Archivi giornalieri: 4 giugno 2022

Gli interventi del Pnrr per la mobilità ciclistica Innovazione

Gli interventi del Pnrr per la mobilità ciclistica Innovazione

Tra le varie misure per la mobilità sostenibile, il piano nazionale di ripresa e resilienza prevede anche lo stanziamento di 600 milioni di euro per il rafforzamento delle ciclovie, urbane e turistiche. Abbiamo ricostruito la situazione del nostro paese precedente agli investimenti.

 

Infrastrutture e transizione ecologica sono due temi centrali per il piano nazionale di ripresa e resilienza. Non è un caso infatti, che i principali gestori delle risorse del Pnrr siano proprio il ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile (Mims) e il ministero per la transizione ecologica (Mite).

Tra i numerosi interventi di cui il Mims è titolare, particolare importanza è rivestita da quello per il rafforzamento della mobilità ciclistica, per scopi di tutela ambientale. Le biciclette costituiscono infatti una modalità di trasporto che non produce nessuna emissione e per questo la loro diffusione all’interno dei centri urbani è cruciale per diminuire l’impatto climatico dei trasporti – tra i settori più inquinanti.

Abbiamo analizzato l’offerta di piste ciclabili in Italia secondo l’ultimo aggiornamento Istat relativo al 2019, per inquadrare la situazione del nostro paese all’alba di questi stanziamenti.

Gli investimenti del Pnrr per la mobilità ciclistica

La mobilità sostenibile è sempre più centrale nel dibattito sulla transizione ecologica.

Le città sono più esposte ad alcuni fenomeni legati al cambiamento climatico.

L’utilizzo di mezzi di trasporto a basso impatto ecologico può infatti contribuire a ridurre le emissioni di gas serra, riducendo l’impatto di fenomeni correlati al cambiamento climatico. Questo vale soprattutto per i centri urbani, dove inquinamento atmosferico, elevato consumo di suolo, innalzamento delle temperature e isole di calore incidono gravemente sulle condizioni climatiche e ambientali.

All’interno del Pnrr, sono previste 9 misure per il trasporto pubblico locale e la cosiddetta mobilità dolce..

In un recente approfondimento abbiamo parlato dell’acquisto di autobus a basse emissioni. Un altro intervento importante è quello relativo al rafforzamento della mobilità ciclistica, ripartito in due misure, una destinata alle ciclovie urbane e una per lo sviluppo di quelle turistiche.

600 milioni di euro, i fondi stanziati dal Pnrr per il rafforzamento della mobilità ciclistica.

Di questi, 200 milioni sono dedicati alle piste ciclabili urbane, al fine di realizzarne circa 570 km nelle 45 città italiane con popolazione superiore ai 50mila abitanti e sedi di università con più di 5mila studenti iscritti. La metà delle risorse è destinata al mezzogiorno.

Le piste ciclabili nei comuni italiani

Ma quant’era fornito il nostro paese di infrastrutture per la mobilità ciclistica, all’alba di questi investimenti? Secondo i dati Istat, nel 2019 in Italia i centri urbani disponevano in totale di circa 4.730 km di piste ciclabili. Di queste, quasi tre quarti si trovavano nel nord della penisola.

72,5% dei chilometri di piste ciclabili nei capoluoghi italiani si trova al nord, il 18,2% al centro e il 9,3% al sud (2019).

Se rapportiamo l’estensione a quella del territorio su cui si trovano, parliamo di una media nazionale di 24,2 chilometri ogni 100 chilometri quadrati. Che sale a circa 58 km ogni 100 kmq nel caso dei comuni settentrionali e scende rispettivamente a 15,7 e a 5,4 per quelli centrali e meridionali.

In tutto il paese, dal 2013 al 2019 si è registrato un generalizzato miglioramento. Nella macroarea settentrionale l’aumento è stato pari al 20,8%, passando da 2.839 km di estensione nel 2013 a 3.430 nel 2019. Leggermente inferiore l’aumento nel centro (+18,3%), passato da 729 a 863 km in questo stesso lasso di tempo.

Mentre il miglioramento più evidente, anche se su numeri molto più bassi, si riscontra nel sud della penisola, passato da circa 304 a 439 km – con un incremento pari al 44,4%.

In 78 dei comuni capoluogo italiani, la disponibilità di ciclovie ogni 100 kmq di superficie territoriale è aumentata nel periodo tra 2013 e 2019. L’aumento più significativo lo ha riportato Prato (+50,4 km tra 2013 e 2019). Seguita da Brescia (+43,9) e Pescara (+37,8). Mentre sono 17 i centri urbani in cui non si è registrata nessuna differenza e 5 quelli in cui si sono persi chilometri. Tra questi, in particolare, la capitale, passata da 20 a 19,3 km ogni 100 kmq (-0,7).

Padova è il comune con la maggiore estensione di piste ciclabili in rapporto alla superficie territoriale.

Il comune con la maggiore estensione totale è Padova, con 184 km di piste ciclabili ogni 100 kmq di superficie territoriale nel 2019. La seguono Mantova (178,5) e Brescia (175,2). In generale è nella parte settentrionale del paese che si registrano le cifre più elevate. Mentre l’offerta più limitata è quella di Viterbo (0,2), preceduta di poco da Ragusa e Matera, entrambe sotto il chilometro. Tra le città più grandi, sono Milano e Torino a disporre della rete di ciclovie di estensione maggiore (rispettivamente 166,1 e 123,3 km ogni 100 kmq di territorio), mentre le ultime sono Catania (4,4) e Genova (5,5).

Le ciclovie turistiche

Ma gli investimenti del Pnrr in materia di mobilità dolce prevedono anche il rafforzamento e l’estensione delle ciclovie turistiche. Come abbiamo accennato, a questo fine sono stati stanziati 400 milioni di euro, ovvero due terzi di tutte le risorse previste per la mobilità ciclistica. Anche in questo caso, il 50% dei fondi è assegnato al meridione.

1.250 chilometri di piste ciclabili turistiche da realizzare entro il 2026.

Si tratta di ciclovie esistenti che il piano di ripresa e resilienza intende ampliare.

I finanziamenti più elevati sono destinati alla ciclovia Adriatica (74 milioni di euro), seguita dalla ciclovia della Magna Grecia (articolata tra Basilicata, Calabria e Sicilia, per un totale di 61,5 milioni) e da quella del Vento (che collega Venezia e Torino).

Per quanto riguarda invece l’estensione del tratto da realizzare, la prima è l’Adriatica, per un totale di 210 km. Seguono la ciclovia dell’Acquedotto pugliese (210 km da Caposele in provincia di Avellino a Santa Maria di Leuca in provincia di Lecce attraverso la Campania, la Basilicata e la Puglia) e la ciclovia Sole (tra Verona e Firenze, con un tratto pari a 197 km).

 

Foto: Gabriella Clare Marino – licenza

 

Il calo delle nascite dopo l’emergenza Covid #conibambini

Il calo delle nascite dopo l’emergenza Covid #conibambini

Il 2021 ha segnato il numero minimo di nascite dall’unità d’Italia. Un trend su cui ha avuto un ruolo importante la pandemia, ma che non è affatto nuovo per il nostro paese. Approfondiamo le specificità di questa fase e le tendenze di più lungo periodo, comune per comune.

 
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Con una tendenza annunciata già da mesi, e resa nota nel marzo scorso da Istat, il 2021 ha segnato un nuovo record negativo di nascite nel nostro paese. Scese per la prima volta sotto quota 400mila, si tratta della cifra più bassa dal 1861, anno dell’unità d’Italia.

399.431 nuovi bambini iscritti in anagrafe nel 2021.

Un dato che sicuramente riflette l’impatto dell’emergenza Covid, ma che è frutto anche di una tendenza di lungo periodo iniziata ben prima della pandemia. Tra 2008 e 2019, ad esempio, le nascite erano già calate del 27%: da 576mila a circa 420mila nuovi nati.

Dopo il 2019, nel biennio di pandemia si è assistito a un calo ulteriore. Nel 2020 i nuovi nati sono stati 15mila in meno dell’ultimo anno prima del Covid. Nel 2021, come già visto, si è scesi sotto le 400mila nascite, segnando un nuovo record negativo nella serie storica.

Approfondiamo conseguenze e specificità di questa tendenza nell’ambito della crisi pandemica vissuta a partire dal 2020, ma anche il suo impatto in un’ottica di lungo periodo sui diversi territori del paese.

L’impatto della pandemia sul calo delle nascite

Lo scorso febbraio un rapporto promosso dal dipartimento per le politiche della famiglia, in collaborazione con l’istituto degli Innocenti, ha indagato la situazione demografica alla luce dell’emergenza vissuta negli ultimi 2 anni e mezzo.

Si tratta del secondo studio svolto dal gruppo di esperti “demografia e Covid-19”. I nuovi dati sembrano confermare le evidenze iniziali emerse nei primi mesi di emergenza, cioè l’impatto negativo sulla natalità.

Il fatto che il calo dei nati a gennaio 2021 sia tra i più ampi mai registrati, soprattutto dopo la diminuzione già marcata negli ultimi due mesi del 2020, lascia pochi dubbi sul ruolo svolto dall’epidemia. (…) tale diminuzione si è rivelata l’indizio di una tendenza più duratura in cui il ritardo è persistente o, comunque, tale da portare in molti casi all’abbandono nel medio termine della scelta riproduttiva.

-13,6% nascite nel gennaio 2021, rispetto allo stesso mese nel 2020.

L’inizio del 2021 ha infatti mostrato uno dei cali più marcati della serie storica, con una successiva inversione di tendenza nel marzo dello stesso anno (+4,5% di nascite rispetto al 2020). Un dato ricollegabile ai concepimenti avvenuti durante la fase transizione tra le prime due ondate di Covid, nell’estate del 2020.

Tuttavia, nel bilancio complessivo dell’anno, quella breve inversione (così come quella più recentemente rilevata per gli ultimi 2 mesi del 2021non è bastata a mutare l’andamento declinante della natalità.

-20.739 nati nel 2021 rispetto al 2019.

Da questo punto di vista uno dei fattori che più può aver contribuito è la percezione di vulnerabilità economica e sociale rispetto alla crisi in corso.

Ad aprile 2021, infatti, la maggioranza dei giovani tra 18 e 34 anni percepiva i propri progetti di vita come più a rischio rispetto a prima della pandemia. Una percezione particolarmente frequente per alcune condizioni non professionali (come neet e studenti), ma anche per i giovani occupati con contratti più precari.

Tale impatto risulta ancora più marcato rispetto al genere. In quasi tutte le categorie sono le giovani donne a indicare una situazione di maggiore insicurezza economica rispetto a prima della crisi. In questo senso è interessante notare come, mentre per gli uomini si rileva una differenza rispetto al tipo di contratto (chi ha un tempo indeterminato segnala una percezione di rischio relativamente inferiore), per le donne tale differenza è molto meno evidente.

2/3 delle giovani donne anche con contratto a tempo indeterminato percepiscono i propri progetti di vita come più a rischio rispetto a prima della pandemia.

Questi dati, oltre a ricordarci di quanto le politiche per la parità di genere rappresentino una premessa insostituibile di quelle per la natalità, suggeriscono l’impatto della pandemia sulle scelte di vita delle persone.

Con conseguenze sicuramente negative, che però sarebbe sbagliato attribuire esclusivamente all’emergenza vissuta negli ultimi 2 anni.

Il calo dei nati totali osservato nel 2020 è stato influenzato, tuttavia, solo in parte limitata dalla pandemia; i primi effetti sulle nascite riferibili ai concepimenti del lockdown di marzo e aprile 2020 possono, infatti, essere osservati a partire dal mese di novembre 2020.

Il calo delle nascite è infatti una tendenza di lungo periodo della demografia italiana, e come tale va inquadrata, a partire dai suoi effetti sui territori.

Il calo della natalità nei comuni italiani

Quelle appena viste sono tendenze che durante il Covid si sono spesso rafforzate, data la fase di incertezza. Ma anche in questo ambito, l’effetto della pandemia è stato di accelerare processi che erano già presenti.

Una conferma di questo si può trarre dall’andamento nel tempo del tasso di natalità. Si tratta dell’indicatore che consente di monitorare il numero di nuovi nati rispetto ai residenti. A livello nazionale, si è passati dagli oltre 9 nati ogni mille abitanti degli anni 2000 agli 8,1 del 2015. Negli ultimi anni il calo si è accentuato: 7,9 nel 2016, 7,6 nel 2017, 7,3 nel 2018. Nel 2020 per la prima volta si è scesi sotto quota 7, con 6,8 nati ogni mille residenti in Italia.

Questa tendenza di lungo periodo verso una demografia declinante vede il nostro paese agli ultimi posti a livello europeo. Ma come incide il fenomeno sul territorio?

I dati elaborati attraverso le statistiche sperimentali dell’istituto di statistica ci offrono una vista sull’andamento del tasso di natalità prima che scoppiasse l’emergenza. In buona parte comuni italiani (59% del totale) la tendenza è coerente con quella nazionale.

Nel 5% dei territori si registra una stabilità, con variazioni del tasso di natalità tra 2014 e 2017 comprese tra -0,1 e +0,1. Nel restante 35,5% dei comuni invece il valore mostra una crescita nel periodo considerato.

70,7% i comuni umbri in cui il tasso di natalità è diminuito tra 2014 e 2017.

Il tasso di natalità è calato in tutto il paese, come si osserva dalla mappa, ma con una diffusione diversa a seconda delle aree geografiche. Tra 2014 e 2017 la contrazione ha riguardato ad esempio oltre i due terzi dei comuni umbri (70,7%), emiliano-romagnoli (69,1%), toscani (68,5%) e veneti (67,5%). Tra le province, un calo più o meno netto si rileva in oltre l’80% dei comuni dei territori di Cagliari (88,2%), Pistoia (85%), Monza e Brianza (83,6%), Ravenna (83,3%) e Brindisi (80%).

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati utilizzati sono di fonte Istat.

Foto: Jonathan Borba (unsplash) – Licenza

 

2. La povertà energetica, un ostacolo per il diritto all’abitazione

2. La povertà energetica, un ostacolo per il diritto all’abitazione

L’abitabilità di una casa è una questione complessa e pluridimensionale. Da una parte, come abbiamo raccontato nel primo approfondimento su questo tema, ha innanzitutto a che vedere con gli spazi.

Un altro indicatore importante è la disponibilità di alcuni beni energetici considerati fondamentali per il nostro benessere e per la nostra salute – in primis il riscaldamento.

Cos’è la povertà energetica

Quando un nucleo familiare non riesce a permettersi beni energetici fondamentali come quelli necessari a riscaldare la propria abitazione – si parla di povertà energetica.

Per “povertà energetica” s’intende la condizione delle famiglie che non sono in grado di accedere ai servizi energetici essenziali. Considerato che nel 2018 quasi 34 milioni di europei non hanno potuto permettersi di riscaldare adeguatamente le loro abitazioni, la povertà energetica rappresenta per l’Ue una grande sfida.

Si tratta di un fenomeno che solo in Italia, secondo l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) in base alle rilevazioni dell’osservatorio italiano per la povertà energetica (Oipe), colpisce circa 2,3 milioni di famiglie.

8,8% le famiglie italiane in condizioni di povertà energetica, secondo le stime Enea (2021).

Come sottolinea la raccomandazione Ue, un elevato tasso di povertà energetica può avere una serie di conseguenze più o meno dirette, in quanto causa un calo del benessere e un peggioramento dei bilanci familiari ma anche, nel lungo termine, un aumento della spesa sanitaria.

L’energia è un bene meritorio.

L’Oipe definisce infatti l’energia un bene meritorio, ovvero un bene meritevole di tutela pubblica perché fondamentale per soddisfare bisogni essenziali della collettività, a prescindere quindi delle possibilità finanziarie del consumatore.

La povertà energetica è un fenomeno complesso, originato da diversi fattori. In primo luogo, chiaramente, c’è il reddito della persona e tutte le dimensioni ad esso connesse quali la disoccupazione, l’inattività o la bassa frequenza lavorativa. D’altra parte però anche il prezzo dei beni energetici ha un’influenza significativa.

La deprivazione materiale nelle abitazioni degli europei

Ci sono diversi indicatori con cui Eurostat misura la deprivazione materiale all’interno delle case. Rileva ad esempio problemi strutturali di umidità, caratterizzati dalla presenza di perdite e muffe, o l’assenza di servizi sanitari all’interno dell’abitazione. Alcuni indicatori riguardano invece specificamente l’adeguatezza da un punto di vista energetico. Ad esempio una illuminazione sufficiente, oppure la capacità di mantenere la struttura riscaldata.

Nell’Unione europea sono ancora molti i cittadini che soffrono queste limitazioni e che vivono conseguentemente in condizioni di povertà energetica.

7,4% dei cittadini dell’Ue non riesce a tenere la propria abitazione adeguatamente riscaldata (2020).

Rispetto al 2019, quando questa cifra si attestava al 6,9%, c’è stato un leggero aumento, probabilmente in parte dovuto alla crisi causata dalla pandemia da Covid-19. Un’inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti, in cui questo dato stava registrando un lieve ma graduale calo (nel 2014 era pari al 10,4%, 3 punti percentuali in più rispetto al 2020).

Sotto questo aspetto la situazione risulta comunque fortemente diversificata da paese a paese, con alcune nazioni come la Bulgaria, la Lettonia e Cipro in cui questo dato supera il 20% e altri come Finlandia e Austria in cui invece si attesta al di sotto del 2%.

La Bulgaria è il primo stato Ue da questo punto di vista, con il 27,5% dei cittadini che dichiara di avere difficoltà a pagarsi il riscaldamento. Seguono la Lettonia, con il 23,1%, e Cipro (20,9%).

Le cifre risultano invece minime nell’Europa settentrionale, occidentale e centrale – soprattutto in Austria (1,5%) e in Finlandia (1,8%). L’Italia, con una quota pari all’8,3%, si posiziona al di sopra della media Ue (7,4%) a seguito di un notevole miglioramento. Basti pensare che nel 2014 la quota raggiungeva il 18%, e che nel 2019 risultava ancora elevata, anche se già in riduzione (11,1%).

I costi dell’energia e come gravano sui cittadini europei

Un altro elemento importante per analizzare il fenomeno della povertà energetica, come accennato, è il prezzo dell’energia. Negli ultimi anni, come abbiamo raccontato in recenti approfondimenti, i costi energetici – in particolare di gas ed elettricità – sono aumentati notevolmente in Italia ma anche nel resto d’Europa.

Anche in questo caso la situazione all’interno del continente risulta eterogenea. I prezzi più elevati li registrano Irlanda, Danimarca e Lussemburgo, mentre quelli più bassi li riportano Bulgaria e Polonia.

In Irlanda, in particolare, l’indice di prezzo è pari a 184,4 (a fronte di un valore di riferimento pari a 100). Un divario molto ampio con la Bulgaria, che invece registra un indice pari a 34,9.

Ma per valutare i divari dei costi energetici è necessario confrontare i paesi Ue anche in base alle entrate economiche dei cittadini, oltre che al loro potere d’acquisto.

La dimensione dei redditi infatti si lega in modo particolare alla cosiddetta “vulnerabilità energetica”. Una condizione meno grave ma comunque di difficoltà, in cui un nucleo familiare può permettersi la fornitura di energia necessaria, ma solo gravando pesantemente sul proprio reddito disponibile. Per misurare questa dimensione, si possono analizzare i dati relativi al peso delle spese domestiche.

[con vulnerabilità energetica si intende] la condizione per cui l’accesso ai servizi energetici implica una distrazione di risorse (in termini di spesa o di reddito) superiore a quanto socialmente desiderabile.

Nel 2020 in Ue era la Grecia lo stato in cui le spese domestiche incidevano maggiormente sul reddito.

37% del reddito familiare, in Grecia, è impiegato per le spese domestiche (2020).

Un valore che aumenta ulteriormente se poi isoliamo le persone a rischio povertà, ovvero, secondo i criteri Eurostat, coloro che percepiscono un reddito inferiore al 60% di quello mediano.

La Grecia è anche sotto questo aspetto prima in Ue. Mediamente, per una famiglia con un reddito basso, le spese domestiche ne coprono quasi il 64%. Quasi 50 punti percentuali in più rispetto a Malta, dove questa cifra si attesta al 17%.

Per quanto riguarda i divari tra nuclei familiari ad alto e a baso reddito, è la Germania a presentare la disparità più ampia. Se i primi infatti spendono per la casa il 23,8% del proprio reddito, la quota sale a oltre la metà per i secondi (58,5%). Al contrario, sono Malta e Cipro a registrare gli scarti più contenuti.

32,2% la quota di reddito che le famiglie a rischio povertà spendono per la casa, in Italia (2020).

 

Foto: Julia Taubitz – licenza

 

La strumentalizzazione del rapporto tra criminalità e migranti Hate speech

La strumentalizzazione del rapporto tra criminalità e migranti Hate speech

Alcuni media e politici associano semplicisticamente criminalità e immigrazione, anche se la realtà è molto più complessa. Abbiamo fatto alcune domande su questo fenomeno a Marcello Maneri, professore di sociologia dei processi comunicativi a Milano-Bicocca.

 
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Spesso nell’arena pubblica viene delineata un’associazione diretta tra immigrazione e criminalità. Come riportato nel dossier Idos del 2020, anche a parità di reati, quelli commessi dagli stranieri generano solitamente più paura, diffidenza e risentimento. Da una parte c’è l’inferiorizzazione dello straniero, dall’altra la sua demonizzazione. Una narrativa che viene poi strumentalmente manipolata dai media e dai politici, per raccogliere consensi.

Il dato sulla presenza degli stranieri nelle carceri deve essere contestualizzato.

A una prima lettura, effettivamente la quota di stranieri sul totale dei detenuti nelle carceri italiane ed europee eccede la quota di stranieri sulla popolazione totale. Questo dato va però letto in maniera critica, tramite una serie di correttivi. In primis, bisogna considerare che le condizioni socio-economiche in cui versano i cittadini stranieri sono mediamente inferiori rispetto a quelle degli autoctoni. E il disagio socio-economico è strettamente legato alla criminalità.

In secondo luogo, c’è la questione dell’irregolarità, una condizione che costringe le persone all’illegalità e quindi inevitabilmente al crimine – e che infatti caratterizza la maggior parte degli stranieri che commettono reati. Infine, un elemento rilevante è la tipologia di reato commesso, che ha caratteristiche differenti tra gli stranieri rispetto agli autoctoni – di solito parliamo di crimini minori, puniti tramite pene di durata inferiore.

Più stranieri, società meno sicure?

Una prima questione da notare è che, nonostante la tendenza a criminalizzare i migranti, analizzando i dati vediamo che in Europa le società non sono diventate meno sicure a fronte a fronte dell’aumento della componente straniera della popolazione, e in particolar modo di una parte di questa (i richiedenti asilo), strutturalmente più esposta a una potenziale condizione di irregolarità.

Nei grandi paesi europei (Germania, Francia, Italia e Spagna), nel 2021 il numero di richiedenti asilo è stato decisamente più elevato di quello registrato nel 2012. Nel caso di Francia e Germania, parliamo di un dato doppio, nel caso dell’Italia triplo. Per quanto riguarda la Spagna addirittura la cifra è oltre 20 volte quella del 2012.

Si tratta di un incremento che ha avuto un andamento irregolare negli anni. In tutti questi paesi ma soprattutto in Germania, negli anni tra il 2014 e il 2017, in corrispondenza della cosiddetta “crisi dei rifugiati”, c’è stato un picco negli arrivi. In Germania sono arrivati a 745mila nel 2016, in Italia a circa 129mila nel 2017, e in seguito la cifra è calata, per poi registrare un lieve aumento tra il 2020 e il 2021.

Fatta eccezione per questa irregolarità, l’andamento generale è stato verso un progressivo aumento del numero dei richiedenti asilo. Parallelamente tuttavia non si è registrato nessun aumento della criminalità nei paesi analizzati, con l’eccezione della Spagna.

Solo in Spagna tra il 2010 e il 2019 si è registrato un aumento nel numero di condannati (+20,9%), passato da circa 25mila a 30mila. In Germania, Francia e Italia si è invece assistito a una contrazione, particolarmente significativa in Francia (-32,4%).

-15,1% il numero di persone condannate in Italia tra 2010 e 2019.

Questi dati ci mostrano che, a fronte di un aumento della componente straniera della popolazione, le società europee non sono diventate meno sicure. Anzi, complessivamente la criminalità ha registrato una lieve riduzione.

Le condizioni socio-economiche e la criminalità

Mediamente, il tasso di delittuosità risulta più elevato tra gli stranieri piuttosto che tra i cittadini autoctoni, ma questa affermazione necessita di una serie di specificazioni.

In primo luogo, come accennato, un aspetto fondamentale della criminalità è che spesso essa è determinata dal disagio socio-economico. Si tratta di una dimensione che bisogna considerare quando si parla di criminalità straniera, perché ad oggi in Europa i cittadini stranieri sono significativamente più esposti alla povertà rispetto agli autoctoni.

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DA SAPERE

Con “a rischio povertà o esclusione sociale” Eurostat indica le persone con un reddito inferiore al 60% del reddito mediano (a rischio povertà), in condizioni di grave deprivazione materiale o sociale (un indicatore articolato che misura la capacità di una persona di permettersi alcune cose non essenziali alla sopravvivenza ma necessarie per condurre una vita minimamente dignitosa) e che vivono in nuclei familiari in cui l’intensità lavorativa è molto bassa. I dati sono riferiti esclusivamente alla popolazione maggiorenne e, nel caso degli stranieri, tengono conto soltanto della popolazione regolarmente residente (escludendo quindi le persone sprovviste di permesso di soggiorno). Non sono disponibili i dati della Romania.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat
(ultimo aggiornamento: martedì 24 Maggio 2022)

 

Fatta eccezione per 3 stati, caratterizzati peraltro da una bassa percentuale di residenti stranieri (Bulgaria, Ungheria e Repubblica Ceca), in tutta l’Unione europea gli stranieri risultano più esposti alla povertà e all’esclusione sociale.

Le quote più elevate le registrano i paesi dell’Europa meridionale (Spagna, Grecia e Italia), mentre quelle più basse si riscontrano in alcuni paesi dell’Europa orientale.

54% degli stranieri residenti in Spagna sono a rischio povertà ed esclusione sociale (2020).

Ma la forbice più ampia rispetto ai residenti autoctoni si riscontra in Svezia e in Francia. In Svezia, in particolare, quasi il 44% degli stranieri è a rischio, una cifra che scende al 14% nel caso dei cittadini svedesi. Una situazione analoga è quella francese, dove questo stesso dato si attesta rispettivamente al 44% e al 15%.

Gli stranieri e la criminalità

Come accennato, sappiamo anche che nella maggior parte dei casi a commettere crimini sono stranieri irregolari, ovvero persone presenti in Italia ma sprovviste di permesso di soggiorno.

A commettere crimini sono perlopiù gli stranieri irregolari, costretti a vivere nell’illegalità.

Come riporta Idos, il ministero dell’interno nel 2017 ha stimato che il 67,5% dei casi coinvolgono persone presenti irregolarmente sul territorio italiano – più di due su tre. In merito a questo dato è importante sottolineare che le persone irregolari sono molto più esposte alla criminalità, perché vivendo nell’illegalità sono impossibilitate a trovare un impiego regolare o ad accedere a misure di assistenza – una serie di fattori che fanno sì che la delittuosità sia più diffusa.

Secondo uno studio del 2016, se consideriamo soltanto gli stranieri regolari il tasso di delittuosità sarebbe invece analogo a quello degli italiani. Generalmente comunque vale la pena notare che gli stranieri, regolari e non, commettono crimini differenti rispetto a quelli che commettono gli italiani. Parliamo perlopiù di crimini considerati meno gravi, e questo è rispecchiato nella durata della pena.

Come mostrano i dati Antigone, la forbice tra detenuti stranieri e italiani aumenta all’aumentare della pena. I primi costituiscono quasi la metà di tutti i detenuti che scontano pene inferiori a 1 anno, ma appena il 12% di quelle superiori ai 20 anni. Una cifra che scende ulteriormente nel caso della pena più grave, l’ergastolo.

6% dei condannati all’ergastolo in Italia sono di nazionalità straniera, secondo Antigone (2020).

A questo si aggiunge, come sottolinea il dossier Idos, che gli stranieri compiono più spesso reati “all’aperto”, per strada, dove sono più facilmente individuabili.

Inoltre, sul numero di detenuti pesa anche il fatto che, da un punto di vista giuridico, gli stranieri risultano svantaggiati rispetto agli italiani. Solitamente, come sottolinea lo studio sopracitato, hanno più difficoltà ad accedere alle misure alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova e il regime di semilibertà.

Oltre al fatto che statisticamente la popolazione straniera risulta più esposta al crimine perché solitamente caratterizzata da una prevalenza di giovani maschi, spesso senza famiglia: caratteristiche che in tutte le nazionalità risultano correlate con una maggiore delittuosità.

Ci sono quindi una serie di ragioni che ci fanno capire che relazione tra immigrazione e criminalità è molto complessa. Eppure i media e i politici spesso la dipingono con toni semplicistici. Per capire perché questo avviene e attraverso quali espedienti, abbiamo posto alcune domande a Marcello Maneri, professore di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Milano-Bicocca.

Negli anni sono aumentati gli arrivi di migranti, eppure non è aumentata la criminalità generale. Perché invece viene spesso fatto un collegamento tra i due fenomeni?

Il collegamento non ha mai a che vedere con i numeri reali: né con la quantità di migranti né con la quantità di reati e così via, perché i problemi sociali fanno carriera secondo logiche che non hanno a che vedere con l’oggettività del problema stesso, ma perché ci sono persone che li portano avanti. Nel caso specifico dell’Italia, non c’è una relazione (ma non c’è mai, in generale) tra il numero di reati e la reazione sociale. L’apparizione di un nuovo problema nell’arena pubblica, paradossalmente, può avvenire in assenza totale del fenomeno stesso, o più spesso attirando l’attenzione su certi comportamenti a scapito di altri altrettanto problematici.

In Italia la criminalizzazione dei migranti è avvenuta giocando sulla paura, mettendo in risalto il tema dell’insicurezza, inteso esclusivamente nei termini della possibilità di essere vittimizzati da persone di origine straniera (dove insicurezza e immigrazione vengono usati come sinonimi). Alcune persone hanno tratto profitto e seguito elettorale dal fatto di essere riuscite ad accreditare questo come un problema sociale saliente, a volte addirittura il più importante, come è successo nelle campagne elettorali del 2008 e del 2018, quando le elezioni sono state vinte esattamente su quel tema. Questi sono i fattori che portano a certe definizioni di problemi sociali e alla loro salienza nell’arena pubblica.

Se poi dall’altra parte ci sono delle controparti politiche che non sono abbastanza vigorose nel contrapporre un discorso alternativo (il che è successo in tutta Europa), allora la definizione del problema sociale diventa facilmente quella egemonica, data per scontata da tutti.

Perché, anche nei momenti in cui gli sbarchi sono meno discussi da media e politica e in cui non c’è nessuna emergenza, un episodio di criminalità causa comunque più scalpore quando è commesso da un migrante?

Ci sono dei cicli di criminalizzazione che sono avvenuti, normalmente quando il centrosinistra era al governo o appena il centrodestra aveva vinto le elezioni. Il centrodestra accusa il centrosinistra di essere buonista, di essere tollerante se non complice, addirittura ispiratore dei crimini degli immigrati, e quando è al governo deve far vedere di usare il pugno di ferro e di fornire soluzioni. Con i governi tecnici non si è potuto fare questo gioco e il tema è stato meno al centro dell’attenzione. Ma anche quando non è al centro dell’attenzione non è che lo straniero non sia facilmente criminalizzato. Questo ha a che fare con tante altre dinamiche, un po’ il fatto che è un tema che fa gioco alla destra e rispetto al quale il centrosinistra si sente perdente.

Poi si può fare una distinzione tra categorie marcate e non marcate. Prima che ci fosse un’immigrazione straniera in Italia e che ci fosse una consapevolezza del fenomeno, negli anni ‘80, nei giornali italiani si trovavano molti articoli come “delitto d’onore: meridionale spara a moglie e figli”, oppure su furti e truffe, si citava spesso la provenienza meridionale, anche se la maggior parte dei reati li commettevano i settentrionali. Ma questo non si diceva, non veniva reso saliente. Lo stesso vale adesso per gli stranieri. Non si dice “italiano uccide, italiano spara, italiano ruba”, non viene evidenziato, reso saliente e memorizzato, perché la categoria “italiano” (e prima “settentrionale”) non è marcata.

Secondo lei è lo straniero ad essere criminalizzato o c’è una specificità nella figura del migrante?

Questa domanda può essere interpretata in vari modi. Con “stranieri” si può intendere funzionari di compagnie finanziarie, i cosiddetti  expats, insomma gli immigrati ricchi, o anche i turisti. Ma forse la risposta è la stessa in tutti questi casi. Nel razzismo nei confronti degli immigrati c’è una fortissima componente che non ha tanto a che vedere con la loro diversità oggettiva, cioè il fatto di non essere italiani, anche se questa ovviamente rientra nella rappresentazione, nei discorsi sull’identità, sulla minaccia culturale ecc.

Quello che è un elemento molto importante anche se spesso trascurato è la paura dei poveri o lo stigma verso i poveri. Molte rappresentazioni dei migranti in Italia sono simili a quelle della prima metà dell’ottocento di fronte al fenomeno dell’inurbamento per esempio a Parigi: i miserabili di Hugo venivano descritti con modalità molto simili. C’è in un certo senso la tendenza, in società fortemente inegualitarie, ad aver paura di chi è stato più deprivato e potrebbe avere dei comportamenti reattivi che potrebbero indurlo a contestare questa sua posizione subordinata.

Spesso la tendenza è quella di naturalizzare la subordinazione.

In secondo luogo c’è la tendenza a naturalizzare questo stato di subordinazione, quindi a descriverlo non come esito di rapporti sociali di sfruttamento e discriminazione, di mancanza di diritti, ma come la natura stessa di queste persone. I meridionali venivano descritti come pigri, oziosi, e spesso sono rappresentati così anche gli stranieri. In generale c’è un’attenzione molto forte verso i crimini commessi dalle persone più umili e una certa sbadataggine verso quelli, anche sistemici, compiuti da ricchi. Certo se hanno uno status di celebrità se ne parla, fanno notizia. In generale, però, lo sguardo dei mezzi di informazione e del mondo politico è quello di certi ceti sociali. Giornalisti e politici non vengono da ceti umili. Quindi guardano ai più umili con paura, diffidenza e difficoltà di comprensione. 

Quello della criminalizzazione dei migranti è un problema sentito in tutta Europa, ma la questione viene affrontata in maniera omogenea nei vari paesi o esistono modelli differenti?

Innanzitutto con il concetto di criminalizzazione parliamo di un fenomeno ancora più ampio, che vuol dire costruire legislativamente e normativamente con delle pratiche istituzionali alcuni soggetti come potenzialmente criminali. Nel momento in cui si illegalizzano le migrazioni, si stanno già producendo dei criminali – perché le persone continueranno a scappare dalle violenze. Questo già fa parte del processo di criminalizzazione.

Ma se per criminalizzazione intendiamo semplicemente la rappresentazione di questi soggetti come criminali, il discorso che lega criminalità e immigrazione, allora va detto che in primo luogo non ci sono ricerche strettamente comparative o almeno io non ne ho trovate che ci permettano di dire esattamente quali sono le differenze sulla base di dati rigorosi. Ma c’è un’abbondante letteratura, anche se non comparativa, che ci spinge a credere che i vari paesi abbiano attraversato varie fasi in momenti diversi.

L’Italia è stato un paese che negli anni 90, nella seconda metà degli anni 2000 e alla fine del decennio successivo ha attraversato delle virulente e violente campagne di criminalizzazione dei migranti, più di altri paesi. In altri momenti non c’è invece stata tutta questa differenza, ad esempio nel caso dei famosi stupri di Colonia (un milionesimo degli stupri che avvengono in Europa), di cui tutti sanno qualcosa. Era un momento in cui in Germania si rappresentavano i flussi migratori come “crisi dei rifugiati”, espressione che non si è usata nel caso dell’Ucraina, dove in due settimane sono arrivate più persone che in un anno di crisi di rifugiati. C’era un contesto di forte tensione politica e sociale, molto costruita.

Sono dinamiche presenti in tutti i paesi ma con periodizzazioni diverse e a volte anche con configurazioni diverse. Nel Regno Unito ad esempio il discorso criminalizzante è ancora più acceso e violento quando è fatto dai tabloid, ma non è fatto dai broadsheet, mentre in Italia è fatto in modo meno violento ed esplicito, ma è generalizzato, anche dall’informazione mainstream. Ci sono quindi differenze nelle periodizzazioni, nella distribuzione del discorso tra le varie testate giornalistiche e componenti politiche (ricordiamo che in Spagna fino a un anno fa non esisteva un partito xenofobo, unico caso in Europa insieme al Portogallo), quindi sì, ci sono delle differenze.

Conta anche il fatto che in altri paesi magari prevalgono temi che non sono tanto sentiti in Italia, i quali  tolgono quindi spazio a questo discorso. Il tema dell’identità è fortissimo in Francia per esempio. Fatte salve queste differenze però le logiche sono le medesime.

Quanto pesa secondo lei il modo in cui migranti e stranieri vengono rappresentati a livello mediatico e quali sono gli strumenti grafici e narrativi che vengono utilizzati per criminalizzarli?

Ci sono tantissimi modi. Il primo è semplicemente l’attenzione. Quando vennero violentate una ragazza al parco della Caffarella a Roma e una a Guidonia da dei ragazzi stranieri, la Repubblica (un giornale non di destra né xenofobo) gli dedicò centinaia di articoli, quindi l’attenzione è la prima cosa. Le violenze da parte di italiani non hanno mai ricevuto una copertura simile.

La provenienza è indicata, come se fosse una categoria utile a capire gli eventi.

La seconda cosa sono le strategie referenziali (in che modo vengono chiamate le persone). Si mette in primo piano la provenienza straniera, variabile a seconda dei cicli di cui parlavo prima, a volte nel titolo altre volte nel testo ma si fa in ogni caso, anche quando non è pertinente per la comprensione della notizia. Una cosa che è in contraddizione con moltissimi codici deontologici. Se sapere che vieni dalla Tunisia non mi serve a capire, perché dirlo? È come dire “persona con i ricci fa una rapina”. Fissa nella memoria in modo marcato questa categoria di provenienza come categoria che ci aiuta a capire perché è stata fatta questa cosa.

Oppure, quando vennero compiute delle violenze sessuali a Rimini nel ’97 i media di tutto il paese hanno iniziato a tematizzare la notizia, leggendola sotto l’angolatura “violenze sessuali & immigrazione”. I giornali predispongono a volte degli specchietti come “migranti e criminalità” citando tutti gli episodi simili, perché la notizia è stata tematizzata in questo modo, non come, invece, giovani violentatori o maschi violentatori, ma come stranieri violentatori. A questo punto cercano notizie simili e ci dicono che quella è la chiave interpretativa per capire quello che è successo. Implicitamente ci stanno dicendo questo. Tutti questi sono modi in cui giornali e telegiornali danno un senso all’evento. Non è interessante fare informazione dicendo “tizio ha fatto x a caio in quel posto”, invece dire “l’ondata dei serial killer” ci dà l’idea di un fenomeno nuovo e quindi diventa interessante giornalisticamente. Spesso purtroppo ci si basa sulla caratteristica della provenienza.

Poi c’è anche l’uso delle fotografie: il violentatore italiano non viene mai ritratto, la sua foto non viene pubblicata sul giornale, perché potrebbe querelare, invece con gli stranieri si fa. Infine nel linguaggio, l’uso delle generalizzazioni, il plurale generico (“un altro evento che si aggiunge alla lunga lista dei crimini commessi dagli immigrati)”, un modo per dire “questo non è un fatto singolo ma si lega a tanti altri fatti”.

 

 

Il sostegno della Commissione europea alla produzione di questa pubblicazione non costituisce un’approvazione del contenuto, che riflette esclusivamente il punto di vista degli autori, e la Commissione non può essere ritenuta responsabile per l’uso che può essere fatto delle informazioni ivi contenute.

 

Foto: Emiliano Bar – licenza

 

La costruzione di nuove scuole attraverso i fondi del Pnrr #OpenPNRR

La costruzione di nuove scuole attraverso i fondi del Pnrr #OpenPNRR

Sono 216 le nuove scuole che saranno costruite attraverso il piano previsto dal Pnrr. Un investimento innalzato dagli 800 milioni iniziali a oltre 1 miliardo di euro. Risorse che, insieme agli altri progetti sull’edilizia scolastica, dovranno fare fronte a necessità e carenze di lungo periodo.

 

A maggio sono state pubblicate le graduatorie delle aree in cui saranno costruite le nuove scuole previste dal Pnrr. Parliamo di 216 istituti scolastici per un importo totale stanziato superiore al miliardo di euro.

€ 1,19 mld stanziati per il piano di sostituzione delle scuole.

Una cifra superiore rispetto agli 800 milioni indicati nel Pnrr, in seguito a un aumento di fondi che consentirà di costruire 21 nuove scuole in più rispetto alle 195 inizialmente previste.

Un incremento deciso per far fronte alle tantissime richieste pervenute. In base alle informazioni pubblicate dal ministero, le domande arrivate alla scadenza dell’avviso, a febbraio di quest’anno, sono state 543. Arrivate in misura massiccia soprattutto dagli enti locali di Campania (95), Lombardia (61), Veneto (47), Emilia-Romagna (45) e Toscana (42).

Sono stati 362 gli interventi entrati in graduatoria, per un totale di quasi 2 miliardi di euro richiesti. Di questi, 216 hanno raggiunto un punteggio che consentirà l’accesso ai fondi. Tra quelli entrati in graduatoria, restano comunque fuori dal finanziamento del bando 146 interventi, per un totale di 776,6 milioni di euro.

€ 1,97 mld gli importi totali richiesti dagli enti nella graduatoria del bando “nuove scuole”.

Per il Pnrr la sfida è riuscire a compensare ritardi e divari di lungo periodo del sistema educativo italiano.

Va specificato che non si tratta dell’unico intervento previsto dal Pnrr sull’edilizia scolastica: il più corposo è infatti rappresentato dai 3,9 miliardi destinati al piano di messa in sicurezza delle scuole. Perciò questo intervento, relativo al progetto nuove scuole, è chiamato a coprire solo una parte del fabbisogno esistente.

Basti pensare che mentre il piano “nuove scuole” interviene su 410mila metri quadri di patrimonio edilizio (le 195 scuole inizialmente stimate nel Pnrr), quello di messa in sicurezza riguarda la ristrutturazione di 2,4 milioni di metri quadri.

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Allo stesso tempo, la grande partecipazione al bando segnala quanto sia avvertito come centrale l’investimento sulle scuole italiane, a partire dal rinnovamento del patrimonio edilizio. E indica come lo stanziamento di risorse in questo ambito intervenga molto spesso su necessità e carenze esistenti da lungo periodo.

17,8% gli edifici scolastici classificati come vetusti (2018).

Approfondiamo meglio le previsioni del Pnrr sull’edilizia scolastica e, nello specifico, la destinazione delle risorse previste dal progetto delle nuove scuole, anche rispetto alla condizione del patrimonio esistente.

In cosa consiste il piano nuove scuole

Le linee di intervento previste dal Pnrr sull’edilizia scolastica sono numerose: dalla messa in sicurezza del patrimonio esistente alla costruzione di mense e palestre. Gran parte di queste, come approfondiremo nel corso dell’articolo, sono stanziate all’interno della quarta missione, dedicata a istruzione e ricerca.

Il piano per le nuove scuole riguarda la missione sulla transizione verde.

Tuttavia, la quarta missione del piano nazionale di ripresa e resilienza, specificamente mirata al comparto educativo, non esaurisce tutti gli interventi in materia di edilizia scolastica. Vi è appunto il piano per la costruzione delle nuove scuole (più propriamente, il piano di sostituzione e riqualificazione energetica degli edifici scolastici). Questo è inserito nella missione 2, denominata “rivoluzione verde e transizione ecologica”.

-50% la riduzione del consumo di energia finale prevista per le nuove scuole dal Pnrr.

Su tale linea di intervento il Pnrr prevede la demolizione e ricostruzione delle scuole. A differenza del piano di messa in sicurezza e ristrutturazione, si tratta dei casi

(…) in cui gli interventi di adeguamento sismico o di miglioramento associati ad una consistente ristrutturazione finalizzata alla riduzione dei consumi energetici non sono tecnicamente ed economicamente convenienti.

Il piano per la costruzione di nuove scuole sarà probabilmente quello più innovativo tra tutti gli interventi previsti dal Pnrr per l’edilizia scolastica. Perché consentirà di creare degli ambienti educativi all’avanguardia, in termini di qualità edilizia, di rispetto per l’ambiente, di presenza di spazi verdi e connettività.

In questa direzione, sempre nel mese di maggio, sono state presentate le linee guida per le scuole del futuro. Tale documento, redatto da un apposito gruppo di esperti, sarà la base per le future progettazioni. Con l’obiettivo di costruire luoghi di apprendimento nuovi non solo nelle forme, ma concepiti come veri e propri laboratori didattici, aperti al territorio.

Gli interventi del piano per le nuove scuole

Attraverso i dati pubblicati nelle graduatorie, possiamo ricostruire dove saranno direzionati gli interventi. Oltre il 40% delle risorse, in base alla clausola prescritta dal Pnrr, andranno al mezzogiorno.

42,4% gli importi per la costruzione di nuove scuole destinati a sud e isole.

La Campania, con 213 milioni di euro di finanziamento (quasi il 18% del totale) è la prima regione per importi finanziati dalla misura. I progetti qui previsti porteranno alla costruzione di 35 nuovi istituti scolastici. Segue l’Emilia Romagna, con 146 milioni di euro finanziati per 23 nuove scuole.

I 216 interventi finanziati prevedono nella maggior parte dei casi (183, l’85% del totale) la demolizione con successiva ricostruzione nello stesso luogo. Solo il restante 15% (33 interventi) indica come modalità progettuale la demolizione e costruzione della nuova scuola in un’altra sede. Con quote comunque variabili tra le regioni: prevedono la ricostruzione delocalizzata 2/3 degli interventi in Liguria, 1/3 di quelli della Basilicata, nonché il 30% dei progetti emiliano-romagnoli.

In 5 regioni (Molise, Piemonte, Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle D’Aosta) tutti i progetti finanziati indicano la demolizione edilizia e la successiva ricostruzione nella stessa area.

Scendendo a livello locale, i maggiori fondi convergeranno verso le scuole di due territori campani. Il casertano, dove i finanziamenti ammontano complessivamente a 82 milioni di euro per 11 interventi, e il salernitano (47,66 milioni di euro per 11 interventi).

Seguono le aree metropolitane di Milano (44,8 milioni, 4 interventi), Roma (41,18 milioni, 9 interventi), Bari (40,15 per 6 progetti) e Napoli (37,77 milioni per 6 interventi).

1/10 dei finanziamenti Pnrr per le nuove scuole si concentra nelle province di Caserta e Salerno.

La destinazione delle risorse verso i territori campani, e in particolare nel casertano, non deve stupire. Caserta è – insieme a Napoli – la provincia italiana con la quota più elevata di residenti in età scolastica. Il 14,1% della popolazione ha tra 6 e 18 anni, contro una media nazionale attorno al 12%.

E sebbene la quota di edifici vetusti risulti – come media provinciale – inferiore al dato nazionale (8,1% contro 17,8%), nei comuni casertani interessati dall’intervento in media solo il 5% delle scuole nel 2018 risultava progettato o successivamente adeguato alla normativa tecnica di costruzione antisismica.

27 gli enti locali che riceveranno un finanziamento superiore ai 10 milioni di euro.

Il comune di Castel Volturno, in provincia di Caserta, è quello che riceverà il finanziamento più consistente per la costruzione di nuove scuole, per un totale di 29,65 milioni di euro. Seguono la città metropolitana di Milano (24 milioni di euro), la provincia di Fermo (21,7), quella di Avellino (19,6).

Da notare come anche in questo caso emerga una ricorrenza rispetto al territorio casertano. Sono 3 gli enti locali più finanziati appartenenti a quest’area, ognuno dei quali ha ricevuto dei fondi per le scuole di competenza. Oltre al già citato comune di Castel Volturno, quello di Santa Maria a Vico (13,4 milioni) e l’ente provinciale di Caserta (11,5).

Cosa dice la grande partecipazione al bando

In totale sono state presentate 543 domande di finanziamento per il bando nuove scuole, come indicato dal ministero.

Sono 362 gli interventi entrati in graduatoria, per un ammontare di quasi 2 miliardi di euro richiesti. L’aumento dello stanziamento da 800 milioni a 1,19 miliardi consentirà di finanziarne 216. Non hanno quindi trovato finanziamento con questa linea di investimento 146 interventi per 776,6 milioni di euro, di cui 36 in Campania, 26 in Veneto, 17 in Calabria.

La Campania, che come abbiamo visto è la regione dove convergeranno le maggiori risorse, è anche quella che aveva inviato più candidature. Nonché quella con più interventi in graduatoria ma non finanziati.

La grande partecipazione al bando perciò segnala quanto questa linea di finanziamento abbia incrociato esigenze e necessità dei territori. Ed è anche indice di come la questione della riqualificazione del patrimonio scolastico sia avvertita dagli enti locali. Una realtà che l’analisi dei dataset sull’edilizia scolastica pubblicati dal ministero dell’istruzione mostra chiaramente.

La condizione attuale delle scuole

I prossimi anni, anche in relazione all’impegno indicato dal Pnrr, vedranno una crescita degli interventi per l’edilizia scolastica statale.

Investimenti che riguardano un patrimonio di oltre 40mila gli edifici scolastici presenti. Prima della pandemia, in base ai dati relativi al 2018, quasi il 18% delle strutture era classificato come vetusto, per un totale di 7.161 edifici.

Sempre in quell’anno, quasi il 13% degli edifici (5.117) risulta progettato (o adeguato successivamente) alla normativa tecnica di costruzione antisismica. Quota che comunque sale attorno al 25% tra i comuni in zona sismica 1, quella considerata a maggior rischio. Circa 2.000 edifici, pari al 4,9% del totale, risultavano censiti in un’area soggetta a vincolo idrogeologico.

1 su 4 edifici scolastici antisismici nei comuni appartenenti alla zona sismica 1 (quella più a rischio).

Si tratta di medie che però comprimono le differenze territoriali esistenti. A fronte di una percentuale del 17,8% di edifici vetusti, ad esempio, la quota raggiunge il 43,7% in Piemonte e il 37,5% in Liguria. Mentre si attesta al di sotto del 10% in Campania (5,97%) e Toscana (5,83%). Allo stesso modo, anche la quota di edifici in aree soggette a vincolo idrogeologico supera il 10% in Umbria (12%) e Liguria (10,95%).

Anche la quota di edifici con progettazione antisismica varia molto. Se si isolano solo i comuni in zona 1, ad esempio, quelli progettati o adeguati alla normativa sono quasi il 60% in Friuli-Venezia Giulia e quasi la metà in Abruzzo (49%). Quota che è più lontana dall’essere raggiunta in regioni come la Calabria e la Campania. Nei comuni calabresi e campani collocati in zona sismica 1, la percentuale di edifici scolastici con progettazione antisismica oscillava – in base ai dati 2018 – tra il 15 e il 20%.

1 su 6 edifici scolastici antisismici nei comuni calabresi appartenenti alla zona sismica 1 (quella più a rischio).

Scendendo nell’analisi a livello locale, il quadro diventa ancora più frastagliato, come emerge a colpo d’occhio dalla mappa. La quota di edifici scolastici vetusti, ad esempio, supera il 50% del totale nei territori della provincia di Alessandria, del vercellese, del triestino, del biellese e dell’area di Asti.

Rispetto alla collocazione delle scuole in zone a rischio idrogeologico, l’incidenza è maggiore nelle province di La Spezia (23,9%) e Siena (21,2%), dove supera un quinto degli edifici scolastici presenti. Seguono i territori di Massa-Carrara (17%), Cuneo (16,5%), Trieste e Rieti (entrambe al 15,2%).

I dati appena visti indicano una forte variabilità della condizione scolastica tra le diverse aree del paese. La messa in sicurezza e riqualificazione di questo patrimonio è un presupposto della stessa offerta educativa presente sul territorio. Per questo – di fianco all’analisi del bando “nuove scuole” – nei prossimi mesi sarà importante monitorare anche tutti gli altri interventi previsti sul patrimonio edilizio delle scuole italiane. Ma quali sono e di cosa si tratta nello specifico?

Gli altri interventi del Pnrr sull’edilizia scolastica

Le risorse previste dal piano delle nuove scuole (più propriamente, il piano di sostituzione e riqualificazione energetica degli edifici scolastici) non sono le uniche che il Pnrr destina al patrimonio edilizio scolastico.

€ 30,88 mld previsti dal Pnrr per la missione 4 (istruzione e ricerca).

Per cominciare, il piano di ripresa e resilienza interviene sul comparto dell’istruzione e della ricerca con una missione dedicata, la quarta. Essa vale quasi 31 miliardi di euro, divisi in due componenti:

  • 19,44 miliardi di euro per il “potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università” (componente M4C1);
  • 11,44 miliardi di euro nel settore “dalla ricerca all’impresa” (componente M4C2).

Nello specifico i 19,44 miliardi della prima componente della missione 4 sono a loro volta suddivisi per ambito di intervento. In particolare, 10,57 miliardi andranno al “miglioramento qualitativo e ampliamento quantitativo dei servizi di istruzione e formazione”. Tra questi, le risorse per l’estensione del tempo pieno (con l’incremento del servizio mensa) e il potenziamento delle infrastrutture per lo sport a scuolaaspetti trattati in altri approfondimenti.

€ 300 mln previsti dal Pnrr per la costruzione e la ristrutturazione di palestre scolastiche e strutture sportive.

Altri fondi della missione istruzione sono meno collegati al tema edilizio. Parliamo degli 830 e 430 milioni che andranno rispettivamente al “miglioramento dei processi di reclutamento e di formazione degli insegnanti” e alla “riforma e potenziamento dei dottorati”.

Ma è soprattutto un altro ambito di intervento della missione 4 a stanziare le maggiori risorse per l’edilizia scolastica. È denominato “ampliamento delle competenze e potenziamento delle infrastrutture” e vale 7,6 miliardi. Di questi, 3,9 sono destinati al piano di messa in sicurezza e riqualificazione delle scuole esistenti. Un piano che – come abbiamo già avuto modo di raccontare – avrà come obiettivo prioritario le aree svantaggiate del paese e punta a ristrutturare oltre 2 milioni di metri quadri di edifici scolastici.

2,4 mln la superficie (in mq) di edifici scolastici coinvolta nel piano di messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica

Vanno inoltre segnalate anche altre misure come il piano scuola 4.0. Proprio come gli interventi su mense e palestre, si tratta di iniziative pensate per potenziare l’offerta didattica su vari fronti, come tempo pieno, sport ed educazione digitale. E che, per essere concretizzate, dovranno necessariamente basarsi su interventi di natura strutturale sull’edilizia scolastica.

Si tratta quindi di una mole di interventi cospicua, che sarà essenziale monitorare nei prossimi mesi e anni. Dalla capacità di investire e riqualificare l’edilizia scolastica, infatti, passano molte delle sfide del sistema educativo nazionale.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto credit: Città di Parma (Flickr) – Licenza

 

Cos’è l’Upb, ufficio parlamentare di bilancio

Cos’è l’Upb, ufficio parlamentare di bilancio

È un organismo che si occupa di controllare le previsioni macroeconomiche fornite dallo stato e fornire analisi sugli andamenti dell’economia italiana.

Definizione

L’ufficio parlamentare di bilancio (Upb) è un organismo indipendente che si occupa di fare analisi e verifiche sulle previsioni macroeconomiche e finanziarie effettuate dal governo. Ha un ruolo centrale nel garantire l’affidabilità dei conti pubblici. Infatti, controlla l’applicazione delle regole di redazione di un bilancio e ne valuta la sostenibilità finanziaria nel lungo periodo. Può confermare oppure contestare le previsioni fornite dal governo attraverso dei rapporti.

L’Upb esercita le sue funzioni principalmente all’interno del ciclo di bilancio, ovvero di quel percorso a tappe in cui viene definito il bilancio finale di uno stato. Nel dettaglio, vengono effettuate le verifiche in questi momenti: nel semestre europeo durante la produzione del documento di economia e finanza (Def) e della sua nota di aggiornamento (Nadef); nella fase parlamentare durante la stesura del disegno di legge di stabilità e il disegno di legge di bilancio.

All’interno dei documenti programmatici di bilancio sono presenti delle stime sugli indicatori macroeconomici e di finanza pubblica, che hanno chiaramente una loro importanza nella definizione delle politiche economiche e di riforma di uno stato. Questi sono raggruppati in due focus chiamati quadri. Possono essere di due tipi: tendenziale, che analizza la situazione al netto delle manovre di finanza pubblica; programmatico, che incorpora gli effetti degli interventi definiti dalla legge di bilancio.   Vai a “Che cos’è il Def, documento di economia e finanza”
L’istituzione dell’Upb è stata voluta dall’Unione europea.

Questo ente è stato istituito nel 2014 in seguito all’entrata in vigore del regolamento europeo 473/2013 riguardante il pareggio di bilancio. L’unione europea ha dedicato molta attenzione ai criteri con cui sono costruite le politiche di bilancio e la costituzione dell’Upb risponde a esigenze di controllo e monitoraggio di queste dinamiche che hanno un’importanza cruciale all’interno dell’economia comunitaria. In Italia, il regolamento europeo è stato recepito tramite la legge costituzionale 1/2012 che va a modificare l’articolo 81 della costituzione italiana. L’istituzione dell’ente è avvenuta con la legge 243/2012 che contiene gli obiettivi e il funzionamento dell’Upb.

Il vertice dell’ente è costituito da un consiglio composto da tre membri di cui un presidente. L’organo è eletto dalle commissioni di bilancio, che selezionano tre tra dieci membri della camera e del senato con competenze specifiche in materia economica. Le direttive e le deliberazioni vengono poi recepite dal direttore generale che ha una funzione di coordinazione delle tre aree di analisi principali: previsioni macroeconomiche, verifiche sulla finanza pubblica e produzione di specifiche indagini settoriali.

Dati

L’Upb è un organismo indipendente e proprio per questo motivo è necessario che sia trasparente nelle proprie analisi, riportando la sua attività in modo preciso agli organismi legislativi. Oltre ai rapporti di verifica effettuati durante il ciclo di bilancio, vengono prodotti numerosi report su tematiche di rilievo per la finanza pubblica e pubblicazioni periodiche sull’andamento economico.

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato mostra le principali attività dell’Upb dal 2016 al 2021. Non sono considerate le iniziative a carattere internazionale, i convegni e i seminari. Sono invece considerati:

  • i rapporti, valutazioni sulle previsioni macroeconomiche effettuate dal governo nei documenti programmatici;
  • i focus tematici, brevi note che presentano temi di rilievo e attualità per la finanza pubblica e l’economia;
  • le note di lavoro, approfondimenti tecnici che riguardano aspetti più istituzionali:
  • le note sulla congiuntura, analisi trimestrali sull’andamento economico italiano e internazionale;
  • i flash, report veloci su varie tematiche;
  • le audizioni parlamentari.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Upb
(ultimo aggiornamento: giovedì 26 Maggio 2022)

 

Il 2017 è l’anno in cui si sono intensificate maggiormente le principali attività dell’Upb. Infatti, sono stati prodotti 6 focus tematici, 3 note di lavoro, 9 flash e sono state discusse 7 audizioni parlamentari, oltre ai due rapporti e le quattro note trimestrali sulla congiuntura. Queste due ultime attività hanno scadenze fisse sul piano legislativo, per questo motivo il loro ammontare rimane invariato nel corso degli anni. Durante questo periodo, sono state sempre più frequenti le audizioni parlamentari, un momento importante per la trasparenza dell’organo nei confronti degli istituti legislativi.

12 audizioni parlamentari effettuate dall’Upb nel 2021.

Sono stati presentati i lavori di revisione e analisi delle stime proposte dal governo nelle fasi del ciclo di bilancio in cui l’intervento dell’Upb è richiesto a livello legislativo. Inoltre, sono state effettuate delle audizioni legate al Pnrr e a riforme del sistema tributario, oltre a specifiche presentazioni legate ai due decreti sui sostegni. Quindi c’è stato anche un monitoraggio e un’analisi dei provvedimenti legati alla ripresa post pandemica dello stato. Un tema centrale che avrà numerose implicazioni economiche nei prossimi anni e per il quale si è ritenuta necessaria una consulenza e un lavoro di revisione approfondito da parte dell’Upb.

Analisi

Come è stato scritto in precedenza, questo organismo è stato istituito perché l’Unione europea ripone una grande attenzione nella correttezza delle previsioni e delle analisi. Se ad esempio ci fosse una sovrastima delle previsioni del Pil, la programmazione delle attività future di uno stato potrebbe essere troppo ambiziosa rispetto alle effettive risorse. Inoltre, dal momento che ci sono più stati che condividono la stessa moneta, le scelte di bilancio vanno ad inficiare anche sulle altre economie. È necessaria quindi un’attenzione particolare per proporre stime corrette seguendo una metodologia comune e definita.

Trasparenza e autonomia sono i due punti cardine dell’Upb.

Un altro aspetto importante che riguarda l’Upb è la sua indipendenza. Il personale può essere selezionato anche tra persone che hanno incarichi pubblici ma è necessaria la collocazione fuori ruolo rispetto all’occupazione precedente nel momento in cui si acquisisce la posizione. I membri del consiglio sono nominati per sei anni e non possono essere confermati. Inoltre, non possono esercitare alcuna attività professionale, amministrativa o di consulenza all’interno di altri enti pubblici o privati in contemporanea al periodo di lavoro all’Upb. L’autonomia di questo ente va di pari passo con la trasparenza nei confronti degli organismi legislativi, seguendo i principi delineati dall’Ocse.

 

I politici e le organizzazioni titolari delle misure del Pnrr Mappe del potere

I politici e le organizzazioni titolari delle misure del Pnrr Mappe del potere

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è di enorme importanza per il rilancio del paese e per questo è cruciale monitorare l’andamento delle misure previste, ma anche le organizzazioni titolari e i politici che le guidano.

 

Come è noto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si propone come strumento chiave per modernizzare il paese e rilanciare la crescita economica. A questo scopo l’Italia ha ricevuto dall’Unione europea finanziamenti per un totale di 191,5 miliardi di euro, suddivisi tra sovvenzioni (68,9 miliardi) e prestiti (122,6 miliardi). A questi ha poi aggiunto 30,62 miliardi del fondo complementare, necessari a completare i progetti contenuti nel Pnrr.

Per questo è importante monitorare l’attuazione degli investimenti e delle riforme previste dal piano come anche le organizzazioni e le persone responsabili di porli in essere.

Trasparenza, informazione, monitoraggio e
valutazione del PNRR

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al Piano nazionale di ripresa e resilienza

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Ciascuna delle misure previste dal piano è di grande importanza per il rilancio del paese. Tuttavia ad alcuni temi sono destinate maggiori risorse. Queste possono essere un parametro per valutare l’impegno che il Pnrr pone su ciascun tema e l’importanza relativa di ciascuno degli enti titolari. Un approccio certamente utile per gli investimenti ma decisamente meno per le riforme previste dal piano. Anche alcune riforme infatti hanno un costo ma in questo caso la valutazione della loro importanza passa necessariamente per un analisi di tipo qualitativo.

Le organizzazioni titolari delle misure del Pnrr e i responsabili politici

Come accennato alle organizzazioni titolari delle misure del Pnrr è affidata la responsabilità della realizzazione degli interventi e la gestione delle risorse assegnate. Queste non corrispondono necessariamente ai soggetti che concretizzano i progetti. Ciononostante spetta a loro individuare eventuali soggetti attuatori e sarà loro responsabilità assicurarsi la riuscita di ciascuna delle misure che gli sono state assegnate.

Gli enti titolari individuati dal Pnrr sono solitamente ministeri o dipartimenti della presidenza del consiglio. Per questo al loro vertice si trova sempre una figura che può essere individuata come vertice politico, a cui la legge attribuisce responsabilità importanti.

A ciascun ministero corrisponde un vertice politico, il ministro, a cui è attribuito il potere di indirizzo del ministero e di conseguenza la responsabilità politica delle decisioni assunte. Vai a “Come sono organizzati i ministeri”

Nel caso dei dipartimenti della presidenza del consiglio il vertice politico può essere attribuito a un ministro senza portafoglio, a un sottosegretario oppure rimanere in capo al presidente del consiglio stesso.

I 2 dicasteri a cui il Pnrr e il fondo complementare attribuiscono maggiori risorse sono il ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (49,5 miliardi di euro), guidato dal ministro Enrico Giovannini, e il ministero della transizione ecologica (39,2 miliardi), al cui vertice si trova il ministro Roberto CingolaniDue ministri cosiddetti “tecnici” o comunque non diretta espressione di una forza politica della maggioranza.

40% delle risorse del Pnrr e del fondo complementare sono attribuite a misure di cui sono titolari il ministero delle infrastrutture e quello della transizione ecologica.

A seguire il ministero dello sviluppo economico (€ 25 mld), guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti, quello della salute con Roberto Speranza di Leu (€ 18 mld) e quello dell’istruzione con Patrizio Bianchi (€ 17,5 mld), anche lui un tecnico.

Interessante poi è il caso del ministero del lavoro, guidato da Andrea Orlando del Partito democratico (Pd). Questa infatti è l’unica organizzazione a cui sono state attribuite più risorse per l’attuazione delle riforme (4,4 miliardi) che per gli investimenti (2,8). È bene specificare comunque che con il termine riforme non ci si riferisce necessariamente ad atti che richiedono un intervento legislativo ma anche, più semplicemente, a dei decreti ministeriali o di altri atti di tipo amministrativo. Per quanto riguarda il ministero del lavoro, ad esempio, si tratta della riforma delle politiche attive del lavoro e alla formazione, che prevede l’adozione del Programma nazionale per la garanzia di occupabilità dei lavoratori e del Piano nazionale nuove competenze.

Anche al ministero dell’università e al dipartimento della trasformazione digitale sono attribuite risorse notevoli per le riforme. Nel primo caso si tratta di 960 milioni destinati agli alloggi per gli studenti, nel secondo di 155 milioni per il supporto alla trasformazione delle pubbliche amministrazioni locali.

L’importanza dei ministri “tecnici” per il Pnrr

Già il fatto che i primi due dicasteri per quantità di risorse assegnate siano guidati da ministri indipendenti dice molto su come il presidente del consiglio Draghi, esso stesso indipendente, ha deciso di guidare un governo che tiene al suo interno quasi tutti i partiti presenti in parlamento.

Ma oltre ai ministeri delle infrastrutture e della transizione ecologica sono altri 8 gli esponenti di governo non affiliati a dei partiti della maggioranza a cui sono state attribuite risorse che complessivamente raggiungono quasi il 70% del totale.

69,2% gli importi del Pnrr e del fondo complementare gestiti da organizzazioni al cui vertice siede un responsabile politico che non è espressione di partito.

Entrando più nel dettaglio delle risorse gestite dai ministri “tecnici” vediamo come questi siano impegnati su 9 degli 11 macro temi in cui può essere suddiviso il Pnrr. Pur non essendo una classificazione ufficiale, la distinzione tra temi e macrotemi adottata da OpenPNRR, permette di orientarsi tra le molte misure del piano. La classificazione ufficiale, che distingue per missioni, componenti e misure ha invece finalità tecniche, meno utili da un punto di vista divulgativo, visto che esistono interventi trasversali che si riferiscono a più missioni.

Le infrastrutture, con ben 66 miliardi, sono il tema a cui sono destinate più risorse, la maggior parte delle quali gestite dal ministro delle infrastrutture Giovannini (42 miliardi) e dal ministro della transizione ecologica Cingolani (18,9).

Proprio alla transizione ecologica poi sono destinati circa 34 miliardi di cui 30 attribuiti a ministeri guidati da “tecnici” e in particolare 19 gestiti dall’omonimo ministero.

Anche il tema dell’istruzione (Scuola, università e ricerca) è in larga parte gestito da ministri tecnici (circa 28 miliardi su 29) e in particolare dal ministro dell’istruzione Bianchi (16,8 miliardi) e dalla ministra dell’università Messa (11,7).

Gli altri temi su cui i ministri indipendenti dai partiti gestiscono la maggior parte delle risorse sono poi la digitalizzazione (15,7 miliardi di cui 13,4 gestiti da Colao), l’inclusione sociale (8,7 miliardi di cui 3,3 gestiti dalla ministra dell’interno Lamorgese e 2 dal ministro delle infrastrutture Giovannini) e la giustizia, che fa integralmente capo alla ministra Cartabia.

A ministri politici invece sono attribuite la maggior parte delle risorse in tema di impresa e lavoro, salute, cultura e turismo e pubblica amministrazione.

I ministri “tecnici” e i loro sottosegretari

Certo è ovvio che il ministro, per quanto resti il responsabile politico, non è l’unico soggetto influente all’interno di un ministero. Intanto sono fondamentali anche le figure dei vertici amministrativi e in particolare i segretari generali dei ministeri, i capi dipartimento e i direttori generali.

Rimanendo però in ambito politico anche sottosegretari sono soggetti influenti nel governo e in particolare nel loro dicastero. A questi è attribuito il compito di coadiuvare l’azione del ministro, cui sono sottoposti. Tuttavia non è un caso che solitamente i sottosegretari appartengano a partiti diversi rispetto al ministro, in un ottica di riequilibrio interno alla maggioranza.

Tale dinamica, importante in linea generale, assume un ruolo ancora più interessante nei ministeri guidati dai tecnici. Qui infatti i sottosegretari, quasi sempre espressione della maggioranza di governo, possono essere letti come la voce dei partiti all’interno di ministeri gestiti da esponenti indipendenti.

Nei 6 ministeri al cui vertice non siede un esponente politico (escludendo il ministero dell’università dove non sono presenti sottosegretari) sono 2 i partiti che, attraverso propri sottosegretari, risultano più rappresentati. Innanzitutto il Movimento 5 stelle, unico gruppo politico con un esponente in ciascuno di questi dicasteri. Al secondo posto la Lega. A questo proposito tuttavia è da segnalare che il sottosegretario al ministero dell’economia Federico Freni è stato considerato in questo caso indipendente, non risultando iscritto alla Lega. Tuttavia è noto che sia stato proprio questo partito a indicarlo dopo che un suo esponente, Claudio Durigon, aveva dato le dimissioni dall’incarico.

I ministri del centro-destra e i temi del Pnrr

Tornando ai responsabili politici delle misure previste dal Pnrr è interessante osservare quali temi siano maggiormente all’attenzione degli esponenti di governo di ciascun partito, almeno in termini di risorse gestite.

Quanto al centro destra i membri del governo con responsabilità di primo piano sulle risorse del Pnrr appartengono principalmente alla Lega e in misura minore a Forza Italia.

Il macro tema Imprese e lavoro è in generale quello su cui il centro destra gestisce più risorseQuasi tutte attraverso il ministro per lo sviluppo economico Giancarlo Giorgetti della Legama in misura minore anche dalla ministra per la coesione territoriale Mara Carfagna.

Decisamente meno le risorse amministrate in tema di cultura e turismo, attraverso il ministro del turismo Garavaglia (Lega), e quelle per la transizione ecologica, di cui anche in questo caso si occupa in larga parte Giorgetti.

Quanto a Forza Italia i temi su cui risulta più impegnata in termini di risorse sono l’inclusione sociale (Mara Carfagna) e la pubblica amministrazione (Renato Brunetta).

Il centro sinistra, il movimento 5 stelle e i temi del Pnrr

Quanto agli esponenti di governo del centrosinistra e del Movimento 5 stelle, quello che amministra più risorse nell’ambito del Pnrr è senza dubbio Roberto Speranza, di Liberi e Uguali. Il ministro della salute infatti è responsabile della gestione di 17,5 miliardi di euro nell’ambito del tema salute oltre che di circa mezzo miliardo sul tema Scuola, università e ricerca.

Ai ministri del Partito democratico invece sono attribuite responsabilità su vari temi quali Infrastrutture, Transizione ecologica ed inclusione sociale. Le risorse maggiori però riguardano il tema Impresa e lavoro di cui si occupa il ministro del lavoro e delle politiche sociali Andrea Orlando, e il tema Cultura e turismo, sotto la responsabilità del ministro Dario Franceschini.

Anche il Movimento 5 stelle ha esponenti di governo responsabili di cifre importanti in ambito di Impresa e lavoro. Il ministro delle politiche agricole Stefano Patuanelli è infatti responsabile della gestione di 2 miliardi di euro in quest’ambito, mentre il ministro degli esteri Luigi di Maio di 1 miliardo e 200 milioni e la ministra per le politiche giovanili Fabiana Dadone di 650 milioni.

Sotto la responsabilità di Patuanelli inoltre ricadono altri 2 miliardi circa in tema di Transizione ecologica e 800 milioni in tema di Infrastrutture.

Infine anche alla ministra per le pari opportunità Elena Bonetti, di Italia viva, sono attribuite alcune responsabilità su una quota di risorse del Pnrr, anche se in misura molto contenuta. Si tratta infatti di 10 milioni di euro destinati alla misura Sistema di certificazione della parità di genere che rientra nel tema Impresa e lavoro.

Foto: Governo.it

 

San Francesco Caracciolo

 

San Francesco Caracciolo


Nome: San Francesco Caracciolo
Titolo: Sacerdote
Nome di battesimo: Ascanio Caracciolo
Nascita: 13 ottobre 1563, Santa Maria di Villa, Chieti
Morte: 4 giugno 1608, Agnone, Isernia
Ricorrenza: 4 giugno
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Come già nell’Antico Testamento, cosi nel Nuovo, Dio non tralascia mai di suscitare, secondo le necessità della Chiesa, uomini eminenti per santità, zelo e dottrina.

Uno di questi fu S. Francesco Caracciolo, fondatore dei Chierici Regolari Minori.

Nacque il 13 ottobre 1563 a Santa Maria di Villa negli Abruzzi. Il suo nome di battesimo fu Ascanio. I suoi genitori Ferdinando Caracciolo e Isabella Barattucci, che alla nobiltà univano una pari bontà, furono premurosi di inspirare fin dalla culla al piccolo Francesco i sentimenti della religione e procurargli in seguito un’ottima educazione.

E Francesco, da parte sua, trafficò bene i talenti concessigli da Dio. Rinnegando costantemente se stesso, aiutato dalla grazia di Dio, seppe vincere i suoi difetti e combattere le sue passioni.

Ancor piccolino ebbe sommamente a cuore due cose: l’amore a Gesù. Eucaristico ed a Maria SS.

Una grave malattia che lo travagliò lungamente gli fece conoscere quanto Dio voleva da lui: doveva diventare religioso, e padre di religiosi. Decise allora il definitivo abbandono del mondo per consacrarsi totalmente a Dio. Appena guarito si portò a Napoli a compiervi gli studi di teologia e in breve divenne sacerdote. Il primo apostolato lo esercitò nelfa città stessa, disponendo i carcerati condannati a morte a riconciliarsi con Dio.

Ma il campo di bene era troppo piccolo per lui. Dio lo chiamava più in alto. Agostino Adorno fattosi sacerdote aveva deciso la fondazione di un nuovo istituto; e per meglio riuscire s’era associato un compagno, e ne invitava per lettera un terzo. Per uno sbaglio la lettera d’invito anzichè al vero destinatario che si chiamava pure Caracciolo, andò a finire al nostro Santo. Questi ricevendola come la voce stessa di Dio, accettò e con tutto l’ardore del suo cuore si diede alla santa impresa.

Ritiratisi tutti e tre nel convento dei Camaldolesi in Napoli fecero 40 giorni di ritiro. Scrissero quindi la regola e si portarono a Roma per l’approvazione.

Sisto V incoraggiò l’opera ed essi ritiratisi di nuovo a Napoli il 9 aprile 1589, fecero la solenne professione nella quale Ascanio prese il nome di Francesco.

La congregazione si estese rapidamente nel Regno di Napoli e nella Spagna sebbene tra mille difficoltà. Intanto mori il P. Adorno e Francesco divenne generale dell’ordine.

Molte furono le calunnie dirette contro di lui da parte di gente invidiosa dell’alta sua carica, ma anche queste egli sopportò umilmente per amore di Dio. Sebbene superiore generale, continuava a compiere tutte quelle azioni che compie l’ultimo religioso e ordinariamente la sua conversazione era virtù. Ancor vivo operò molti miracoli.

Morì ad Agnone l’anno 1608 alla carica di superiore generale. il 24 marzo 1802.

PRATICA. Tutti gli istituti religiosi sono come il mare che riceve acque da tutte le parti e le torna a distribuire a tutti i fiumi. Facciamo qualche offerta a beneficio degli istituti religiosi.

PREGHIERA. O Signore, che hai decorato il beato Francesco con lo zelo nella preghiera e coll’amore alla penitenza, dà ai tuoi servi di profittare così della sua imitazione che, pregando e riducendo il corpo in soggezione, meritiamo di giungere alla gloria celeste.

MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Agnone in Molise, san Francesco Caracciolo, sacerdote, che, mosso da mirabile carità verso Dio e il prossimo, fondò la Congregazione dei Chierici regolari Minori