Archivi giornalieri: 7 ottobre 2022

Le tremila persone morte o disperse lungo le rotte migratorie Migranti

Le tremila persone morte o disperse lungo le rotte migratorie Migranti

Anche nei primi mesi del 2022 è drammatico il numero di migranti che trova la morte. Accade in tutto il mondo, ma il fenomeno è particolarmente rilevante nel mar Mediterraneo. Per arginare sofferenza e morte occorrono nuove politiche pubbliche.

 

Oltre 3mila persone hanno perso la vita, o sono risultate disperse, lungo le rotte migratorie nel mondo, nei primi 8 mesi di quest’anno. Si tratta di un numero spaventoso quanto drammatico, perché riguarda donne, uomini e minori che si avviano in un viaggio già di suo difficile, alla ricerca di una vita migliore.

I dati raccontano che, nonostante in questi anni il numero dei migranti deceduti o dispersi sia calato, occorrono nuove politiche pubbliche rispetto a un fenomeno che continua a determinare sofferenze e morte.

Si muore ovunque, nel Mediterraneo di più

Lo scorso 3 ottobre, sull’isola di Lampedusa, è stato commemorato il nono anniversario del naufragio di un’imbarcazione libica che nel 2013 provocò la morte di 368 persone, quasi tutte di nazionalità etiope ed eritrea. Un episodio che colpì l’opinione pubblica al punto da istituire la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”.

Anche se rispetto agli anni della “crisi europea dei migranti” (2015-2017) c’è stato un calo di morti e dispersi lungo le rotte, sono ancora migliaia le persone che ogni giorno perdono la vita durante il viaggio.

21.082 persone sono risultate morte o disperse lungo le rotte migratorie nel mondo, tra il 2015 e il 2017.

Negli anni della crisi più di 20mila persone avrebbero perso la vita, secondo le stime del progetto “Missing migrants” dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), un’agenzia delle Nazioni unite. L’anno più drammatico è stato il 2016, quando complessivamente si sono registrati 8.084 casi di persone decedute o disperse.

È bene evidenziare che, secondo la stessa ammissione dell’Oim, si tratta di stime al ribasso, poiché molti incidenti non vengono intercettati e quindi registrati.

Come abbiamo accennato, da gennaio ad agosto sono morte o si è perso traccia di 3.044 persone, di cui oltre mille nella rotta che dal nord Africa arriva in Europa o in Medio Oriente attraverso il mar Mediterraneo.

Secondo i dati dell’agenzia Onu, è questa la rotta migratoria più pericolosa del mondo.

Da gennaio ad agosto del 2022, infatti, sono state registrate 310 vittime e 851 dispersi: in totale 1.161 persone. Nella stessa area geografica, ma in Africa settentrionale, nei primi otto mesi dell’anno 450 persone sono decedute o non se ne è più avuta notizia.

Ma ci sono state centinaia di vittime anche in nel nord e centro America, in Asia meridionale e nel mar dei Caraibi.

Oltre agli eventi estremi come la morte, le rotte migratorie sono inoltre molto pericolose per le violenze di cui si può rimanere vittima lungo le frontiere. È il caso della rotta balcanica, di cui abbiamo parlato in un recente approfondimento.

Nel 2022 centinaia di morti e dispersi in mare

Tornando al mar Mediterraneo, che rappresenta la direttrice lungo la quale arrivano la stragrande maggioranza dei migranti nel nostro paese, attraverso i dati di “Missing migrants” è possibile analizzare anche le tendenze, mese per mese, nel numero di morti e dispersi in mare.

Come detto, da inizio anno e fino allo scorso 31 agosto sono stati registrati oltre mille casi di morti o dispersi nelle tre rotte principali del Mediterraneo. Si tratta della direttrice occidentale, che approda nella penisola iberica, quella centrale (che grava soprattutto su Italia e Malta) e quella orientale, che vede la Grecia come principale paese di accesso al continente.

Il mese più drammatico è stato aprile, con 48 vittime accertate e ben 288 dispersi. Una media di quasi 10 persone morte o disperse ogni giorno.

336 persone decedute o disperse nel mar Mediterraneo, nell’aprile 2022, secondo i dati di Oim.

Dal 2016 al 2021 il numero di morti e dispersi è diminuito, passando da 5.136 a 2.048. Questo calo, tuttavia, non è dovuto a condizioni di maggiore sicurezza nell’attraversamento del mare, ma perché – come abbiamo documentato in diverse occasioni – il numero degli sbarchi è sceso vistosamente negli anni.

Non è possibile una piena valutazione dei dati del 2022, in quanto prendono in considerazione solo i primi 8 mesi dell’anno.

L’esigenza di nuove politiche pubbliche

L’elevato tasso di pericolosità delle rotte che vedono protagonisti i migranti in tutto il mondo pone la necessità di trovare soluzioni strutturali volte ad arginare le violenze e la morte durante il viaggio.

Per quanto riguarda l’accesso via mare ai paesi dell’Europa meridionale, è evidente che non è bastata la creazione di una guardia di frontiera e costiera europea, avvenuta nel 2016 a rafforzamento dell’agenzia europea di controllo delle frontiere esterne (Frontex), istituita 12 anni prima.

Il controllo delle frontiere europee e gli accordi con paesi extra-Ue non aumentano la sicurezza, anzi.

In tal senso, non è migliorata la tutela dei diritti dei migranti neanche con gli accordi stipulati negli ultimi anni, come quello tra Ue e Turchia e il memorandum Italia-Libia.

Si tratta di accordi volti più che altro a trattenere i migranti ai confini del continente, con l’effetto (da parte di paesi e istituzioni europee) di ignorare consapevolmente le violenze perpetrate a danni di migliaia di persone arbitrariamente detenute nei campi di prigionia. Condizioni di sofferenza che spingono ancora di più a fuggire, con l’effetto di trovare, talvolta, la morte in mare.

Bisognerebbe essere collettivamente consapevoli che il fenomeno migratorio è costante e per certi versi inarginabile. Occorrerebbe insomma organizzarlo e regolarizzarlo al meglio, per esempio attraverso corridoi umanitari e accordi internazionali tra paesi di partenza e di approdo, affinché possa diminuire la probabilità di morire lungo il viaggio.

Foto: marina militare italiana

 

In pensione con quota 100: si può lavorare?

In pensione con quota 100: si può lavorare?

Chi ha chiesto e ottenuto di lasciare il posto in anticipo può «riciclarsi» altrove come dipendente? Il parere della Consulta sul divieto di cumulo.

Nel settore privato, in linea di massima e a certe condizioni, è possibile lavorare anche quando ormai si è pensionati. Nel settore pubblico ci sono maggiori difficoltà: una legge [1] prevede il divieto per le amministrazioni di «conferire incarichi direttivi, dirigenziali, cariche in organi di governo, incarichi di studio o consulenza a soggetti collocati in quiescenza». Con una deroga importante: Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni possono assumere pensionati per incarichi di consulenza retribuiti fino al 31 dicembre 2026 per progetti contenuti nel Pnrr, purché i diretti interessati siano «in quiescenza», come dice la legge, da almeno due anni e svolgano questa attività per non più di tre anni. Significa che, nel privato e nel pubblico, chiunque prenda un assegno previdenziale può svolgere un’attività? Anche quando si è andati in pensione con quota 100 si può lavorare?

Per questi ultimi soggetti, la Corte costituzionale si è pronunciata di recente, Vediamo che cos’ha deciso e perché.

Chi può lavorare in pensione?

Il 1° gennaio 2009 è stato abolito il divieto di cumulo tra i redditi di pensione e i redditi di lavoro per chi percepisce l’assegno con il sistema retributivo o misto. È interessato, quindi, chi ha iniziato a versare i contributi previdenziali prima del 31 dicembre 1995. Chi, invece, li versa dal 1° gennaio 1996, potrà evitare il divieto di cumulo quando andrà in pensione con il solo sistema contributivo solo se avrà almeno uno di questi requisiti:

  • 60 anni di età per le donne e 65 per gli uomini;
  • 40 anni di contribuzione;
  • 35 anni di contribuzione e 61 anni di età anagrafica.

Chi non può lavorare in pensione?

C’è un’importante eccezione che riguarda chi va in pensione in anticipo rispetto all’età in cui spetta il trattamento previdenziale di vecchiaia, ed in particolare chi ha smesso di lavorare grazie a Quota 100, cioè al sistema che ha consentito a migliaia di italiani di andare in pensione anticipata quando la somma dell’età anagrafica e degli anni di contributi faceva, appunto, 100.

Secondo una recente sentenza della Corte costituzionale, «la richiesta agevolata di uscire anticipatamente dal lavoro è in netta contraddizione con la prosecuzione di una prestazione di lavoro». In altre parole: chi è andato in pensione con Quota 100 non può lavorare come dipendente.

C’è, però, «un’eccezione nell’eccezione», cioè: è possibile svolgere delle prestazioni di lavoro autonomo saltuario fino a 5.000 euro annui. Solo in questo caso, secondo la Consulta, non viene violato il divieto di cumulo tra il reddito della pensione a Quota 100 e quello da lavoro.

La Corte si è espressa in questo modo dopo aver valutato una questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Trento sulla norma che riguarda il divieto di cumulo per disparità di trattamento per il reddito da lavoro dipendente rispetto a quello delle prestazioni occasionali. In sostanza, la domanda posta alla Consulta era: perché non c’è divieto di cumulo per i 5.000 euro delle prestazioni occasionali e c’è, invece, per il reddito da lavoro dipendente?

Nessuna disparità di trattamento, sentenzia la Corte costituzionale. E il perché è subito spiegato: «Le situazioni di cui si discute non sono comparabili. Il lavoro autonomo occasionale entro il limite di 5.000 euro lordi annui non dà luogo, infatti, a obbligo contributivo», a differenza del lavoro subordinato. Inoltre, aggiunge la Consulta, c’è quella «netta contraddizione» tra la richiesta agevolata di uscire anticipatamente dal lavoro e la prosecuzione di una prestazione subordinata.

In estrema sintesi, dunque, chi è andato in pensione con Quota 100 non può avere un reddito da lavoro dipendente mentre può, invece, svolgere delle prestazioni occasionali, a patto che non comportino un reddito annuo superiore a 5.000 euro.

Cosa deve fare il pensionato a Quota 100 che vuole lavorare?

Quanto detto fin qua non vuol dire che chi è in pensione con Quota 100 non può lavorare come dipendente: il divieto consiste nel prendere sia l’assegno previdenziale sia il reddito da lavoro subordinato.

Significa che il pensionato che si annoia di stare a casa o che vuole rimanere attivo perché gli è stato offerto di fare un’attività interessante deve comunicarlo immediatamente all’Inps, attraverso l’apposito modello Quota 100, disponibile nel portale web dell’Istituto. Il quale provvede, a quel punto all’immediata sospensione della pensione per tutto l’anno in cui il soggetto percepisce dei redditi incompatibili. Se l’interessato, nell’anno, compie 67 anni, la sospensione dura fino al mese di compimento dell’età pensionabile.

Attenzione a non barare: il pensionato che non comunica l’inizio di un’attività come dipendente, nonostante percepisca l’assegno previdenziale, potrebbe essere «pescato» dalla banca dati dell’Agenzia delle Entrate e costretto a pagare tutti i ratei di pensione che ha percepito in modo illecito.

 

note

[1] Dl n. 95/2012 del 06.07.2012.

[2] Corte cost. sentenza del 05.10.2022.

 
 

Ancora troppo cibo viene sprecato Ambiente

Ancora troppo cibo viene sprecato Ambiente

Lo spreco di cibo è un fenomeno di rilevanza globale, con forti conseguenze ambientali. In Italia si producono molti rifiuti di origine alimentare soprattutto a livello domestico, con un aumento significativo nell’ultimo decennio.

 

Lo spreco alimentare è un fenomeno di ampia portata a livello globale, che comporta significative conseguenze economiche, sociali e ambientali. In particolare, si tratta di una delle fonti principali di inquinamento – secondo l’Unep (United nations evironmental programme), tra l’8% e il 10% di tutte le emissioni di gas serra deriverebbero dal cibo scartato.

Sempre secondo le stime Onu, nel 2019 il 17% del cibo è andato sprecato (l’11% a livello domestico, ovvero dopo la distribuzione e la vendita). Quasi un miliardo di tonnellate di cibo in totale, a fronte di circa 690 milioni di persone che soffrono la fame e di circa 3 miliardi che non possono permettersi una dieta sana. Per questo uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite consiste proprio nel dimezzamento dello spreco alimentare.

By 2030, halve per capita global food waste at the retail and consumer levels and reduce food losses along production and supply chains, including post-harvest losses.

Purtroppo la disponibilità di dati su questo aspetto è limitata e quindi è difficile analizzare il fenomeno da un punto di vista globale. Possiamo però restringere lo sguardo ai paesi dell’Unione europea e all’Italia. Nonostante il più elevato livello di benessere e la maggiore disponibilità di tecnologie per la gestione dei rifiuti, anche in Europa ad oggi lo spreco di cibo è un problema.

I rifiuti alimentari in Europa

La commissione europea si è impegnata per promuovere la riduzione dello spreco di cibo, come parte della generale transizione verso modalità di produzione e consumo maggiormente sostenibili. Si tratta di uno degli obiettivi della strategia Farm to fork.

Per quanto lo spreco di alimenti sia un fenomeno che accomuna tutti i paesi membri, non dappertutto manifesta la stessa entità. La situazione appare anzi fortemente diversificata da paese a paese, anche rispetto al contributo delle attività commerciali e delle singole famiglie.

In Belgio nel 2020 sono stati prodotti quasi 9 milioni di tonnellate di rifiuti di origine animale, vegetale e mista, ovvero 769 chili pro capite. Si tratta del primato europeo. Seguono a breve distanza i Paesi Bassi, con 692 kg pro capite, e vari altri paesi dell’Europa settentrionale, come la Danimarca (259) e l’Austria (245).

Mentre a registrare le cifre più basse è il Portogallo, con appena 31 kg pro capite. Seguono alcuni paesi della parte centrale, orientale e meridionale del continente. Il nostro paese si attesta al di sotto della media Ue (177 kg), con 142. Insieme a Finlandia, Cipro e Lettonia, è l’unico stato membro in cui si producono più rifiuti di origine animale e mista rispetto a quelli di origine vegetale.

È però importante sottolineare che i dati riportati sono riferiti a tutte le attività produttive e commerciali e non soltanto all’ambito domestico. Se guardiamo a quest’ultimo, la situazione cambia.

120 kg di rifiuti di origine vegetale, animale e mista pro capite prodotti a livello domestico in Italia (2020).

L’Italia è il sesto paese in Ue, dopo Danimarca, Austria, Germania, Paesi Bassi e Francia, per produzione di rifiuti alimentari a livello domestico (120). Ben al di sopra della media Ue di 83 kg pro capite.

In particolare, è seconda soltanto ai Paesi Bassi per produzione domestica di rifiuti alimentari di origine animale e mista (87 kg pro capite).

La produzione di rifiuti alimentari in Italia, un problema che fatica a migliorare

Rispetto al 2010, la data in cui Eurostat ha avviato questa rilevazione, in quasi tutti gli stati Ue la produzione di rifiuti di origine alimentare si è incrementata. La variazione più importante si è registrata in Danimarca e a Malta per quanto riguarda i rifiuti di origine animale e mista (rispettivamente + 414% e +392%) e in Grecia e Lettonia per quanto riguarda invece quelli di origine vegetale (+567% e +355%).

In Italia nel complesso si è registrato un lieve calo, dovuto soprattutto alla riduzione degli scarti di origine vegetale (-38,5%). Questo però solo se analizziamo i dati dal 2010, perché a partire dal 2012, l’anno in cui si è registrato il quantitativo di scarti alimentari più basso del decennio, il paese ha riportato un graduale aumento, soprattutto della componente animale e mista.

Dal 2012 il quantitativo di rifiuti di origine alimentare è andando gradualmente aumentando fino al 2020, fino a raggiungere 8,4 milioni di tonnellate. Un calo del 7% quindi se confrontiamo i dati del 2020 con quelli del 2010, ma un aumento del 48% se li confrontiamo con quelli del 2012.

Una cifra che cresce ulteriormente se restringiamo il campo ai rifiuti alimentari prodotti in ambito domestico, passati da circa 4 a oltre 7 milioni di tonnellate nel corso del decennio.

+71,9% i rifiuti di origine alimentare prodotti a livello domestico in Italia, tra il 2010 e il 2020.

L’aumento ha riguardato, in maniera particolare, gli scarti animali e misti, incrementati in questo lasso di tempo del 109%, passando da circa 2,5 a 5,2 milioni di tonnellate. Mentre per quanto concerne i rifiuti vegetali, è stato più contenuto, attestandosi al 16,5%.

 

Foto: Jasmin Sessler – licenza

 

Conti economici nazionali – anno 2021

Conti economici nazionali – anno 2021

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Segnalazione da UO Studi e analisi compatibilità

I dati presentati incorporano la revisione dei conti nazionali annuali relativa al triennio 2019-2021, effettuata per tenere conto delle informazioni acquisite dall’Istat dopo la stima pubblicata lo scorso aprile. In particolare, le stime dell’anno 2020 incorporano i dati definitivi sui risultati economici delle imprese e quelli completi relativi all’occupazione. La stima aggiornata dei conti economici nazionali conferma il forte recupero dell’economia nel 2021, con un tasso di crescita del Pil del 6,7% (con una revisione al rialzo di 0,1 punti percentuali rispetto alla stima di aprile 2022), a fronte di un calo del 9,0% nel 2020. Dal lato della domanda, a trainare la crescita del Pil è stata soprattutto la domanda interna, mentre la domanda estera e la variazione delle scorte hanno fornito contributi molto più limitati. Dal lato dell’offerta di beni e servizi, si confermano la contrazione in agricoltura e gli aumenti consistenti del valore aggiunto nelle attività industriali e nella maggior parte dei comparti del terziario. L’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche è risultato pari al -7,2% del Pil, in netto miglioramento rispetto al 2020, soprattutto a causa del buon andamento delle entrate e del più contenuto aumento delle uscite.

Bollettino economico n. 6/2022

Bollettino economico n. 6/2022

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Segnalazione da UO Studi e analisi compatibilità

Il Consiglio direttivo ha deciso di innalzare di 75 punti base i tre tassi di interesse di riferimento della BCE. Questo rilevante incremento anticipa la transizione dal livello attualmente molto accomodante dei tassi di interesse di riferimento a livelli che assicureranno un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2% nel medio termine. Dopo il recupero osservato nella prima metà del 2022 i dati recenti indicano un considerevole rallentamento della crescita nell’area dell’euro, con l’economia che dovrebbe ristagnare nel prosieguo dell’anno e nel primo trimestre del 2023. Le quotazioni molto elevate dell’energia riducono il potere d’acquisto dei redditi delle famiglie e, sebbene si stiano attenuando, le strozzature dal lato dell’offerta continuano a frenare l’attività economica. Inoltre, la situazione geopolitica avversa, soprattutto l’aggressione ingiustificata dell’Ucraina da parte della Russia, si ripercuote sulla fiducia delle imprese e dei consumatori. Tali prospettive si riflettono nelle ultime proiezioni formulate dagli esperti per la crescita economica, che sono state riviste nettamente al ribasso per la restante parte di quest’anno e per tutto il 2023. Attualmente gli esperti si attendono che l’economia cresca del 3,1 per cento nel 2022, dello 0,9 nel 2023 e dell’1,9 nel 2024.

Validazione del quadro macroeconomico tendenziale della NADEF 2022 – UPB

Validazione del quadro macroeconomico tendenziale della NADEF 2022 – UPB

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Segnalazione da UO Studi e analisi compatibilità

L’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) ha pubblicato la validazione del quadro macroeconomico tendenziale della Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (NADEF) 2022. La procedura di validazione delle previsioni, sottoposte anche agli altri istituti che compongono il panel UPB (CER, Prometeia, Ref-Ricerche e Oxford Economics, oltre all’Ufficio stesso), si è conclusa positivamente. Le previsioni relative al biennio 2022-23, allo stato delle informazioni a oggi disponibili, si collocano, infatti, all’interno di un intervallo accettabile. La previsione del Governo sull’andamento della crescita nel 2022 (+3,3%, rivista in aumento per due decimi di punto percentuale rispetto al Documento di economia e finanza (DEF)) coincide con la mediana delle previsioni del panel e non è distante dalla previsione dell’UPB. La stima sulla variazione del PIL dell’anno prossimo (+0,6%, oltre 1,5 punti percentuali in meno di quanto indicato nel DEF a causa del peggioramento della domanda estera, del rialzo dei tassi d’interesse e delle tensioni sui mercati dell’energia) eccede lievemente la mediana delle stime del panel UPB, ma non l’estremo superiore. Per quel che concerne gli elementi d’incertezza, gli scenari di base del MEF e del panel UPB non considerano il blocco completo delle forniture di gas da parte della Russia.

 

Approvata la Nota di aggiornamento al DEF 2022

Approvata la Nota di aggiornamento al DEF 2022

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Segnalazione da UO Studi e analisi compatibilità

Il Consiglio dei Ministri del 28 settembre us ha approvato la Nota di aggiornamento al DEF (NADEF) del 2022, il documento si limita all’analisi delle tendenze in corso e alle previsioni per l’economia e la finanza pubblica italiane a legislazione vigente. La crescita dei prezzi dell’energia, il rialzo dei tassi di interesse e la situazione geopolitica provocano un marcato rallentamento dell’economia globale e di quella economia europea. Nel 2023, a causa dell’indebolimento del ciclo internazionale ed europeo, la crescita tendenziale prevista scende allo 0,6% rispetto al 2,4% programmatico del DEF di aprile. L’indebitamento netto tendenziale a legislazione vigente viene stimato nel 3,4%, inferiore all’obiettivo programmatico del 3,9%. Le previsioni contenute nella NADEF, come quelle presenti nei precedenti documenti di programmazione, sono basate su un approccio prudenziale e non tengono conto dell’azione di politica economica che potrà essere realizzata con la prossima legge di bilancio e con altre misure.

 

Sezione V sentenza n. 7780/2022

Sezione V sentenza n. 7780/2022 Reclutamento personale – Prevalenza procedura scorrimento graduatorie

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Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

Il Consiglio di Stato, ha ricordato che bandire una nuova procedura concorsuale in vigenza di una precedente graduatoria valida, per il medesimo profilo professionale, senza adeguata motivazione e senza significative differenze nei requisiti richiesti e nei contenuti delle prove d’esame non risponde ai presupposti legittimanti stabiliti dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la pronuncia n. 14/2011 della quale la sezione ne ribadisce i principi. Secondo l’Adunanza «l’ordinamento attuale afferma un generale favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso». Inoltre il Collegio evidenzia che, lo scorrimento delle graduatorie ancora valide ed efficaci costituisce la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione; tuttavia vi sono casi in cui la determinazione di procedere al reclutamento mediante nuove procedure concorsuali anziché attraverso lo scorrimento di graduatorie preesistenti risulta pienamente giustificabile con il conseguente ridimensionamento dell’obbligo di motivazione. Tra questi può acquistare rilievo “l’intervenuta modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace con particolare riguardo alle prove d’esame e ai requisiti di partecipazione o anche la valutazione del contenuto dello specifico profilo professionale per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e delle eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando relativo alla preesistente graduatoria”.

Sezione Lavoro Sentenza n. 24391 del 5/8/2022 Impiego pubblico – forme e modalità di licenziamento – rigetto ricorso

Sezione Lavoro Sentenza n. 24391 del 5/8/2022 Impiego pubblico – forme e modalità di licenziamento – rigetto ricorso

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Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla materia delle forme di licenziamento affermando che il datore di lavoro non ha l’onere di utilizzare le rituali comunicazioni per intimare il licenziamento al lavoratore ed il recesso risulta efficace anche se comunicato in forma indiretta. Nei fatti, un dipendente provinciale impugnava la Determinazione Dirigenziale con cui la PA aveva risolto il rapporto di lavoro, a seguito del provvedimento della Commissione medica che lo aveva dichiarato, conseguentemente a un grave patologia, inidoneo permanente al servizio, lamentando che la determina dirigenziale di collocamento a riposo avrebbe dovuto essere in ogni caso comunicata in copia conforme ed in originale, con conseguente irrilevanza della sua conoscenza aliunde. Il giudice d’appello rigettava la predetta domanda, ritenendo sussistenti i requisiti della forma scritta del recesso e della conoscenza da parte del destinatario. Gli Ermellini con la sentenza in oggetto ritengono condivisibili i motivi di rigetto espressi dal giudice di merito, confermando che in tema di forma del licenziamento, l’art. 2 della L. 604/1966 esige, a pena di inefficacia, che il recesso sia comunicato al lavoratore per iscritto, ma non prescrive modalità specifiche di comunicazione. Ne consegue che, non sussistendo per il datore l’onere di adoperare formule sacramentali, la volontà di licenziare può essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara.

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 agosto n. 143

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 agosto n. 143 recante: “Regolamento in attuazione dell’articolo 1, comma 596, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 in materia di compensi, gettoni di presenza e ogni altro emolumento spettante ai co

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Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

Il provvedimento che entra in vigore dal 7 ottobre p.v. regola i compensi, gettoni di presenza e ogni altro emolumento spettante ai componenti gli organi di amministrazione e di controllo
ordinari e straordinari degli enti pubblici stabilendo “appositi criteri basati su elementi oggettivi desumibili dai documenti di bilancio e dalle discipline ordinamentali dei singoli enti o organismi,
che vengono aggregati per la natura delle funzioni svolte e/o per la collocazione in un settore omogeneo”. Sulla corretta applicazione del presente regolamento e sull’omogeneità delle modalità
attuative la Presidenza del Consiglio dei ministri, -Dipartimento del coordinamento amministrativo e il Ministero dell’economia e finanze -Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato -
vigilano anche mediante l’istituzione di un tavolo permanente composto da propri rappresentanti e da quelli delle Amministrazioni vigilanti.

 

CFC76

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L’assunzione di EP (anche mediante progressioni verticali) deve essere decisa nell’ambito del piano dei fabbisogni, ora confluito nel PIAO? Quali sono i fabbisogni che possono spingere un’amministrazione ad assumere delle EP?*

L’assunzione delle EP (ivi comprese le progressioni verticali), come avviene per tutte le assunzioni, è decisa nell’ambito del piano dei fabbisogni (ora confluito nel PIAO).

Il fabbisogno di EP discende dalla necessità di coprire, mediante il conferimento di incarichi, posizioni ad elevata responsabilità. Le responsabilità connesse agli incarichi possono avere prevalente contenuto gestionale ovvero, nel caso in cui sia richiesta l’iscrizione ad albi professionali, prevalente contenuto professionale. In ogni caso, esse richiedono elevata autonomia decisionale, con assunzione diretta di decisioni ed atti, anche su delega formale del dirigente. Le posizioni di responsabilità vanno preventivamente individuate dalle amministrazioni, in base alle proprie esigenze organizzative.

Vi è dunque un legame stretto tra fabbisogno di EP e scelte organizzative. Un ottimale inserimento di questa nuova figura richiede che le amministrazioni definiscano preventivamente le posizioni di responsabilità, i processi di lavoro di cui è affidata la responsabilità, gli spazi di autonomia decisionale, le relazioni organizzative interne (con il dirigente e con i collaboratori) e, eventualmente, le relazioni esterne con altri soggetti. Si ritiene che tale quadro organizzativo possa essere definito anche con atti di micro-organizzazione. Naturalmente, è possibile anche ipotizzare revisioni organizzative di maggiore impatto che incidano sugli assetti organizzativi macro: ad esempio, nei casi in cui le amministrazioni decidano di sopprimere, in tutto o in parte, i posti dirigenziali che si sono resi vacanti a seguito delle cessazioni che hanno finanziato le facoltà assunzionali utilizzate per assumere le EP.

*Orientamento applicativo redatto di concerto con il Dipartimento della Funzione Pubblica e la Ragioneria Generale dello Stato.

CFC75

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L’amministrazione può variare nel tempo (ad esempio, da un piano dei fabbisogni a quello successivo) il valore di riferimento retributivo dell’EP?*

Può variarlo, in aumento o in diminuzione, ma sempre nell’ambito del range fissato dal contratto (compreso tra 50.000 e 70.000 euro annui lordi). In tal caso, l’aumento del BudgetPOS_RIS(EP), a decorrere dal momento in cui l’assunzione programmata si è effettivamente verificata, è effettuato sulla base del nuovo valore medio adottato dall’amministrazione applicato al numero delle assunzioni verificatesi.

*Orientamento applicativo redatto di concerto con il Dipartimento della Funzione Pubblica e la Ragioneria Generale dello Stato.