvazione. I passaggi tra una camera e l’altra proseguono fin tanto che entrambi i rami del parlamento non approvano lo stesso identico testo. Si parla in questi casi di “navetta parlamentare”.

La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere.

Se invece una commissione opera in sede redigente, oltre a esaminare il disegno di legge, ne delibera anche i singoli articoli. In questo caso in assemblea si svolgono solamente le dichiarazioni di voto, le votazioni sui singoli articoli (che però non possono essere modificati) e il voto finale.

Quando invece opera in sede deliberante (legislativa alla camera) il processo avviene interamente in commissione, senza votazioni in aula. Il progetto può essere rimesso all’assemblea se il governo, un decimo dei parlamentari o un quinto degli appartenenti alla commissione lo richiedono. Non possono essere discussi in sede deliberante/legislativa i progetti in materia costituzionale o elettorale, le leggi delega, le conversioni di decreti legge, le ratifiche di trattati internazionali, l’approvazione di bilanci preventivi e consuntivi e gli atti collegati alla manovra di finanza pubblica. A questi si aggiungono gli atti rinviati alle camere dal presidente della repubblica. 

Se invece la commissione opera in sede consultiva, si limita a esprimere un parere sul disegno di legge. Tale parere sarà poi inviato alla commissione competente a esaminare il provvedimento nel merito.

Promulgazione ed entrata in vigore

Una volta esaurito l’iter parlamentare il percorso della proposta di legge prosegue presso la presidenza della repubblica. Il capo dello stato infatti ha il potere di promulgare le leggi ma può anche rinviarle alle camere, con messaggio motivato, qualora ravvisi delle criticità. Tale prerogativa però non può essere reiterata. Qualora infatti il parlamento decida di riapprovare il medesimo testo, indipendentemente dal fatto che abbia recepito o meno le sue osservazioni, il presidente della repubblica è tenuto ad apporre la propria firma e promulgare la legge.

Dopo la promulgazione c’è il passaggio della pubblicazione. Questa avviene ad opera del ministro della giustizia che inserisce la legge nella raccolta ufficiale degli atti normativi della repubblica italiana e la pubblica sulla gazzetta ufficiale.

La legge entra in vigore, salvo diverse indicazioni contenute nella legge stessa, a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione in gazzetta.

Dati

Dal 1996 a oggi sono entrate in vigore definitivamente 2.788 leggi. La legislatura più prolifica è stata la XIII (1996-2001) con 906 proposte approvate. Mentre la XV, che però è durata solamente dal 2006 al 2008, è stata quella in cui sono state licenziate meno norme (112). Per quanto riguarda la tipologia di legge maggiormente adottata, al primo posto troviamo le quelle ordinarie (1.005). Seguono le ratifiche di trattati internazionali (964) e le conversioni di decreti legge (969).

In questo contesto occorre tuttavia ricordare che la proliferazione di leggi non è necessariamente un bene. Anzi, in molti casi il fatto che le agende di camera e senato siano sature di provvedimenti da discutere compoprta che non si riesca sempre ad entrare nel merito delle questioni. Si tratta di un tema particolarmente rilevante a proposito delle conversioni dei decreti legge.

Inoltre l’eccesso di leggi può portare all’adozione di norme contraddittorie rispetto al resto del tessuto normativo o dalla qualità della formulazione scadente che ne rende difficile l’interpretazione. Senza contare che in molti ambiti risulta particolarmente complesso recuperare tutte le leggi che disciplinano un determinato aspetto. Per questo in anni recenti si è parlato spesso di semplificazione, di delegificazione e si è anche proposto di raccogliere le norme all’interno di testi unici.

Relativamente ai tempi per l’approvazione di un progetto di legge invece, di norma non sono previste scadenze specifiche per l’avvio e la conclusione dell’iter. Ci sono però alcune eccezioni. Ad esempio le leggi di conversione dei decreti legge devono essere approvate entro 60 giorni, pena la decadenza delle norme in esso contenute. Mentre la legge di bilancio deve essere approvata entro il 31 dicembre di ogni anno, altrimenti lo stato andrebbe in “esercizio provvisorio”. In alcuni casi inoltre un progetto di legge può essere dichiarato urgente. Quando ciò avviene sono adottate delle procedure semplificate e si prevede l’avvio della discussione entro un certo limite di tempo. Si tratta però di una pratica non molto usata.

Durante la XVIII legislatura, in media sono serviti 371 giorni per approvare una legge ordinaria. Dato simile per le ratifiche di trattati internazionali. Tempi molto più contenuti invece per le conversioni dei decreti legge (43 giorni) e per l’approvazione delle norme legate al bilancio dello stato (56). In questi due casi però, come abbiamo appena visto, ci sono delle scadenze specifiche da rispettare.

Analisi

Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, in Italia vige il cosiddetto “bicameralismo perfetto“. A differenza di molti altri stati, dove esistono una “camera bassa” e una “camera alta” con poteri e competenze diversi, nel nostro paese i due rami del parlamento hanno le stesse funzioni e pari rilevanza.

La necessità che entrambe le assemblee approvino lo stesso testo prima che una legge possa entrare in vigore determina un fisiologico allungamento dei tempi e grandi difficoltà nel portare a conclusione l’iter. Le forze politiche contrarie all’approvazione di una legge infatti hanno molti strumenti per fare ostruzionismo. Ad esempio la presentazione di centinaia, se non migliaia, di emendamenti con il solo fine di allungare i tempi del dibattito. Per questo in molti anche nel mondo accademico si sono domandati se non fosse arrivato il momento di modificare questo sistema (pensato per rendere più difficile l’approvazione di norme inaccettabili, come le leggi razziali) per renderlo più moderno ed efficiente.

Tutti i tentativi fatti finora però sono falliti. Di conseguenza i vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni e le maggioranze che li hanno sostenuti hanno fatto ricorso a delle “scorciatoie”. È il caso, ad esempio, del cosiddetto “monocameralismo di fatto”. Ovvero la prassi informale di far discutere una proposta di legge a una sola camera, con l’altra che si limita ad approvare quanto già disposto.

Inoltre è stato fatto ricorso sempre più spesso ai decreti legge non solo per far fronte alle emergenze, come prevede la costituzione, ma anche per dare attuazione al programma di governo. Una pratica che, se accoppiata con l’apposizione della questione di fiducia, di fatto riduce enormemente le prerogative del parlamento.

 

L’inclusione degli alunni con Dsa in Italia #conibambini

L’inclusione degli alunni con Dsa in Italia #conibambini

I disturbi specifici dell’apprendimento, o Dsa, riguardano circa 300mila studenti nelle scuole italiane pari al 5% degli alunni. Una maggiore consapevolezza sulla condizione di queste ragazze e ragazzi è cruciale per una piena inclusione educativa.

 

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In Italia a quasi uno studente su 20 è stato certificato un disturbo specifico dell’apprendimento (Dsa). Parliamo, nell’anno scolastico 2018/19, di 300mila ragazze e ragazzi dislessici, disgrafici, con disortografie o discalculie.

I Dsa incidono sul percorso educativo dello studente.

Si tratta di disturbi differenti, che talvolta possono presentarsi insieme. La dislessia, il più noto e più spesso diagnosticato, è un disturbo nella lettura che si manifesta nella difficoltà di decodificare correttamente e rapidamente i segni linguistici. La disgrafia comporta una difficoltà motoria nella scrittura, mentre la discalculia nel comprendere ed elaborare i numeri. La disortografia, infine, è una difficoltà nei processi linguistici di transcodifica dal linguaggio orale a quello scritto, che porta a commettere errori ortografici e fonografici.

i disturbi specifici dell’apprendimento riconosciuti per la tutela dell’inclusione scolastica.

Situazioni diverse, accomunate dall’incidere pesantemente sugli apprendimenti dello studente. I Dsa, se non adeguatamente riconosciuti e trattati come tali, possono compromettere l’intero percorso educativo e, purtroppo, anche la stessa qualità delle relazioni con compagni e insegnanti.

Una maggiore consapevolezza è fondamentale nel percorso di inclusione. Il rischio concreto è infatti che un disturbo specifico dell’apprendimento venga frainteso con scarso impegno o attitudine da parte dello studente, allontanandolo dal percorso di istruzione o addirittura alimentando l’isolamento del minore.

Il percorso verso l’inclusione

Un passaggio importante verso il riconoscimento anche normativo dell’impatto di tali disturbi sulla vita scolastica e non solo del minore è stata l’approvazione della legge 170 del 2010, nell’ottobre dello stesso anno. Questa, come approfondiremo, ha previsto alcune tutele per il percorso scolastico di ragazze e ragazzi con Dsa.

In generale, in un’ottica di maggiore consapevolezza sul fenomeno, è interessante notare come – rispetto agli inizi del decennio scorso – il numero di studenti con Dsa sia fortemente aumentato. Nel 2010 a meno dell’1% degli alunni era stato diagnosticato un qualche tipo di disturbo specifico dell’apprendimento. Sul finire del decennio la quota sfiora il 5%.

 

La crescita nel tempo va letta come una tendenza senz’altro positiva, nel momento in cui segnala maggiore consapevolezza sul fenomeno e quindi maggiore possibilità di trattarlo. Si tratta di un aspetto centrale dell’inclusione educativa, perché altrimenti il rischio è che una disgrafia o una dislessia non correttamente diagnosticate siano attribuite al disimpegno o al disinteresse dell’alunno. Generando ulteriore frustrazione nelle studentesse e negli studenti che vivono questa condizione, e allontanando ulteriormente il loro corretto inserimento sociale e educativo nella classe.

Sempre per favorire una maggiore consapevolezza, un altro aspetto cruciale è dato dalla capacità di distinguere la presenza di uno o più disturbi dell’apprendimento. In modo da poter rispondere in modo adeguato alle esigenze specifiche dello studente.

In Italia circa il 3% degli alunni ha una dislessia certificata, per un totale di 187.693 studenti nell’anno scolastico 2018/2019. Tra i disturbi più frequenti seguono la disortografia (101.744 alunni, 1,7%), discalculia (96.081 ragazze e ragazzi, pari all’1,6%) e disgrafia (87.859, 1,5%).

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DA SAPERE

La quota di alunni con Dsa non coincide con la somma dei singoli disturbi diagnosticati, dal momento che un alunno può presentare più tipologie di Dsa.

Il dato considera la percentuale di alunni con disturbi specifici di apprendimento (Dsa) sul totale degli alunni del III, IV e V anno di corso della scuola primaria e della scuola secondaria.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Ministero dell’istruzione
(ultimo aggiornamento: domenica 1 Novembre 2020)

 

In altri termini, ogni 100 diagnosi di disturbo dell’apprendimento riguardanti ragazzi e ragazze delle primarie e delle secondarie, quasi 40 sono per dislessia (39,6%). Gli altri 3 disturbi coprono il restante 60%, con circa il 20% delle certificazioni ciascuno. Il secondo Dsa riconosciuto con più frequenza è la disortografia (21,5%), seguita dai disturbi di discalculia e di disgrafia, rispettivamente al 20,3% e al 18,6%.

298.114 gli alunni delle scuole primarie e secondarie cui è stato certificato un disturbo specifico dell’apprendimento (a.s. 2018/19).

Per queste ragazze e ragazzi non è prevista la figura dell’insegnante di sostegno, salvo che – ovviamente – oltre a un Dsa non abbiano anche una disabilità certificata. Per la loro inclusione effettiva nelle attività della classe le norme (come la già citata 170/2010) prevedono una serie di misure compensative o dispensative. Finalità della norma è garantire il diritto all’istruzione di migliaia di ragazze e ragazzi, favorirne il successo scolastico, ma soprattutto ridurre i disagi derivanti dai disturbi diagnosticati. Per questo tra gli obiettivi della legge vi è anche quello di aumentare la consapevolezza di famiglie e insegnanti e aumentare le diagnosi precoci di tali disturbi.

12 anni dall’entrata in vigore della legge 170/2010 “nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico.”

Nello specifico, è prevista una formazione rivolta al personale docente e dirigenziale, per le scuole di ogni ordine e grado. Ma il punto più importante è la previsione di una flessibilità nella didattica rivolta agli studenti con Dsa, con percorsi educativi personalizzati.

Agli studenti con Dsa le istituzioni scolastiche, a valere sulle risorse specifiche e disponibili a legislazione vigente iscritte nello stato di previsione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, garantiscono:
a) l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari dei soggetti, quali il bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate;
b) l’introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche, nonché misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini della qualità dei concetti da apprendere;
c) per l’insegnamento delle lingue straniere, l’uso di strumenti compensativi che favoriscano la comunicazione verbale e che assicurino ritmi graduali di apprendimento, prevedendo anche, ove risulti utile, la possibilità dell’esonero.

La possibilità di applicare queste misure – evidentemente – dipende da una corretta diagnosi dei disturbi. Da questo punto di vista, è rilevante osservare come la quota di alunni con Dsa vari ampiamente sul territorio nazionale. Con una sottorappresentazione delle regioni del mezzogiorno.

Gli alunni con Dsa sul territorio

In Italia in media il 4,9% degli studenti ha un disturbo specifico dell’apprendimento diagnosticato. Una quota che cambia tra i diversi livelli di istruzione. Sono il 3,1% nelle primarie (negli anni III, IV e V, quelli in cui tali disturbi sono diagnosticabili), il 5,9% nelle secondarie di I grado e il 5,3% in quelle di secondo grado.

Ma che soprattutto mostra una ampia variabilità territoriale. In 3 aree del paese la quota di alunni con Dsa supera la media nazionale del 4,9%. Si tratta dell’Italia nord-occidentale (7,3%), nord-orientale (5,7%) e centrale (5,9%). Nel mezzogiorno la percentuale risulta molto inferiore (2,4% medio), dato che scende sotto il 2% nelle primarie meridionali.

1,8% gli alunni con Dsa nelle scuole primarie del mezzogiorno (media Italia: 3,1%).

Approfondendo in chiave regionale, in Liguria il 7,7% degli studenti delle primarie (III, IV e V anno) e delle secondarie ha un disturbo specifico di apprendimento. Seguono, con almeno il 7%, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna.

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DA SAPERE

Il dato considera la percentuale di alunni con disturbi specifici di apprendimento (Dsa) sul totale degli alunni del III, IV e V anno di corso della scuola primaria e della scuola secondaria.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Ministero dell’istruzione
(ultimo aggiornamento: domenica 1 Novembre 2020)

 

Da notare come nelle regioni meridionali le percentuali siano molto più basse della media nazionale (4,9%). Ad esempio sono solo il 2,5% degli alunni pugliesi,  il 2% di quelli siciliani, l’1,5% in Campania e l’1,3% in Calabria. Una tendenza così territorialmente caratterizzata che lascia immaginare la possibilità di diagnosi meno tempestive in alcune aree del mezzogiorno. Un aspetto sottolineato da diversi osservatori, a partire dalle analisi di Invalsi, il soggetto che in Italia si occupa di monitorare il livello di apprendimento di ragazze e ragazzi.

I dati fanno pensare a una maggiore difficoltà a Sud a certificare tempestivamente i Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

L’importanza di acquisire maggiore consapevolezza sul fenomeno

Anche le associazioni che si occupano direttamente del fenomeno negli anni hanno sottolineato come il dato del sud possa essere riferito anche alle mancate certificazioni. Sottolineando allo stesso tempo che ciò potrebbe riguardare anche aree dell’Italia settentrionale.

I valori di prevalenza DSA, per le regioni del Mezzogiorno, molto più bassi rispetto a quelli calcolati a livello nazionale (anche dopo essere stati corretti per la popolazione della Scuola Primaria) sembrano denunciare un marcato fenomeno di sotto-certificazione, fenomeno che sospettiamo essere presente anche in molte zone del centro nord.

La possibilità che tante ragazze e ragazzi abbiano un disturbo dell’apprendimento non diagnosticato pone un tema serio per il nostro sistema educativo. In assenza di una analisi corretta della diffusione del fenomeno, infatti, anche le risposte che ad esso vengono date saranno insufficienti, se non addirittura controproducenti.

Aumentare la consapevolezza sui disturbi specifici dell’apprendimento è perciò il primo passo per creare inclusione e migliorare l’esperienza educativa di migliaia di ragazze e ragazzi in tutto il paese.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati sugli studenti con Dsa sono di fonte ministero dell’istruzione.

 
 

Foto: Towfiqu barbhuiya (unsplash) – Licenza

 

Le entrate dei comuni per finanziare gli investimenti Bilanci dei comuni

Le entrate dei comuni per finanziare gli investimenti Bilanci dei comuni

Anche gli enti locali comunali registrano delle entrate per progetti a lungo termine. Sono composte da tributi particolari ma anche da trasferimenti da altri enti e vendite di beni.

 

Per poter effettuare degli investimenti, le amministrazioni pubbliche devono prevedere delle entrate diverse rispetto a quelle per la gestione dell’ordinario. Questo riguarda qualsiasi livello governativo, compresi i comuni. Le entrate specifiche vengono poi registrate in un’apposita sezione del bilancio.

Per investimenti pubblici si intendono tutte le spese in conto capitale di un’amministrazione pubblica, ovvero tutte quelle uscite che servono a finanziare dei progetti che non si esauriscono alla fine dell’esercizio finanziario (che dura un anno). In generale, sono comprese tutte le attività che permettono di incrementare il capitale iniziale fisico, tecnologico o umano. Per esempio, un investimento nella ricerca e nello sviluppo può portare all’ottenimento di una tecnologia migliore e più efficiente.

Queste attività sono strategiche per gli enti, dal momento che permettono di sostenere la crescita di un territorio nel lungo periodo. Si pensi per esempio alla costruzione di nuove forme di collegamento o di infrastrutture di pubblica utilità come gli ospedali o le scuole.

A livello regionale, ci sono aree in cui si investe di più e aree in cui si investe di meno.

 

La Lombardia è la regione in cui si concentrano maggiormente gli investimenti (15,3%). Seguono Campania (8,2%), Trentino-Alto Adige (7,5%) e Veneto (7,5%). Al contrario, l’incidenza è minore in Umbria (1,1%), Valle d’Aosta (0,8%) e Molise (0,6%).

A livello di finanziamenti, queste spese vengono sostenute attraverso delle entrate che sono registrate in una sezione a parte, chiamata “conto capitale”. Per i comuni, questa comprende uno specifico capitolo di bilancio.

Le entrate in conto capitale

Questo capitolo comprende tutta una serie di voci che vanno a finanziare opere e investimenti pubblici. Si includono i tributi in conto capitale (che sono entrate di carattere straordinario e vengono ricevuti in occasione di condoni o donazioni), contributi da altri enti agli investimenti e trasferimenti in conto capitale per l’estinzione di debiti e ripianamento di disavanzi.

Sono considerate anche alcune entrate che il comune registra in seguito alla vendita di beni materiali e immateriali e altri introiti derivanti dai permessi di costruzione.

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DA SAPERE

I dati mostrano l’entrata di conto capitale per cassa. Entrate maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le entrate relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Tra le città italiane con più di 200mila abitanti non sono disponibili i dati di Catania perché alla data di pubblicazione non risultano accessibili i rispettivi bilanci consuntivi 2020.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2020
(consultati: martedì 18 Ottobre 2022)

 

Milano è la città caratterizzata dalle entrate in conto capitale maggiori. Si parla di circa 563 milioni di euro, 403,14 euro pro capite. Seguono Napoli (232,51), Firenze (193,46) e Venezia (189,01). Al contrario, gli incassi minori si registrano a Bologna (67,50 euro pro capite), Roma (62,73) e Palermo (37,28). 

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DA SAPERE

I dati mostrano le entrate in conto capitale per cassa. Entrate maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le entrate relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Tra le città italiane con popolazione superiore a 200mila abitanti, sono state considerate le 5 che hanno speso di più per la voce considerata nel 2020.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2016-2020
(consultati: martedì 18 Ottobre 2022)

 

Se consideriamo le cinque grandi città con maggiori entrate nel 2020, notiamo che l’andamento di entrate negli ultimi anni è altalenante. Tra il 2016 e il 2020 infatti, Milano riporta un andamento crescente mentre ogni anno per Venezia diminuiscono le entrate. Nel 2018 si sono registrati due picchi di introiti, per Trieste (412,58 euro pro capite) e per Napoli (324,26). Rispetto al 2016, le città che hanno registrato gli aumenti maggiori sono Trieste (206,33%) e Milano (132,26%). Seguono Napoli (72,11%) e Firenze (21,88%). L’unica città che ha riportato delle percentuali negative è Venezia (-42,07%).

Se si considerano i comuni italiani nel loro complesso, mediamente ricevono 426,18 euro pro capite per questo capitolo di entrata. In media, le amministrazioni che incassano di più sono quelle abruzzesi (1.923,49), altoatesine (1.267,56) e valdostane (1.030,98). Sono caratterizzati invece dai valori minori i comuni della Toscana (214,65 euro pro capite), del Veneto (213,73) e dell’Emilia-Romagna (174,04).

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DA SAPERE

I dati mostrano le entrate in conto capitale per cassa. Entrate maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le entrate relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2020
(consultati: martedì 18 Ottobre 2022)

 

Tra tutti i comuni italiani, quello che incassa di più è San Benedetto in Perillis (L’Aquila, 39.917,5 euro pro capite). Seguono Sant’Eusanio Forconese (L’Aquila, 29.298,89), Villa Santa Lucia degli Abruzzi (L’Aquila, 26.423,81) e Santo Stefano di Sessanio (L’Aquila, 24.197,39).

È interessante notare come le prime 16 amministrazioni siano abruzzesi, 14 appartenenti alla provincia dell’Aquila e 2 a quella di Chieti. Questa anomalia, probabilmente, è dovuta alle entrate ricevute da questi piccoli comuni, necessarie ad affrontare la ricostruzione post-sisma 2009 e registrate nei rispettivi bilanci.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto: Vishal – licenza

 

Personale civile basi NATO e USA in Italia: obblighi contributivi

Personale civile basi NATO e USA in Italia: obblighi contributivi

L’Istituto ha effettuato una complessiva ricognizione degli obblighi contributivi relativi al personale civile impiegato con rapporto di lavoro subordinato, regolato dalla legge italiana, presso le Strutture militari NATO e presso le Basi militari concesse in uso agli Stati Uniti d’America in territorio italiano.

Secondo la normativa di riferimento, il personale civile è classificabile in tre tipologie: il cosiddetto “elemento civile” (al seguito delle singole forze), il personale a “statuto internazionale” (per le sole Basi NATO) e il personale a “statuto locale”.

Riguardo a quest’ultima tipologia di lavoratori, la circolare INPS 20 ottobre 2022, n. 117 fornisce un riepilogo delle contribuzioni previdenziali e assistenziali dovute.

Osservatorio CIG: i dati di settembre 2022

Osservatorio CIG: i dati di settembre 2022

È stato pubblicato l’Osservatorio sulle ore autorizzate di Cassa Integrazione Guadagni con i dati di settembre 2022.

A settembre sono state autorizzate in totale 35.629.800 ore, il 9% in più rispetto ad agosto e il 70,7% in meno rispetto a settembre 2021.

Le ore di  Cassa Integrazione Guadagni  Ordinaria autorizzate sono state 15.787.459. Ad agosto erano state autorizzate 11.194.090 ore: di conseguenza, la variazione congiunturale è del -41%. A settembre 2021, le ore autorizzate erano state 36.938.713.

Il numero di ore di  Cassa Integrazione Guadagni  Straordinaria autorizzate a settembre 2022 è stato pari a 15.198.537, di cui 7.028.797 per solidarietà, con un decremento del 1,3% rispetto a quanto autorizzato nello stesso mese dell’anno precedente (15.391.356 ore). A settembre 2022, rispetto al mese precedente, si registra una variazione congiunturale pari al 65,3%.

Gli interventi di  Cassa Integrazione Guadagni  in Deroga sono stati pari a 163.577 ore autorizzate. La variazione congiunturale registra nel mese di settembre 2022, rispetto al mese precedente, un decremento pari al -36,7%. A settembre 2021 le ore autorizzate in deroga erano state 21.694.741, con una variazione tendenziale del -99,2%

Il numero di ore autorizzate nei fondi di solidarietà è pari a 4.480.227 e registra un decremento rispetto al mese precedente del 62,8%. A settembre 2021 le ore autorizzate erano state 47.777.332, con una variazione tendenziale del -90,6%.

Osservatorio sul precariato: i dati di luglio 2022

Osservatorio sul precariato: i dati di luglio 2022

Sono stati pubblicati i dati di luglio 2022 dell’Osservatorio sul precariato, che conferma la ripresa dei livelli pre-pandemici.

Le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati fino a luglio 2022 sono state 5.029.402, con un aumento del 21% rispetto allo stesso periodo del 2021 e una crescita che ha riguardato tutte le tipologie contrattuali. I contratti a tempo indeterminato hanno registrato la crescita più accentuata (+33%), la maggiore dal 2015. Significativo anche l’aumento delle diverse tipologie di contratti a termine: intermittenti (+32%), apprendistato (+21%), tempo determinato (+20%), stagionali (+14%) e somministrati (+14%).

Le trasformazioni da tempo determinato nei primi sette mesi del 2022 sono risultate 443.541, in fortissimo incremento rispetto allo stesso periodo del 2021 (+68%). Le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo sono aumentate del 9% rispetto all’anno precedente. Nei primi sette mesi del 2022 l’insieme delle variazioni contrattuali a tempo indeterminato (da rapporti a termine e da apprendistato) ha raggiunto il livello massimo degli ultimi dieci anni.

Le cessazioni sono state 3.949.491, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+31%) per tutte le tipologie contrattuali: intermittenti (+53%), stagionali (+48%), apprendistato, a tempo determinato (+30%), a tempo indeterminato e in somministrazione (+26%). Per le cessazioni a tempo indeterminato si tratta, con riferimento ai primi sette mesi dell’anno, del valore più elevato dell’ultimo decennio.

FOCUS RAPPORTI IN SOMMINISTRAZIONE

Nel corso dei primi sette mesi del 2022, rispetto al corrispondente periodo del 2021, le assunzioni in somministrazione sono aumentate per entrambe le tipologie contrattuali, a tempo indeterminato (+73%) e a termine (+13%). Anche per le cessazioni si rileva un aumento per le due tipologie contrattuali, con andamento analogo alle assunzioni.

IL LAVORO OCCASIONALE

La consistenza dei lavoratori impiegati con Contratti di Prestazione Occasionale (CPO) a luglio 2022 si attesta sulle 15.533 unità (in diminuzione del 6% rispetto allo stesso mese del 2021); l’importo medio mensile lordo della loro remunerazione effettiva risulta pari a 274 euro.

I lavoratori pagati con i titoli del Libretto Famiglia (LF) risultano 9.647, in diminuzione del 15% rispetto a luglio 2021, mentre l’importo medio mensile lordo della loro remunerazione effettiva risulta pari a 177 euro.

Pensioni: applicazione aliquota maggiore e rinuncia detrazioni

Pensioni: applicazione aliquota maggiore e rinuncia detrazioni

L’INPS, con il messaggio 19 ottobre 2022, n. 3783, comunica che i beneficiari delle prestazioni pensionistiche e previdenziali interessati all’applicazione dell’aliquota più elevata degli scaglioni annui di reddito e/o al non riconoscimento delle detrazioni d’imposta per reddito possono presentare domanda dal 15 ottobre 2022, anche per il periodo d’imposta 2023.

Le richieste possono essere inoltrate all’Istituto compilando la dichiarazione tramite il servizio online Detrazioni fiscali – domanda e gestione.

Contributi affitto erogati dai Comuni: trasmissione dei dati al SIUSS

Contributi affitto erogati dai Comuni: trasmissione dei dati al SIUSS

contributi affitto erogati dai Comuni, con le risorse del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, per il 2021 non sono cumulabili con la quota destinata all’affitto del Reddito di Cittadinanza. Pertanto i Comuni, successivamente all’erogazione dei contributi, sono tenuti a comunicare all’INPS la lista dei beneficiari, ai fini della compensazione sul Reddito di Cittadinanza per la quota destinata all’affitto.

Con il messaggio 18 marzo 2022, n. 1244 l’INPS ha fornito ai Comuni le indicazioni sulle modalità di trasmissione dei dati. Per consentire all’Istituto di effettuare le compensazioni in modalità automatizzata è stata quindi istituita un’apposita categoria del SIUSS (A1.05.01), nella quale i Comuni sono stati invitati a trasmettere i dati.

Con il messaggio 19 ottobre 2022, n. 3782 l’Istituto descrive la modalità di trasmissione dei dati e dei contributi per la morosità incolpevole, fornendo le indicazioni alle strutture territoriali.