Archivi giornalieri: 1 ottobre 2022

PATRONATI ITALIANI NEL MONDO

PATRONATI ITALIANI NEL MONDO – INCA AUSTRIA : A LORELLA BRUSA DEL COLLEGIO DI PRESIDENZA DELL’INCA NAZIONALE LA PRESIDENZA DI INCA AUSTRIA

(2022-09-27)

  Lorella Brusa, componente del collegio di Presidenza Inca nazionale, assume l’incarico di Presidente dell’Inca Austria.  La nomina rientra nel percorso di riorganizzazione generale delle strutture di Patronato operanti all’estero avviato dall’attuale Presidenza. Alla nomina erano presenti il Presidente Michele Pagliaro e una delegazione dell’Area estero del Patronato della Cgil” informa una nota del Patronato.

Il Patronato della Cgil in Austria fornisce assistenza ai nostri connazionali in materia previdenziale e socioassistenziale, con un volume di attività annuale di circa tremila pratiche, che raggiunge 5 mila persone. Nella regione risiede una importante comunità di connazionali (nel 2020 risultano iscritti all’Aire 38.904).

Dagli incontri, che si sono svolti presso la sede di Innsbruck,  è emersa una domanda di tutela individuale soprattutto per quanto riguarda pratiche di carattere fiscale, sia da parte degli italiani all’estero ma anche degli austriaci che possiedono beni immobili in Italia. Un’attività significativa è soprattutto quella svolta in favore dei cittadini, cosiddetti “frontalieri” (circa 9.000, provenienti dall’Alto Adige) che, lavorando in Austria, varcano ogni giorno il confine italiano per raggiungere il loro posto di lavoro.

La Convenzione contro le doppie imposizioni fiscali, stipulata dall’Italia con L’Austria, prevede specifiche disposizioni per i soggetti pendolari transfrontalieri che svolgono un’attività di lavoro dipendente che prevede la tassazione esclusiva dei redditi di lavoro dipendente nello Stato di residenza del lavoratore pendolare.

Per il futuro spiega la neo presidente, “è importante intensificare le sinergie  tra estero e Italia. L’obiettivo deve sempre essere quello di riuscire a fornire le risposte migliori ai bisogni delle persone”. “Pertanto – aggiunge Brusa -, la struttura proseguirà così il percorso e si impegnerà sempre più per tutelare e rappresentare i bisogni non soltanto dei connazionali residenti sul suolo austriaco, ma anche dei cittadini stranieri, in collaborazione con le autorità diplomatiche e consolari, con gli Enti previdenziali e le organizzazioni sindacati locali. Una sfida in una nazione di confine con l’Italia.” (27/09/2022-ITL/ITNET)

INCA

Inca nel mondo

L’evoluzione dei modelli previdenziali in America Latina

A Montevideo prosegue il seminario annuale su: Diritti e tutela: le nuove sfide

A Montevideo, dove è in corso il seminario annuale promosso dall’Inca Cgil, prosegue lo scambio di esperienze tra i paesi dell’America Latina per confrontare i diversi sistemi previdenziali e per migliorare la qualità dell’azione di tutela, rivolta sia ai nostri connazionali all’estero sia ai lavoratori immigrati in Italia, rafforzando la collaborazione tra i patronati e i sindacati. Nell’incontro del 27 novembre, presieduto da Claudio Sorrentino, responsabile delle attività internazionali Inca, si è discusso su “L’evoluzione dei sistemi previdenziali in tema di convenzioni internazionali”.

Nella relazione introduttiva di Rossella Misci, responsabile per le convenzioni internazionali, sono stati ripercorsi gli iter dei Regolamenti europei, nati per favorire la libera circolazione degli oltre 480 milioni lavoratori  nei 27 paesi membri dell’Unione Europea. I Regolamenti sono stati costruiti sul principio del reciproco riconoscimento e sulla collaborazione tra i sistemi previdenziali, al fine di favorire la “totalizzazione” dei contributi versati nel corso delle carriere lavorative. Nella relazione sono state affrontate le questioni riguardanti l’integrazione al trattamento minimo nel Regolamento europeo e nelle convenzioni internazionali. “La perdita dell’integrazione – ha avvertito Misci -, in caso di trasferimento da un paese in convenzione bilaterale ad un paese europeo, richiede un approfondimento e non esclude una contestazione di tipo legale”. Il nuovo Regolamento, che  estende le tutele e migliora la cooperazione tra i Paesi membri, entrerà in vigore il prossimo anno.

L’avvocato Guarnaschelli, rappresentante del BPS, (l’Inps dell’Uruguay) ha analizzato le caratteristiche dell’Accordo di Montevideo,  del 14 dicembre 1997, recepito per via legislativa, che definisce le regole dei rapporti di collaborazione tra i quattro paesi del Mercosur e che opera alla stregua del Regolamento europeo, applicando il principio della totalizzazione dei contributi versati nei Paesi membri. L’Accordo si è raggiunto grazie ad un Regolamento attuativo e ad una Commissione amministrativa che ha il compito di facilitare le opportune modifiche, ma anche di  evitare il complesso iter delle ratifiche degli accordi internazionali. L’intesa ha dato risultati positivi anche grazie all’applicazione di  un solo sistema operativo, di un’unica banca-dati e dell’utilizzo privilegiato della comunicazione telematica.

Il Presidente della Federazione dei pensionati della CUT Brasile e  Consigliere effettivo  dell’Istituto di previdenza brasiliana, Luisao, intervenendo al dibattito, ha illustrato le principali caratteristiche del sistema pensionistico brasiliano e le recenti modifiche riguardanti la gestione delle pensioni, nonché gli aumenti riconosciuti ai pensionati. Grazie ad un impegno convinto da parte del governo, il tempo di liquidazione delle pensioni si è ridotto notevolmente passando da una media di 245 a 54 giorni.
In Brasile, la pensione minima è pari all’80% del salario minimo, mentre l’età di pensione è di 60 anni per le donne e 65 per gli uomini. Per i lavoratori agricoli, la cui attività è considerata più usurante, l’età legale per acquisire il diritto alla pensione scende a 55 anni per le donne e a 60 per gli uomini. Tuttavia, anche in questa nazione non mancano proposte di modifica per innalzare l’età pensionabile a 67 per gli uomini e a 65 anni per le donne. Si tratta di una legge di riforma che però si scontra con una forte opposizione del fronte sociale. Luisao ha concluso il suo intervento ricordando che in Brasile l’Istituto di previdenza rappresenta il più importante distributore di risorse del paese ed è impegnato i questo momento per difendere il sistema pensionistico pubblico a ripartizione.

Per spiegare il sistema pensionistico venezuelano è intervenuto il coordinatore INCA del Venezuela, Di Vaira. “Si tratta di un modello – ha spiegato – che consente semplicità di accesso alla pensione, con una conseguente forte riduzione delle pratiche burocratiche. L’Istituto di previdenza venezuelano, assicura infatti il pagamento della pensione a tre mesi dalla presentazione della domanda e periodicamente pubblica sui giornali la lista dei nuovi pensionati che, grazie a questa comunicazione, possono recarsi in banca ed aprire un conto per l’accredito della prestazione previdenziale”.
In Venezuela è riconosciuta la pensione di vecchiaia, di inabilità, ai superstiti e in questo caso è prevista la tutela  anche alla convivente non coniugata. E’ previsto altresì l’assegno sociale, in mancanza di altri redditi, e coloro i quali non abbiano raggiunto i requisiti richiesti per andare in pensione, una volta raggiunta l’età prevista possono “riscattare” gli anni non coperti da contribuzione versando i contributi (un importo modesto) ed acquisendo così il diritto alla pensione.

Tuttavia, ha precisato Di Vaira, nel sistema previdenziale venezuelano non mancano nodi da sciogliere.  Infatti, non prevedendo una correlazione tra l’importo di pensione e i contributi versati, quando un lavoratore si trasferisce in un altro paese la prestazione viene interrotta. E’ una scelta – ha precisato Di Vaira – che comporta seri problemi soprattutto ai pensionati italiani che rientrano in patria. L’Inca ha già chiesto l’intervento dell’Ambasciata italiana a Caracas, così come ha fatto l’Ambasciata spagnola per i suoi connazionali che si sono trovati nella stessa condizione.  Grazie a questo intervento sull’Istituto previdenziale e sul governo venezuelano il problema dei lavoratori spagnoli è stato risolto. “Si spera – ha  concluso Di Vaira – che anche il governo italiano voglia fare altrettanto con l’Ambasciata italiana in Venezuela. In caso contrario l’Inca sarà costretta a sostenere le ragioni degli italiani per vie legali”.
Per l’Argentina è intervenuta l’avvocatessa Pautasio, collaboratrice dell’INCA, che ha ripercorso la vicenda della pubblicizzazione dei fondi pensione argentini, dovuta alla precarietà finanziaria di questi fondi e al fatto che l’attuale Presidente non vuole perseguire la strada intrapresa nel 1994, con la legge che favoriva la fuoriuscita dal sistema pensionistico pubblico e la costituzione di una posizione pensionistica privata.

Concludendo il dibattito sui diversi sistemi previdenziali in America Latina, Luigina De Santis, del collegio di presidenza Inca Cgil,  ha sottolineato le forti analogie esistenti tra Regolamenti europei e l’Accordo di Montevideo, prospettando l’utilità di intese intraregionali, in favore dei diritti dei lavoratori e per lo sviluppo di politiche sociali comuni. “La difesa del sistema pensionistico pubblico a ripartizione, il rifiuto della capitalizzazione “alla cilena”, la valorizzazione della solidarietà tra le generazioni, la copertura previdenziale di tutte le tipologie di lavoro, il controllo sociale sulle Casse pensioni, la possibilità di totalizzare i contributi versati nei diversi paesi – ha osservato De Santis – devono essere i cardini per una previdenza in grado di dare risposte ai bisogni di oggi e per sviluppare le convenzioni internazionali”.

L’Italia ne ha sottoscritte 19, altre sono predisposte e, in qualche caso, sono state già recepite dal paese interessato. “Non è un grande risultato – ha concluso De Santis – per un paese  che ha esportato manodopera e che oggi ne importa in quantità considerevole.  Per ciò che gli compete, l’Inps deve prestare maggiore attenzione a queste problematiche (anche se va sottolineata la disponibilità di alcuni dirigenti e funzionari nelle sedi dei Poli) per un impegno nell’interesse dei connazionali all’estero”. Infine, richiamando la questione delle pensioni venezuelane non corrisposte agli italiani che tornano in patria, ha precisato che occorre coinvolgere direttamente il Ministero degli esteri e l’Inps.

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Dichiarazione in occasione della Giornata Internazionale delle persone anziane

Dichiarazione in occasione della Giornata Internazionale delle persone anziane

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata Internazionale delle Persone Anziane, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

«Se oggi viviamo in un Paese democratico, economicamente progredito, dotato di una Carta costituzionale che tutela i diritti inviolabili dell’uomo lo dobbiamo agli anziani, portatori di un patrimonio di valori che abbiamo il dovere di consegnare integro alle generazioni future.

Il tema della Giornata odierna è dedicato, quest’anno, alla resilienza delle persone anziane in un mondo che cambia, con una attenzione particolare alle donne e alla forza d’animo con cui affrontano le sfide globali.

La pandemia da Covid-19 ha messo ancor più in evidenza le disuguaglianze esistenti, soprattutto con riferimento alle donne che costituiscono la maggioranza delle persone anziane nel mondo e affrontano il problema della insicurezza economica e del rischio di povertà in misura maggiore rispetto agli uomini della stessa fascia di età. Nonostante ciò, le donne anziane continuano ad impegnarsi in modo significativo in ogni settore della vita politica, civile, economica, sociale e culturale con contributi che, troppo spesso, vengono ignorati o dati per scontato. Sono le donne che, molto spesso, continuano a svolgere, anche nell’età anziana, una parte fondamentale del lavoro di cura all’interno delle famiglie, accudendo familiari disabili e non autosufficienti. Non si può, quindi, pensare di affrontare efficacemente l’invecchiamento della popolazione, con i problemi e le opportunità che esso pone, senza tener conto della specificità femminile.

L’età avanzata è, purtroppo, anche una condizione di fragilità: il numero degli anziani non autosufficienti è destinato ad aumentare e ciascuno di noi è chiamato a fare quanto possibile, proprio in virtù di quel legame di riconoscenza che lega ogni generazione a quella che l’ha preceduta, per garantire a tutti, in qualsiasi stagione, una vita dignitosa».

 Roma, 01/10/2022 (II mandato)

Gli investimenti del Pnrr per la sicurezza delle strade abruzzesi Osservatorio Abruzzo

Gli investimenti del Pnrr per la sicurezza delle strade abruzzesi Osservatorio Abruzzo

Per l’Abruzzo disporre di vie di comunicazione efficienti e sicure è fondamentale, data la conformazione fisica del territorio. Approfondiamo lo stato attuale della rete stradale e le misure previste dal Pnrr su questo aspetto.

 

Disporre di strade sicure e di vie di comunicazione efficienti è una delle risorse più importanti per un territorio.

A maggior ragione per l’Abruzzo, una regione con forti differenze interne, a partire da quelle orograficheoltre il 40% degli abruzzesi vive in un comune di montagna o di collina interna. Consentire spostamenti agevoli e sicuri richiede un costante investimento sulla manutenzione della rete stradale.

Per non parlare dei rischi connessi a calamità naturali. In un’area del paese dove il rischio di eventi sismici è particolarmente elevato, la condizione di strade, ponti, viadotti, gallerie è cruciale. Per la sicurezza di chi le percorre, ma anche per la stessa sopravvivenza delle comunità che abitano in territori sempre più a rischio spopolamento.

97.651 gli abitanti nel 2021 nei comuni del cratere sismico 2016-17. Erano 104mila nel 2015.

Solo investimenti costanti nella manutenzione e nella messa in sicurezza delle strade possono garantire collegamenti efficienti e sicuri.

In coerenza con le indicazioni europee, il Pnrr punta molto sulla mobilità su ferro, con risorse per il sistema ferroviario, anche in Abruzzo. Allo stesso tempo, sebbene non vi siano investimenti specifici solo su questo aspetto, la messa in sicurezza delle infrastrutture stradali è compresa tra diverse misure del piano. A queste si aggiungono alcuni interventi previsti dal fondo complementare.

Approfondiamo meglio il quadro, per poi valutare gli investimenti previsti su questo fronte alla luce dell’estensione e della situazione attuale della rete stradale abruzzese.

Cosa prevede il Pnrr sulle infrastrutture stradali

Gli investimenti specifici dedicati alla messa in sicurezza e alla manutenzione delle strade sono contenuti nel fondo complementare al Pnrr.

Il motivo principale di questa scelta è attribuibile al fatto che con i fondi del piano si punta ad incentivare altre forme di mobilità a impatto ambientale più limitato come le ferrovie, la mobilità elettrica, il trasporto pubblico locale e la mobilità dolce.

Gli investimenti del Pnrr sulle strade sono rivolti a manutenzione e sicurezza.

Questo dato emerge anche dalle informazioni messe a disposizione dal ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, titolare degli interventi in questo ambito. Nell’apposita sezione del sito istituzionale è possibile vedere come si distribuiscono gli investimenti per infrastrutture e mobilità. Da questo punto di vista la gran parte delle risorse è dedicata alle ferrovie (circa 32,3 miliardi).

Per quanto riguarda invece gli investimenti riconducibili alle strade questi possono essere quantificati in circa 1,8 miliardi di euro. Da notare peraltro che questi interventi non riguardano né la costruzione di nuove infrastrutture né l’ampliamento di quelle esistenti quanto piuttosto di manutenzione e messa in sicurezza, oltre che dell’installazione di sistemi di monitoraggio. Ciò con particolare riferimento a ponti, viadotti, sottopassi e gallerie.

Il piano tuttavia contiene 2 riforme che è utile passare in rassegna per completezza di informazione. La prima misura è denominata Attuazione delle linee guida per la classificazione e gestione del rischio, la valutazione della sicurezza e il monitoraggio dei ponti esistenti. Questo intervento è finalizzato all’introduzione di una serie di norme e metodologie comuni all’intera rete viaria nazionale per la classificazione e la gestione del rischio, la valutazione della sicurezza e il monitoraggio dei ponti esistenti.

Un primo intervento di questo tipo era già stato introdotto nel 2020 con il decreto 578 dell’allora ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Un secondo atto ministeriale, il 493/2021, ha introdotto una serie di innovazioni al precedente decreto. In particolare ha esteso alle strade gestite da regioni, province e comuni le stesse indicazioni valide per il quelle gestite da Anas o altri concessionari. Con questo intervento, la riforma si ritiene portata a compimento nei tempi previsti (fine 2021).

le riforme previste dal Pnrr per il sistema della rete stradale.

L’obiettivo del Pnrr è rendere più omogeneo il sistema stradale nazionale.

La seconda riforma riguarda invece il trasferimento di ponti e viadotti delle strade secondarie ai titolari delle strade di primo livello. Sostanzialmente l’obiettivo di questo intervento, che ha avuto una sua prima implementazione con il cosiddetto decreto semplificazioni, è quello di trasferire la titolarità di sovrappassi e sottopassi che fanno parte del tracciato di strade secondarie ma che incrociano arterie principali (come autostrade e strade statali) da comuni, province e regioni allo stato. Anche in questo caso l’obiettivo è quello di assicurare maggiore controllo e manutenzione di queste opere.

Anche questa misura è stata portata a compimento alla fine del 2021 a seguito della pubblicazione del decreto 485 del ministero delle infrastrutture. Questo atto contiene l’elenco delle strutture, comprese le barriere di sicurezza nei sovrappassi, con l’indicazione dei relativi enti titolari. In questo elenco sono contenuti anche ponti, viadotti e sottopassi che insistono su arterie che attraversano il territorio abruzzese.

Com’è possibile notare, le due riforme del Pnrr vanno ad intervenire principalmente su opere di ingegneria piuttosto che sul manto stradale. L’obiettivo è probabilmente evitare che si ripetano altre tragedie come quella del Ponte Morandi di Genova.

Prima di analizzare gli investimenti previsti dal fondo complementare, approfondiamo l’estensione della rete abruzzese, la presenza del rischio incidentalità e le attuali risorse spese dai comuni sulla rete di loro competenza.

Strade e incidenti nei comuni abruzzesi

Una valutazione degli investimenti sulla rete stradale può essere compiuta solo tenendo presente l’estensione della rete e le sue attuali criticità, a partire dal tasso di incidentalità.

Dati a livello comunale poco strutturati sul tema.

Ricostruire l’estensione della rete stradale a livello comunale è tutt’altro che immediato. Sulla consistenza della rete stradale comunale esistono infatti diverse fonti, non sempre allineate tra loro. Dai singoli comuni, che in modo non strutturato inseriscono questa informazione quando redigono il documento unico di programmazione, al ministero dell’interno, che fino al 2015 presentava questo dato nel primo quadro dei conti consuntivi di ciascun comune. Oltre al ministero delle infrastrutture che – per i singoli capoluoghi di provincia – ricostruisce tale informazione nel conto nazionale.

Vi è poi il dato raccolto da Sose ai fini del federalismo fiscale. Essendo strutturato in open data per tutti i comuni italiani delle regioni a statuto ordinario, con una metodologia univoca, è quello che meglio consente confronti e analisi tra territori diversi.

Densità stradale maggiore sulla costa e nel pescarese.

In base ai dati Sose, L’Aquila, con oltre 1.500 km di strade comunali, è il comune abruzzese con la rete stradale più estesa. Seguita da Chieti, Teramo, Avezzano e Pescara, con valori compresi tra 500 e 600 km circa ciascuna.

Il quadro cambia completamente se si considera l’estensione stradale comunale rispetto alla superficie del comune. Con questo indicatore, il comune con maggiore densità stradale è un altro capoluogo, Pescara, con 1458 km ogni 100 km di superficie. Come si osserva dalla mappa, la densità stradale è maggiore sulla costa, e in particolare nell’area urbana formata da Pescara e dal suo hinterland.

Man mano che si prosegue nell’Abruzzo interno, anche la densità stradale si dirada, concentrandosi negli abitati principali della regione. Da segnalare Sulmona e Avezzano, con circa 500 km di rete stradale ogni 100 chilometri quadrati di superficie comunale, e il capoluogo regionale.

Maggiore incidentalità pro capite nelle località turistiche.

L’Aquila e la costa, in particolare sul versante settentrionale, sono anche i territori abruzzesi dove si concentra la maggiore incidentalità stradale. Su ogni mille abitanti, sono oltre 3,5 gli incidenti stradali a Fano Adriano, Giulianova, Silvi, Pescara, Città Sant’Angelo e Martinsicuro. Un dato su cui è ragionevole ipotizzare abbia un impatto anche l’afflusso del turismo estivo, dal momento che l’indicatore è calcolato rispetto ai residenti del comune.

18,6% le famiglie abruzzesi che nel 2021 dichiarano condizioni stradali molto cattive nella zona in cui vivono. In linea con la media nazionale (18,9).

Come abbiamo avuto modo di ricostruire in un precedente approfondimento, proprio le località della costa settentrionale abruzzese sono tra quelle che vedono le maggiori presenze turistiche, accanto all’area dell’aquilano.

Le attuali risorse comunali per la viabilità stradale

Per quel che riguarda tutte le attività di manutenzione delle strade, anche i comuni possono contribuire con determinate uscite inserite a bilancio. Sono inserite all’interno della decima missione riguardante i trasporti, in cui c’è una voce dedicata alla viabilità e alle infrastrutture stradali. Sono incluse tutte le spese relative al funzionamento e alla manutenzione di strade urbane, percorsi ciclopedonali e parcheggi. Sono considerate le uscite per la riqualificazione stradale e la concessione dei permessi per le zone a traffico limitato.

Inoltre, sono inseriti gli interventi sull’illuminazione stradale, sui semafori e sull’abbattimento delle barriere architettoniche. Da notare che questa voce è relativa esclusivamente agli importi per la manutenzione delle strade quindi non si prendono in considerazione né il potenziamento dei percorsi su rotaia né il trasporto pubblico locale.

In media, i comuni abruzzesi spendono 223,63 euro pro capite per la gestione delle strade. Un valore medio superiore rispetto a quello nazionale (177,97). Mediamente, le amministrazioni di Chieti elargiscono gli importi più alti (330,83 euro pro capite), seguiti da quelle dell’Aquila (203,48), Teramo (132,97) e Pescara (119,92).

Il comune che registra le uscite maggiori è Lentella, in provincia di Chieti, con 4.376,58 euro pro capite. Seguono Schiavi di Abruzzo (Chieti, 3.988,83), Rocca Pia (L’Aquila, 2.028,20) e Fallo (Chieti, 1.897,24). Sono in tutto nove i comuni che riportano valori superiori ai mille euro pro capite.

Gli investimenti del fondo complementare

Le misure previste dal fondo complementare al Pnrr sono diverse.

Due investimenti riguardano l’introduzione di un sistema di monitoraggio dinamico per controlli da remoto e interventi di messa in sicurezza di ponti, viadotti, tunnel e cavalcavia.

Il primo – da 450 milioni – riguarda l’attuazione di un sistema integrato di censimento, classificazione e gestione dei rischi per 12.000 opere esistenti nel sistema viario nazionale. In questo caso la misura si trova ancora in uno stato embrionale dato che l’aggiudicazione dei lavori è prevista entro il 31 marzo del 2023. Tuttavia il decreto ministeriale 93/2022 del Mims ci permette di valutare il riparto delle risorse tra i diversi soggetti attuatori coinvolti (gli enti che avranno il compito di pubblicare i bandi di gara).

Dalla documentazione disponibile non sembrano essere previste risorse per l’Abruzzo per questa misura. Come del resto emerge anche dall’apposita sezione del Mims sulla territorializzazione dei fondi.

gli investimenti del fondo complementare per monitoraggio e messa in sicurezza di ponti, viadotti e tunnel.

Il secondo intervento di questo tipo invece riguarda molto più da vicino l’Abruzzo. In questo caso infatti ad essere oggetto specifico di finanziamento sono quelle infrastrutture che insistono sul tracciato delle autostrade A-24 (Roma – L’Aquila – Teramo) e A-25 (Roma – Pescara). Le somme stanziate in questo caso ammontano a 1 miliardo di euro. Dato che tali arterie attraversano due regioni e diverse province, non è possibile individuare in maniera puntuale la ripartizione territoriale di questo tipo di interventi. Tuttavia è ipotizzabile che una parte significativa di queste risorse riguarderà l’Abruzzo: tra gli interventi è infatti previsto anche l’adeguamento ed efficientamento energetico del sistema impiantistico del traforo del Gran Sasso.

Secondo la più recente relazione del Mims sullo stato di avanzamento di questa misura, è stato aggiudicato il contratto per il monitoraggio dinamico. Entro la fine dell’anno dovrà si prevede l’avvio delle attività dei primi 20 ponti.

Il fondo complementare per le aree interne

Un’altra misura contenuta nel fondo complementare che stanzia risorse per la viabilità stradale rientra nell’ambito della cosiddetta strategia nazionale per le aree interne. In questo caso gli investimenti, pari a 300 milioni complessivi, sono finalizzati al miglioramento dell’accessibilità oltre che della sicurezza delle arterie.

Le aree interne sono i territori del paese più distanti dai servizi essenziali (quali istruzione, salute, mobilità). Parliamo di circa 4.000 comuni, con 13 milioni di abitanti, a forte rischio spopolamento (in particolare per i giovani), e dove la qualità dell’offerta educativa risulta spesso compromessa. Vai a “Che cosa sono le aree interne”

In questo caso, grazie al decreto interministeriale 394/2021, è già possibile sapere quante risorse sono state assegnate ai singoli territori delle varie regioni che rientrano nella categoria delle aree interne. Le zone abruzzesi che riceveranno fondi sono 5 in totale per una somma complessiva pari a 21,45 milioni. Si tratta di:

  • Alto Aterno – Gran Sasso – Laga (5,52 milioni);
  • Basso Sangro – Trigno (4,88 milioni);
  • Val Fino – Vestina (4,17 milioni);
  • Valle Roveto (3,91 milioni);
  • Subequana (2,97 milioni).

Entro la fine dell’anno dovrà essere convocata un’assemblea dei sindaci delle 72 aree interne che servirà a selezionare gli interventi. Successivamente, sempre entro la fine del 2022, dovranno essere pubblicati i bandi mentre l’aggiudicazione dei contratti è prevista entro la fine del primo trimestre del 2023.

Le risorse del fondo complementare rivolte ai crateri sismici

Alcune risorse destinate alla manutenzione stradale sono state messe anche nella disponibilità del commissario straordinario per il sisma, sempre nell’ambito del fondo complementare. La misura è denominata Infrastrutture e mobilità e ha un valore complessivo di 335 milioni.

Gli interventi riguarderanno strade statali e comunali.

Tale intervento può essere ulteriormente suddiviso tra gli investimenti che riguarderanno le strade statali che attraversano i crateri sismici (Ss4 Salaria, Ss 260 Picente tra L’Aquila e Amatrice, Ss 78 tra Belforte, Sarnano e Amandola, Ss 210 Amandola-Servigliano, Ss 685 Tre Valli Umbre tra Borgo Cerreto e Vallo di Nera, collegamento tra Teramo e Ascoli, la Tre Valli Umbre tra Spoleto e Acquasparta) e gli investimenti che invece interessano le strade comunali.

Grazie alle ordinanze pubblicate dal commissario straordinario per la ricostruzione, di cui abbiamo già parlato in altri approfondimentiè possibile conoscere il riparto territoriale degli interventi finanziati finora nell’ambito della viabilità.

In base alle informazioni disponibili la provincia maggiormente beneficiaria dei fondi destinati alla rete stradale è quella dell’Aquila con 39,5 milioni di euro. Seguono Teramo (27,8 milioni) e Pescara (2,2 milioni).

A livello di singoli interventi, quello più consistente riguarda la strada statale 260. In particolare il “Lotto V – dallo svincolo di Cavallari al confine regionale” prevede un investimento da 22 milioni di euro complessivi. Da notare che in questo caso l’ordinanza individua come unico territorio oggetto di intervento quello del comune di Montereale, in provincia dell’Aquila, anche se la strada citata attraversa più comuni abruzzesi. Il secondo investimento più rilevante riguarda un’altra strada statale: la Pedemontana nord e interessa i comuni di Sant’Egidio, Campli e San Nicolò a Tordino. La somma stanziata in questo caso ammonta a 18 milioni di euro.

Gli importi stanziati sono chiaramente più consistenti per le strade statali (46,2 milioni contro 23,3) ma il numero di interventi sulle strade comunali è molto più alto (71 a fronte di 6 interventi sulle strade statali). In questo secondo caso ci sono solo 4 interventi con un importo superiore al milione di euro. Tre di questi sono localizzati nel comune dell’Aquila per un valore complessivo di 5 milioni di euro e uno in quello di Teramo (1,3 milioni).

 

Lo sforzo dei comuni per garantire il voto Bilanci dei comuni

Lo sforzo dei comuni per garantire il voto Bilanci dei comuni

Anche nelle recenti elezioni politiche le amministrazioni locali hanno avuto un ruolo logistico importante, mettendo in campo risorse che vengono contabilizzate nei bilanci.

 

Com’è noto, i comuni sono al centro delle attività di gestione operativa di elezioni e referendum. Lo abbiamo visto anche nel recente appuntamento elettorale. Il lavoro delle amministrazioni per garantire il diritto al voto consiste nell’assicurare la funzionalità dei seggi e la correttezza di tutte le operazioni, con uscite che vengono poi iscritte a bilancio nella sezione dedicata ai registri anagrafici.

Le elezioni sono un momento importante per la vita politica della comunità. Secondo Istat infatti, nel 2021 il 30% degli italiani con più di 14 anni di età si è informato quotidianamente per prepararsi al voto. Il mezzo più utilizzato è la televisione (89,4%) a cui seguono radio (30%) e quotidiani (27,7%). Per quel che riguarda invece la partecipazione a occasioni più interattive, l’ascolto di un dibattito pubblico è l’attività più svolta dai cittadini.

11,7% degli italiani con più di 14 anni di età ha seguito un dibattito politico nell’anno antecedente alla rilevazione (Istat, 2021).

Il dato è in calo di circa 3 punti percentuali rispetto all’anno precedente in cui il valore si assestava al 15%.

La provincia autonoma di Trento è caratterizzata da un maggior numero di persone che hanno ascoltato un dibattito nei dodici mesi precedenti alla data di rilevazione. Si tratta di 15,4 abitanti ogni 100 con le medesime caratteristiche. Seguono Abruzzo (14,9), provincia autonoma di Bolzano (14,4) e Lazio (14,4). I valori più bassi sono invece stati rilevati per Veneto (9,7), Basilicata (9,7) e Sicilia (9).

Per permettere quindi a tutti i cittadini di poter esercitare i loro diritti, i comuni si occupano dell’organizzazione e della gestione dei seggi con uscite che vengono inserite all’interno dei bilanci.

Le uscite per le elezioni politiche, le consultazioni popolari e l’anagrafe

All’interno della prima missione di spesa, si trova una sottovoce dedicata a uscite legate alle elezioni e alle consultazioni popolari. Comprende le spese per i servizi di aggiornamento delle liste elettorali e quelle dedicate ai certificati di iscrizione, nonché l’aggiornamento degli albi del presidente di seggio e degli scrutatori.

In questa voce si inseriscono anche le uscite per l’anagrafe.

Sono incluse anche all’interno di questa voce tutte le spese dedicate ai servizi forniti dall’ufficio dell’anagrafe. Si parla di tutto ciò che riguarda l’aggiornamento dei registri della popolazione residente e dell’Aire, il registro dedicato agli italiani residenti all’estero. Inoltre, si includono anche le spese per tutti gli atti che possono essere rilasciati dall’ufficio, come ad esempio certificati di nascita, di morte e di matrimonio.

È Messina la grande città che registra la spesa più alta, pari a 28,3 euro pro capite di uscita. Fanno seguito Venezia (23,8), Bologna (21,73) e Padova (20,34). Spendono invece di meno Trieste (11,68), Palermo (9,8) e Napoli (6,51).

Il comune di Messina ha riportato una spesa sistematicamente maggiore rispetto alle altre città considerate. Il picco di spesa è stato registrato nel 2018 (35,22 euro pro capite). In generale, le città riportano degli andamenti di spesa molto simili. Rispetto al 2016, l’amministrazione che riporta l’aumento maggiore delle uscite è Padova (31,88%) seguita da Venezia (18,12%) e Messina (8,77%). La riduzione più ampia invece è stata calcolata per Torino (-29,16%) ma anche Bologna riporta un calo di spesa più modesto (-2,7%).

Andando invece ad analizzare il dato nazionale, la spesa media dei comuni italiani per questa voce è pari a 25,62 euro pro capite. Spendono di più le amministrazioni dei territori autonomi della Valle d’Aosta (77,59), della provincia di Trento (43,87) e di Bolzano (38,64). I comuni veneti (20,29 euro pro capite), lombardi (20,19) e pugliesi (16,34) sono caratterizzati invece dagli importi medi minori.

Carapelle Calvisio, un piccolo comune in provincia dell’Aquila, è l’amministrazione che spende di più per questa voce di spesa, con 645,49 euro pro capite. Seguono Rhemes-Notre-Dame (Aosta, 625,97), Monteferrante (Chieti, 482,01) e Rocca Canterano (Roma, 480,37).

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto: comune di Biella

 

Il ruolo degli anziani e le differenze generazionali nella povertà #conibambini

Il ruolo degli anziani e le differenze generazionali nella povertà #conibambini

In un paese che sta progressivamente invecchiando, le persone anziane rappresentano spesso anche una vera e propria forma di welfare familiare. Un contributo fondamentale che in tanti casi supplisce alla carenza di servizi, specialmente in alcune aree del paese.

 

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Negli ultimi anni si sono susseguite diverse crisi economiche e sociali. A partire dalla grande recessione del 2008 cui è seguita, all’inizio del decennio scorso, l’emergenza dei debiti sovrani. L’ultimo biennio, infine, è stato segnato dalla pandemia e dal ritorno dell’inflazione.

+ 1 milione di persone in povertà assoluta tra 2019 e 2020.

Una successione di eventi che ha inciso su un tessuto sociale provato, come reso evidente anche dall’aumento dei poveri assoluti, ormai 5,6 milioni.

Il contributo degli anziani in una fase storica difficile

Queste crisi hanno progressivamente allargato i divari generazionalisono soprattutto bambini e ragazzi, con le loro famiglie, a trovarsi più spesso in condizione di indigenza.

Nel quadro appena tratteggiato, è spesso emerso il contributo degli anziani, che – specie negli anni di crisi – in molti casi si sono trovati a sostenere le famiglie di figli e nipoti. Tanto nell’accudimento dei minori, quanto purtroppo anche sul versante del sostegno economico, di fronte a una difficoltà crescente dei nuclei con bambini a carico.

Il ruolo degli anziani ha perciò spesso supplito a ritardi di lungo periodo del nostro paese. Come la storica debolezza dei servizi per l’infanzia e delle misure di supporto alla genitorialità, a fronte dell’aumento dei divari economici tra le generazioni. In un paese in cui – anche per queste carenze – sono sempre meno i nuovi e nati e la popolazione invecchia progressivamente.

Il progressivo invecchiamento della popolazione italiana

Nel 2030 i residenti in Italia con meno di 14 anni potrebbero essere 6,4 milioni, in base allo scenario mediano di previsione formulato da Istat. Un calo del 16,8% rispetto ai 7,7 milioni 2020. In parallelo, le persone con almeno 80 anni probabilmente supereranno per la prima volta i 5 milioni: il 14,6% in più rispetto a quanto rilevato nel 2020 (4,4 milioni).

La quota di anziani sarà più elevata soprattutto nel centro-nord.

Nell’arco di un decennio, la quota di popolazione anziana passerebbe così dal rappresentare il 7,4% dei residenti al 8,7%. Una tendenza comune all’intero paese, sebbene con intensità diverse sui singoli territori. Nelle province di Savona, Terni e nella città metropolitana di Genova potrebbero superare l’11% nell’arco del decennio. Raggiungerebbero la doppia cifra anche altre 20 province: Oristano, Grosseto, Biella, Trieste, Livorno, Imperia, Sud Sardegna, Udine, La Spezia, Massa-Carrara, Ferrara, Verbano-Cusio-Ossola, Firenze, Belluno, Siena, Arezzo, Nuoro, Gorizia, Pistoia e Perugia.

A fronte di un aumento medio di circa il 15% nel numero di anziani, il centro-sud vedrebbe gli incrementi più consistenti: +41,65% a Cagliari tra 2020 e 2030, +35,52% nella città metropolitana di Napoli, +31% a Latina e Sassari, +30% nel casertano. Tuttavia, partendo da un livello più basso, l’incidenza delle persone con almeno 80 anni continuerebbe ad essere più contenuta nel mezzogiorno. In particolare nelle province di Caserta (6,3% della popolazione) e nelle città metropolitane di Napoli (6,5%) e Catania (7,2%).

L’incidenza degli anziani in Italia

La popolazione con oltre 80 anni rappresenta oggi il 6,5% dei residenti in Italia: poco meno di 4 milioni di persone. Con un’incidenza variabile sul territorio nazionale, tra nord e sud ma soprattutto tra centri maggiori e aree interne.

Approfondendo l’analisi a livello comunale, infatti, emerge come i territori più soggetti all’invecchiamento siano quelli maggiormente periferici, più distanti dalle città polo, baricentriche in termini di servizi.

Tra i comuni polo, la quota mediana di anziani è pari al 6,86%. Dato che scende al 5,95% in quelli cintura, ovvero gli hinterland delle città principali. Per poi risalire sopra l’8% nelle aree più interne, come i comuni periferici (dato mediano 8,25%) e quelli ultraperiferici (8,72%).

Trend che ci ricordano, da un lato, lo spostamento delle famiglie con figli nelle corone urbane che circondano le città maggiori, spesso anche in ragione dei costi delle abitazioni. Dall’altro, il progressivo invecchiamento e spopolamento di una parte d’Italia, quella più interna.

 

Il ruolo del presidente della repubblica nella nomina del governo

Il ruolo del presidente della repubblica nella nomina del governo

Il percorso delle consultazioni con i partiti, l’incarico del presidente del consiglio e la nomina del governo.

Definizioni

Con la costituzione del 1948 l’italia si è dotata di una forma di governo parlamentare, questo implica che alle elezioni viene eletto il parlamento e non il presidente del consiglio, che invece è nominato dal presidente della repubblica.

Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.

Quello del presidente però non è un potere discrezionale. Il governo infatti per assumere i suoi poteri deve ottenere la fiducia del parlamento.

1. Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. […]
3. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.

Quindi nello scegliere il presidente del consiglio designato (cioè che non ha ancora avuto la fiducia del parlamento), il capo dello stato deve identificare una figura che ritiene possa ottenere la fiducia del parlamento.

In realtà non è solo il presidente del consiglio a dover ottenere la fiducia ma tutto il governo. Secondo la carta il capo dello stato nomina i ministri su proposta del presidente del consiglio. La scelta del termine ha un chiaro significato. Anche se l’iniziativa è del presidente del consiglio, l’inquilino del Quirinale non si limita ad accoglierla passivamente, e mantiene anche su in questo passaggio un ruolo molto importante.

Per arrivare alla nomina del governo, che dovrà presentarsi alla camere per ottenere la fiducia, il presidente avvia le consultazioni con i partiti. Queste, se pur non previste dalla carta, costituiscono ormai una consolidata e irrinunciabile prassi costituzionale. Il numero delle consultazioni e la loro durata è variata nel tempo a seconda del contesto politico. In ogni caso alcune consultazioni possono essere considerate obbligate, ovvero quelle riguardanti i colloqui con:

  • i capi dei gruppi parlamentari
  • i presidenti di camera e senato.

A questi si aggiungono i rappresentanti delle coalizioni, se queste sono presenti e chiaramente definite, gli ex presidenti della repubblica, i capi delle componenti del gruppo misto e le minoranze linguistiche.

Anche se non previsto dalla costituzione, se le consultazioni non hanno portato a un’indicazione chiara, il presidente della repubblica può conferire un mandato esplorativo. È quello che è successo ad esempio nel 2018 quando, di fronte a un panorama politico frammentato, il presidente Mattarella conferì il mandato esplorativo a Carlo Cottarelli.

In ogni caso quando il capo dello stato conferisce l’incarico vero e proprio la persona designata di solito accetta con riserva. A questo punto dopo brevi consultazioni con i gruppi politici che dovrebbero comporre la maggioranza, il premier designato ritorna al Quirinale per sciogliere, in maniera positiva o negativa, la riserva.

Fatto questo si procede con i decreti di nomina e quindi con il giuramento che deve essere compiuto dal presidente del consiglio incaricato e dai ministri:

Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione

Dati

Da quando è in vigore la costituzione sono stati nominati 64 governi. Nella gran parte dei casi il presidente del consiglio è stato espressione del partito che in parlamento aveva la maggioranza relativa.

Durante la seconda repubblica di norma il premier era espressione della coalizione che aveva ottenuto la maggioranza assoluta in parlamento.

Anche in questa fase però è capitato, a seguito di crisi parlamentari, che venisse nominato presidente del consiglio una personalità tecnica o comunque indipendente dai partiti.

Ci sono poi anche 5 casi in cui il presidente del consiglio è stato espressione di una forza minoritaria in parlamento. Si tratta dei due governi Spadolini, dei due governi Craxi e del primo governo Amato.

Analisi

A seconda della fase politica la nomina del presidente del consiglio da parte del capo dello stato può essere una scelta pressoché obbligata oppure in qualche misura discrezionale.

Se in parlamento è presente una maggioranza che esprime una chiara indicazione, i margini entro cui si muove il capo dello stato si riducono fino a quasi annullarsi. È quello che accadeva solitamente durante la seconda repubblica, quando alle elezioni le coalizioni si presentavano con un candidato premier comune e i risultati restituivano maggioranze più o meno chiare in parlamento.

L’estremo opposto è quello in cui la scelta del presidente avviene senza che i partiti abbiano fornito un’indicazione specifica, come è avvenuto nei casi dei governi Monti e Draghi. Bisogna ricordare comunque che un’ipotesi del genere è stata possibile solo perché le forze parlamentari non sono state in grado di esprimere un proprio candidato, e comunque hanno accettato la scelta presidenziale prima nelle consultazioni e poi votando la fiducia in parlamento.

In tutti i casi che si pongono tra questi due estremi la scelta del presidente deriva dalle informazioni che i partiti gli forniscono nel corso delle consultazioni. È bene chiarire che non esiste nessun obbligo costituzionale o di prassi che imponga al presidente della repubblica di fornire l’incarico vuoi al leader del primo partito, vuoi al leader della prima coalizione, anche se ovviamente questa è l’ipotesi più probabile. Si tenga presente infatti che quando Spadolini ricevette l’incarico il partito repubblicano italiano (Pri), di cui era il leader, aveva appena 16 seggi alla camera e 6 al senato. Questo fu possibile perché i membri della maggioranza che gli votò la fiducia si espressero favorevolmente sul suo nome, nonostante i modesti numeri parlamentari.

 

Come si elegge il presidente del senato

Come si elegge il presidente del senato

Per essere eletto deve avere il voto della metà più uno dei membri del senato. Se nessuno arriva a questa soglia nella prima e nella seconda votazione, al terzo scrutinio basta la maggioranza assoluta dei voti dei presenti. Se ancora nessuno raggiunge il quorum, si va al ballottaggio tra i due candidati più votati e basta un voto in più per prevalere. In caso di parità, diventa presidente il candidato più anziano di età.

Definizione

L’elezione del presidente del senato è uno dei primi punti all’ordine del giorno quando si apre la legislatura. Solo un senatore in carica può diventare presidente. È la seconda carica dello stato dopo il presidente della repubblica: in caso di impedimento o morte del capo dello stato ne svolge le funzioni. Il suo compito è regolare i lavori dell’aula, una funzione di garanzia che – proprio come per il suo omologo alla camera – richiede grande autorevolezza sia nella maggioranza che nell’opposizione. Come alla camera viene eletto a scrutinio segreto, ma l’iter da regolamento è diverso:

  • nella prima votazione (e nella seconda, se necessaria) serve la maggioranza dei membri del senato per essere eletto presidente;
  • nella terza votazione (da tenersi il giorno successivo alle precedenti) basta la maggioranza assoluta dei voti dei presenti (le schede bianche contano come voti validi);
  • se anche in questo caso nessuno raggiunge il quorum, nella quarta votazione si procede al ballottaggio fra i due candidati più votati nel terzo scrutinio. In caso di parità, diventa presidente del senato il candidato più anziano di età.

Quindi mentre alla camera in caso di stallo si procede a oltranza, al senato la quarta votazione è sempre risolutiva.

Dati

A differenza della camera, il presidente del senato è stato quasi sempre un esponente della maggioranza parlamentare. Ciò non significa che venisse meno l’autonomia di questa carica dalla maggioranza di governo contingente. Tra il 1948 e il 1953 la carica venne ricoperta da senatori dei partiti laici alleati con la Democrazia cristiana. Nei 14 anni successivi, tra il 1953 e il 1967, la seconda carica dello stato è stata ricoperta ininterrottamente da Cesare Merzagora, indipendente eletto con la Dc e nel ’63 nominato senatore a vita. Anche successivamente, fino al 1987, la guida del senato è stata ricoperta da eletti con la Dc, il partito di maggioranza relativa. In questi primi 40 anni di storia repubblicana il presidente del senato era comunque sempre eletto al primo scrutinio, in diversi casi con maggioranze molto più ampie del quorum stabilito. Ciò è particolarmente vero tra gli anni ’70 e ’80, quando la guida dell’altro ramo era assegnata all’opposizione. Ma anche in precedenza il nome scelto poteva essere frutto di un accordo ampio tra le forze politiche. Enrico De Nicola venne eletto nel 1951 con il 93% dei voti, Cesare Merzagora nel 1963 con il 75%.

Nel 1987 si è interrotta la consuetudine che voleva il presidente sempre eletto al primo scrutinio. Da allora, su 9 elezioni che si sono tenute, in 6 casi la votazione ha dovuto essere ripetuta per raggiungere il risultato. In 2 occasioni solo il ballottaggio al quarto scrutinio ha sbloccato la situazione. Si tratta dell’elezione di Scognamiglio (Fi) nel 1994, candidato di centrodestra eletto con 162 voti contro i 161 raccolti nel centrosinistra da Spadolini. E poi di quella di Pietro Grasso (Pd) nel 2013, candidato di centrosinistra eletto con 137 voti contro i 117 del candidato di centrodestra Schifani. Quest’ultima è stata l’elezione con la più bassa maggioranza nella storia del senato repubblicano (44%), dato l’alto numero di schede bianche e nulle (59 in totale). Un caso particolare è quello avvenuto nel 2018. In questa occasione infatti non fu necessario arrivare al ballottaggio ma fu eletta come presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, esponente di Forza Italia (75,2% dei presenti e votanti). A questo nome a cui si arrivò a seguito di una trattativa tra la coalizione di centrodestra e il Movimento 5 stelle, forza maggiormente rappresentata in senato. Paradossalmente, a seguito della nascita del governo giallo-verde composto da Lega e M5s, il senato si ritrovò per la prima volta nella sua storia con una presidente espressione di una partito di opposizione.

Analisi

Dalla nascita della repubblica alla fine degli anni ’80 sulla presidenza del senato spesso convergeva un consenso più largo della sola maggioranza di governo. Per gran parte di questo periodo il presidente era un esponente del partito di maggioranza relativa (Dc). Anche nella seconda repubblica la carica è stata affidata generalmente ad un membro del partito di maggioranza relativa. Ma in diverse occasioni è venuta meno la logica consensuale che aveva caratterizzato la fase precedente. In due occasioni (1994 e 2013) l’elezione del presidente del senato si è risolta in uno scontro frontale tra i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra per far prevalere il proprio candidato nel ballottaggio.

 

Come si elegge il presidente della camera

Come si elegge il presidente della camera

Al primo scrutinio viene eletto il deputato che riceve il voto di almeno due terzi dei membri della camera. Se nessuno raggiunge questa cifra, al secondo e terzo scrutinio il quorum si abbassa a due terzi dei votanti. Se ancora nessuno è eletto, dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta e il voto va avanti a oltranza.

Definizione

L’elezione del presidente della camera è uno dei primi punti all’ordine del giorno della prima seduta di ogni legislatura. Può diventare presidente della camera solo un membro dell’assemblea. Il suo compito principale è regolare i lavori dell’aula, una funzione di garanzia che richiede grande autorevolezza sia nella maggioranza che nell’opposizione. Inoltre è la terza carica dello stato (dopo il presidente della repubblica e il presidente del senato). Perciò il regolamento in vigore prevede che per eleggere il presidente della camera serva una maggioranza rafforzata nelle prime tre votazioni. Viene eletto con voto segreto con questo iter:

  • al primo scrutinio viene eletto il deputato che riceve il voto di almeno due terzi dei membri della camera (la stessa maggioranza che serve per riformare la costituzione senza passare dal referendum popolare);
  • se nessuno viene eletto alla prima votazione, al secondo e terzo scrutinio il quorum si abbassa a due terzi dei votanti (le schede bianche contano come voti validi);
  • se anche in questo caso nessuno viene eletto, dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta dei voti, e il voto va avanti a oltranza.

Dati

Fino al 1971 non erano previsti quorum così elevati. Al primo scrutinio serviva la maggioranza assoluta dei membri, al secondo quella dei presenti, al terzo si andava al ballottaggio tra i due più votati. Con questo regolamento si sono tenute 7 elezioni, tutte concluse al primo scrutinio. Ciò non impediva che in alcuni casi si realizzassero convergenze trasversali ai gruppi parlamentari. Ad esempio Brunetto Bucciarelli Ducci (Dc) nel 1963 diventò presidente con 546 voti su 587 (93%), incassando il sostegno di quasi tutto l’arco parlamentare. Voto favorevole che anche il maggior partito di opposizione (Pci) giustificò proprio in virtù dell’autorevolezza:

il candidato dava tutte le necessarie garanzie di competenza, di prestigio e di imparzialità

Con questo regolamento senza maggioranze rafforzate, tra il 1948 e il 1971, sono stati eletti 4 presidenti. In 3 casi erano esponenti del partito di maggioranza relativa (Dc), in un caso del Psi (Alessandro Pertini). Erano eletti con maggioranze attorno al 60% dei votanti, salvo Giovanni Gronchi nel 1953 (54%) e il caso già visto di Ducci (93%).

Con la riforma del regolamento, dal 1972 al 1992 (fine della prima repubblica) i presidenti sono stati eletti con maggioranze ampie, pari al 70% o superiori. Il primo eletto con questo sistema è stato Pertini nel 1972, rinnovato per un secondo mandato con l’84% dei voti. Dopo di lui per un lungo periodo la presidenza della camera è stata assegnata al maggior partito di opposizione. Con questa prassi vennero eletti nel 1976 Pietro Ingrao (Pci) con l’80% dei voti, e poi Nilde Iotti (sempre Pci) nel 1979 (69%), nel 1983 (79%) e nel 1987 (73%).

L’ultima presidenza Iotti (1987-1992) è stata anche l’ultima volta in cui un presidente della camera è stato eletto al primo scrutinio. Dopo di lei, nel 1992 Oscar Luigi Scalfaro (deputato Dc, quindi si interrompe la prassi) venne eletto al 4° scrutinio con un risicato 51% dei voti. Diventato presidente della repubblica, fu sostituito alla presidenza della camera da Giorgio Napolitano (deputato Pds e quindi in quel momento all’opposizione), eletto sempre nel 1992 al quinto scrutinio con il 63%.

Con l’avvento della seconda repubblica, nel 1994, è stata eliminata la prassi della presidenza della camera al maggior partito di opposizione. La carica è diventata prerogativa della coalizione di governo, eletta con i voti della sola maggioranza al quarto scrutinio (fa eccezione Violante nel 1996, eletto al terzo scrutinio). Questa logica è stata consolidata con le presidenze di Casini (2001-2006), Bertinotti (2006-2008) e Fini (2008-2013). In tutti e tre i casi si trattava dei leader di uno dei partiti minori della maggioranza di governo, diverso da quello che avrebbe indicato il presidente del consiglio, in una logica di bilanciamento interno alla coalizione vincente.

Questo schema ha retto fino a quando la coalizione arrivata prima poteva vantare anche una maggioranza chiara in parlamento. Nel 2013 la coalizione di centrosinistra guidata da Pierluigi Bersani (Pd) aveva la maggioranza alla camera ma non al senato. Così alla presidenza della camera è andata un’esponente del secondo partito della coalizione (Laura Boldrini, Sel), in perfetta coerenza con la logica maggioritaria della seconda repubblica. Ma poi, non essendo la coalizione di centrosinistra autosufficiente, si è formato un governo di larghe intese, comprendente Pd, Pdl e centristi con Sel all’opposizione. La logica maggioritaria infine è stata confermata in maniera più lineare anche nel 2018, quando sullo scranno più alto di Montecitorio è stato eletto Roberto Fico, esponente del Movimento 5 stelle che era risultato il partito più votato in quelle elezioni.

Analisi

La prima cosa che emerge è l’estrema stabilità di questa carica rispetto alla fragilità degli esecutivi. A fronte dei 64 governi con 31 diversi presidenti del consiglio succedutisi in 18 legislature repubblicane, i presidenti della camera nello stesso periodo sono stati solo 15. Il fatto di durare almeno per l’intera legislatura aumenta l’indipendenza della terza carica dello stato dalle maggioranze contingenti, che possono anche cambiare durante i 5 anni. Questo ruolo super partes è necessario per garantire il corretto svolgimento dei lavori parlamentari, nel rispetto della dialettica maggioranza-opposizione. L’inserimento di quorum rafforzati nel 1971 serviva proprio ad accrescere l’autorevolezza e a dare alla presidenza una base di consenso il più possibile ampia, anche quando ricoperta da un esponente di maggioranza. Dal 1992 è stata abbandonata la prassi dell’elezione al primo scrutinio con una maggioranza costituzionale. La coincidenza di questa carica con quella di capo di un partito della coalizione di governo ha reso il presidente un attore politico a tutto tondo, creando delle frizioni interne alla maggioranza, se non delle vere e proprie crisi istituzionali.

 

Che cosa sono i voti di fiducia

Che cosa sono i voti di fiducia

L’esecutivo può decidere di mettere la fiducia su un disegno di legge, legando il proprio destino a quello del testo. Nasceva per ricompattare la maggioranza in situazioni eccezionali, ma viene sempre più utilizzato per velocizzare il dibattito e assicurare l’approvazione di proposte molto discusse.

Definizione

Nei sistemi parlamentari come il nostro, gli elettori non eleggono direttamente il presidente del consiglio, ma solo i rappresentanti in parlamento; perciò il governo, dopo la nomina da parte del capo di stato, ha bisogno del sostegno di una maggioranza parlamentare per entrare in carica. Questo sostegno si esprime attraverso il voto di fiducia, base del rapporto tra governo e parlamento, e regolato dall‘articolo 94 della costituzione italiana.

Esistono 3 tipi di fiducia: i) su mozioni o risoluzioni, tra cui quelle utilizzate per sancire il sostegno parlamentare alla nascita di ogni nuovo esecutivo; ii) mozioni di sfiducia nei confronti del governo o di singoli ministri; iii) o su specifici progetti di legge considerati decisi per l’attuazione del programma di governo.

Proprio quest’ultima è la tipologia più ricorrente, diventata con il tempo un elemento molto controverso del dibattito parlamentare. Non essendo presente in costituzione, il suo funzionamento è normato dai regolamenti di camera e senato, che ne stabiliscono pure i limiti: «la questione di fiducia non può essere posta su proposte di inchieste parlamentari, modificazioni del regolamento e relative interpretazioni o richiami, autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali, sanzioni disciplinari ed in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno della Camera e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto».

Dati

Nella XVI legislatura (2008-2013) ci sono stati 96 voti di fiducia su disegni di legge, 1,6 al mese. Specialmente durante l’esecutivo Monti lo strumento è stato particolarmente utilizzato, ben 51 volte in 17 mesi di governo, circa 3 volte al mese. Nella XVII legislatura i voti di fiducia su disegni di legge sono stati 108. Mentre durante la XVIII le fiducie sono state 106. Interessante mettere in relazione il numero di fiducie con il totale delle leggi approvate, un modo per capire il reale impatto del fenomeno sulle dinamiche parlamentari. Mettendo insieme i dati degli ultimi 6 governi (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Conte II, Draghi) risulta che più di 1 legge su 4 (il 31% circa) è stata approvata con una voto di fiducia.

Analisi

L’uso massiccio dei voti di fiducia nelle dinamiche di camera e senato è diventato ormai una prassi, con delle conseguenze chiare sulla quantità e qualità del dibattito parlamentare. Questo perché da un lato lo velocizza, specialmente sui decreti legge in scadenza, dall’altro lo limita, legando il destino del testo a quello dell’esecutivo. Come se non bastasse accadde spesso che la fiducia venga messa su un maxi emendamento del governo. In situazioni in cui il dibattito in commissione o in aula modifica la proposta del governo, l’esecutivo può decidere di rivoluzionare il testo modificato da deputati e senatori presentando un maxi emendamento a completa sostituzione del disegno di legge, su cui pone la fiducia.