LA NASCITA DEL S.I. COBAS NELLA LOTTA DEI FACCHINI (Prospettiva Marxista – marzo 2015)
L’inizio della lotta e della sindacalizzazione dei facchini La fine del primo e gli inizi del secondo decennio di questo secolo hanno visto, nell’hinterland milanese, il susseguirsi di manifestazioni e scioperi dei lavoratori della logistica. La vertenza si era aperta ad Origgio e la presenza sindacale che guidava, sosteneva e organizzava queste lotte era costituita da alcuni militanti dello Slai Cobas. Vi era una caratteristica principale in questi scioperi: la stragrande maggioranza dei lavoratori in lotta non appartenevano al proletariato autoctono ma era costituita da proletari immigrati e la loro collocazione nella stratificazione salariale della società capitalistica italiana era tra le più basse. Ad Origgio vi erano 160 operai che lavoravano per una cooperativa nel magazzino della catena di supermercati Bennet, in pessime condizioni lavorative, con salari che non sfioravano il più delle volte i 5 euro all’ora. Gli scioperi, le proteste e le manifestazioni che questi lavoratori erano riusciti a mettere in campo avevano pochi uguali nel quadro politicosindacale italiano. Era da tempo, in genere dalle lotte degli anni ‘70, che il proletariato italiano non poneva più all’ordine del giorno con una simile intensità scioperi, manifestazioni e picchetti con cui affrontare ad un alto livello di scontro le politiche e le misure adottate dalla classe sfruttatrice. I facchini rompevano lo schema che ormai reggeva dagli anni Ottanta, e regge tutt’ora nelle relazioni sindacali della media e grande impresa, e provavano la strada dello scontro, una lotta che in alcuni casi sarà fisica, arrivando a doversi misurare non saltuariamente con gli strumenti repressivi dello Stato. Nel variegato mondo dei facchini, come puntualizzeremo più avanti, non vi era la presenza organizzata dei sindacati confederali, non vi era la “battagliera” Cgil in grado di far breccia nel muro dello strapotere dei padroni e padroncini o pronta a sfidare la classe padronale sul terreno della lotta per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. I confederali, se c’erano, potevano al massimo intercettare i lavoratori immigrati con la pratica, ormai ben collaudata e addirittura in molti casi prevalente, dei servizi al cittadino. La condizione dei facchini quali immigrati e salariati, la loro esistenza nel gradino più basso della stratificazione salariale, i ridotti legami con il tipico modello di welfare famigliare italiano e la cruda e smascherata brutalità della classe padronale, hanno reso possibile il legame con un sindacato di base che, come vedremo, non avrà gli stessi connotati delle forme sindacali che abbiamo potuto analizzare negli articoli precedenti. La scissione dallo Slai Cobas La nascita del S.I. Cobas (Sindacato Intercategoriale Cobas) è intrinseca alle lotte dei facchini, è su questo terreno che questo nuovo sindacato di base troverà linfa per crescere. Allo stesso tempo saranno gli stessi facchini a poter dare forma, con una certa efficacia, ad una lotta per le loro condizioni immediate, grazie alla tattica sindacale messa in atto dal S.I. Cobas. Ed è proprio da questa ambivalente relazione che ha tratto alimento sia il sindacato sia il movimento dei facchini. Il S.I. Cobas, a differenza delle altre forme sindacali di base, non proveniva da una rottura in linea diretta con i sindacati confederali, e né tanto meno da una lotta direttamente incentrata contro le politiche sindacali di Cgil, Cisl e Uil. Il mondo lavorativo in cui si è collocato, si è sviluppato il S.I. Cobas era un mondo distante dalle burocrazie confederali, era un terreno, si può dire, vergine sindacalmente. Molto probabilmente gli stessi confederali non avevano nessuna intenzione di inserirsi in una situazione dove, per conquistarsi uno spazio, lo scontro diventava inevitabile, dove, per ottenere credibilità e un ruolo che non fosse di semplice testimonianza, era necessario organizzare lotte senza potersi avvalere delle reti di sicurezza politiche e istituzionali presenti invece in quelle realtà lavorative, occupazionali e sociali dove si era consolidata la propria base. Trent’anni di pratica sindacale confederale volta costantemente alla concertazione, all’accordo al ribasso, al disconoscimento di esperienze di lotta e costruzione di una forza autonoma della classe operaia, il tutto reso possibile da una Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 2 classe in condizione di generale apatia ed estromessa dalla possibilità di controllo del sindacato, non potevano certo consentire una diffusa riscoperta di un’impostazione rivendicativa ferma e coerente. In fin dei conti, inoltre, i facchini non rappresentavano, e non rappresentano tuttora, un problema fondamentale per la cosiddetta pace sociale all’interno della società italiana. La loro sostanziale marginalità, pur nel quadro dell’acquisizione di un ruolo nevralgico in determinati gangli della logistica, rimane un dato di fatto in relazione sia al complesso della società italiana sia all’insieme della struttura produttiva e della composizione proletaria italiana. Superare il divario che separa le interessanti esperienze di lotta dei lavoratori della logistica organizzati dal S.I. Cobas e le componenti più importanti del proletariato italiano, non necessariamente caratterizzate dal prevalente profilo immigrato e dalla forte precarietà che invece caratterizzano i lavoratori protagonisti di queste mobilitazioni, rimane ancora una sfida da vincere. Tornando alle origini del S.I. Cobas, la questione della lotta dei facchini aveva posto, all’interno dello Slai Cobas, le condizioni di una discussione e di una conseguente rottura con cui alcuni militanti decidevano di abbandonare il sindacato di base nato nelle lotte di Arese. Il S.I. Cobas nasceva, quindi, da questa separazione, avvenuta al congresso del 2009. Lo Slai Cobas subiva la terza scissione, le altre avevano partorito altri due sindacati di base, Sin Cobas e Al Cobas. Le ragioni della scissione, secondo il parere espresso dai militanti del S.I. Cobas in un documento presente sul proprio sito web, erano dovute, da una parte, ad elementi strategici dell’impostazione sindacale, intesi come direttrici di sviluppo da percorrere per rafforzare ed estendere le lotte. L’altro aspetto era legato alla questione dei rapporti interni, alla dialettica e alla democrazia interne al sindacato. Alcune lotte determinanti per uscire dall’infima lacuna La mobilitazione di Origgio costituì l’inizio di quello che poi sarà un dilagare a piccole macchie di leopardo, soprattutto nel Nord Italia, di un movimento di lotta dei facchini. In soli nove mesi ad Origgio i lavoratori delle cooperative organizzarono 8 picchetti ed altrettanti scioperi. Era sostanzialmente dai tempi dell’organizzazione dello sciopero dell’Alfa dei primi anni Novanta che non vi erano stati fenomeni di lotta in grado di acquisire il significato di modello, di riferimento per una fascia rilevante di salariati. Se pensiamo che negli anni in cui montava la protesta dei facchini l’attenzione mediatica poteva concentrarsi, non di rado eleggendoli a nuovo paradigma della lotta operaia, su episodi di protesta che, più che la forza e l’incisività della mobilitazione proletaria, mettevano in luce la disperata ricerca di visibilità di lavoratori alle prese con l’affannosa, e sostanzialmente isolata da altre lotte, difesa del proprio impiego, si ha la misura di quanto l’avvio dell’esperienza dei lavoratori della logistica si sia collocato in una fase di generale debolezza del proletariato in Italia. Lo stesso Aldo Milani, sindacalista prima dello Slai Cobas e poi fondatore del S.I. Cobas, illustra come il bagaglio di esperienze a cui attingere per organizzare la lotta dei facchini continuasse ad essere debitore delle lotte degli anni ‘70: «Le esperienze di lotta passate ci permettevano di intuire le possibili risposte dei padroni e ci davano delle indicazioni sul modo con cui era più efficace organizzare l’iniziativa. Io avevo partecipato alle lotte e ai picchetti dei metalmeccanici degli anni settanta, e oltre ad una formazione teorica, disponevo di conoscenze legate alla conduzione di picchetti e di lotta operaia» 1 . Abbiamo osservato che una delle condizioni fondamentali per lo sviluppo di questo particolare sindacato di base fu l’avvicinamento ad un segmento di proletariato che viveva, e vive tuttora, in una situazione sociale particolarmente difficile. La mancanza di legami con il tessuto sociale locale, la condizione di immigrati e la difficoltà di inserimento in una società italiana ancora acerba nell’integrare la forza-lavoro straniera (il fenomeno migratorio in Italia arriva in ritardo rispetto alle altre centrali imperialistiche europee) imponevano a quei lavoratori una condizione salariata particolarmente esposta a forme di ricatto e di intenso sfruttamento. Il giovane proletariato immigrato non solo non aveva la possibilità di attingere a quelle briciole di welfare di cui potevano usufruire i lavoratori italiani, ma la loro situazione marginale come forza-lavoro difficilmente poteva favorire il loro impiego in settori ad alta concentrazione capitalistica. La loro condizione lavorativa poteva risultare non solo sottopagata, ma pagata in Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 3 nero, senza malattia, ferie o Tfr. La loro giornata lavorativa era spesso controllata da caporali che decidevano quando e per quanto gli operai potevano lavorare. Tra i lavoratori della logistica tutt’altro che infrequenti erano (e sono) autentici salari da fame. Una pratica comune a quasi tutte le cooperative che sfruttavano questa manodopera salariata era quella di chiudere di punto in bianco, cambiare ragione sociale o addirittura vendere la forza-lavoro ad altre cooperative. Così facendo quel minimo di garanzie acquisite dall’anzianità di lavoro veniva cancellato. Questi lavoratori, in sintesi, costituivano un proletariato che veramente aveva ben poco, se non nulla, da perdere nell’intraprendere una dura lotta per uscire dall’infima lacuna. Dopo la lotta di Origgio il movimento dei lavoratori della logistica prendeva piede in alcune periferie del Nord Italia. Alcune di queste lotte sono risultate esemplari per l’asprezza e l’intensità dello scontro. Tali lotte hanno rappresentato passaggi fondamentali per lo sviluppo e il rafforzamento del S.I. Cobas nel settore della logistica. Possiamo ricordare le agitazioni di Piacenza (Tnt e Ikea), Basiano (Il Gigante) e Bologna (Legacoop e Granarolo). Questi facchini non sono dipendenti diretti delle aziende che usufruiscono della loro manodopera, ma sono impiegati dalle cooperative che per aggiudicarsi l’appalto giocano al ribasso sul costo della forza-lavoro. Le prime lotte che hanno dato una forte e visibile impronta al movimento dei lavoratori della logistica e all’attività del S.I. Cobas sono state quelle avviatesi, verso la metà di luglio 2011, alla Tnt di Piacenza. La vertenza è stata sostenuta con scioperi e picchetti fuori dai cancelli, ed era diretta ad ottenere l’applicazione del Ccnl di categoria e il riconoscimento della libertà di adesione a sindacati che fossero diversi dai confederali. Non di minore importanza sono state le lotte per contrastare il fenomeno del caporalato, funzionale, tra l’altro, ad imporre una flessibilità oraria atta a gestire i picchi di lavoro. La lotta, inoltre, ha investito la prassi dei pagamenti in nero, del lavoro a chiamata e delle imposizioni di pause non retribuite. La reazione padronale non si è fatta attendere, arrivando anche alla serrata per rispondere allo sciopero dei facchini contro il licenziamento di 100 operai. Ma la capacità di resistenza dei lavoratori, la dimostrazione di unità nella lotta hanno superato quel fondamentale fattore di blocco costituito dal potere di ricatto insito nel permesso di soggiorno condizionato dal mantenimento del posto di lavoro, dando vita ad un’esperienza che si rivelerà di grande importanza nello sviluppo dell’organizzazione sindacale dei facchini. La situazione dei facchini della logistica non era molto diversa all’Ikea di Piacenza, dove ha preso corpo la stessa mobilitazione scandita da scioperi e picchetti. A Basiano l’andamento del confronto ha visto l’intervento delle forze dell’ordine contro i lavoratori in lotta. Il 22 marzo del 2013 è stato proclamato lo sciopero della logistica in tutta Italia. Ancora una volta picchetti, manifestazioni e assemblee sono stati gli strumenti di lotta messi in campo dal S.I. Cobas. Nel territorio emiliano della Legacoop lo scontro è diventato particolarmente aspro, assumendo a tratti anche un valore simbolico. Nella roccaforte del Pd, della Cgil, dei paladini della democrazia, della Costituzione e delle cooperative rosse, nonché dei figli dello stalinismo, sono puntualmente venute a galla le ignobili condizioni di lavoro dei facchini. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il licenziamento di 51 operai della cooperativa appaltatrice alla Granarolo, licenziamento che è avvenuto subito dopo lo sciopero. La protesta è montata anche per la riduzione in busta paga del «35% del salario, comparso in busta paga sotto la voce stato di crisi» 2 . La tenacia nel resistere alle cariche delle forze dell’ordine, l’unità tra i lavoratori e l’organizzazione del S.I. Cobas sono state determinanti per la capacità di reggere la lotta. I sindacati confederali sono risultati, nel migliore dei casi, completamente assenti da queste battaglie. La loro pratica sindacale ormai fatta di vertenze cloroformizzate e all’insegna della svendita degli interessi dei lavoratori, di servizi alla persona come nuova frontiera della presenza sul territorio e nella società, di scioperi di facciata non ha potuto certo garantire un ruolo di guida e di punto di riferimento. Ben altra cosa serviva ai lavoratori immigrati per la difesa dei loro più urgenti interessi di classe. Il S.I. Cobas nel giro di pochi anni è invece diventato un punto di riferimento per gli operai immigrati della logistica, ma ben altro bilancio si deve trarre in riferimento al peso di questa organizzazione tra i lavoratori italiani, soprattutto nei comparti manifatturieri di punta della produzione nazionale. In nessuna di queste realtà sono emerse significative dimostrazioni di solidarietà e di appoggio alla lotta dei lavoratori, in gran parte di origine straniera, della Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 4 logistica e delle cooperative. Il proletariato italiano, nonostante l’attacco imperialistico al salario, nonostante dagli anni ‘80 vi siano continui attacchi alle condizioni lavorative, non ha nel suo insieme ancora smaltito quegli accumuli di risparmio, quei tratti proprietari, quelle condizioni di compensazione all’arretramento salariale resi possibili da un lungo ciclo di espansione capitalistica e di realizzazione di ingenti sovraprofitti da parte dell’imperialismo italiano. Quanto di questo “grasso” sia ancora disponibile sarà da vedere, quanto ancora le attuali e le future leve proletarie riusciranno a mantenere quello che hanno ereditato dai loro padri e quanto tempo ancora passerà prima che il proletariato italiano abbandoni una generale condizione di passività, mettendo almeno in parte in discussione le connesse illusioni circa la propria condizione e le proprie possibilità di affermazione individuale nella società capitalistica, sarà materia di analisi e di conseguente lotta politica per lo sviluppo del partito leninista. Oggi la tendenza che ci troviamo di fronte è in ogni caso quella che sta plasmando un proletariato italiano sempre più spoglio delle reti di relativa protezione, delle relative garanzie venutesi a creare in una precedente fase, sempre più esposto ad attacchi alle proprie condizioni di vita e lavorative, un proletariato al contempo inserito in un tessuto industriale ben diverso da quello in cui si era prodotta l’ondata tradeunionistica della fine degli anni ‘60 e degli anni ‘70 e sui cui tempi e modi di reazione, quindi, incombono necessariamente importanti interrogativi. Ipotetiche tendenze a confronto Abbiamo visto come lo sviluppo del S.I. Cobas sia sostanzialmente dovuto alla capacità di collegarsi alle rivendicazioni dei lavoratori immigrati della logistica e al ruolo assunto nelle lotte di questo settore. Al contempo questi lavoratori hanno maturato un’esperienza di lotta non presente nei comparti maggioritari e più nevralgici del proletariato italiano. Il S.I. Cobas si è inserito in un settore dove la sindacalizzazione era di fatto assente e questo ha giovato molto a questa organizzazione, che in poco tempo ha conosciuto una crescita rilevante. Rimangono dei nodi, però, da affrontare se il S.I. Cobas intende diventare punto di riferimento sindacale anche per più ampi e rappresentativi settori della classe operaia italiana. La condizione di sindacato caratterizzatosi per il radicamento nel proletariato di origine straniera della logistica ha in sé sia elementi di forza sia elementi di debolezza. Da una parte, questa forza-lavoro immigrata e confinata nel mondo delle cooperative si è mostrata, proprio in ragione delle sue condizioni particolarmente critiche, disponibile e propensa ad ingaggiare livelli di lotta chiaramente superiori alla media della combattività del proletariato italiano nel suo insieme. Dall’altro, la stessa connotazione sociale che ha reso possibile questa spiccata combattività tende a tenere distanti queste componenti di proletariato dai comparti di classe caratterizzati da una maggiore integrazione nei meccanismi produttivi e sociali del capitalismo italiano. Il rischio, grave e concreto, è che le stesse ragioni che hanno fatto delle lotte dei lavoratori della logistica un’esperienza di particolare forza e intensità finiscano per diventare, complice ovviamente l’azione borghese, le ragioni per alimentare la separazione, il senso di una differenza rispetto alle masse dei lavoratori italiani, non caratterizzati da appartenenze etniche e da collocazioni lavorative assimilabili a quelle della maggioranza dei lavoratori organizzati dal S.I. Cobas. Dalla speranza, dalla prospettiva di essere avanguardia per l’insieme del proletariato operante nel quadro del capitalismo italiano si finirebbe così nell’incubo della ghettizzazione sindacale. Nel comunicato del S.I. Cobas relativo alla manifestazione indetta dalla Fiom il 14 novembre 2014 a Milano, si sono potuti cogliere i chiari segnali della consapevolezza della necessità di sfuggire a questo rischio di confinamento, dell’imperativo di integrare saldamente l’esperienza della lotta dei facchini in una dinamica di ripresa di classe che vada oltre i confini di una categoria o di una specifica composizione etnica. Il S.I. Cobas ha scelto di aderire al corteo della Fiom con il dichiarato intento di contribuire alla composizione di un fronte operaio in cui, sulla base di un oggettivo incremento della generale conflittualità operaia, si pongano le condizioni per stabilire collegamenti con reparti di avanguardia delle “tute blu” sfuggiti al controllo della direzione opportunista: «In poche parole, la nostra proposta politica è quella di affermare alla necessità di unire le forze soggettivamente e oggettivamente più rilevanti, al fine di rafforzare Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 5 una prospettiva di resistenza e riscossa operaia» 3 . È ancora presto per concludere se questo tentativo abbia avuto successo o meno, le difficoltà non sono poche. Perché si stabilisca effettivamente un collegamento tra le lotte dei lavoratori organizzati dal S.I. Cobas e più ampie componenti del proletariato, anche al di fuori degli ambiti finora rivelatisi particolarmente favorevoli all’azione del sindacato di base, rendendo le esperienze significative dei lavoratori delle cooperative della logistica un patrimonio autentico ed elementi per la definizione di un ruolo di avanguardia all’interno di un vasto movimento di classe, è necessario che concorrano due tendenze, due processi. Le condizioni dei lavoratori italiani al di fuori degli ambiti finora esclusivo, o quasi, terreno di sviluppo e di leadership sindacale del S.I. Cobas, dovranno materialmente avvicinarsi sempre più alle condizioni di questi ambiti. Dovrà, infatti, ridursi drasticamente quella distanza in termini di mansioni, di condizioni (o aspettative) salariali, di elementi (o aspettative) di stabilità occupazionale, di modalità di accesso a varie forme di welfare, di grado di affidamento nelle capacità di intervento delle tradizionali organizzazioni sindacali e nelle istituzioni, che ancora attualmente spiega l’assenza in più generali realtà proletarie in Italia di forme di lotta modello S.I. Cobas e persino di condizioni basilari per una loro riproducibilità. Ma questo oggettivo terreno comune potrà dare frutti solo se al contempo il S.I. Cobas riuscirà a portare avanti uno sforzo per proiettare una sua presenza e rappresentatività al di fuori dei suoi ambiti tradizionali. Non si tratta ovviamente del richiamo ad un puro esercizio di volontà capace di annullare difficoltà e ostacoli oggettivi, di prescindere dalle condizioni materiali che hanno permesso al sindacato di base di raggiungere quella forza che gli consente oggi di potersi porre il problema di andare oltre un primo stadio di sviluppo. La semplice buona volontà, la dimostrata capacità di sostenere un impegnativo lavoro di organizzazione sindacale non possono di per sé garantire il successo di un’operazione di “esportazione” del modello S.I. Cobas come fattore di avanguardia all’interno di una più generale dinamica di ripresa della lotta di classe proletaria in Italia. Ma quello che può rientrare nelle effettive possibilità di un’organizzazione come questo sindacato di base è la formazione di collegamenti all’esterno dei propri ambiti finora privilegiati, di strategici “avamposti” capaci oggi, non di rovesciare i rapporti di forza con le più radicate forme di rappresentanza sindacale nei comparti di classe maggioritari e decisivi all’interno dell’assetto produttivo del capitalismo italiano, ma di costituire in prospettiva un vitale raccordo con fenomeni di mobilitazione legati al sempre più marcato concretizzarsi della tendenza all’avvicinamento materiale dettato da quel processo di generale deterioramento delle condizioni proletarie prima accennato. La formazione di queste unità di raccordo con il grosso della forza del S.I. Cobas negli specifici settori del proletariato immigrato, impiegato nelle cooperative della logistica, potrebbe, inoltre, svolgere da subito la funzione di controtendenza rispetto al rischio di un ripiegamento nelle sfere lavorative finora rivelatisi più raggiungibili. Se questo rischio dovesse concretizzarsi e prevalere, per il S.I. Cobas il destino non potrebbe essere altro che quello di un’organizzazione confinata in uno spazio sociale ristretto, condannata alla formazione di un personale incapace di relazionarsi al di fuori di ambiti affini per specifiche caratteristiche etniche o di categoria. La spinta alla lotta e all’organizzazione proveniente dalla dimensione generale di un proletariato italiano sempre più ricondotto alla più pura condizione di merce forza-lavoro alle prese con le oscillazioni del mercato e con la necessità di arginare la pressione padronale, troverebbe in questo caso altre esperienze di mobilitazione e rivendicazione, altre forme di organizzazione economica a cui fare riferimento. Ma un patrimonio non indifferente come quello accumulato dal S.I. Cobas in una fase difficile per la lotta di classe proletaria non darebbe l’apporto che pure ha nelle sue potenzialità.