Archivi giornalieri: 5 ottobre 2022

Governo

 

Convocazione del Consiglio dei Ministri n. 97

5 Ottobre 2022

Il Consiglio dei Ministri è convocato oggi, alle ore 16.30 a Palazzo Chigi, per l’esame del seguente ordine del giorno:

  • DECRETO LEGISLATIVO: Adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2019/1020 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, e semplificazione e riordino del relativo sistema di vigilanza del mercato (PRESIDENZA – SVILUPPO ECONOMICO);
  • DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, concernente norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi – ESAME PRELIMINARE (PUBBLICA AMMINISTRAZIONE);
  • LEGGI REGIONALI;
  • VARIE ED EVENTUALI.

I problemi legati all’abuso della decretazione d’urgenza Verso la XIX legislatura

I problemi legati all’abuso della decretazione d’urgenza Verso la XIX legislatura

L’eccessiva produzione di decreti legge negli ultimi anni ha ingolfato l’agenda delle camere che spesso non sono riuscite a trattarli in tempi utili. Questo ha determinato alcune criticità.

 

Una delle ultime iniziative del governo Draghi è stata l’approvazione del cosiddetto decreto aiuti ter, entrato in vigore lo scorso 24 settembre. Si tratta di un atto particolarmente importante, non solo perché prevede una serie di misure ulteriori per contrastare il caro energia. Ma anche perché in esso sono contenute (dall’articolo 22 al 34) alcune norme volte a velocizzare l’iter di attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Com’è evidente, questo decreto dovrà essere convertito in legge dal prossimo parlamento. Ma i tempi appaiono molto serrati. La prima seduta della XIX legislatura infatti è stata calendarizzata al prossimo 13 ottobre. Ma le camere non saranno immediatamente operative. Prima infatti dovranno essere composti i gruppi e le commissioni parlamentari, nominati i capigruppo, eletti i presidenti di camera e senato. Nel caso di Montecitorio inoltre c’è anche la questione della riforma del regolamento, necessaria per adeguare la camera alla riduzione dei suoi componenti e che deve ancora essere approvata.

I decreti legge hanno effetto immediato, e devono poi essere convertiti in legge dal parlamento entro 60 giorni. Se ciò non avviene, le norme in essi contenute perdono efficacia. Vai a “Che cosa sono i decreti legge”

Se a tutti questi passaggi si aggiunge il fatto che, non appena insediato, il prossimo parlamento dovrà subito mettersi a lavoro sulla legge di bilancio, ecco che i tempi per la conversione del Dl 144/2022 appaiono estremamente ristretti. Per evitare che le norme contenute nel decreto perdano di efficacia è probabile quindi che si decida ancora una volta di ricorrere a una pratica che è stata utilizzata spesso durante i governi Conte II e Draghi. Quella cioè di abrogare il Dl prima della scadenza attraverso un’altra legge di conversione confermandone allo stesso tempo gli effetti.

17 su 62 i decreti legge del governo Draghi non convertiti in tempo dal parlamento.

Tale prassi però, detta dei “decreti minotauro”, è stata spesso biasimata sia dal presidente della repubblica che dal comitato per la legislazione della camera. E tollerata solamente alla luce dell’emergenza Covid prima e degli effetti della guerra in Ucraina successivamente.

Le emergenze e il ricorso ai decreti legge

Il ricorso alla decretazione d’urgenza è giustificato nella misura in cui sia necessario affrontare questioni indifferibili e urgenti. Negli ultimi anni infatti spesso sono stati pubblicati decreti legge per diverse emergenze: dalla siccità agli incendi, dai terremoti alle frane e alle alluvioni. Ma certamente l’emergenza pandemica prima e l’esplosione della guerra in Ucraina successivamente hanno influito in maniera significativa sul ricorso a questo strumento. A partire dal 2 febbraio 2020, data dell’entrata in vigore del primo decreto Covid, infatti i Dl pubblicati sono stati ben 104.

Considerando i due esecutivi che hanno dovuto fronteggiare la pandemia, quello che ha pubblicato il maggior numero di decreti legge è stato il governo Draghi con 62, mentre il secondo esecutivo Conte si ferma a 54. Il governo gialloverde invece, che ha guidato il paese dall’1 giugno 2018 al 4 settembre 2019 – quindi prima dell’esplosione della pandemia – si era fermato a 26 decreti legge pubblicati.

146 i decreti legge pubblicati durante la XVIII legislatura.

Facendo un confronto con gli esecutivi che hanno guidato il paese negli ultimi 15 anni, possiamo osservare che la conversione di decreti è stata spesso la tipologia di legge più approvata dal parlamento. Se si escludono le ratifiche di trattati internazionali (che generalmente hanno uno scarso peso politico) infatti possiamo osservare che il 32,2% delle leggi approvate durante il governo Draghi è una conversione di decreto (47 su 146 leggi totali), del 34,7% durante il Conte II (34 su 99) e del 34,3% durante il Conte I (22 su 69). Il dato più elevato in assoluto è però quello del governo Letta (52,4%).

In passato i governi hanno abusato dei decreti legge per attuare il loro programma.

Dati piuttosto elevati si riscontrano anche durante i governi Berlusconi IV e Monti, entrambi con il 26,5% circa di leggi di conversione approvate rispetto al totale. Da notare che gli ultimi 2 governi risultano ai primi posti se si considera la media di decreti legge pubblicati al mese (3,26 l’esecutivo Draghi, 3,18 il Conte II). Mentre analizzando il numero totale di Dl il più prolifico è stato il Berlusconi IV con 80. Seguono i governi Draghi (62) e Renzi (56). Numeri che confermano come la tendenza a fare massiccio ricorso ai decreti legge fosse presente già prima dell’esplosione della pandemia.

Va rilevato che spesso in passato gli esecutivi hanno fatto ampio ricorso alla decretazione d’urgenza non solo per intervenire in caso di emergenza ma anche per dare una più rapida attuazione al programma di governo (ne abbiamo parlato, ad esempio, in questo articolo). Una pratica però non solo scorretta ma che, se accoppiata con il frequente ricorso alla questione di fiduciariduce in maniera significativa le prerogative del parlamento.

I problemi derivanti dall’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza

L’eccessivo ricorso ai decreti legge comporta anche delle criticità di natura “tecnica”. La proliferazione dei Dl infatti ha l’effetto di saturare l’agenda del parlamento che non solo avrà spazi di manovra ridotti per occuparsi di altri temi ma avrà anche poco tempo per entrare nel merito delle misure adottate con il decreto. Data la necessità di convertire i decreti prima della loro scadenza, spesso il parlamento quindi si è visto costretto a prendere atto delle decisioni già prese a palazzo Chigi.

I decreti minotauro rendono meno chiaro l’iter legislativo e contribuiscono al monocameralismo di fatto.

Ma anche in questo quadro i problemi non mancano. A causa dell’eccessiva produzione normativa del governo infatti le camere negli ultimi anni spesso non sono state in grado di rispettare la scadenza dei 60 giorni. Durante il governo Draghi ad esempio, sono ben 17 i Dl che non sono stati convertiti in tempo. Dato che pone l’esecutivo uscente al primo posto, tra quelli delle ultime legislature, sia per quanto riguarda il numero assoluto di decreti legge non convertiti che per rapporto percentuale rispetto a tutti i decreti legge pubblicati (27,4%). 

Al secondo posto troviamo il governo Conte II (12 decreti legge decaduti, pari al 22,2% del totale). Per quanto riguarda il rapporto percentuale, al terzo posto troviamo l’esecutivo Gentiloni (20%). In valori assoluti invece c’è il governo Berlusconi IV (11).

Cosa succede ai decreti legge non convertiti

Come già anticipato nell’introduzione, per evitare che gli effetti di questi decreti decadano – specie quelli contenenti le misure in chiave anti-Covid – negli ultimi 2 anni è stato fatto frequente ricorso ai cosiddetti “decreti minotauro”. Attraverso un’altra legge (solitamente la conversione di un altro decreto) si dispone l’abrogazione di un Dl in procinto di decadere ma se ne salvano le norme.

Il decreto-legge 7 luglio 2022, n.85, è abrogato. Restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto-legge

Focalizzandoci sull’operato dell’ultimo esecutivo, possiamo osservare che tutti i decreti non convertiti sono stati “salvati” con questo escamotage. In diversi casi addirittura una singola legge ha abrogato più Dl. Si tratta ad esempio delle leggi 87106 e 234 del 2021. Una curiosità riguarda la legge 28/2022 di conversione del cosiddetto decreto Ucraina. In questo caso infatti la stessa legge ha abrogato anche il Dl 16/2022 (Ucraina bis). Evidentemente in questo caso il parlamento, consapevole del fatto che non sarebbe stato in grado di convertire in tempo questo secondo decreto, ha deciso di trattare entrambi gli atti con una singola legge. Convertendo il primo e abrogando (ma facendone salvi gli effetti) il secondo.

Da notare che le vicende degli ultimi decreti sono inevitabilmente legate anche alla campagna elettorale. Il Dl 85/2022 (altro decreto che conteneva importanti misure per l’attuazione del Pnrr) è entrato in vigore il 07 luglio. Avrebbe dovuto quindi essere convertito prima della pausa estiva di agosto. Periodo però nel quale si stava consumando la crisi di governo. Il decreto aiuti bis invece è stato convertito ma non senza polemiche.

Come già anticipato, questa pratica rappresenta una forzatura nell’iter legislativo ed è stata più volte censurata. È stata tollerata negli ultimi anni solo alla luce dell’eccezionalità del periodo che stiamo attraversando. Per questo motivo sarebbe auspicabile che la prossima maggioranza, che verosimilmente dovrebbe godere di numeri solidi in entrambe le camere, si astenga dal ricorrere a questa prassi. A partire dalla conversione del Dl 144/2022 lasciato “in eredità” dalla XVIII legislatura e per cui però i tempi, come abbiamo visto, sono molto stretti.

Foto: palazzo Chigi

 

I problemi legati all’abuso della decretazione d’urgenza Verso la XIX legislatura

I problemi legati all’abuso della decretazione d’urgenza Verso la XIX legislatura

L’eccessiva produzione di decreti legge negli ultimi anni ha ingolfato l’agenda delle camere che spesso non sono riuscite a trattarli in tempi utili. Questo ha determinato alcune criticità.

 

Una delle ultime iniziative del governo Draghi è stata l’approvazione del cosiddetto decreto aiuti ter, entrato in vigore lo scorso 24 settembre. Si tratta di un atto particolarmente importante, non solo perché prevede una serie di misure ulteriori per contrastare il caro energia. Ma anche perché in esso sono contenute (dall’articolo 22 al 34) alcune norme volte a velocizzare l’iter di attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Com’è evidente, questo decreto dovrà essere convertito in legge dal prossimo parlamento. Ma i tempi appaiono molto serrati. La prima seduta della XIX legislatura infatti è stata calendarizzata al prossimo 13 ottobre. Ma le camere non saranno immediatamente operative. Prima infatti dovranno essere composti i gruppi e le commissioni parlamentari, nominati i capigruppo, eletti i presidenti di camera e senato. Nel caso di Montecitorio inoltre c’è anche la questione della riforma del regolamento, necessaria per adeguare la camera alla riduzione dei suoi componenti e che deve ancora essere approvata.

I decreti legge hanno effetto immediato, e devono poi essere convertiti in legge dal parlamento entro 60 giorni. Se ciò non avviene, le norme in essi contenute perdono efficacia. Vai a “Che cosa sono i decreti legge”

Se a tutti questi passaggi si aggiunge il fatto che, non appena insediato, il prossimo parlamento dovrà subito mettersi a lavoro sulla legge di bilancio, ecco che i tempi per la conversione del Dl 144/2022 appaiono estremamente ristretti. Per evitare che le norme contenute nel decreto perdano di efficacia è probabile quindi che si decida ancora una volta di ricorrere a una pratica che è stata utilizzata spesso durante i governi Conte II e Draghi. Quella cioè di abrogare il Dl prima della scadenza attraverso un’altra legge di conversione confermandone allo stesso tempo gli effetti.

17 su 62 i decreti legge del governo Draghi non convertiti in tempo dal parlamento.

Tale prassi però, detta dei “decreti minotauro”, è stata spesso biasimata sia dal presidente della repubblica che dal comitato per la legislazione della camera. E tollerata solamente alla luce dell’emergenza Covid prima e degli effetti della guerra in Ucraina successivamente.

Le emergenze e il ricorso ai decreti legge

Il ricorso alla decretazione d’urgenza è giustificato nella misura in cui sia necessario affrontare questioni indifferibili e urgenti. Negli ultimi anni infatti spesso sono stati pubblicati decreti legge per diverse emergenze: dalla siccità agli incendi, dai terremoti alle frane e alle alluvioni. Ma certamente l’emergenza pandemica prima e l’esplosione della guerra in Ucraina successivamente hanno influito in maniera significativa sul ricorso a questo strumento. A partire dal 2 febbraio 2020, data dell’entrata in vigore del primo decreto Covid, infatti i Dl pubblicati sono stati ben 104.

Considerando i due esecutivi che hanno dovuto fronteggiare la pandemia, quello che ha pubblicato il maggior numero di decreti legge è stato il governo Draghi con 62, mentre il secondo esecutivo Conte si ferma a 54. Il governo gialloverde invece, che ha guidato il paese dall’1 giugno 2018 al 4 settembre 2019 – quindi prima dell’esplosione della pandemia – si era fermato a 26 decreti legge pubblicati.

146 i decreti legge pubblicati durante la XVIII legislatura.

Facendo un confronto con gli esecutivi che hanno guidato il paese negli ultimi 15 anni, possiamo osservare che la conversione di decreti è stata spesso la tipologia di legge più approvata dal parlamento. Se si escludono le ratifiche di trattati internazionali (che generalmente hanno uno scarso peso politico) infatti possiamo osservare che il 32,2% delle leggi approvate durante il governo Draghi è una conversione di decreto (47 su 146 leggi totali), del 34,7% durante il Conte II (34 su 99) e del 34,3% durante il Conte I (22 su 69). Il dato più elevato in assoluto è però quello del governo Letta (52,4%).

In passato i governi hanno abusato dei decreti legge per attuare il loro programma.

Dati piuttosto elevati si riscontrano anche durante i governi Berlusconi IV e Monti, entrambi con il 26,5% circa di leggi di conversione approvate rispetto al totale. Da notare che gli ultimi 2 governi risultano ai primi posti se si considera la media di decreti legge pubblicati al mese (3,26 l’esecutivo Draghi, 3,18 il Conte II). Mentre analizzando il numero totale di Dl il più prolifico è stato il Berlusconi IV con 80. Seguono i governi Draghi (62) e Renzi (56). Numeri che confermano come la tendenza a fare massiccio ricorso ai decreti legge fosse presente già prima dell’esplosione della pandemia.

Va rilevato che spesso in passato gli esecutivi hanno fatto ampio ricorso alla decretazione d’urgenza non solo per intervenire in caso di emergenza ma anche per dare una più rapida attuazione al programma di governo (ne abbiamo parlato, ad esempio, in questo articolo). Una pratica però non solo scorretta ma che, se accoppiata con il frequente ricorso alla questione di fiduciariduce in maniera significativa le prerogative del parlamento.

I problemi derivanti dall’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza

L’eccessivo ricorso ai decreti legge comporta anche delle criticità di natura “tecnica”. La proliferazione dei Dl infatti ha l’effetto di saturare l’agenda del parlamento che non solo avrà spazi di manovra ridotti per occuparsi di altri temi ma avrà anche poco tempo per entrare nel merito delle misure adottate con il decreto. Data la necessità di convertire i decreti prima della loro scadenza, spesso il parlamento quindi si è visto costretto a prendere atto delle decisioni già prese a palazzo Chigi.

I decreti minotauro rendono meno chiaro l’iter legislativo e contribuiscono al monocameralismo di fatto.

Ma anche in questo quadro i problemi non mancano. A causa dell’eccessiva produzione normativa del governo infatti le camere negli ultimi anni spesso non sono state in grado di rispettare la scadenza dei 60 giorni. Durante il governo Draghi ad esempio, sono ben 17 i Dl che non sono stati convertiti in tempo. Dato che pone l’esecutivo uscente al primo posto, tra quelli delle ultime legislature, sia per quanto riguarda il numero assoluto di decreti legge non convertiti che per rapporto percentuale rispetto a tutti i decreti legge pubblicati (27,4%). 

Al secondo posto troviamo il governo Conte II (12 decreti legge decaduti, pari al 22,2% del totale). Per quanto riguarda il rapporto percentuale, al terzo posto troviamo l’esecutivo Gentiloni (20%). In valori assoluti invece c’è il governo Berlusconi IV (11).

Cosa succede ai decreti legge non convertiti

Come già anticipato nell’introduzione, per evitare che gli effetti di questi decreti decadano – specie quelli contenenti le misure in chiave anti-Covid – negli ultimi 2 anni è stato fatto frequente ricorso ai cosiddetti “decreti minotauro”. Attraverso un’altra legge (solitamente la conversione di un altro decreto) si dispone l’abrogazione di un Dl in procinto di decadere ma se ne salvano le norme.

Il decreto-legge 7 luglio 2022, n.85, è abrogato. Restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto-legge

Focalizzandoci sull’operato dell’ultimo esecutivo, possiamo osservare che tutti i decreti non convertiti sono stati “salvati” con questo escamotage. In diversi casi addirittura una singola legge ha abrogato più Dl. Si tratta ad esempio delle leggi 87106 e 234 del 2021. Una curiosità riguarda la legge 28/2022 di conversione del cosiddetto decreto Ucraina. In questo caso infatti la stessa legge ha abrogato anche il Dl 16/2022 (Ucraina bis). Evidentemente in questo caso il parlamento, consapevole del fatto che non sarebbe stato in grado di convertire in tempo questo secondo decreto, ha deciso di trattare entrambi gli atti con una singola legge. Convertendo il primo e abrogando (ma facendone salvi gli effetti) il secondo.

Da notare che le vicende degli ultimi decreti sono inevitabilmente legate anche alla campagna elettorale. Il Dl 85/2022 (altro decreto che conteneva importanti misure per l’attuazione del Pnrr) è entrato in vigore il 07 luglio. Avrebbe dovuto quindi essere convertito prima della pausa estiva di agosto. Periodo però nel quale si stava consumando la crisi di governo. Il decreto aiuti bis invece è stato convertito ma non senza polemiche.

Come già anticipato, questa pratica rappresenta una forzatura nell’iter legislativo ed è stata più volte censurata. È stata tollerata negli ultimi anni solo alla luce dell’eccezionalità del periodo che stiamo attraversando. Per questo motivo sarebbe auspicabile che la prossima maggioranza, che verosimilmente dovrebbe godere di numeri solidi in entrambe le camere, si astenga dal ricorrere a questa prassi. A partire dalla conversione del Dl 144/2022 lasciato “in eredità” dalla XVIII legislatura e per cui però i tempi, come abbiamo visto, sono molto stretti.

Foto: palazzo Chigi

 

Quota 100 nel 2024 potrebbe servire riscattando adesso i contributi

Quota 100 nel 2024 potrebbe servire riscattando adesso i contributi

 

Andare in pensione prima, magari sfruttando ancora oggi la quota 100 pur se è scaduta il 31 dicembre 2021 è una possibilità che fa gola a molti lavoratori. Il motivo è semplice, perché la Quota 100 ha lasciato davvero spiazzati i lavoratori che per poco non sono riusciti a centrarla.

Per loro la pensione è slittata anche di 5 anni, perché hanno dovuto virare verso la pensione di vecchiaia ordinaria a 67 anni. Cinque anni di penalizzazione, cioè quello scalone che il governo ha pensato bene di limitare introducendo la Quota 102. Molti esclusi della Quota 100 sono proprio coloro che sono rimasti fortemente penalizzati da queste modifiche normative.

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Per qualcuno, però, le porte della pensione con Quota 100 potrebbero ancora aprirsi. Sfruttando una particolare misura che consente di rendere buoni per la pensione anche gli anni dello studio universitario. Ma come vedremo è una situazione che a molti non conviene.

Pensione con Quota 100 nel 2024 riscattando il periodo dello studio universitario

Il riscatto del corso di studio universitario è senza dubbio una valida opportunità che molti lavoratori potrebbero cogliere per riuscire a centrare i requisiti pensionistici utili alla quiescenza. Anche quelli che non ce l’hanno fatta a completare i 38 anni di contributi versati entro il 31 dicembre 2021 per la Quota 100, potrebbero tornare in gioco adesso. Facendo riferimento a un periodo precedente il 31 dicembre 2021, il percorso per la laurea può tornare utilissimo.

Riscattare questo periodo potrebbe colmare quel vuoto necessario a dare per completati i 38 anni di contributi al 31 dicembre 2021. Se per l’età non si può fare nulla, per i contributi, invece la soluzione per qualcuno esiste.

Quota 100 nel 2024 riscattando adesso i contributi potrebbe servire

Tra l’altro esiste il riscatto del corso di studio universitario, che permette di pagare un corrispettivo ridotto. Una facoltà, però, ammessa da chi opta per il ricalcolo contributivo della prestazione. In questo caso costa più o meno 5.000 euro un anno di studio da riscattare. Costa molto di più il riscatto ordinario, aperto anche a chi ha una pensione calcolata con il sistema retributivo.

Col periodo di studio che ricade nel retributivo, il calcolo è quello della riserva matematica. Si calcola la differenza tra la pensione liquidata senza gli anni riscattati e quella calcolata con l’aggiunta di questi anni. Il risultato si moltiplica per coefficienti che tengono in considerazione età e contributi del richiedente, oltre che il fatto che sia un uomo o una donna.

Il calcolo della pensione con e senza riscatto

Anche Quota 100 nel 2024 riscattando adesso i contributi, ma non tutto è conveniente. Un lavoratore che oggi ha 63 anni e che grazie al riscatto centra la quota 100 a 64 anni nel 2023, gode di 3 anni di pensione altrimenti impossibile da sfruttare. Ma se deve riscattare tutti i 5 anni, il gioco potrebbe non essere conveniente. Significherebbe pagare subito e in unica soluzione (gli anni del riscatto devono essere pagati prima della domanda di pensione), anche oltre 50.000 euro. E per tre anni di pensione c’è il rischio di recuperare meno di 50.000 euro come pensione netta.

Lettura consigliata

Prenderà una pensione di oltre 550 euro al mese nel 2023 chi fa questa richiesta 

Ricordiamo di leggere attentamente le avvertenze riguardo al presente articolo e alle responsabilità dell’autore, consultabili QUI»)
 

Santa Maria Faustina Kowalska

 

Santa Maria Faustina Kowalska


Nome: Santa Maria Faustina Kowalska
Titolo: Vergine
Nascita: 25 agosto 1905, Glogowiec, Polonia
Morte: 5 ottobre 1938, Cracovia, Polonia
Ricorrenza: 5 ottobre
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Elena Kowalska è conterranea di Giovanni Paolo II che l’ha elevata agli onori degli altari nell’anno 2000. Era nata a Giogowiec nel distretto di Turek, provincia di Lodz, il 25 agosto 1905. Le difficili condizioni economiche e sociali provocate dalla prima guerra mondiale, che avevano messo in ginocchio molte famiglie polacche, compresa la sua, non consentirono a Elena, che pure era di intelligenza vivace, di andare oltre le prime tre classi della scuola elementare. Per contribuire a far quadrare in qualche modo il bilancio familiare, andò a lavorare come domestica in una casa di buona famiglia.

Ma mentre lavava piatti e tirava a cera i lindi pavimenti dei suoi signori, pensava ad altro. Nel suo cuore era germogliato il desiderio di abbracciare la vita religiosa, non certo per sottrarsi alla fatica del lavoro, ma per vivere in modo più profondo e radicale la vocazione cristiana. Incontrò subito l’opposizione dei genitori che con la sua entrata in convento avrebbero perso un’indispensabile fonte di guadagno. La risolutezza di Elena ebbe però la meglio sull’opposizione dei genitori e nel 1924 poteva chiedere finalmente di essere accolta nella Congregazione della beata Vergine Maria della misericordia.

Era consuetudine che ogni aspirante alla vita religiosa portasse con sé, nel momento dell’ammissione, una congrua dote, perché i conventi, essendo poveri, non erano in grado di provvedere al corredo delle aspiranti.

Ma neppure la famiglia di Elena poteva farlo, per cui la giovane dovette lavorare sodo ancora un anno per mettere insieme almeno l’indispensabile. Non le venne invece chiesta la dote vera e propria, che avrebbe richiesto ben più di un anno di lavoro. Aveva vent’anni quando venne ammessa al postulantato, e poi (1926) al noviziato come suora conversa, addetta cioè al servizio della comunità.

Come avviene in altri ordini o congregazioni religiose, con l’occasione cambiò il nome di Elena con quello di Maria Faustina: era un modo per segnare il distacco dalla vita precedente e l’inizio di un nuovo modo di stare con il Signore e con gli altri.

Due anni dopo emise i voti temporanei e nel 1933 quelli definitivi, nel suggestivo rito della professione perpetua.

Per tredici anni suor Faustina lavorò in quasi tutte le case della provincia, che erano allora dieci, occupandosi dei mestieri più umili: la cucina, il giardino e la portineria. Eseguiva sempre con molta fedeltà quanto richiestole, e con gioia, illuminando ogni atto con la luce della sua spiritualità, molto intensa, costellata da slanci mistici dei quali erano a conoscenza solo i suoi direttori spirituali e le superiore.

Nel 1934, obbedendo all’indicazione del suo direttore spirituale, cominciò a scrivere un diario personale che intitolò La divina misericordia nell’anima mia, e che è un resoconto particolareggiato di rivelazioni e di esperienze mistiche.

Nel 1935 Faustina ricette una rivelazione privata da Gesù nella quale le avrebbe richiesto una particolare forma di preghiera detta Coroncina alla Divina Misericordia. Secondo suor Faustina, particolari grazie sarebbero state concesse a chi avrebbe recitato questa preghiera:

La mia misericordia avvolgerà in vita e specialmente nell’ora della morte le anime che reciteranno questa coroncina. Per la recita di questa coroncina mi piace concedere tutto ciò che mi chiederanno. I sacerdoti la consiglieranno ai peccatori come ultima tavola di salvezza; anche se si trattasse del peccatore più incallito se recita questa coroncina una volta sola, otterrà la grazia della mia infinita misericordia. Quando vicino ad un agonizzante viene recitata questa coroncina, si placa l’ira di Dio e l’imperscrutabile misericordia avvolge l’anima.

La Coroncina della Divina Misericordia

  1. Si inizia recitando, dopo il segno della croce, un Padre nostro, un Ave Maria e il Credo.
  2. Sui 5 (cinque) grani del Padre Nostro, ovvero i grani maggiori del Santo Rosario si dice: «Eterno Padre, io Ti offro il Corpo e il Sangue, l’Anima e la Divinità del Tuo dilettissimo Figlio e Nostro Signore Gesù Cristo, in espiazione dei nostri peccati e di quelli del mondo intero.»
  3. Sui 50 (cinquanta) grani minori si dice: «Per la Sua dolorosa Passione, abbi misericordia di noi e del mondo intero.»
  4. Al termine si dice per tre volte: «Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi e del mondo intero.»
  5. La preghiera termina con la seguente invocazione: «O Sangue ed Acqua che scaturisti dal Cuore di Gesù come sorgente di misericordia per noi, confido in te!»; ed infine nuovamente il segno della croce.
La Coroncina della Divina Misericordia

Suor Faustina viene ricordata anche come l’apostola della devozione a Gesù misericordioso. Una pia pratica che, radicatasi in Polonia grazie al suo zelo, si estese, a partire dai primi anni Quaranta, anche fuori dai confini polacchi per abbracciare tutto il mondo. Con tale pratica si diffuse anche la conoscenza di colei che ne aveva fatto il centro della propria spiritualità.

Il 5 ottobre 1938 suor Faustina tornava alla casa del Padre. Morì nel convento di Lagiewniki nei pressi di Cracovia, offrendosi alla misericordia divina come vittima per la conversione dei peccatori.. Venne sepolta nel cimitero della congregazione. Quando fu avviato il processo informativo per verificare l’eroicità delle sue virtù, le sue spoglie vennero trasferite nella cappella della congregazione, diventata subito cuore della devozione di molti fedeli che si affidano alla sua intercessione per ottenere conforto dell’anima e sollievo nelle malattie.

È stata proclamata beata il 18 aprile 1993 e santa nel 2000, anno del Giubileo, da Giovanni Paolo II.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Cracovia in Polonia, santa Maria Faustina (Elena) Kowalska, vergine delle Suore della Beata Maria Vergine della Misericordia, che si adoperò molto per manifestare il mistero della divina misericordia.

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Fondo Clero: contributo per il 2021 e modalità di pagamento

Fondo Clero: contributo per il 2021 e modalità di pagamento

L’importo del contributo dovuto per il 2021 dagli iscritti al Fondo di previdenza del clero secolare e dei ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica (Fondo Clero) è stato aggiornato con il decreto interministeriale 19 maggio 2022.

A decorrere dal 1° gennaio 2021 il contributo è di 1.769,04 euro annui (294,84 euro bimestrali e 147,42 euro mensili). L’importo resta provvisoriamente confermato anche per gli anni 2022, 2023 e 2024.

Non essendo stato modificato l’importo del contributo, nessuna integrazione è dovuta per gli anni 2021 e 2022.

La circolare INPS 3 ottobre 2022, n. 108 fornisce le indicazioni su modalità di pagamento autonome, pagamenti cumulativi e bonifico, rimborsi, decorrenza dell’obbligo contributivo e relativi adempimenti.

La complessità delle stime del divario retributivo di genere Europa

La complessità delle stime del divario retributivo di genere Europa

La retribuzione media per le donne è inferiore rispetto a quella degli uomini ma la situazione in Europa varia molto da paese a paese a causa di determinati fattori.

 

La parità retributiva per lo stesso lavoro o per lavori di pari valore è sancita nei trattati europei sin dal 1957 ed è un principio che è stato recepito all’interno dell’ordinamento comunitario. Il divario retributivo di genere è la principale misura strutturata per avere un’idea di questo fenomeno ma la presenza di un valore positivo non segna per forza la presenza di questo tipo di dinamica.

Il divario retributivo di genere 

Questo indicatore è calcolato considerando la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne a prescindere dal numero di ore lavorate (comprendendo quindi lavori full-time e part-time). Rappresenta quindi un quadro dell’economia nel suo complesso, considerando persone con diverse qualifiche, contratti, età e settori occupazionali, registrati attraverso delle rilevazioni specifiche.

Le cause di questo divario sono molteplici.

È però una misura complessa da interpretare. Dal momento che si intende rappresentare il mondo retributivo in generale, questa percentuale non esprime soltanto la disparità di guadagno a parità di lavoro ma anche particolari caratteristiche dei lavori in cui uomini e donne principalmente trovano occupazione e la diversità delle posizioni tendenzialmente ricoperte. Inoltre, mancano importanti informazioni che potrebbero spiegare ulteriormente questo divario come ad esempio la condizione familiare e eventuali attività da caregiver.

13% quanto le donne guadagnano mediamente in meno degli uomini nell’economia europea nel suo complesso (Eurostat, 2020).

Il dato varia sensibilmente all’interno dei paesi dell’Unione. I valori più alti si registrano in Lettonia (22,3%), Estonia (21,1%) e Austria (18,9%). Al contrario, quelli più bassi si riportano in Slovenia (3,1%), Romania (2,4%) e Lussemburgo (0,7%).

 

Al contrario, quelli più bassi si riportano in Slovenia (3,1%), Romania (2,4%) e Lussemburgo (0,7%). L’Italia è al quartultimo posto a quota 4,2%, un valore di 8,8 punti percentuali in meno rispetto alla media europea.

Grazie alle rilevazioni che sono state fatte, è possibile cercare di capire quali caratteristiche del mercato del lavoro riportano dei divari maggiori. Un’informazione sicuramente utile per avere un’idea del fenomeno ma che purtroppo non risulta disponibile per tutti gli stati europei.

Una delle prime analisi che si possono fare è quella che riguarda la differenza tra contratti di lavoro part-time e full time. Se si valutano i primi, i divari retributivi più ampi sono registrati nei Paesi Bassi (22%), Malta (21%) e Spagna (20,6%) mentre i valori più bassi sono riportati in Danimarca (0,7%), Lituania (0,1%) e Portogallo (0,1%).

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta il divario retributivo di genere dal punto di vista del tipo di contratto stipulato. Il divario retributivo di genere è la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne espressa in termini percentuali. È calcolato tenendo in considerazione le imprese con più di dieci impiegati e tutti i lavori ad eccezione del settore agricolo, della difesa e degli enti sovranazionali. Non sono compresi contratti di lavoro irregolari, apprendistati e prestazioni di economia informale. Non ci sono limiti al numero di ore lavorate alla settimana, includendo quindi anche i lavori part-time. Al momento dello scarico, i dati non sono disponibili per tutti gli stati europei.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat.
(ultimo aggiornamento: lunedì 3 Ottobre 2022)

 

Andando invece a vedere i secondi, i paesi caratterizzati dalle percentuali maggiori sono Lettonia (24,1%), Ungheria (18,4%) e Finlandia (18,1%). I divari più contenuti sono invece registrati in Spagna (6,5%), Romania (2,2%) e Belgio (-0,2%).

In Italia il divario è negativo sia per i lavori part-time che per quelli full-time.

Un caso peculiare è invece quello italiano, unico stato in cui entrambi i divari sono negativi, sia quello dei contratti full-time (-1,6%) che quello dei part-time (-5,1%). Un divario negativo indica una situazione in cui nel complesso dell’economia le donne guadagnano di più a livello di salario orario rispetto agli uomini. Secondo Eurostat, questo tipo di valore può spesso essere spiegato dalla selezione delle persone che vengono considerate nello studio, soprattutto in paesi in cui il tasso di occupazione femminile è minore. Le donne che entrano nel mercato del lavoro possono avere infatti dei livelli di educazione diversi rispetto agli uomini.

Un altro elemento di differenza è rappresentato dai lavori nel settore pubblico e nel privato. I paesi in cui il divario di genere è maggiore per il settore pubblico sono la Lettonia (18,4%), la Finlandia (16,8%) e il Portogallo (15,6%) mentre è minore in Romania (0,2%), Cipro (-0,3%) e Polonia (-0,6%).

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DA SAPERE

Il dato rappresenta il divario retributivo di genere negli ambienti di lavoro pubblici e privati. Il divario retributivo di genere è la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne espressa in termini percentuali. È calcolato tenendo in considerazione le imprese con più di dieci impiegati e tutti i lavori ad eccezione del settore agricolo, della difesa e degli enti sovranazionali. Non sono compresi contratti di lavoro irregolari, apprendistati e prestazioni di economia informale. Non ci sono limiti al numero di ore lavorate alla settimana, si includono quindi anche i lavori part-time. Al momento dello scarico, i dati non sono disponibili per tutti gli stati europei.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat.
(ultimo aggiornamento: lunedì 3 Ottobre 2022)

 

Per quel che riguarda i lavori privati, le percentuali più alte sono registrate in Germania (22,6%), Lettonia (20,9%) e Repubblica Ceca (20,3%) mentre quelle più basse sono riportate in Romania (10%), Slovenia (8,6%) e Belgio (8,5%). Tendenzialmente, i divari retributivi sono più ampi nel settore privato che nel settore pubblico.

Analizzando i diversi settori economici, il divario è maggiore per il settore della finanza e delle attività assicurative. Questo dato risulta maggiore rispetto al divario complessivo per tutti gli stati europei in cui è stato calcolato, ad eccezione di Spagna e Belgio.

Unire più misure: il gender overall earning gap

Come è già stato detto, il divario retributivo di genere non coglie delle differenze che potrebbero in parte spiegare questa divergenza che sussiste tra le retribuzioni maschili e quelle femminili. Ci sono però degli aspetti che non sono completamente considerati all’interno di questa misura. Per esempio, l’utilizzo del salario orario è funzionale per appianare i contratti di lavoro full-time e part-time ma non permette di cogliere le diverse concentrazioni tra i due tipi di contratto. Non si considerano inoltre le differenze che sussistono a livello di occupazione.

10,8% la differenza di occupazione tra uomini e donne nel mercato del lavoro europeo (Eurostat, 2021).

Nel tentativo di riunire tutte queste informazioni in un unico numero, Eurostat ha elaborato nel 2018 una misura sperimentale chiamata gender overall earning gap. Si considerano tre indicatori principali: il tasso di occupazione maschile e femminile, il salario medio orario e il numero di ore lavorate in un mese. All’interno dell’Unione europea, questo valore era pari al 37% nel 2018 (ultimo dato disponibile). Significa che considerando l’economia nel suo complesso, le donne in media guadagnavano il 37% in meno rispetto agli uomini a prescindere dalla condizione occupativa e dal numero di ore lavorate. Il divario retributivo di quell’anno era pari al 14,4% quindi la considerazione di questi elementi ha amplificato questa differenza. Il dato presenta delle variazioni all’interno degli stati membri.

Nel 2018 i paesi che riportavano le percentuali maggiori erano Paesi Bassi (44,2%), Austria (44,2%), Italia (43%) e Germania (41,9%). Al contrario, in Slovenia (21%), Portogallo (20,6%) e Lituania (20,4%) i valori erano minori.

Foto: wochintechchat – licenza