Archivi giornalieri: 20 giugno 2022

Bonus 200 euro: reddito lordo, netto o Isee? Familiare o personale?

Bonus 200 euro: reddito lordo, netto o Isee? Familiare o personale?

Il decreto aiuti ha previsto un nuovo bonus per i lavoratori dipendenti, gli autonomi e i pensionati: 200 euro che saranno pagati durante il 2022, in base al reddito. In arrivo novità, anche per chi percepisce il reddito di cittadinanza

 

Con gli ultimi aggiustamenti del governo Draghi al decreto aiuti 2022 arriva un nuovo bonus da 200 euro in base al reddito lordo per pensionati, lavoratori dipendentiautonomi e professionisti con partita Iva a cui si aggiungono disoccupati, stagionali, colf e chi percepisce il reddito di cittadinanza. Si tratta di una delle misure messe in campo dall’esecutivo contro la crisi energetica, legata anche alla guerra in Ucraina. Ma come funziona il bonus da 200 euro, qual è il limite di reddito (lordo, netto o Isee? Personale o familiare?), quando arriva il pagamento e come ottenerlo se si è autonomi o si percepisce il reddito di cittadinanza: ecco tutti i dettagli che si conoscono al momento.

A chi spetta: il reddito per il bonus da 200 euro. Lordo o Isee? Personale o familiare?

Partiamo da come funziona e a chi spetta il bonus da 200 euro: sarà una tantum, e quindi pagato una sola volta durante questo 2022, e comporterà un aumento netto della busta paga dei lavoratori dipendenti, del guadagno di quelli autonomi e del cedolino dei pensionati italiani. Secondo le stime rese note dal presidente del Consiglio Mario Draghi interesserà 28 milioni di persone, a cui si aggiungono disoccupati, cassaintegrati a zero ore, stagionali, collaboratori domestici e percettori dell’RDC.

 

La cifra sarà uguale per tutti e non andrà a scalare a seconda di quanto si guadagna. Quindi o se ne avrà diritto in toto oppure no. Questo sussidio del dl aiuti spetterà a chi ha un reddito lordo fino a 35000 euro l’anno (che corrispondono, al netto delle tasse a circa a 25000 euro): per il bonus da 200 euro non si prenderà in considerazione l’Isee (l’indicatore che valuta la situazione finanziaria familiare) ma il reddito lordo personale, ossia quanto si è guadagnato negli ultimi 12 mesi, escludendo prima casa e l’eventuale Tfr. In questo modo in una sola famiglia il contributo potrà essere percepito da uno o più componenti.

A differenza di quanto previsto nella prima stesura del decreto aiuti, il bonus di 200 euro andrà anche a chi percepisce il reddito di cittadinanza (RDC) e ai lavoratori stagionali, ai collaboratori domestici (colf), ai disoccupati e ai cassaintegrati a zero ore (quelli che nel mese di giugno saranno in queste due situazioni), sempre con un limite di reddito lordo fissato a 35.000 euro (anche in questo caso non si prenderà in considerazione l’Isee).

Bonus 200 euro: come ottenerlo e quando arriva nel 2022 per dipendenti, autonomi, professionisti e pensionati

 

Per i pensionati e i dipendenti pubblici e privati non si dovrà fare domanda per richiedere il bonus da 200 euro del decreto aiuti, ma sarà pagato in automatico in busta paga o nella pensione con un possibile conguaglio a fine anno se si supereranno i 35000 euro di reddito. Al termine del 2022, se si sarà guadagnato più di questa soglia, il datore di lavoro recupererà i 200 euro. Ma quando arriva il bonus? Il pagamento è atteso nella busta paga e nel cedolino della pensione per il mese di luglio.

Per il bonus da 200 euro destinato agli autonomi e ai professionisti (partite Iva e iscritti alle casse previdenziali autonome o alla gestione separata Inps) sarà creato un fondo ad hoc, un po’ come successo per i sussidi Covid, e probabilmente bisognerà richiederlo. Sarà un decreto del Ministero del Lavoro a stabilire i dettagli. Anche per loro pagamento è previsto probabilmente entro il mese di luglio 2022.

Chi lo paga

 

Per finanziare il pagamento del bonus da 200 euro, a chi ha un reddito personale lordo annuo fino a 35000 euro, è stata aumentata la tassazione sugli extra profitti degli operatori energetici che passa dal 10 al 25%. Di fatto questo sussidio una tantum sarà versato dall’Inps ai pensionati, per i dipendenti il datore di lavoro (sostituto di imposta) anticiperà i 200 euro in busta paga, e le aziende scaleranno la cifra al successivo pagamento delle tasse, mentre per gli autonomi come detto sarà un fondo istituito presso il Ministero del Lavoro. Adesso si attende la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del testo del decreto aiuti.

 
 

L’obiettivo dichiarato del centrista 2.0

L’obiettivo dichiarato del centrista 2.0

DI MAIO. Lo strappo nei 5 Stelle e la genealogia politica del ministro degli esteri che ha promesso ai suoi di restare sempre al centro degli equilibri di governo
<img src="data:;base64,” alt=”” />L’obiettivo dichiarato del centrista 2.0
Luigi Di Maio – LaPresse
 
Giuseppe Conte annuncia un’organizzazione del M5S come contrappeso al potere acquisito in questi anni da parlamentari e uomini di governo e un voto degli iscritti che potrebbe confermare il tetto del doppio mandato. E Luigi Di Maio decide di rompere platealmente. Il ministro degli esteri lancia il suo attacco schierandosi con nettezza sul fronte governista. Lo fa in nome del fatto che «il mondo è cambiato» e che il M5S non può restare «al 2018», cioè all’anno in cui lui era il capo politico e decise di portare Conte a Palazzo Chigi in maggioranza con la Lega. Adesso in molti…

il manifesto

Una legge costituzionale di iniziativa popolare contro la secessione dei ricchi

RIFORME. Costituzionalisti, economisti, filosofi presentano oggi un’iniziativa per contrastare l’autonomia differenziata alla quale sta lavorando la ministra Gelmini. Al senato la strada non è più sbarrata
<img src="data:;base64,” alt=”” />Una legge costituzionale di iniziativa popolare contro la secessione dei ricchi
La ministra per gli affari regionali Mariastella Gelmini – LaPresse
 
La ministra conferma. Interrogata dai deputati di Leu Conte e Fassina, Mara Carfagna, ministra per il Sud e la coesione territoriale, risponde alla camera che la legge quadro per l’autonomia differenziata è in arrivo. Non c’è crisi che tenga, (anche) per questo governo l’urgenza è sempre quella di andare dietro alle richieste delle regioni ricche. Che non sono solo le leghiste Veneto e Lombardia, ma anche le «democratiche» Emilia Romagna e, adesso, Toscana. Gli argomenti con cui Carfagna risponde a chi, come gli interroganti, teme la «secessione dei ricchi» sono quelli già sentiti: prima dell’autonomia ci dovranno essere i famosi…

Il rispetto della quota del Pnrr per il sud rivela molte criticità #OpenPNRR

Il rispetto della quota del Pnrr per il sud rivela molte criticità #OpenPNRR

La “quota mezzogiorno” prevede che il 40% delle risorse allocabili territorialmente sia destinato a territori al sud. Un vincolo per ridurre i divari territoriali, ma che in diversi casi non viene garantito.

 

Uno degli obiettivi più ambiziosi e cruciali per il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è la riduzione dei divari territoriali. In particolare quelli tra il sud Italia – storicamente svantaggiato soprattutto a livello socio-economico – e il resto del paese.

Il Pnrr è un’opportunità storica per lo sviluppo del sud.

A tale scopo il governo ha stabilito – con il decreto legge n.77 del 31 maggio 2021 – che alle regioni del mezzogiorno sia destinato almeno il 40% di tutte le risorse allocabili, previste dal Pnrr e dal fondo complementare (Pnc). Le organizzazioni titolari hanno quindi l’obbligo di legge di rispettare questa soglia, per gli investimenti che prevedono risorse da destinare territorialmente. In questo quadro, il dipartimento per le politiche di coesione della presidenza del consiglio (Dpcoe) ha il compito di verificare periodicamente che gli enti titolari rispettino la quota indicata.

9 su 22 gli enti titolari che, al 31 gennaio 2022, risultano non rispettare la quota mezzogiorno.

In una relazione del 9 marzo scorso il Dpcoe ha condiviso i risultati del primo processo di verifica, su dati aggiornati al 31 gennaio 2022. Ciò che emerge è che da un lato la soglia risulta mediamente rispettata (40,8% del totale delle risorse con destinazione territoriale) ma dall’altro, approfondendo i risultati, sono 9 le organizzazioni che registrano percentuali inferiori al 40%. Criticità che dipendono anche dalla carenza nel Pnrr, di meccanismi in grado di compensare efficacemente le difficoltà amministrative e progettuali degli enti locali del sud. I quali, più spesso, si trovano svantaggiati nella gestione di bandi e gare d’appalto. Senza tutele in questo senso, il mezzogiorno sta perdendo e perderà molte delle risorse che gli spettano per legge.

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Le risorse per il mezzogiorno

Grazie al dialogo con gli enti titolari e alle informazioni fornite dalla ragioneria generale dello stato, il Dpcoe ha classificato le misure del Pnrr (223) e del Pnc (30) aventi destinazione territoriale. Si tratta da un lato, degli investimenti esplicitamente indirizzati a determinati territori, dall’altro, di quelli che prevedono bandi di gara per allocare le risorse.

Una volta individuate queste misure, per calcolare i fondi indirizzati al mezzogiorno, il Dpcoe ha considerato – laddove fosse possibile – le risorse di progetti già identificati, assegnati a determinati territori. Mentre per gli altri investimenti, ha effettuato una serie di stime e proiezioni.

€86 mld circa, il totale destinato al mezzogiorno, al 31 gennaio 2022.

Di queste risorse, quasi un quarto – oltre 23 miliardi di euro – è associato a investimenti di cui è titolare il ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims). Segue il ministero della transizione ecologica (Mite) con 14,3 miliardi di euro. Un risultato prevedibile, considerando che si tratta delle due organizzazioni che gestiscono in assoluto più risorse nel Pnrr, anche al di là del discorso territoriale.

Il rispetto della quota mezzogiorno

Al di là del diverso peso economico degli enti titolari per il sud, è necessario verificare che la quota dei fondi che le organizzazioni indirizzano al mezzogiorno – sul totale di quelli con destinazione territoriale – sia almeno del 40%.

Il ministero dell’economia e delle finanze risulta indirizzare il 100% delle risorse al sud. in questo senso, va sottolineato che il Mef è titolare di un solo investimento avente destinazione territoriale: “Innovazione e tecnologia della Microelettronica“. Come ci si poteva aspettare segue, con una quota del 79,4%, il dipartimento per le politiche di coesione, guidato dalla ministra per il sud Mara Carfagna.

Gli enti che invece risultano non rispettare la quota sono 9 su 22. Si tratta dei ministeri della giustizia, dell’università e della ricerca, della cultura, della transizione ecologica, del lavoro e delle politiche sociali, del turismo, dello sviluppo economico. A questi si aggiungono inoltre il commissario straordinario del governo per ricostruzione sisma e il dipartimento della protezione civile.

Il Mitur e il Mise sono guidati da ministri della Lega.

Le quote più basse sono quelle del ministero del turismo (28,6%) e del ministero per lo sviluppo economico (24,8%). Un paradosso, considerando l’importanza del settore turistico per le regioni del sud Italia e la necessità di un impulso deciso allo sviluppo economico del mezzogiorno. Questo risultato, inoltre, offre una chiave di lettura interessante anche dal punto di vista politico. I due dicasteri in questione, infatti, sono entrambi guidati da due ministri espressione della Lega: Giancarlo Giorgetti al Mise e Massimo Garavaglia al Mitur.

Nel caso del ministero del turismo, la quota mezzogiorno non è rispettata – come si evince sempre dalla relazione del Dpcoe – per via di due investimenti che non prevedono alcuna risorsa per il sud. In un caso si tratta di un investimento interamente dedicato alla città di Roma. Nell’altro, parliamo di una misura che ha lo scopo di rinnovare e riqualificare strutture alberghiere italiane, dando priorità alle aree turisticamente meno sviluppate. Nonostante ciò, il Mitur ha ritenuto di non stimare alcuna risorsa allocata a sud.

Riguardo il ministero dello sviluppo economico, invece, il Dpcoe sottolinea come il mancato rispetto della quota del 40% al mezzogiorno sia dovuto in gran parte all’intervento Transizione 4.0., a cui è associato il 74% delle risorse del Pnrr affidate al Mise. La ragione è che il ministero non ha fissato alcuna riserva territoriale in favore del mezzogiorno.

Le criticità strutturali

Andando oltre ai risultati delle singole organizzazioni titolari, come abbiamo visto in precedenza, la quota del 40% risulta complessivamente rispettata. Tuttavia, è importante considerare due aspetti critici di questo risultato.

32,7% le risorse con destinazione territoriale, calcolate in base a stime effettuate dagli enti titolari.

Una parte rilevante quindi, di tutte le risorse con destinazione territoriale considerate dal Dpcoe nell’analisi, sono frutto di stime, non di fondi già ripartiti. Un aspetto che ovviamente può influenzare di molto il calcolo della quota mezzogiorno.

Gli enti locali del sud hanno difficoltà a gestire e aderire ai bandi.

Altra questione è quella relativa alle risorse di investimenti che, a seguito di bandi e gare, vengono distribuite tra i territori. Il fatto che il 40% di questi fondi vada al mezzogiorno dipende chiaramente anche dall’adesione o meno di soggetti pubblici e privati e dalle capacità amministrative e progettuali degli enti regionali e locali. Al sud si registrano mediamente maggiori difficoltà nella gestione degli iter burocratici necessari per partecipare ai bandi del Pnrr. Questo ha già portato – e rischia di portare anche in futuro – alla situazione paradossale per cui non viene presentato un numero di progetti sufficiente ad allocare il 40% degli investimenti al mezzogiorno.

[…] con la possibile conseguenza che la necessità di raggiungimento dei target e delle milestone previste nel PNRR possa rendere più complessa l’effettiva applicazione della clausola territoriale.

La responsabilità di un impulso allo sviluppo del sud è del governo e degli enti titolari. Le difficoltà amministrative che storicamente colpiscono il mezzogiorno non devono pregiudicare l’accesso di questi territori alle risorse del Pnrr. Un’occasione unica e irripetibile per accorciare i divari tra quest’area e il resto del paese.

Le soluzioni trovate finora

È dunque necessario che siano introdotti dei meccanismi di salvaguardia della quota, laddove risulti una differenza tra l’ammontare di risorse in linea con la soglia del 40% e i fondi effettivamente assegnati al sud. In questo senso, sono tre le scelte finora operate:

  • destinare comunque le risorse mancanti ai territori meridionali
    • attraverso un nuovo bando vincolato al sud,
    • assegnandole a progetti presentati sempre da una regione del mezzogiorno, anche se questa ha esaurito la propria quota di progetti finanziabili;
  • allocare i fondi scorrendo le graduatorie, a prescindere dalla localizzazione dei progetti;
  • non prevedere alcun criterio per ripartire i fondi non allocati a sud.

Sono solo una parte minoritaria (2,5 su 7,1 miliardi di euro) i fondi che andrebbero comunque al sud – salvaguardando la “quota mezzogiorno” – nel caso in cui dovessero mancare progetti finanziabili. Si tratta nello specifico di 7 bandi attivi, relativi a misure di titolarità dei ministeri della cultura (Mic) e dell’interno (Mint).

€3,2 mld le risorse destinate a sud che non prevedono alcun criterio di salvaguardia della “quota mezzogiorno”.

In questo secondo caso, le procedure sono 15 e sono relative a investimenti a titolarità, tra gli altri, di Mise e Mitur. Questo non stupisce dal momento che, come abbiamo visto in precedenza, sono i due enti più lontani dal rispetto della “quota mezzogiorno”.

Infine, 1,4 miliardi di euro – legati a 6 bandi di misure di cui sono responsabili 5 diversi enti – verranno affidati scorrendo la graduatoria, indipendentemente dalla localizzazione territoriale. Questo sempre nel caso in cui dal sud non provenga un numero sufficiente di progetti.

Serve un impegno più concreto per il sud.

È evidente quanto sia necessario introdurre meccanismi funzionali alla salvaguardia della quota. Sicuramente, la scelta di Mic e Mint di reinvestire i fondi in bandi vincolati al sud, dà più tempo agli enti di organizzarsi e quindi colma, in una certa misura, le difficoltà amministrative e progettuali. Oltre a essere l’unica tra le tre opzioni percorse finora, a essere in linea con l’obbligo di legge a cui è vincolata la soglia del 40%. Tuttavia, come abbiamo visto, è una scelta minoritaria.

È necessario introdurre dei vincoli validi per tutti gli enti titolari, affinché implementino questa o altre soluzioni efficaci per salvaguardare sempre il rispetto della quota, a prescindere dalle capacità amministrative dei territori meridionali.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: Facebook Mara Carfagna

 

La crisi e lo stato sociale in Grecia

La crisi e lo stato sociale in Grecia

 
Ομιλία στο 3ο ετήσιο συνέδριο της Ιταλικής Εταιρείας Κοινωνικής Πολιτικής στη Νάπολη (30 Σεπτεμβρίου – 2 Οκτωβρίου 2010)

Care colleghe e cari colleghi

Inanzitutto vorrei ringraziare gli organizzatori di questa conferenza per avermi invitato a parlare a voi. Seguo con molto interesse gli sviluppi di politica sociale in Italia, e le analisi di studiosi italiani. Lo scambio di idee fra ricercatori sudeuropei, soprattutto nelle scienze sociali, di solito avviene tramite strumenti troppo spesso ideati per descrivere altre realtà, e raramente in modo diretto. Ho sempre ritenuto che questo sia un peccato: abbiamo tanto da imparare gli uni dagli altri, sia dai nostri successi che dai nostri fallimenti.

Il mio breve discorso riguarda uno di questi fallimenti. Chiaramente, non è questo il momento né il luogo per un’analisi approfondita delle cause della crisi greca, ammesso che ne sarei capace. Mi limito a ricordare che nel maggio 2010, il nostro governo è stato costretto ad ammettere di fatto l’impossibilità di finanziare il disavanzo fiscale e il debito nazionale attraverso la vendita di titoli di stato nei mercati internazionali, se non a tassi proibitivi. Il default è stato evitato solo grazie all’intervento congiunto di Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale (la cosiddetta “troika”).

La grandezza degli aiuti concordati non ha precedenti nella storia della finanza internazionale: 110 miliardi di euro, sufficienti per coprire il fabbisogno dello stato per tre anni. In cambio, il governo greco ha dovuto far approvvare dal parlamento un “Memorandum di politiche economiche e finanziarie”. Il Memorandum detta in modo dettagliato l’azione governativa dei prossimi tre anni, e prevede tagli di spesa e aumenti di tasse atti a ridurre il disavanzo fiscale al 3% del Pil nel 2014 (dall’attuale 13,6%). É chiaro che l’incisività di queste misure è (anche quella) senza precedenti.

La crisi greca non è ancora finita; forse siamo solo all’inizio. Per un bilancio definitivo dei suoi effetti sociali è troppo presto: bisognerebbe aspettare molti anni ancora. Quello che invece vorrei fare oggi è esaminare il rapporto fra crisi e stato sociale. La mia tesi è che questo rapporto è molto più complesso di quanto possa apparire.

Da un lato, tra i fattori che hanno fatto precipitare la crisi spiccano i fallimenti dello stesso “Welfare state alla greca”, soprattutto l’ammontare vertiginoso della spesa pensionistica in un futuro non troppo lontano.

Dall’altro lato, la crisi sicuramente cambierà (forse radicalmente) lo stato sociale greco: lo priverà di risorse essenziali, ma allo stesso tempo indurrà o accelererà riforme da molto tempo auspicate da molti.

Infine, per lo stato sociale greco la crisi rappresenta una sfida enorme, mettendo in questione la sua capacità di funzionare da ammortizzatore degli effetti della crisi sulle vite delle persone che ne restano vittime. Se il tempo permette, vorrei concludere con alcune riflessioni sul futuro della politica sociale greca nell’attuale clima avverso.

1.
Comincio dallo stato sociale come fattore della crisi. Il caso greco sembra convalidare le previsioni pessimiste di un vecchio filone di pensiero che enfattizzava il ruolo della spesa sociale nella crisi fiscale dello stato, e che in certi casi arrivava ad ipotizzare l’incompatibilità fra capitalismo e democrazia. Le riforme attuate in molti paesi europei hanno smentito queste previsioni, riuscendo a rendere più sostenibile la spesa sociale, spesso senza fatalmente indebolire lo stato sociale come molti temevano. Ma non in Grecia, dove la spesa sociale ha continuato a crescere, spesso senza corrispondenti miglioramenti in termini di qualità di servizi o di adeguatezza di prestazioni.

Si potrebbe benissimo riassumere l’attuale sistema pensionistico greco usando la formula “labirinto delle pensioni”, inventata per descrivere il sistema italiano precedente alle riforme Amato e Dini.

Un sistema frammentato: centinaia di schemi che seguono ognuno regole diverse, dove le categorie più agiate (i medici, gli ingegneri, i bancari, gli impiegati statali) godono dei privilegi più vantaggiosi.

Un sistema ipertrofico: le pensioni forniscono il 24,1% del reddito disponibile della famiglia media, mentre tutte le altre prestazioni sociali (indennità di disoccupazione, assegni familiari, sussidi di abitazione) corrispondono a non più del 3,7% dei redditi familiari messe insieme.

Un sistema insostenibile: le proiezioni della spesa pensionistica prevedono che quella greca dall’attuale 12,6% del Pil a salirà al 24,8% nel 2050, mentre nello stesso arco di tempo quella italiana passerà dal 14,0% al 14,7%.

Infine un sistema inìquo: sia perchè una spesa di tale misura fa scempio del contratto intergenerazionale che dovrebbe stare al cuore di ogni sistema pensionistico; sia perchè anche in termini intragenerazionali l’attuale sistema funziona male, creando più diseguaglianza di reddito e riducendo la povertà degli anziani meno di altri sistemi europei.

Eppure questo sistema (frammentato, ipertrofico, insostenibile e, soprattutto, inìquo) si è rivelato resistente ad ogni cambiamento sostanziale per almeno venti anni.

La lunga storia di riforme fallite (o abortite di fronte reazioni violente, o compromesse da concessioni eccessive alle categorie interessate) è stata raccontata altrove, da me come da altri. Certo, riformare le pensioni è politicamente difficile dappertutto. Ma quello che caratterizza il caso greco è l’egoismo estremo delle categorie privilegiate (nonostante il loro tentativo di dissimularlo con un linguaggio tutto diritti e conquiste sociali), la timidezza dei governi (loro stessi permeati da interessi di parte), e la debolezza delle coalizioni argomentative (advocacy coalitions) a favore di una riforma equa e sostenibile.

É stato davvero impressionante osservare il dibattito sulle pensioni l’estate scorsa. L’obbligo di far rientrare la spesa pensionistica è stato presentato dai politici, e percepito dall’opinione pubblica, come una perdita netta (seppure, per alcuni, inevitabile). L’idea che dovremmo alleggerire il peso dei nostri eccessi sulle generazioni future non è neanche figurata nel dibattito.

Ironicamente, quasi gli unici a cui premeva rendere sostenibile la spesa pensionistica pare fossero i rappresentanti della troika Ce-Bce-Fmi. Certamente, più per difendere gli interessi di chi ha investito sui titoli di stato greco di medio e lungo termine, che per amore nei confronti dei nostri figli e nipoti. Ma certo ciò non rende meno triste la miopia della società greca e dei suoi rappresentanti politici.

2.
Passo ora agli effetti della crisi sullo stato sociale greco. Due tipi di effetti si possono distinguere. Il primo consiste in tagli di prestazioni sociali come parte della politica di austerità con cui il governo sta cercando di ridurre il deficit. Il secondo riguarda le riforme previste nel Memorandum dettato dalla troika Ce-Bce-Fmi, firmato dal governo e approvato dal parlamento come condizione sine qua non per il versamento (a rate) dei sostegni finanziari concordati. Sia i tagli che le riforme interessano soprattutto le pensioni.

Per quanto riguarda le misure di austerità adottate la primavera scorsa, si può calcolare che per le pensioni a 1.000 euro al mese il taglio complessivo è pari al 9%, mentre per quelle sopra i 3.500 euro al mese supera il 23%.

Per quanto riguarda le riforme, già nel luglio scorso è stata varata una nuova legge sulle pensioni. Il passaggio rapido della riforma è un caso emblematico del concetto di “giuntura critica”: dopo uno stallo di quasi due decenni, la legge ha concluso il suo iter politico e parlamentare nel giro di soli due mesi dalla messa in vigore del Memorandum.

La riforma, forse la più significativa nella storia dello stato sociale greco, rappresenta una rottura almeno parziale rispetto alla logica bismarckiana tradizionale. Secondo la nuova legge, una nuova architettura pensionistica prenderà forma a partire dal 2015.

Il primo pilastro sarà la pensione di base, piuttosto modesta (a 360 euro mensili) ma quasi universale.

Il secondo pilastro sarà la pensione proporzionale, con aliquote di rendimento annuo che partono dallo 0,8% per periodi contributivi di meno di 15 anni, e arrivano all’ 1,5% per carriere che superano i 40 anni.

Inoltre, la legge garantisce una pensione minima a chi andrà in pensione con almeno 15 anni contributivi, il cui valore oggi sarebbe pari a quasi 500 euro al mese.

Chiaramente, la nuova legge è stata attaccata da destra e sinistra come crudele e liberista. Si noti che lo stesso è stato detto di tutti i tentativi di riforma pensionistica dall’inizio degli anni novanta in poi. Personalmente ritengo che la riforma meriti una valutazione più articolata.

É senz’altro vero che le pensioni future saranno più basse di quelle di oggi (nel caso dei professori universitari, fino al 52% in meno). In un certo senso, visto il deragliamento della spesa pensionistica, questo non poteva che essere l’obiettivo principale della riforma.

D’altra parte, la nuova architettura pensionistica incorpora molti dei principi di un sistema equo e sostenibile. Negli ultimi vent’anni, disegni di riforma non troppo dissimili furono proposti (ovviamente senza successo) da me come da altri studiosi vicini al centrosinistra.

Per il resto, pare che il governo abbia lottato con la delegazione congiunta Ce-Bce-Fmi per ottenere esenzioni e clausole di salvataggio per le categorie protette. A giornalisti, medici, avvocati, ingegneri e impiegati della Banca di Grecia è stato riconosciuto il “diritto” di mantenere i loro schemi previdenziali separati. Impiegati statali e parastatali assunti prima del 1983 sono esenti dai provvedimenti restrittivi della nuova legge. Infine la riforma non riguarda affatto gli agricoltori (le cui pensioni vengono calcolate secondo regole molto più vantaggiose). In tutti questi sensi la riforma devia dal principio di eguaglianza di trattamento.

3.
La questione finale che vorrei sollevare è la capacità dello stato sociale greco di aiutare le persone a reggere l’impatto della crisi. Che questo impatto sarà fortissimo si può dare per scontato. Secondo le previsioni (forse ottimiste) del Fondo monetario internazionale, nel 2011 il Pil sarà sceso dell’ 8,4% rispetto al suo livello nel 2008, mentre il tasso di disoccupazione ufficiale sarà salito al 14,6% (dal 7,7% nel 2008) e rimarrà sopra il 14% almeno fino al 2015.

Qui il problema principale è l’inadeguatezza degli ammortizzatori sociali e la loro interazione problematica con le realtà del mercato del lavoro. Quest’ultimo, in Grecia come in Italia, è segnato da una vera e propria polarizzazione tra iper-protetti insiders (soprattutto nel settore pubblico) e poco protetti outsiders (immigrati precari e giovani e/o donne con contratti di breve termine).

Fra di loro si colloca una terza categoria dei midsiders, proposta recentemente da tre colleghi italiani per delineare la situazione dei lavoratori regolarmente occupati nel settore formale privato, ma sottoprotetti rispetto agli insiders in termini di accesso a protezioni legali e sociali. La riforma dello scorso luglio, intenta a favorire la flessibilità senza badare troppo alla sicurezza, ha reso i licenziamenti più facili e meno costosi per i datori di lavoro, e con ciò ha spostato la posizione dei midsiders verso quella degli outsiders.

Con ogni probabilità, l’impatto occupazionale della crisi economica sarà asimmetrico. Gli insiders hanno già subìto tagli di stipendio in media pari al 13%, ma nel settore pubblico le perdite di posti sono limitate e interessano solo il numero esiguo di lavoratori marginali con contratti a termine.

midsiders non possono sperare in aumenti di stipendio che proteggano il loro potere d’acquisto, ma (a differenza degli statali) hanno almeno mantenuto la tredicesima e la quattordicesima. D’altra parte, per loro la paura di perdere il posto è vera, e si percepisce sempre di più.

Ma è probabile che la crisi colpisca gli outsiders più forte che tutti gli altri. Infatti, le prime indagini statistiche rivelano che i giovani, le donne e gli immigrati costituiscono una parte più rilevante dei nuovi disoccupati che di quelli già senza lavoro.

Allo stesso tempo, gli ammortizzatori sociali (come tutte le altre istituzioni dello stato sociale) sono pensati in rapporto alla realtà, o meglio finzione, del lavoratore fordista che può contare su una carriera lavorativa lunga e senza interruzioni. Fatte su misura di chi ha il posto fisso, tali istituzioni penalizzano invece chi può solo sperare in lavori pagati male, senza prospettive, spesso in nero, alternando periodi di occupazione a periodi di inattività, e di conseguenza difficilmente riesce a soddisfare le condizioni contributive per l’accesso alle prestazioni sociali.

Le carenze della rete di protezione sociale greca sono più evidenti in tre aree: sussidi di disoccupazione (soprattutto quella di lunga durata), assistenza sociale (la Grecia è l’unico paese nell’Ue a non disporre di un sistema, neppure a livello locale, di reddito minimo garantito), e assegni familiari (tranne nel caso degli insiders, bassissimi o non disponibili alle famiglie con uno o due figli).

In parole povere, in Grecia gli ammortizzatori sociali favoriscono meno chi ne ha più bisogno.

4.
A questo punto ci si potrebbe domandare: quale futuro per lo stato sociale greco?

Il governo attuale, del partito socialista, eletto nell’ottobre 2009 con un programma vagamente espansionista, si è subito trovato nella posizione poco invidiabile di dover gestire la peggiore recessione dal dopoguerra, nel contesto di una severa crisi di indebitamento, costretto a chiedere sostegni finanziari all’estero e di conseguenza a sopportare l’umiliazione di pesanti interferenze internazionali sulle azioni di governo per almeno il resto di questa legislatura. In queste circostanze, se il governo dovesse decidere che rafforzare la protezione sociale non è tra le priorità più urgenti sarebbe forse comprensibile.

Comprensibile ma sbagliato – stando almeno all’analisi precedente. Perchè lo stato sociale greco, nella sua forma attuale, non sembra in grado di affrontare la crisi.

Sotto questa luce, rafforzare la protezione sociale tramite una politica sociale riformatrice, piuttosto che un lusso che il paese non si può più permettere, diventa indispensabile per la coesione sociale intesa in senso stretto.

Mi fermo qua. Vi ringrazio per la vostra attenzione.

 
 
 
 

Lo stato sociale in Grecia non esiste più. La storia di due anziani che fa inorridire il paese

Lo stato sociale in Grecia non esiste più. La storia di due anziani che fa inorridire il paese

Lo stato sociale in Grecia non esiste più. La storia di due anziani che fa inorridire il paese

L’ennesimo drammatico esempio del vergognoso dramma sociale cui è costretto oggi il paese

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Nell’ultimo giorno di febbraio a Lamia, un piccolo comune della Grecia centrale, alcuni passanti sono rimasti sciocati dalla scena che si sono trovati di fronte: una coppia di persone molto anziane distese a terra, ranninchiate a terra per proteggersi dal freddo e incapaci di stare in pide. Sedevano là in prossimità della loro casa. I vicini si sono affrettati a portare loro coperte, lenzuole, acqua e chiamare il servizio d’emergenza. Cosa era successo? 
 
Il blog Ktg riporta la storia tragica e illuminante per comprendere la situazione sociale oggi in Grecia di due anziani, fratello e sorella, tornati a Lami dopo esser stati dimessi dall’ospedale di salute mentale “Dafni” di Atene, 300 chilometri di distanza. Dato che la loro casa era stata venduta dalle autorità municipali e giudiziarie, i due non avevano altro luogo dove andare se non a terra nella prossimità della loro casa. Secono un mezzo di informazione locale, LamiaReport.gr, il più anziano viveva da anni in una casa senza elettricità e in condizioni ai limiti dell’umano. Due mesi fa, la giustizia è intervenuta, vendendo la casa e mandando la coppia a Dafni. Con la nuova riforma della sanità e le scelte imposte dalla troika, l’ospedale Dafni ha dovuto disfarsi dei pazienti e la coppia è stata dimessa giovedì. 
 
Non è ancora chiaro perchè i due siano stati mandati in un’ospedale psichiatrico, ma, riporta Ktg, nella Grecia dell’austerità e del collasso del Welfare, portare qualcuno in un centro di recupero mentale è forse “il modo burocratico più semplice per togliersi il problema degli esseri umani al termine della loro vita”. Le ultime riforme sanitarie imposte dalla troika prevedono che i pazienti malati di mente debbano essere rilasciati dalle unità psichiatriche qualunque siano le loro condizioni.  
I due anziani, grazie alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica locale, sono ora in un ospedale a Lamia e si cerca di trasferirli in un centro anziano, anche se, senza pensione, non sono in grado di pagare.  L’ennesimo drammatico esempio del vergognoso dramma sociale cui è costretta oggi la Grecia dopo tre anni e mezza di regime imposto dalla troika.
 

Aziende che non richiedono integrazione salariale: termine sgravi

Aziende che non richiedono integrazione salariale: termine sgravi

La legge di bilancio 2021 ha previsto un esonero dal versamento dei contributi previdenziali per le aziende che non richiedono i trattamenti di integrazione salariale previsti dalla stessa legge.

La circolare INPS 19 febbraio 2021, n. 30 ha fornito le indicazioni operative per la gestione degli adempimenti previdenziali connessi alla misura contributiva.

L’Istituto, con il messaggio 14 gennaio 2022, n. 197, è tornato sull’argomento fornendo ulteriori chiarimenti rispetto all’ambito di applicazione della misura, nonché le indicazioni per la richiesta dell’esonero e per la corretta esposizione del beneficio nelle denunce contributive.

Con messaggio 20 giugno 2022, n. 2478 l’INPS informa le aziende interessate che il 30 giugno 2022 scade il termine per concedere il codice di autorizzazione “2Q” relativo agli sgravi definiti dalle seguenti norme:

  • articolo 3, decreto-legge 104/2020
  • articolo 12, decreto-legge 137/2020
  • articolo 1, commi 306-308, legge 178/2020

Pertanto le aziende interessate dovranno inoltrare le richieste in tempo utile.