Archivi giornalieri: 24 ottobre 2013

LA VICENDA DI PALABANDA

 

PALABANDA:RIVOLTA RIVOLUZIONARIA O CONGIURA?

di FRANCESCO CASULA

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius.

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula56. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .

E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.

Migranti

Cgil, Cisl e Uil: una rete per accogliere i migranti

 

Il seminario internazionale che si è svolto a Torino nei giorni 21-22 ottobre, “Sindacati in azione per promuovere i diritti dei migranti nella regione del Mediterraneo” è stato una importante opportunità d’incontro e di confronto tra i sindacati del bacino del Mediterraneo e ha messo le basi per una comune strategia d’azione a sostegno dei diritti dei migranti, siano questi migranti economici o richiedenti asilo.
Promosso da Cgil e Ugtt Tunisia e sostenuto da Prosvil Piemonte e Programma Actrav del Centro di Formazione Ilo di Torino, il seminario ha visto la partecipazione di una sessantina tra sindacalisti italiani e dei paesi mediterranei.

La dichiarazione finale rappresenta il risultato del lavoro iniziato con il primo impegno sottoscritto tra Cgil e Ugtt, nell’aprile del 2011, per l’assistenza ai migranti che partono dal nord Africa e che approdano sulle coste italiane o rimangono vittime nel fondo del Mar Mediterraneo.

L’impegno dei sindacati, espresso nella dichiarazione finale, parte dalla consapevolezza che l’emergenza umanitaria discende, prima di tutto, dall’assenza di politiche europee capaci di affrontare, in un quadro di diritti e norme internazionali, la mobilità delle persone da paesi in conflitto o da situazioni economiche difficili.

Tutte le organizzazioni sindacali presenti a Torino hanno espresso la loro volontà ed il loro impegno a coordinarsi e a sviluppare una strategia d’azione comune, partendo dalla capacità di presidiare il territorio delle rotte di migrazione, di avere personale preparato a fornire assistenza ed informazioni ai migranti sui diritti e sulla situazione che troveranno nei paesi di transito e di accoglienza, a trasmettere le informazioni utili tra organizzazioni sindacali e a denunciare le violazioni dei diritti umani e del lavoro.

In una parola, la rete sindacale, vuole costituire elemento di coordinamento e di rafforzamento della capacità dei sindacati nazionali di accogliere e organizzare i migranti, così come di svolgere un’azione coordinata verso le istituzioni nazionali ed internazionali per il rispetto dei diritti dei migranti e delle loro famiglie e l’applicazione delle norme internazionali, combattendo, allo stesso tempo, tutte le politiche securitarie e le derive xenofobe e razziste.

Crisi

Crisi del lavoro, la Cgil di Lecco attiva uno sportello di supporto psicologico

 

Gli effetti della crisi hanno ricadute anche sul piano dell’equilibrio psicologico delle persone. Sono molti coloro che a fronte della improvvisa incertezza sul proprio futuro lavorativo ed economico, iniziano a manifestare situazioni di disagio psicologico e psicofisico anche importante. Si tratta di situazioni che, se non affrontate adeguatamente, rischiano di compromettere l’equilibrio necessario ad assumere le scelte più efficaci per superare le difficoltà presenti.

La CGIL di Lecco ha aderito al Protocollo siglato lo scorso 15 aprile tra l’Amministrazione Provinciale e l’ASL, per la creazione di uno Sportello di supporto psicologico gratuito rivolto alle persone, lavoratori ed imprenditori, coinvolte in crisi aziendali con l’obiettivo di potenziare con un’offerta dedicata la risposta già fornita dalle strutture dell’ASL presenti sul territorio.

Ciascuno dei soggetti firmatari si impegnava quindi attraverso le proprie reti ad informare le persone che dovessero manifestare le predette condizioni di disagio, della esistenza di questa opportunità.

Con la definizione della parte operativa è ora disponibile un volantino contenente i recapiti dello Sportello ai quali gli interessati potranno rivolgersi previo appuntamento via telefono.

La CGIL di Lecco, attraverso i suoi funzionari sindacali, provvederà a dare la più ampia diffusione del volantino, curandone in particolare la distribuzione nelle assemblee con i lavoratori delle aziende in crisi, nel Patronato INCA dove si rivolgono i disoccupati per richiedere l’indennità di disoccupazione e nell’Ufficio Vertenze dove si dà assistenza per licenziamenti e procedure concorsuali.

da Lecco news

Maternità

Co.co.pro: per una tantum conta la maternità

 

Per il raggiungimento del requisito reddituale utile per accedere alla una tantum, prevista dalla riforma del mercato del lavoro a favore dei lavoratori atipici, valgono anche le prestazioni ottenute per  i periodi di maternità.

Inoltre, ai fini del richiesto requisito di un periodo ininterrotto di almeno due mesi di disoccupazione nell’anno precedente, questo deve intendersi al netto di periodi non coperti da indennità. 

Sono alcuni chiarimenti forniti dall’Inps contenuti nella circolare n. 16961/2013 sulla corretta applicazione dell’articolo 2, comma 51, della legge n. 92/2012.

La una tantum è una speciale indennità di disoccupazione che viene riconosciuta ai co.co.co. iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell’Inps, purché abbiano i seguenti requisiti: 

a) abbiano lavorato, nel corso dell’anno precedente, per un colo committente;  

b) abbiano avuto nell’anno precedente un reddito lordo complessivo non superiore a 20 mila euro (rivalutato annualmente)

c) nell’anno di riferimento abbia almeno una mensilità accreditata presso la gestione separata dell’Inps;

d) risulti disoccupato ininterrottamente da almeno due mesi, nell’anno precedente;

e) nell’anno precedente deve almeno 4 mensilità accreditate presso la gestione separata dell’Inps.

L’importo della una tantum è pari al 7 per cento (per il 2013-2015) del minimale annuo di reddito di artigiani e commercianti, moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione.

Infortuni sul lavoro

Infortuni: Camusso, più sicurezza perché il lavoro non è pura merce

 

“L’attenzione alla sicurezza è quella che rende la distanza dal concetto che il lavoro non è pura merce”. Il lavoro è composto di persone, qualità e formazione e non è una merce di cui bisogna solo abbassarne il prezzo”. E’ quanto ha detto la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, intervenendo al premio per la sicurezza, promosso da Confindustria e Inail.

Nel corso dell’iniziativa, Accredia ha presentato i risultati di una indagine che rileva come  è in crescita il numero delle imprese italiane che investono nelle certificazioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: sono il 37% in più dello scorso anno; infatti, i siti produttivi che al maggio 2013 hanno ottenuto la certificazione di conformità agli standard 10.800 siti, contro i 7.900 del 2012.

Inoltre, lo stesso studio evidenzia come a livello regionale il 14,3% delle aziende che hanno ottenuto la certificazione sono lombarde e il 10,2% venete. Seguono Liguria con l”8,6% del mercato, l”Emilia Romagna con l”8,4% e il Piemonte con il 7%.

Aspi

Diritto all’ASPI e obbligo di contribuzione in caso di licenziamento disciplinare

 

Il Ministero del lavoro chiarisce che in caso di licenziamento disciplinare sussiste il diritto all’ASpI del lavoratore e il dovere del relativo versamento contributivo a carico del datore di lavoro.

In ordine alla possibilità che si configuri il diritto del lavoratore a percepire l’ASpI e il conseguente obbligo del datore di lavoro di versare il contributo nell’ipotesi di licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, chiarisce il Ministero se il licenziamento disciplinare possa costituire o meno un’ipotesi di disoccupazione “involontaria”, per la quale è prevista la concessione della predetta indennità.

Dalla norma concernente l’ASPI può evincersi che le cause di esclusione dall’ASpI e del contributo a carico del datore di lavoro sono tassative e riguardano i casi di dimissioni (con l’eccezione delle dimissioni per giusta causa ovvero delle dimissioni intervenute durante il periodo di maternità tutelato dalla legge) e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Ciò premesso, secondo il Ministero non sembra potersi escludere che l’indennità e il contributo siano corrisposti in ipotesi di licenziamento disciplinare, così come del resto ha inteso chiarire l’Istituto previdenziale, il quale è intervenuto con numerose circolari (cfr. INPS circc. n. 140/2012, 142/2012, 44/2013) per disciplinare espressamente le ipotesi di esclusione della corresponsione dell’indennità e del contributo in parola senza trattare l’ipotesi del licenziamento disciplinare.

A supporto si richiama la Corte Costituzionale che, con sentenza n. 405/2001, aveva statuito in merito all’opportunità che, in caso di licenziamento disciplinare, venisse corrisposta l’indennità di maternità (una sua esclusione integrerebbe una violazione degli artt. 31 e 37 della Costituzione).

La fattispecie in argomento è suscettibile di essere analizzata con il medesimo metodo di ragionamento adottato dalla Corte Costituzionale atteso che, analogamente a quanto argomentato dalla Corte a proposito della corresponsione dell’indennità di maternità, anche nel caso di specie il licenziamento disciplinare può essere considerato un’adeguata risposta dell’ordinamento al comportamento del lavoratore e, pertanto, negare la corresponsione della ASpI costituirebbe un’ulteriore reazione sanzionatoria nei suoi confronti.

Sotto altro profilo va evidenziato che il licenziamento disciplinare non possa ex ante essere qualificato come disoccupazione “volontaria”. Ciò in quanto la sanzione del licenziamento quale conseguenza di una condotta posta in essere dal lavoratore, sia pur essa volontaria, non è “automatica, senza contare l’impugnabilità dello stesso. In tali casi potrebbe risultare peraltro iniquo negare la protezione assicurata dalla’ASpI nell’ipotesi in cui il giudice ordinario dovesse successivamente ritenere illegittimo il licenziamento impugnato.

Sulla base di quanto precede, dunque, non sembrano esservi margini per negare il contributo a carico del datore di lavoro previsto dall’art. 2, comma 31 della L. 92/2012, in quanto lo stesso è dovuto “per le causali che, indipendente dal requisito contributivo, darebbero diritto all’ASpI”.

da Ipsoa

Servizio civile

Servizio civile, nel 2014 stanziati 105 milioni di euro

 

Saranno poco più di 105 i milioni di euro destinati al Fondo nazionale del Servizio civile per il 2014. La cifra è contenuta nella Tabella C del Disegno di Legge “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, ossia la Legge di stabilità 2014, presentata al Senato dal Governo. L’importo programmato è destinato a scendere nel 2015 e nel 2016, quando si tornerà su cifre analoghe agli ultimi anni, ossia poco più di 73,3 milioni di euro. Sono quindi 20 i milioni di euro aggiuntivi ottenuti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze dalla Ministra per l’Integrazione con delega al servizio civile, Cécile Kyenge, che di recente in Consulta nazionale aveva annunciato il suo impegno per reperirne invece almeno 120 per ciascuno dei prossimi 3 anni.
La cifra per il 2014 comprende anche i 10 milioni aggiuntivi, ottenuti grazie ad un emendamento presentato lo scorso agosto al decreto-legge “rilancio dell’occupazione e IVA” da ventitré senatori del Partito Democratico (Nerina, Dirindin e Stefano Lepri i primi firmatari) e dal senatore di Scelta Civica per l’Italia, Andrea Olivero. Inoltre, come rivela Enrico Maria Borrelli, Presidente del Foruma nazionale del servizio civile, “la cosiddetta ‘manovrina’ varata dal Governo lo scorso 9 ottobre ha previsto un accantonamento sullo stanziamento del Fondo Servizio Civile, ovvero un taglio, di 2,8 milioni di euro. Questo ennesimo, inatteso, sconfortante taglio mette ancora una volta in luce quanto una riforma della legge che preveda la definizione di un contingente annuale stabile sia necessaria”.

Se la cifra complessiva venisse confermata il prossimo Bando volontari, che per motivi di tempistica sulla progettazione già rischia di uscire nel 2015, avrebbe cifre poco superiori a quelle attuali, ossia intorno ai 17-18mila volontari.
Ieri intanto la Consulta nazionale del servizio civile ha incontrato i rappresentanti di Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e Avvocati Per Niente (ANP), le due associazioni di avvocati che hanno portato avanti nel 2011 i ricorsi per aprire il Bando volontari ai giovani stranieri. Per Alberto Guariso, del direttivo di APN e ASGI, “l’incontro è stato molto utile per avviare un confronto e chiarire alcuni aspetti, anche se una soluzione ancora non è stata trovata”.

Redattore sociale

Previdenza

Cgil: incontro con Ministro Giovannini su previdenza

 

Sollecitato da tempo si è svolto il 22 u.s. un incontro tra CGIL CISL UIL e il ministro del welfare sul tema previdenza. Le OO.SS., oltre a contestare le norme già inserite in legge stabilità (rivalutazione pensioni in essere, esodati) ed a chiederne la profonda modifica, come da piattaforma unitaria, hanno riproposto l’esigenza di aprire un confronto sugli effetti della riforma Fornero, al fine di correggerne la rigidità e l’iniquità.

Il ministro ha rinviato alla discussione parlamentare l’esame delle previsioni su rivalutazione ed esodati; ha riconosciuto l’esigenza di riflettere sul sistema pensionistico soprattutto per quanto riguarda i suoi effetti sul mercato del lavoro, affermando di avere allo studio l’esame di una qualche misura, non meglio specificata, ma confermando che l’ipotesi di flessibilizzazione proposta dal sindacato, ha costi insostenibili; ha aperto alla possibilità di un tavolo tecnico che provi ad affrontare l’ordine delle priorità.