Archivi giornalieri: 8 ottobre 2022

Il Pnrr e le difficoltà degli enti locali #OpenPNRR

Il Pnrr e le difficoltà degli enti locali #OpenPNRR

Uno dei principali obiettivi del Pnrr è quello di ridurre i divari territoriali. Ma, tra carenze di personale negli enti locali e ritardi, la distanza rischia invece di acuirsi ancora di più.

 

Con le dimissioni del governo Draghi e le conseguenti elezioni svoltesi lo scorso 25 settembre, il processo di attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) potrebbe subire dei rallentamenti. A maggior ragione se il nuovo esecutivo vorrà provare a ridiscutere con Bruxelles alcuni aspetti del piano.

Questo, a cascata, potrebbe comportare delle difficoltà ancora maggiori per quegli enti locali che oggi sono chiamati a dare attuazione ad alcuni degli investimenti del piano. Abbiamo già raccontato infatti come siano proprio i comuni, specie quelli del meridione, ad essere più in difficoltà non solo nel portare avanti i progetti ma anche nel presentare delle proposte ammissibili ai finanziamenti. Tra i casi eclatanti più recenti in questo senso c’è quello del comune di Palermo, che non è stato in grado di presentare proposte nell’ambito dei bandi dedicati alla realizzazione di nuovi impianti per la gestione dei rifiuti.

€ 40 mld le risorse complessive del Pnrr affidate alla diretta gestione di comuni e città metropolitane (fonte: Anci).

I motivi di queste difficoltà possono essere molteplici ma una delle cause principali è la carenza di personale e di competenze adeguate in queste realtà. Mancanze che sono da imputare a disparità e ritardi che caratterizzano storicamente i territori del mezzogiorno e ai quali lo stato non è mai riuscito a porre rimedio in modo efficace.

Se tali lacune non saranno colmate, non solo i progetti ammessi a finanziamento in questi territori rischiano di non concludersi nei tempi previsti. Ma si rischia anche che il Pnrr, anziché ridurli, contribuisca ad acuire i divari tra quei territori che già oggi sono più efficienti e il resto del paese.

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La difficoltà degli enti locali nel presentare progetti

In questo quadro si inserisce poi il modello adottato per la selezione dei progetti da finanziare. Un modello che privilegia la competizione tra territori anziché l’adozione di politiche perequative. La quantità di passaggi burocratici a cui adempiere e la complessità della documentazione da fornire infatti, in alcuni casi può anche scoraggiare gli enti locali meno efficienti. Che rinunciano perfino all’invio delle candidature.

Mettere in competizione gli enti locali ha allontanato il Pnrr dal rispetto del criterio perequativo che avrebbe dovuto orientare la distribuzione territoriale delle risorse disponibili per andare incontro all’obiettivo di riequilibrio territoriale.

La conseguenza di questa dinamica è che gli enti locali che rischiano di rimanere esclusi dal riparto dei fondi del Pnrr sono proprio quelli che ne avrebbero maggiormente bisogno. Parliamo generalmente di piccoli centri che si trovano nel mezzogiorno o nelle aree interne del paese. Ma anche di città maggiori, che talvolta sono incappate nelle stesse difficoltà. Per evitare che ciò avvenga è stata introdotta la clausola che imponeva ai ministeri e agli altri soggetti responsabili di destinare almeno il 40% delle risorse al mezzogiorno. Abbiamo raccontato però che in moltissimi casi tale quota non è stata rispettata. Questo perché spesso dai territori non è stato presentato un numero sufficiente di domande.

E poiché mancano nel Pnrr meccanismi di salvaguardia della quota, quando questo si verifica sta alla singola organizzazione titolare decidere come procedere. Molti ministeri in questi casi hanno semplicemente deciso di far scorrere le graduatorie, scendendo sotto la soglia del 40%.

Da notare peraltro che una relazione pubblicata recentemente dall’associazione nazionale comuni italiani (Anci) sottolinea come le risorse del Pnrr non possano essere utilizzate per colmare le lacune di personale. Per ovviare a questi problemi il governo ha varato una serie di iniziative per supportare gli enti locali. Tuttavia questi accorgimenti, almeno sinora, non sembrano essere stati in grado di risolvere le criticità.

Il rischio di ritardi

Le difficoltà inoltre non si esauriscono neanche nei casi in cui gli enti locali riescano a intercettare i fondi. In particolare si sollevano dubbi sulla loro capacità di portare le opere a compimento entro i tempi previsti. Si tratta di un elemento fondamentale per non rischiare di perdere i fondi europei. Su questo aspetto è un rapporto dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno (Svimez) a fornire una panoramica preoccupante, soprattutto per il sud del paese.

Svimez ha analizzato la banca dati delle opere pubbliche relative a interventi infrastrutturali realizzati dai comuni (escluse le città metropolitane) nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021. Concentrandosi in particolare sulla realizzazione delle opere per infrastrutture sociali. Non solo perché è il settore in cui è stato realizzato il maggior numero di interventi (circa il 49,6% del totale) ma anche perché si tratta di un ambito di fondamentale importanza per raggiungere gli obiettivi di coesione territoriale previsti dal Pnrr.

Secondo Svimez, molti giorni di ritardo si accumulano durante l’esecuzione delle opere.

Considerando un dato medio nazionale di 1.007 giorni per il completamento di un’opera in questo ambito, dalla relazione di Svimez emerge una enorme differenza nei tempi di realizzazione tra il nord e il sud del paese. I comuni del mezzogiorno infatti impiegano mediamente circa 450 giorni in più per portare a compimento la realizzazione delle infrastrutture sociali. Il report evidenzia inoltre come oltre 300 giorni di ritardo si accumulino nella fase di cantierizzazione (esecuzione). Se già a livello di progettazione si incontrano delle difficoltà quindi, non è improbabile che queste possano addirittura aggravarsi nel momento della messa in opera dei cantieri.

Se non si riuscissero a trovare soluzioni rapide per rendere più efficiente la macchina amministrativa necessaria all’affidamento dell’appalto, all’apertura del cantiere e alla realizzazione dei lavori, i tempi estremamente stretti per portare a conclusione le opere nel rispetto del termine ultimo di rendicontazione fissato per il 31 agosto 2026.

Considerando questi dati, Svimez si spinge ad osservare che i cantieri al sud dovrebbero essere avviati al massimo entro fine ottobre 2022. Un obiettivo che sembra abbastanza difficile da raggiungere dato che, come vedremo, molti bandi per l’assegnazione delle risorse sono ancora in corso. I tempi per le restanti macro-aree sono un po’ più diluiti: maggio 2023 per il centro e l’estate 2024 per le aree settentrionali.

A questo proposito occorre ricordare che le norme relative all’attuazione del Pnrr prevedono la possibilità per il governo di esercitare dei “poteri sostitutivi” in casi di gravi ritardi nella realizzazione delle opere. Ciò significherebbe sostanzialmente il commissariamento dei cantieri. Un’eventualità che andando avanti nella fase di “messa a terra” dei progetti potrebbe riproporsi spesso.

I bandi per gli enti locali già chiusi e quelli ancora in corso

Vediamo adesso qual è lo stato dell’arte dei bandi riservati in particolare agli enti locali (comuni e città metropolitane). In primo luogo possiamo osservare che si sono già chiusi i bandi relativi a 20 investimenti contenuti nel Pnrr. Da questo punto di vista l’intervento più consistente è quello dedicato agli asili nido e alle scuole dell’infanzia (4,6 miliardi) di competenza del ministero dell’istruzione. Seguono i bandi per i progetti legati alla rigenerazione urbana (3,3 miliardi) e quelli rivolti alle città metropolitane per i piani urbani integrati (2,7 miliardi), entrambi di competenza del ministero dell’interno.

Secondo la relazione dell’Anci invece sono complessivamente 49 i bandi ancora aperti a cui possono partecipare comuni e città metropolitane. Suddividendo tali bandi in base al tema, al primo posto troviamo la transizione ecologica con 12 misure. Seguono digitalizzazioneinclusione sociale e infrastrutture ciascuno con 8 bandi ancora in corso.

Per quanto riguarda invece le risorse da assegnare, notiamo che si parla di circa 58 miliardi di euro. Il dato così elevato è dovuto al fatto che Anci considera anche bandi per circa 9 miliardi che saranno gestiti centralmente dai ministeri della transizione ecologica e dell’agricoltura ma che vedranno i comuni come principali beneficiari. Inoltre, in alcuni casi, i bandi non si rivolgono solamente ai comuni ma anche ad altri soggetti come le regioni, le province e altre realtà territoriali. Fatta questa premessa, possiamo osservare che l’amministrazione titolare che assegnerà l’ammontare più consistente delle risorse con i bandi ancora in corso, è il ministero dell’interno con circa 12,9 miliardi di euro. Seguono il ministero della transizione ecologica (11,9 miliardi) e quello delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (11,3).

Ci sono poi anche altre risorse del Pnrr che vedranno comuni e città metropolitane come diretti beneficiari anche se non in qualità di soggetti attuatori. Questi però non sono stati inseriti nelle tabelle relative ai bandi in corso. Ciò perché tali investimenti riguardano sostanzialmente l’implementazione di una nuova struttura digitale della pubblica amministrazione che sarà gestita centralmente. Si tratta in particolare dei fondi per la piattaforma nazionale digitale dei dati (556 milioni) e per la digitalizzazione degli avvisi pubblici (245 milioni).

La proroga dei bandi, un segno delle difficoltà degli enti locali

Un ultimo elemento che emerge analizzando lo stato di implementazione dei bandi ancora in corso riguarda il fatto che molti di questi sono stati prorogati, anche più di una volta. Dalla relazione di Anci infatti emerge che in 5 casi i soggetti titolari sono stati costretti a rinviare la scadenza degli avvisi.

Molti bandi sono stati prorogati per mancanza di domande.

Il bando per la realizzazione di nuovi impianti di gestione rifiuti e ammodernamento di quelli esistenti avrebbe dovuto chiudersi il 14 febbraio ma la scadenza è stata rinviata di un mese. Allo stesso modo il bando per la forestazione urbana dedicato alle città metropolitane avrebbe dovuto concludersi a fine maggio ma la scadenza è stata prorogata due volte: prima al 14 giugno e successivamente al 21 dello stesso mese. Il 16 maggio inoltre avrebbe dovuto concludersi il bando per la realizzazione delle infrastrutture sociali nelle aree interne ma anche in questo caso la scadenza è stata prorogata di un mese. Addirittura 3 proroghe infine per il bando dedicato alla valorizzazione dei beni confiscati alle mafie. L’avviso pubblico inizialmente prevedeva come scadenza il 24 gennaio. Successivamente prorogata prima al 28 febbraio, poi al 31 marzo e infine al 22 aprile.

Per quanto riguarda invece i bandi per il rafforzamento della mobilità ciclistica, Anci riporta che attualmente le procedure sono interrotte a causa di un “doppio passaggio del decreto di attribuzione delle risorse al Mims, al Mef e in conferenza unificata”.

le misure del Pnrr i cui bandi sono stati prorogati.

Anche tra i bandi che si sono già conclusi si registrano dei casi simili. Quello più eclatante è certamente legato al bando per gli asili nido e per le scuole dell’infanzia. La scadenza iniziale entro cui inviare le candidature infatti era stata fissata al 28 febbraio. Arrivati alla data in questione però, non erano state presentate domande sufficienti a esaurire i fondi stanziati. Per cui la scadenza è stata prorogata fino all’1 aprile. Si è reso poi necessario un ulteriore bando riservato alle regioni del mezzogiorno (con priorità rivolta a Basilicata, Molise e Sicilia) per distribuire gli ultimi 70 milioni di euro che rischiavano di rimanere inutilizzati.

Questi rinvii confermano le difficoltà degli enti locali nel presentare progetti in grado di intercettare le risorse. A vantaggio di territori che si trovano già in situazioni avanzate in tema di infrastrutture e servizi, ma che hanno le competenze necessarie per accedere ai bandi. Tale dinamica rischia di far diventare il Pnrr, se non ben gestito, da strumento per la riduzione delle disuguaglianze a causa del loro inasprimento.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: Anci

 

I divari tra nord e sud nella gestione degli uffici tecnici comunali Bilanci dei comuni

I divari tra nord e sud nella gestione degli uffici tecnici comunali Bilanci dei comuni

L’ufficio tecnico è un organo importante nelle amministrazioni locali, perché si occupa del coordinamento degli investimenti per opere pubbliche ed è centrale anche per l’utilizzo dei fondi del Pnrr.

 

I comuni non si occupano soltanto della gestione di interventi ordinari ma hanno anche delle competenze in materia di realizzazione delle opere pubbliche. Un aspetto cruciale anche all’interno dell’attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza. A livello amministrativo, l’ufficio tecnico è il comparto che si occupa di coordinare gli interventi necessari per i lavori di questo tipo. Le uscite dei comuni per questa voce mostrano però dei divari tra il nord e il sud dell’Italia.

Anche i comuni, infatti, hanno voce in capitolo per quel che riguarda la costruzione di opere di interesse pubblico, per le quali vengono fatti degli investimenti. Per definizione, queste sono uscite che determinano con l’andare avanti del tempo un incremento del patrimonio dell’ente, come ad esempio una nuova struttura. Le amministrazioni possono realizzare questi beni immobili attraverso delle entrate proprie oppure con l’apertura di debito pubblico, al quale i comuni possono fare ricorso solo per questo tipo di spese.

L’andamento della spesa della pubblica amministrazione ha visto un picco rilevante nel 2015 (39,26 miliardi di euro) e una crescita tra 2019 e 2021, fino ad arrivare a 69,14 miliardi di euro. Le uscite delle amministrazioni locali per le opere pubbliche sono però rimaste piuttosto stabili nel tempo, con valori che vanno dai 9,57 miliardi del 2015 ai 12,77 registrati sia nel 2021 che nel 2013. Da notare che dal 2016 il patto di stabilità interno per gli enti locali è stato superato in favore di un processo semplificato: un comune si considera in pareggio nel momento in cui le entrate e le uscite totali riportano un saldo non negativo.

In questo ambito hanno una loro importanza anche i contributi statali e i fondi europei. È questo il caso dei lavori strutturati dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Come abbiamo già analizzato, uno degli obiettivi del Pnrr è l’appianamento dei divari territoriali attraverso dei finanziamenti mirati alla realizzazione e al potenziamento di strutture di pubblica utilità. Una parte di questi investimenti deve essere attuata dagli enti locali, che hanno l’incarico di presentare dei progetti in cui illustrano come verrebbero gestiti i fondi stanziati.

Che si tratti di entrate proprie oppure di finanziamenti a livello extra comunale, la gestione dei progetti avviene nell’amministrazione, a livello di ufficio tecnico. Come risulta evidente dalla gestione locale dei fondi del Pnrr, la mancanza di personale e di qualifiche si sta mostrando un limite nella capacità degli enti locali nel fornire delle proposte di progetto attuabili. Questa è una condizione che colpisce maggiormente i piccoli comuni che non hanno avuto modo di supplire a queste carenze in tempo rispetto alla partenza del piano.

Le spese dei comuni per l’ufficio tecnico

All’interno della prima missione di spesa relativa ai servizi istituzionali, c’è una voce relativa alle uscite per questo particolare ufficio. Sono qui comprese tutte le uscite legate agli atti di autorizzazione come i permessi di costruzione, le attività di vigilanza e controllo legate a questo ambito e le certificazioni di agibilità. Si includono tutte le spese legate alla programmazione e al coordinamento di interventi riguardanti le opere pubbliche e tutte le uscite riguardanti le sedi istituzionali, gli uffici del comune e i monumenti di competenza non classificati come beni artistici e culturali.

Non si comprendono tutte le spese legate alla realizzazione e alla gestione delle suddette opere pubbliche, che vengono inserite nei programmi specifici a seconda dell’ambito considerato.

Se si considerano le uscite delle grandi città, Padova è quella caratterizzata dagli importi maggiori (82,13 euro pro capite). Un valore particolarmente alto rispetto agli altri comuni considerati. Seguono Venezia (49,23), Firenze (46,95) e Genova (45,71). Al contrario, le spese minori sono tutte registrate dalle amministrazioni del sud: Palermo (19,39), Bari (13,43), Messina (8,58) e Napoli (4,43).

Andando invece ad analizzare tutti i comuni italiani nel complesso, la spesa media per questa voce ammonta a 62,97 euro pro capite. Le amministrazioni che mediamente registrano le uscite maggiori sono tutte appartenenti a regioni autonome: Valle d’Aosta (363,48), della Sardegna (108,38) e del Friuli-Venezia Giulia (91,89). In coda si trovano invece i comuni veneti (50,04 euro pro capite), lombardi (39,65) e pugliesi (36,61).

La Valle d’Aosta è la regione in cui i comuni spendono di più per l’ufficio tecnico nonostante nei piccoli comuni possa risultare più complesso portare avanti le attività di questo comparto. Analizziamo quindi nello specifico le spese delle amministrazioni valdostane.

Tutti i comuni riportano una spesa per questa voce. Il capoluogo registra delle uscite pari a 55,56 euro pro capite. Un’uscita inferiore alla media nazionale (62,97) e a quella regionale (363,48). Tra le amministrazioni che spendono di più, quattro registrano importi superiori ai 1.000 euro pro capite. Si tratta di Rhemes-Notre-Dame (2.839,45), Rhemes-Saint-Georges (2.820,46), Saint-Oyen (1.349,69) e Ollomont (1.342,84). Sono comunque tutti comuni in cui la popolazione non supera i 200 abitanti.

Il comune che più di tutti spende per questa voce è L’Aquila con 3.207,09 euro pro capite. Un valore così alto rispetto alla media nazionale potrebbe essere dovuto alle maggiori spese affrontate dall’ufficio tecnico del capoluogo abruzzese motivate dalla ricostruzione post-sisma. Seguono Rhemes-Notre-Dame (Aosta, 2.839,45), Rhemes-Saint-Georges (Aosta, 2.820,46) e Castelsantangelo sul Nera (Macerata, 1.958,27). Sono 14 i piccoli comuni che riportano valori superiori ai 1.000 euro pro capite.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto: Anci

 

Ancora troppo cibo viene sprecato Ambiente

Ancora troppo cibo viene sprecato Ambiente

Lo spreco di cibo è un fenomeno di rilevanza globale, con forti conseguenze ambientali. In Italia si producono molti rifiuti di origine alimentare soprattutto a livello domestico, con un aumento significativo nell’ultimo decennio.

 

Lo spreco alimentare è un fenomeno di ampia portata a livello globale, che comporta significative conseguenze economiche, sociali e ambientali. In particolare, si tratta di una delle fonti principali di inquinamento – secondo l’Unep (United nations evironmental programme), tra l’8% e il 10% di tutte le emissioni di gas serra deriverebbero dal cibo scartato.

Sempre secondo le stime Onu, nel 2019 il 17% del cibo è andato sprecato (l’11% a livello domestico, ovvero dopo la distribuzione e la vendita). Quasi un miliardo di tonnellate di cibo in totale, a fronte di circa 690 milioni di persone che soffrono la fame e di circa 3 miliardi che non possono permettersi una dieta sana. Per questo uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite consiste proprio nel dimezzamento dello spreco alimentare.

By 2030, halve per capita global food waste at the retail and consumer levels and reduce food losses along production and supply chains, including post-harvest losses.

Purtroppo la disponibilità di dati su questo aspetto è limitata e quindi è difficile analizzare il fenomeno da un punto di vista globale. Possiamo però restringere lo sguardo ai paesi dell’Unione europea e all’Italia. Nonostante il più elevato livello di benessere e la maggiore disponibilità di tecnologie per la gestione dei rifiuti, anche in Europa ad oggi lo spreco di cibo è un problema.

I rifiuti alimentari in Europa

La commissione europea si è impegnata per promuovere la riduzione dello spreco di cibo, come parte della generale transizione verso modalità di produzione e consumo maggiormente sostenibili. Si tratta di uno degli obiettivi della strategia Farm to fork.

Per quanto lo spreco di alimenti sia un fenomeno che accomuna tutti i paesi membri, non dappertutto manifesta la stessa entità. La situazione appare anzi fortemente diversificata da paese a paese, anche rispetto al contributo delle attività commerciali e delle singole famiglie.

In Belgio nel 2020 sono stati prodotti quasi 9 milioni di tonnellate di rifiuti di origine animale, vegetale e mista, ovvero 769 chili pro capite. Si tratta del primato europeo. Seguono a breve distanza i Paesi Bassi, con 692 kg pro capite, e vari altri paesi dell’Europa settentrionale, come la Danimarca (259) e l’Austria (245).

Mentre a registrare le cifre più basse è il Portogallo, con appena 31 kg pro capite. Seguono alcuni paesi della parte centrale, orientale e meridionale del continente. Il nostro paese si attesta al di sotto della media Ue (177 kg), con 142. Insieme a Finlandia, Cipro e Lettonia, è l’unico stato membro in cui si producono più rifiuti di origine animale e mista rispetto a quelli di origine vegetale.

È però importante sottolineare che i dati riportati sono riferiti a tutte le attività produttive e commerciali e non soltanto all’ambito domestico. Se guardiamo a quest’ultimo, la situazione cambia.

120 kg di rifiuti di origine vegetale, animale e mista pro capite prodotti a livello domestico in Italia (2020).

L’Italia è il sesto paese in Ue, dopo Danimarca, Austria, Germania, Paesi Bassi e Francia, per produzione di rifiuti alimentari a livello domestico (120). Ben al di sopra della media Ue di 83 kg pro capite.

In particolare, è seconda soltanto ai Paesi Bassi per produzione domestica di rifiuti alimentari di origine animale e mista (87 kg pro capite).

La produzione di rifiuti alimentari in Italia, un problema che fatica a migliorare

Rispetto al 2010, la data in cui Eurostat ha avviato questa rilevazione, in quasi tutti gli stati Ue la produzione di rifiuti di origine alimentare si è incrementata. La variazione più importante si è registrata in Danimarca e a Malta per quanto riguarda i rifiuti di origine animale e mista (rispettivamente + 414% e +392%) e in Grecia e Lettonia per quanto riguarda invece quelli di origine vegetale (+567% e +355%).

In Italia nel complesso si è registrato un lieve calo, dovuto soprattutto alla riduzione degli scarti di origine vegetale (-38,5%). Questo però solo se analizziamo i dati dal 2010, perché a partire dal 2012, l’anno in cui si è registrato il quantitativo di scarti alimentari più basso del decennio, il paese ha riportato un graduale aumento, soprattutto della componente animale e mista.

Dal 2012 il quantitativo di rifiuti di origine alimentare è andando gradualmente aumentando fino al 2020, fino a raggiungere 8,4 milioni di tonnellate. Un calo del 7% quindi se confrontiamo i dati del 2020 con quelli del 2010, ma un aumento del 48% se li confrontiamo con quelli del 2012.

Una cifra che cresce ulteriormente se restringiamo il campo ai rifiuti alimentari prodotti in ambito domestico, passati da circa 4 a oltre 7 milioni di tonnellate nel corso del decennio.

+71,9% i rifiuti di origine alimentare prodotti a livello domestico in Italia, tra il 2010 e il 2020.

L’aumento ha riguardato, in maniera particolare, gli scarti animali e misti, incrementati in questo lasso di tempo del 109%, passando da circa 2,5 a 5,2 milioni di tonnellate. Mentre per quanto concerne i rifiuti vegetali, è stato più contenuto, attestandosi al 16,5%.

 

Foto: Jasmin Sessler – licenza

 

Il ruolo centrale degli insegnanti nella comunità educante #conibambini

Il ruolo centrale degli insegnanti nella comunità educante #conibambini

Qualsiasi politica di contrasto della povertà educativa non può prescindere dal ruolo fondamentale svolto dagli insegnanti. Approfondiamo alcuni aspetti sul profilo e la condizione dei docenti delle scuole italiane, anche nel confronto internazionale.

 
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Gli insegnanti rappresentano una delle figure più importanti nel percorso di crescita dei giovani. Insieme alla famiglia, sono tra gli adulti che trascorrono più tempo con ragazzi e ragazze e che quindi incidono maggiormente sulla loro formazione.

Un ruolo cruciale, da non sottovalutare. Insegnanti appassionati e motivati possono coltivare la curiosità degli studentifar fiorire interessidare concretezza a talenti e aspirazioni. È anche dall’incontro con buoni insegnanti che deriva il percorso futuro di ragazze e ragazzi. Specie per chi alle spalle ha una famiglia che – per motivi economici, culturali o sociali – ha minori possibilità di investire sulla formazione dei figli.

3,4% degli studenti di III media con famiglie a basso status socio-economico-culturale ha raggiunto i migliori risultati nei test Invalsi di italiano (a.s. 2020/21). Tra quelli di status più elevato la quota arriva al 18,6%.

I docenti non sono solo il principale volto della scuola, nella quotidianità di milioni di studenti e delle loro famiglie. Sono anche un perno della comunità educante e di qualsiasi politica di contrasto della povertà educativa. Investire sulla loro capacità e motivazione, valorizzarne le competenze sono quindi aspetti ineludibili.

Elementi su cui può avere un impatto anche il profilo demografico – ad esempio nell’equilibrio tra insegnanti più esperti e le nuove leve – così come la valorizzazione in termini di formazione, salari e percorsi di carriera. Approfondiamo meglio tali aspetti, anche nel confronto internazionale con gli altri paesi europei e Ocse.

Chi sono gli insegnanti italiani

Nell’anno scolastico 2020/21 sono circa 700mila gli insegnanti nelle scuole statali italiane dei diversi ordini e gradi. A questi vanno aggiunti i 184mila docenti per i posti di sostegno. Un dato variabile nei diversi livelli: sono complessivamente 101.710 nella scuola dell’infanzia, quasi 300mila nelle primarie e oltre mezzo milione nelle secondarie di I e II grado.

In media i posti di sostegno rappresentano circa il 20% dell’organico, quota che raggiunge il 23,9% nelle scuole primarie, mentre in quelle dell’infanzia (18,25%) e alle superiori (15,92%) risulta molto più bassa. Gli insegnanti delle scuole statali lavorano con contratti a tempo indeterminato nel 76,6% dei casi, percentuale che varia dall’84,3% delle scuole dell’infanzia al 70,4% delle medie.

Dal punto di vista del profilo demografico, il grado incide in modo massiccio sul genere del docente. Nelle scuole dell’infanzia il 99,17% degli insegnanti sono donne, alle superiori la quota – pur maggioritaria – scende a circa 2/3 del totale.

La sovrarappresentazione delle docenti nei livelli di istruzione primari e pre-primari, che cala fino a diventare minoranza in quelli superiori (ad esempio nelle università), è una tendenza che riguarda numerosi sistemi educativi, anche a livello internazionale. Tuttavia nel nostro paese l’incidenza risulta maggiore, come mostrano piuttosto chiaramente i dati Ocse relativi al 2019.

Nelle scuole primarie e pre-primarie italiane quasi la totalità degli insegnanti è donna, quota che scende al 68% nelle scuole secondarie e al 37,75% nei livelli di istruzione terziari (università e assimilati). Negli altri maggiori paesi Ue la tendenza alla disparità nei percorsi dei docenti, pur presente, è meno marcata.

Se nel nostro paese la quota di donne che insegnano nelle scuole primarie supera il 95%, in Germania scende all’87%, in Francia all’83%. Nei livelli terziari, rispetto 37,75% italiano, la Germania si colloca poco sopra (39,5%), mentre la Francia si avvicina maggiormente alla parità (44,93%).

Un altro aspetto che distingue il nostro sistema educativo da quelli europei è dato dell’età dei docenti. In media gli insegnanti con meno di 35 anni nelle scuole statali italiane rappresentano il 9% del totale. Cifra che sale al 10-12% nelle scuole medie e superiori. Quelli con almeno 45 anni sono quasi il 70% dei docenti; nello specifico oltre un terzo (35%) superano i 54 anni. Soprattutto nelle scuole superiori, dove il dato sfiora il 39% del totale.

Si tratta di cifre che collocano il nostro paese ai vertici nel contesto dei paesi europei e Ocse per anzianità del corpo docente. Nel confronto internazionale, gli insegnanti di almeno 50 anni in Italia nel 2019 erano – rispettivamente – il 58,12% nelle primarie e il 58,56% nelle secondarie. Ben al di sopra del dato tedesco (36 e 42%), francese (23 e 33%) e della stessa media Ocse (32,6 e 37,9%).

Gli insegnanti in Italia e nel confronto internazionale

Oltre al profilo demografico dei docenti, un altro aspetto importante da valutare è quello relativo alla loro condizione effettiva e al percorso di insegnamento.

Uno degli indicatori più utilizzati nel confronto internazionale è il numero di alunni per docente. Da questo punto di vista il nostro paese – in conseguenza anche del forte calo demografico degli ultimi anni – vede un rapporto più basso rispetto alla media Ocse. Sono infatti 11,44 gli alunni per docente alle primarie (media Ocse: 14,5) e 10,93 nelle secondarie (dato Ocse: 13).

Un altro elemento fondamentale del sistema educativo è quello delle retribuzioni e del percorso di carriera degli insegnanti. Aspetti che non riguardano solo la posizione del singolo docente, ma in qualche modo anche l’investimento complessivo che la società destina al mondo sulla formazione.

Retribuzione, prospettiva di aumenti di stipendio in base alla progressione di carriera, potere di acquisto possono darci un’idea più precisa della capacità dei sistemi educativi europei di attrarre i laureati più qualificati e trattenere i migliori insegnanti nella professione docente

In questo senso un indicatore interessante è quello formulato da Ocse, che mette in rapporto il salario medio degli insegnanti delle scuole secondarie inferiori con quello dei lavoratori con istruzione terziaria (persone di 25-64 anni con livello Isced da 5 a 8). Tra paesi considerati, in media, gli stipendi degli insegnanti tendono a essere leggermente inferiori rispetto a quelli dei laureati. A livello Ocse il rapporto è infatti 0,9, e così anche in altri maggiori paesi europei come Francia (0,88) e Inghilterra (0,93); non in Germania dove sono invece lievemente superiori (1,02).

Nel nostro paese il divario con il salario medio dei laureati è più ampio: 0,71 contro una media Ocse di 0,9. Un dato superiore a quello di Stati Uniti (0,63) e Ungheria (0,61) ma inferiore a quello degli altri maggiori paesi Ue già citati.

Un altro segnale che l’investimento sul sistema educativo ha margini di incremento ampi lo si ricava dalla formazione ricevuta dagli insegnanti. In Italia i docenti che hanno completato un programma formativo con contenuti disciplinari, pedagogici e di pratica in classe sono il 57,1% del totale, contro una media Ue del 68,8%. Tra gli insegnanti con meno di 35 anni il dato scende a poco più del 50% (media Ue 75%).

(…) quasi il 70% degli insegnanti in tutta l’Ue riferisce di aver avuto un’istruzione o formazione formale che comprendeva tutte le componenti fondamentali. In circa tre quarti dei sistemi educativi europei, questa percentuale è significativamente al di sopra del livello Ue (…)  Al contrario, in Cechia, Spagna, Francia, Italia, Cipro e Islanda, la percentuale di insegnanti formati in tutti gli elementi fondamentali è al di sotto del livello Ue. In Spagna, Francia e Italia, questa percentuale è inferiore al 60,0%, con la percentuale più bassa in Spagna (41,5%).

Accanto alla formazione offerta agli insegnanti, un altro aspetto fortemente variabile tra i sistemi educativi europei è quello della valutazione. Non tanto di quella a fini disciplinari, che si può attivare nei casi di negligenza professionale, ma di quella ordinaria. Quel processo di monitoraggio che dovrebbe supportare gli insegnanti nel loro lavoro

(…) sostenendo i miglioramenti registrati nel loro lavoro, fornendo valutazioni e feedback costruttivi in merito al loro operato e stabilendo criteri per la promozione e il riconoscimento di coloro che raggiungono risultati significativi

La maggior parte dei paesi prevede un sistema di valutazione degli insegnanti, che può essere previsto con una cadenza regolare (annuale o pluriennale a seconda dei sistemi educativi) oppure attivarsi in circostanze specifiche. È il caso ad esempio del nostro paese, dove la valutazione può avvenire su richiesta del docente, per ricevere un bonus economico sulla base di un piano che può essere definito annualmente dal dirigente scolastico.

GRAFICO
DA SAPERE

La mappa mostra le sole procedure di valutazione ordinarie: non considera quelle disciplinari per scarso rendimento o negligenza professionale. La valutazione degli insegnanti effettuata in circostanze specifiche si riferisce agli insegnanti valutati su loro richiesta, su iniziativa del valutatore o in determinati momenti della loro carriera.

In certi stati la disciplina cambia a seconda della regione. È il caso della Germania, dove alcuni länder non hanno una normativa specifica, mentre una minoranza l’ha resa una pratica regolare; della Spagna, in cui almeno 4 comunità autonome (Castilla-La Mancha, La Rioja, Asturie e Aragona) prevedono valutazioni in circostanze specifiche; del Belgio, dove normative diverse regolano i sistemi educativi delle comunità fiamminga, francofona e tedesca.

 

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Eurydice e Indire
(ultimo aggiornamento: lunedì 1 Marzo 2021)

 

Tra i maggiori paesi europei, anche la Francia prevede che meccanismi di valutazione si attivino solo in circostanze specifiche. In particolare sono previsti dei colloqui (4 in tutto nell’arco professionale) quando il docente raggiunge un certo livello nella scala retributiva. In Germania, così come in Spagna, la disciplina normativa cambia radicalmente tra le diverse autonomie territoriali.

Quanti sono i giovani insegnanti nella scuola italiana

L’equilibrio tra docenti con esperienza consolidata e altri più giovani è uno dei fattori che possono incidere sull’offerta didattica. Come abbiamo visto attraverso i dati Ocse, l’Italia si pone al vertice per anzianità del proprio sistema educativo. Nell’anno scolastico 2020/21 solo il 9% degli insegnanti ha meno di 35 anni. Dato che scende al 2,36% se si considerano solo i docenti con contratto a tempo indeterminato.

Ma come varia questa percentuale sul territorio nazionale? Sono 3 le province in cui la quota di giovani insegnanti supera il 4%. Si tratta di Cuneo, Udine e Brescia – seguite da Prato, Fermo, Ancona Modena, Torino, Forlì-Cesena, Belluno, Pordenone, Macerata, Monza e della Brianza e Lecco. Tutti territori al di sopra del 3,5%.

In 7 province meno dell’1% degli insegnanti con contratto a tempo indeterminato hanno fino a 34 anni. Parliamo nello specifico di Sassari, Messina, Caltanissetta, Catania, Nuoro, Siracusa e Cagliari.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi alla distribuzione degli insegnanti per età sono di fonte ministero dell’istruzione.

Foto: Matteo Della Torre (Flickr) – Licenza

 

La seconda presidente della corte costituzionale Mappe del potere

La seconda presidente della corte costituzionale Mappe del potere

Con la fine del mandato del presidente Giuliano Amato il capo dello stato ha nominato un nuovo giudice alla corte costituzionale, Marco D’Alberti, mentre la corte stessa ha eletto la sua nuova presidente, Silvana Sciarra.

 

Con la fine del mandato del presidente della consulta Giuliano Amato, il capo dello stato Sergio Mattarella ha nominato un nuovo giudice costituzionale. Il plenum per prima cosa ha quindi eletto il suo nuovo presidente e per la seconda volta nella sua storia ha scelto una donna per questo incarico, la giudice Silvana Sciarra.

Un nuovo giudice nel plenum

Lo scorso 15 settembre il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha proceduto alla nomina di Marco D’Alberti quale nuovo giudice costituzionale. L’insediamento del nuovo giudice è poi avvenuto il 20 settembre, 2 giorni dopo la conclusione del mandato del presidente della corte Giuliano Amato.

La corte è composta da 15 giudici. Cinque sono scelti dal presidente della repubblica, 5 dal parlamento, 3 dalla corte di cassazione, 1 dal consiglio di stato e 1 dalla corte dei conti. Vai a “Cos’è la corte costituzionale e di cosa si occupa”

D’Alberti è un giurista molto noto, professore ordinario di diritto amministrativo, tra i diversi incarichi ha ricoperto anche quello di componente di AgCom tra il 1997 il e il 2004. Più di recente invece è stato scelto dal presidente del consiglio Mario Draghi come suo consulente giuridico.

Se si considerano le nomine a giudice costituzionale decise dagli ultimi due presidenti della repubblica, fino a pochi giorni fa si poteva osservare una quasi perfetto equilibrio di genere nelle nomine (4 uomini e 3 donne). Con la nomina di D’Alberti questo equilibrio viene meno anche se il Quirinale resta l’istituzione che ha scelto più di frequente una donna come giudice della consulta.

Certo il presidente pondera le sue scelte considerando molti profili, la maggior parte dei quali nulla hanno a che fare con l’equilibrio di genere. Tuttavia questa sarebbe stata l’occasione rafforzare ulteriormente la presenza femminile all’interno della corte che invece rimane inalterata.

6 su 15 le donne all’interno del plenum della corte costituzionale.

La nomina di Silvana Sciarra

Ciononostante non sono mancate novità positive dal punto di vista del ruolo femminile all’interno della consulta. Lo stesso giorno in cui si è insediato il nuovo giudice Marco D’Alberti infatti, il plenum ha votato come sua nuova presidente Silvana Sciarra, accademica esperta di diritto del lavoro. Prima di lei solo un’altra donna, Marta Cartabia, aveva ricoperto questo delicato incarico che peraltro si colloca a livello gerarchico come quinta carica dello stato.

L’elezione di una donna al ruolo di presidente non appare tuttavia come un fatto inaspettato. È molto frequente infatti che il plenum scelga il proprio presidente tra coloro che in quel momento ricoprono la carica di vice presidenti. E in effetti Sciarra è una dei 3 giudici scelti da Giuliano Amato come suoi vice dopo la sua nomina a presidente lo scorso gennaio.

Ciononostante alcuni commentatori hanno sostenuto che l’elezione di Silvana Sciarra sia stata l’esito di uno scontro all’interno della corte da cui sarebbe risultata sconfitta la candidata del Quirinale. Questo perché al contrario dei suoi due predecessori, che erano stati eletti all’unanimità, Sciarra è diventata presidente con il voto favorevole di 8 componenti su 15, avendo la meglio su Daria de Pretis che era stata nominata giudice proprio dal presidente della repubblica. Tale ricostruzione però è stata duramente smentita dalla corte costituzionale.

8 su 15 i voti ricevuti da Silvana Sciarra per la nomina a presidente della consulta.

Ma al di là delle smentite è utile considerare che un voto non unanime della corte, pur segnalando una valutazione diversa da parte dei suoi componenti, non necessariamente implica una spaccatura interna. Anche perché quale delle due che fosse stata scelta come presidente l’altra non avrebbe comunque più avuto occasione di assumere quel ruolo, visto che il loro mandato di giudici termina quasi nello stesso momento.

Al contrario quando è stata la volta di eleggere sia Giuliano Amato che Giancarlo Coraggio la scelta è ricaduta sui giudici più prossimi alla fine dell’incarico. Quindi almeno in linea teorica la nomina a presidente rimaneva una possibilità per tutti i membri della corte. Inoltre nella storia della corte non mancano certo casi di presidenti eletti non all’unanimità, come ad esempio Mario Rosario Morelli che nel 2020 ottenne 9 voti su 15.

In ogni caso, nella conferenza stampa dopo l’elezione, la nuova presidente ha più volte rimarcato l’importanza della collegialità all’interno della corte, confermando peraltro nel ruolo di vicepresidenti sia Daria de Pretis e Nicolò Zanon.

Sciarra e i suoi predecessori al vertice della consulta

Ma Sciarra non è solo la seconda donna a ricoprire il ruolo di vertice presso la corte, è anche la prima donna ad essere stata eletta giudice delle leggi dal parlamento. Prima di lei infatti solo il Quirinale aveva nominato delle donne a questo incarico. Proprio per questo aumenta la quota di presidenti della corte eletti giudici dal parlamento (15 su 46).

Non si tratta certamente di una novità anche se in effetti è più frequente che arrivino a questo incarico i giudici nominati dal presidente della repubblica.

Per quanto riguarda la durata in carica, la nuova presidente cesserà il proprio mandato a novembre 2023 rimanendo complessivamente in carica per 1 anno e 1 mese. Questo può apparire come un tempo breve, ma si tratta in realtà di una durata maggiore rispetto a quella in cui sono rimasti in carica Giuliano Amato (7 mesi) e Mario Rosario Morelli che ha svolto il ruolo di presidente per appena 3 mesi.

Considerare quella di Sciarra una presidenza “lunga” comunque conferma ancora una volta come a partire dagli anni ’90 si sia accorciata considerevolmente la durata in carica dei presidenti, che in precedenza rimanevano di solito in carica per più di 2 anni.

 

I problemi legati all’abuso della decretazione d’urgenza Verso la XIX legislatura

I problemi legati all’abuso della decretazione d’urgenza Verso la XIX legislatura

L’eccessiva produzione di decreti legge negli ultimi anni ha ingolfato l’agenda delle camere che spesso non sono riuscite a trattarli in tempi utili. Questo ha determinato alcune criticità.

 

Una delle ultime iniziative del governo Draghi è stata l’approvazione del cosiddetto decreto aiuti ter, entrato in vigore lo scorso 24 settembre. Si tratta di un atto particolarmente importante, non solo perché prevede una serie di misure ulteriori per contrastare il caro energia. Ma anche perché in esso sono contenute (dall’articolo 22 al 34) alcune norme volte a velocizzare l’iter di attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Com’è evidente, questo decreto dovrà essere convertito in legge dal prossimo parlamento. Ma i tempi appaiono molto serrati. La prima seduta della XIX legislatura infatti è stata calendarizzata al prossimo 13 ottobre. Ma le camere non saranno immediatamente operative. Prima infatti dovranno essere composti i gruppi e le commissioni parlamentari, nominati i capigruppo, eletti i presidenti di camera e senato. Nel caso di Montecitorio inoltre c’è anche la questione della riforma del regolamento, necessaria per adeguare la camera alla riduzione dei suoi componenti e che deve ancora essere approvata.

I decreti legge hanno effetto immediato, e devono poi essere convertiti in legge dal parlamento entro 60 giorni. Se ciò non avviene, le norme in essi contenute perdono efficacia. Vai a “Che cosa sono i decreti legge”

Se a tutti questi passaggi si aggiunge il fatto che, non appena insediato, il prossimo parlamento dovrà subito mettersi a lavoro sulla legge di bilancio, ecco che i tempi per la conversione del Dl 144/2022 appaiono estremamente ristretti. Per evitare che le norme contenute nel decreto perdano di efficacia è probabile quindi che si decida ancora una volta di ricorrere a una pratica che è stata utilizzata spesso durante i governi Conte II e Draghi. Quella cioè di abrogare il Dl prima della scadenza attraverso un’altra legge di conversione confermandone allo stesso tempo gli effetti.

17 su 62 i decreti legge del governo Draghi non convertiti in tempo dal parlamento.

Tale prassi però, detta dei “decreti minotauro”, è stata spesso biasimata sia dal presidente della repubblica che dal comitato per la legislazione della camera. E tollerata solamente alla luce dell’emergenza Covid prima e degli effetti della guerra in Ucraina successivamente.

Le emergenze e il ricorso ai decreti legge

Il ricorso alla decretazione d’urgenza è giustificato nella misura in cui sia necessario affrontare questioni indifferibili e urgenti. Negli ultimi anni infatti spesso sono stati pubblicati decreti legge per diverse emergenze: dalla siccità agli incendi, dai terremoti alle frane e alle alluvioni. Ma certamente l’emergenza pandemica prima e l’esplosione della guerra in Ucraina successivamente hanno influito in maniera significativa sul ricorso a questo strumento. A partire dal 2 febbraio 2020, data dell’entrata in vigore del primo decreto Covid, infatti i Dl pubblicati sono stati ben 104.

Considerando i due esecutivi che hanno dovuto fronteggiare la pandemia, quello che ha pubblicato il maggior numero di decreti legge è stato il governo Draghi con 62, mentre il secondo esecutivo Conte si ferma a 54. Il governo gialloverde invece, che ha guidato il paese dall’1 giugno 2018 al 4 settembre 2019 – quindi prima dell’esplosione della pandemia – si era fermato a 26 decreti legge pubblicati.

146 i decreti legge pubblicati durante la XVIII legislatura.

Facendo un confronto con gli esecutivi che hanno guidato il paese negli ultimi 15 anni, possiamo osservare che la conversione di decreti è stata spesso la tipologia di legge più approvata dal parlamento. Se si escludono le ratifiche di trattati internazionali (che generalmente hanno uno scarso peso politico) infatti possiamo osservare che il 32,2% delle leggi approvate durante il governo Draghi è una conversione di decreto (47 su 146 leggi totali), del 34,7% durante il Conte II (34 su 99) e del 34,3% durante il Conte I (22 su 69). Il dato più elevato in assoluto è però quello del governo Letta (52,4%).

In passato i governi hanno abusato dei decreti legge per attuare il loro programma.

Dati piuttosto elevati si riscontrano anche durante i governi Berlusconi IV e Monti, entrambi con il 26,5% circa di leggi di conversione approvate rispetto al totale. Da notare che gli ultimi 2 governi risultano ai primi posti se si considera la media di decreti legge pubblicati al mese (3,26 l’esecutivo Draghi, 3,18 il Conte II). Mentre analizzando il numero totale di Dl il più prolifico è stato il Berlusconi IV con 80. Seguono i governi Draghi (62) e Renzi (56). Numeri che confermano come la tendenza a fare massiccio ricorso ai decreti legge fosse presente già prima dell’esplosione della pandemia.

Va rilevato che spesso in passato gli esecutivi hanno fatto ampio ricorso alla decretazione d’urgenza non solo per intervenire in caso di emergenza ma anche per dare una più rapida attuazione al programma di governo (ne abbiamo parlato, ad esempio, in questo articolo). Una pratica però non solo scorretta ma che, se accoppiata con il frequente ricorso alla questione di fiduciariduce in maniera significativa le prerogative del parlamento.

I problemi derivanti dall’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza

L’eccessivo ricorso ai decreti legge comporta anche delle criticità di natura “tecnica”. La proliferazione dei Dl infatti ha l’effetto di saturare l’agenda del parlamento che non solo avrà spazi di manovra ridotti per occuparsi di altri temi ma avrà anche poco tempo per entrare nel merito delle misure adottate con il decreto. Data la necessità di convertire i decreti prima della loro scadenza, spesso il parlamento quindi si è visto costretto a prendere atto delle decisioni già prese a palazzo Chigi.

I decreti minotauro rendono meno chiaro l’iter legislativo e contribuiscono al monocameralismo di fatto.

Ma anche in questo quadro i problemi non mancano. A causa dell’eccessiva produzione normativa del governo infatti le camere negli ultimi anni spesso non sono state in grado di rispettare la scadenza dei 60 giorni. Durante il governo Draghi ad esempio, sono ben 17 i Dl che non sono stati convertiti in tempo. Dato che pone l’esecutivo uscente al primo posto, tra quelli delle ultime legislature, sia per quanto riguarda il numero assoluto di decreti legge non convertiti che per rapporto percentuale rispetto a tutti i decreti legge pubblicati (27,4%). 

Al secondo posto troviamo il governo Conte II (12 decreti legge decaduti, pari al 22,2% del totale). Per quanto riguarda il rapporto percentuale, al terzo posto troviamo l’esecutivo Gentiloni (20%). In valori assoluti invece c’è il governo Berlusconi IV (11).

Cosa succede ai decreti legge non convertiti

Come già anticipato nell’introduzione, per evitare che gli effetti di questi decreti decadano – specie quelli contenenti le misure in chiave anti-Covid – negli ultimi 2 anni è stato fatto frequente ricorso ai cosiddetti “decreti minotauro”. Attraverso un’altra legge (solitamente la conversione di un altro decreto) si dispone l’abrogazione di un Dl in procinto di decadere ma se ne salvano le norme.

Il decreto-legge 7 luglio 2022, n.85, è abrogato. Restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto-legge

Focalizzandoci sull’operato dell’ultimo esecutivo, possiamo osservare che tutti i decreti non convertiti sono stati “salvati” con questo escamotage. In diversi casi addirittura una singola legge ha abrogato più Dl. Si tratta ad esempio delle leggi 87106 e 234 del 2021. Una curiosità riguarda la legge 28/2022 di conversione del cosiddetto decreto Ucraina. In questo caso infatti la stessa legge ha abrogato anche il Dl 16/2022 (Ucraina bis). Evidentemente in questo caso il parlamento, consapevole del fatto che non sarebbe stato in grado di convertire in tempo questo secondo decreto, ha deciso di trattare entrambi gli atti con una singola legge. Convertendo il primo e abrogando (ma facendone salvi gli effetti) il secondo.

Da notare che le vicende degli ultimi decreti sono inevitabilmente legate anche alla campagna elettorale. Il Dl 85/2022 (altro decreto che conteneva importanti misure per l’attuazione del Pnrr) è entrato in vigore il 07 luglio. Avrebbe dovuto quindi essere convertito prima della pausa estiva di agosto. Periodo però nel quale si stava consumando la crisi di governo. Il decreto aiuti bis invece è stato convertito ma non senza polemiche.

Come già anticipato, questa pratica rappresenta una forzatura nell’iter legislativo ed è stata più volte censurata. È stata tollerata negli ultimi anni solo alla luce dell’eccezionalità del periodo che stiamo attraversando. Per questo motivo sarebbe auspicabile che la prossima maggioranza, che verosimilmente dovrebbe godere di numeri solidi in entrambe le camere, si astenga dal ricorrere a questa prassi. A partire dalla conversione del Dl 144/2022 lasciato “in eredità” dalla XVIII legislatura e per cui però i tempi, come abbiamo visto, sono molto stretti.

Foto: palazzo Chigi

 

Le tremila persone morte o disperse lungo le rotte migratorie Migranti

Le tremila persone morte o disperse lungo le rotte migratorie Migranti

Anche nei primi mesi del 2022 è drammatico il numero di migranti che trova la morte. Accade in tutto il mondo, ma il fenomeno è particolarmente rilevante nel mar Mediterraneo. Per arginare sofferenza e morte occorrono nuove politiche pubbliche.

 

Oltre 3mila persone hanno perso la vita, o sono risultate disperse, lungo le rotte migratorie nel mondo, nei primi 8 mesi di quest’anno. Si tratta di un numero spaventoso quanto drammatico, perché riguarda donne, uomini e minori che si avviano in un viaggio già di suo difficile, alla ricerca di una vita migliore.

I dati raccontano che, nonostante in questi anni il numero dei migranti deceduti o dispersi sia calato, occorrono nuove politiche pubbliche rispetto a un fenomeno che continua a determinare sofferenze e morte.

Si muore ovunque, nel Mediterraneo di più

Lo scorso 3 ottobre, sull’isola di Lampedusa, è stato commemorato il nono anniversario del naufragio di un’imbarcazione libica che nel 2013 provocò la morte di 368 persone, quasi tutte di nazionalità etiope ed eritrea. Un episodio che colpì l’opinione pubblica al punto da istituire la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”.

Anche se rispetto agli anni della “crisi europea dei migranti” (2015-2017) c’è stato un calo di morti e dispersi lungo le rotte, sono ancora migliaia le persone che ogni giorno perdono la vita durante il viaggio.

21.082 persone sono risultate morte o disperse lungo le rotte migratorie nel mondo, tra il 2015 e il 2017.

Negli anni della crisi più di 20mila persone avrebbero perso la vita, secondo le stime del progetto “Missing migrants” dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), un’agenzia delle Nazioni unite. L’anno più drammatico è stato il 2016, quando complessivamente si sono registrati 8.084 casi di persone decedute o disperse.

È bene evidenziare che, secondo la stessa ammissione dell’Oim, si tratta di stime al ribasso, poiché molti incidenti non vengono intercettati e quindi registrati.

Come abbiamo accennato, da gennaio ad agosto sono morte o si è perso traccia di 3.044 persone, di cui oltre mille nella rotta che dal nord Africa arriva in Europa o in Medio Oriente attraverso il mar Mediterraneo.

Secondo i dati dell’agenzia Onu, è questa la rotta migratoria più pericolosa del mondo.

Da gennaio ad agosto del 2022, infatti, sono state registrate 310 vittime e 851 dispersi: in totale 1.161 persone. Nella stessa area geografica, ma in Africa settentrionale, nei primi otto mesi dell’anno 450 persone sono decedute o non se ne è più avuta notizia.

Ma ci sono state centinaia di vittime anche in nel nord e centro America, in Asia meridionale e nel mar dei Caraibi.

Oltre agli eventi estremi come la morte, le rotte migratorie sono inoltre molto pericolose per le violenze di cui si può rimanere vittima lungo le frontiere. È il caso della rotta balcanica, di cui abbiamo parlato in un recente approfondimento.

Nel 2022 centinaia di morti e dispersi in mare

Tornando al mar Mediterraneo, che rappresenta la direttrice lungo la quale arrivano la stragrande maggioranza dei migranti nel nostro paese, attraverso i dati di “Missing migrants” è possibile analizzare anche le tendenze, mese per mese, nel numero di morti e dispersi in mare.

Come detto, da inizio anno e fino allo scorso 31 agosto sono stati registrati oltre mille casi di morti o dispersi nelle tre rotte principali del Mediterraneo. Si tratta della direttrice occidentale, che approda nella penisola iberica, quella centrale (che grava soprattutto su Italia e Malta) e quella orientale, che vede la Grecia come principale paese di accesso al continente.

Il mese più drammatico è stato aprile, con 48 vittime accertate e ben 288 dispersi. Una media di quasi 10 persone morte o disperse ogni giorno.

336 persone decedute o disperse nel mar Mediterraneo, nell’aprile 2022, secondo i dati di Oim.

Dal 2016 al 2021 il numero di morti e dispersi è diminuito, passando da 5.136 a 2.048. Questo calo, tuttavia, non è dovuto a condizioni di maggiore sicurezza nell’attraversamento del mare, ma perché – come abbiamo documentato in diverse occasioni – il numero degli sbarchi è sceso vistosamente negli anni.

Non è possibile una piena valutazione dei dati del 2022, in quanto prendono in considerazione solo i primi 8 mesi dell’anno.

L’esigenza di nuove politiche pubbliche

L’elevato tasso di pericolosità delle rotte che vedono protagonisti i migranti in tutto il mondo pone la necessità di trovare soluzioni strutturali volte ad arginare le violenze e la morte durante il viaggio.

Per quanto riguarda l’accesso via mare ai paesi dell’Europa meridionale, è evidente che non è bastata la creazione di una guardia di frontiera e costiera europea, avvenuta nel 2016 a rafforzamento dell’agenzia europea di controllo delle frontiere esterne (Frontex), istituita 12 anni prima.

Il controllo delle frontiere europee e gli accordi con paesi extra-Ue non aumentano la sicurezza, anzi.

In tal senso, non è migliorata la tutela dei diritti dei migranti neanche con gli accordi stipulati negli ultimi anni, come quello tra Ue e Turchia e il memorandum Italia-Libia.

Si tratta di accordi volti più che altro a trattenere i migranti ai confini del continente, con l’effetto (da parte di paesi e istituzioni europee) di ignorare consapevolmente le violenze perpetrate a danni di migliaia di persone arbitrariamente detenute nei campi di prigionia. Condizioni di sofferenza che spingono ancora di più a fuggire, con l’effetto di trovare, talvolta, la morte in mare.

Bisognerebbe essere collettivamente consapevoli che il fenomeno migratorio è costante e per certi versi inarginabile. Occorrerebbe insomma organizzarlo e regolarizzarlo al meglio, per esempio attraverso corridoi umanitari e accordi internazionali tra paesi di partenza e di approdo, affinché possa diminuire la probabilità di morire lungo il viaggio.

Foto: marina militare italiana

 

Santa Pelagia di Antiochia

 

Santa Pelagia di Antiochia


Nome: Santa Pelagia di Antiochia
Titolo: Penitente
Nascita: III Secolo, Antiochia di Siria, Turchia
Morte: III Secolo, Gerusalemme, Israele
Ricorrenza: 8 ottobre
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
La Penitenza di Pelagia, così come la possiamo ricostruire dai manoscritti greci e dalle traduzioni, è un racconto edificante ma assai ben condotto, una specie di resto teatrale (niente di sorprendente trattandosi di un’attrice) la cui azione si svolge dapprima ad Antiochia, terza città dell’Impero romano celebre per la sua ricchezza, i suoi divertimenti e i suoi studenti, per spostarsi in seguito nella città santa di Gerusalemme, sul monte degli Olivi.

Una strana relazione si stabilì tra i due protagonisti, una donna di cattivi costumi e un asceta. Pelagia era un’attrice di mimo, giovane, ricca e bella, che sembrava avere tutto ciò che si poteva desiderare: oro, gioielli, perle (da cui il suo nome d’arte: Margherita, cioè “la Perla”), schiavi, ancelle, amanti in gran numero. Nacque da una famiglia cristiana, e dunque teoricamente catecumeni, non mise mai piede in chiesa. Il vescovo Nonno era invece una figura completamente diversa: dapprima monaco nell’ordine di Tabennesi, la comunità fondata da Pacomio, e poi nel seggio di Eliopoli (Baalbek), una roccaforte del paganesimo che egli aveva appena convertito alla religione di Cristo.

Il racconto avvenne per bocca d’un personaggio secondario, il diacono Giacomo, che parlava in prima persona da testimone oculare. Questo spontaneo confidente, rivelatore inconsapevole del mistero, fu introdotto allo scopo di conferire vivacità e autenticità alla storia.

Alcuni vescovi, riuniti ad Antiochia per un concilio, erano seduti davanti alla cappella dedicata al martire S. Giuliano; ascoltavano Nonno predicare, quand’ecco passare Pelagia, superba, impudica, circondata dal corteo dei suoi “fans”. Tutti, sconvolti, distolsero gli occhi, tranne Nonno che la seguì con lo sguardo e scoppiò in lacrime. Ebbe un colpo di fulmine per Pelagia, sedotto non dalla sua bellezza carnale, ma dallo zelo che essa impiegava nel servire Satana: zelo che umiliava la lentezza con la quale egli progrediva nella via del Signore. Scosso nel profondo del suo essere, si ritirò nella sua cella e trascorse una notte di mortificazione e di penitenza. Il Signore, che fu il vero conduttore dell’azione, gli inviò allora un sogno, una premonizione accurata di ciò che stava per accadere. Nonno si confidò, enigmaticamente, col diacono Giacomo.

Quello stesso giorno, era domenica, la provvidenza fece sì che il vescovo di Antiochia scelga Nonno per commentare il Vangelo nella Grande Chiesa, e che Pelagia vi entri proprio in quel momento. A sua volta fu come colpita dal fulmine, e “versa un torrente di lacrime che non c’era modo alcuno di raffrenare”. La conclusione logica di questa conversione improvvisa e totale fu il battesimo che Pelagia finalmente ricevette. Avviene così che Nonno non voglia ammetterla al sacramento a meno che essa non presenti un garante richiesto allora dalla Chiesa per donne peccatrici. La frustrazione di Pelagia fu tale che essa non esitò a incolpare Nonno di tutto ciò che potrebbe accaderle se fosse ricaduta nel mondo del peccato. L’intervento del vescovo di Antiochia consentì di dirimere la questione: una diaconessa, Donna Romana, sarà madre spirituale per l’attrice e grazie al battesimo poté ritrovare la propria innocenza e il suo vero nome.

Comincò allora un periodo di tre anni che condusse Pelagia dal servizio integrale di Satana a una devozione totale a Dio. Prima tappa: una triplice offensiva del diavolo, manifestamente ispirata al racconto evangelico della Tentazione. Pelagia mise in fuga l’antico padrone e, distribuendo i suoi averi ai poveri, abbandona tutte le ricchezze e tutti i lussi che aveva potuto ottenere tramite il peccato. Al posto di vesti lussuose, tuniche e cilici donate da Nonno, e scomparve nella notte, con grande disperazione di Donna Romana temendo il peggio.

Stessa ingenua incomprensione da parte di Giacomo quando si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme e, su consiglio di Nonno, visitò il santo eremita Pelagio, murato in una cella sul monte degli Olivi. Non riconobbe però in questo eremita emaciato colei che fu la perla di Antiochia, e occorsero la morte di Pelagia e la vestizione funebre perché la verità poté farsi strada: sudo il mondo fu stupefatto, non si poteva nascondere questo esempio di virtù femminile, e un pietoso corteo di asceti di entrambi i sessi condusse Pelagia all’ultima dimora.

Questo racconto, nel corso degli anni, ha subito importanti modifiche. Molti particolari archeologici e liturgici sono scomparsi; i personaggi originari, con i quali il lettore o l’ascoltatore hanno tendenza a identificarsi, vengono ricacciati nell’ombra: il diacono Giacomo, per esempio, da autore e narratore che era, diventa un semplice attore che qualche volta non appare altro che nella scena finale. Il rapporto che unisce il servo di Dio alla serva di Satana non sempre viene compreso: si cerca di edulcorare o di giustificare piattamente la reazione di Nonno al passaggio di Pelagia il dramma spirituale cede il posto al banale resoconto della conversione di una peccatrice come tante altre, e l’economia del racconto ne risulta talvolta sensibilmente modificata: un compendio in antico francese sopprime tutta la seconda parte della storia; una volta che la conversione sia compiuta e sia stata sanzionata dal battesimo, il resto non ha più la minima importanza.

Poesia e verità
Di fronte a questo rigoglio di una leggenda tanto fluida e per così dire viva, è giusto chiedersi se essa poggi su fatti reali. Non è difficile trovarle un precedente, proprio ad Antiochia, ed è possibile che ‘agiografo se ne sia servito, proprio come deve aver derivato il nome di Pelagia da una martire della stessa città, una giovane che alla fine del IV secolo aveva posto fine ai suoi giorni per sfuggire alle soldatesche. Si tratta di un personaggio storico, celebrato da S. Ambrogio. S. Giovanni Crisostomo ha pronunciato su di lei un’omelia che si ritrova talvolta nei manoscritti agiografici, nei quali sostituisce la Vita.

MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Antiochia in Siria, santa Pelagia, vergine e martire, che san Giovanni Crisostomo esaltò con grandi lodi.

STUPORE FUORI LUOGO: Non conoscono la civiltà nuragica!

STUPORE FUORI LUOGO:
non conoscono la civiltà nuragica!
di Francesco Casula
Due studentesse all’esame dimostrano di non conoscere nulla sul periodo nuragico. Bene. Lo trovo normale. Perché mai ci si dovrebbe meravigliare? Dove mai avrebbero dovuta studiarlo?
Certo non a scuola, nei libri scolastici: dove la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi è stata non solo negata ma cancellata, abrasa.
Ma neppure nei Media: dov’è ugualmente dimenticata. Del tutto. O comunque mistificata.

La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia – di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi (soprattutto sardi), poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”.
Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in “l’Ile de Sardaigne” (1861) parla della Sardegna “rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi”. E a proposito dei Nuraghi scrive che si tratta di “rovine”, peraltro insignificanti, perché “resti incontrati vicino al mare in tre o quattro punti” (sic!).
L’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera “The Fhoenician” parlerà della Sardegna come regione sempre retrograda.
Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo.Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. Ma anche la musica delle launeddas
Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli.
La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola “felice” è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati.
Per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Venti mila – secondo il linguista sardo Massimo Pittau – scampati alla distruzione della città-stato di Sardeis in Anatolia, da parte degli invasori Hittiti. Altri arriveranno dalla stessa Troia.

Quirinale

Continua

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