Archivi giornalieri: 1 dicembre 2021

Cobas

LA NASCITA DEL S.I. COBAS NELLA LOTTA DEI FACCHINI (Prospettiva Marxista – marzo 2015)

L’inizio della lotta e della sindacalizzazione dei facchini La fine del primo e gli inizi del secondo decennio di questo secolo hanno visto, nell’hinterland milanese, il susseguirsi di manifestazioni e scioperi dei lavoratori della logistica. La vertenza si era aperta ad Origgio e la presenza sindacale che guidava, sosteneva e organizzava queste lotte era costituita da alcuni militanti dello Slai Cobas. Vi era una caratteristica principale in questi scioperi: la stragrande maggioranza dei lavoratori in lotta non appartenevano al proletariato autoctono ma era costituita da proletari immigrati e la loro collocazione nella stratificazione salariale della società capitalistica italiana era tra le più basse. Ad Origgio vi erano 160 operai che lavoravano per una cooperativa nel magazzino della catena di supermercati Bennet, in pessime condizioni lavorative, con salari che non sfioravano il più delle volte i 5 euro all’ora. Gli scioperi, le proteste e le manifestazioni che questi lavoratori erano riusciti a mettere in campo avevano pochi uguali nel quadro politicosindacale italiano. Era da tempo, in genere dalle lotte degli anni ‘70, che il proletariato italiano non poneva più all’ordine del giorno con una simile intensità scioperi, manifestazioni e picchetti con cui affrontare ad un alto livello di scontro le politiche e le misure adottate dalla classe sfruttatrice. I facchini rompevano lo schema che ormai reggeva dagli anni Ottanta, e regge tutt’ora nelle relazioni sindacali della media e grande impresa, e provavano la strada dello scontro, una lotta che in alcuni casi sarà fisica, arrivando a doversi misurare non saltuariamente con gli strumenti repressivi dello Stato. Nel variegato mondo dei facchini, come puntualizzeremo più avanti, non vi era la presenza organizzata dei sindacati confederali, non vi era la “battagliera” Cgil in grado di far breccia nel muro dello strapotere dei padroni e padroncini o pronta a sfidare la classe padronale sul terreno della lotta per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. I confederali, se c’erano, potevano al massimo intercettare i lavoratori immigrati con la pratica, ormai ben collaudata e addirittura in molti casi prevalente, dei servizi al cittadino. La condizione dei facchini quali immigrati e salariati, la loro esistenza nel gradino più basso della stratificazione salariale, i ridotti legami con il tipico modello di welfare famigliare italiano e la cruda e smascherata brutalità della classe padronale, hanno reso possibile il legame con un sindacato di base che, come vedremo, non avrà gli stessi connotati delle forme sindacali che abbiamo potuto analizzare negli articoli precedenti. La scissione dallo Slai Cobas La nascita del S.I. Cobas (Sindacato Intercategoriale Cobas) è intrinseca alle lotte dei facchini, è su questo terreno che questo nuovo sindacato di base troverà linfa per crescere. Allo stesso tempo saranno gli stessi facchini a poter dare forma, con una certa efficacia, ad una lotta per le loro condizioni immediate, grazie alla tattica sindacale messa in atto dal S.I. Cobas. Ed è proprio da questa ambivalente relazione che ha tratto alimento sia il sindacato sia il movimento dei facchini. Il S.I. Cobas, a differenza delle altre forme sindacali di base, non proveniva da una rottura in linea diretta con i sindacati confederali, e né tanto meno da una lotta direttamente incentrata contro le politiche sindacali di Cgil, Cisl e Uil. Il mondo lavorativo in cui si è collocato, si è sviluppato il S.I. Cobas era un mondo distante dalle burocrazie confederali, era un terreno, si può dire, vergine sindacalmente. Molto probabilmente gli stessi confederali non avevano nessuna intenzione di inserirsi in una situazione dove, per conquistarsi uno spazio, lo scontro diventava inevitabile, dove, per ottenere credibilità e un ruolo che non fosse di semplice testimonianza, era necessario organizzare lotte senza potersi avvalere delle reti di sicurezza politiche e istituzionali presenti invece in quelle realtà lavorative, occupazionali e sociali dove si era consolidata la propria base. Trent’anni di pratica sindacale confederale volta costantemente alla concertazione, all’accordo al ribasso, al disconoscimento di esperienze di lotta e costruzione di una forza autonoma della classe operaia, il tutto reso possibile da una Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 2 classe in condizione di generale apatia ed estromessa dalla possibilità di controllo del sindacato, non potevano certo consentire una diffusa riscoperta di un’impostazione rivendicativa ferma e coerente. In fin dei conti, inoltre, i facchini non rappresentavano, e non rappresentano tuttora, un problema fondamentale per la cosiddetta pace sociale all’interno della società italiana. La loro sostanziale marginalità, pur nel quadro dell’acquisizione di un ruolo nevralgico in determinati gangli della logistica, rimane un dato di fatto in relazione sia al complesso della società italiana sia all’insieme della struttura produttiva e della composizione proletaria italiana. Superare il divario che separa le interessanti esperienze di lotta dei lavoratori della logistica organizzati dal S.I. Cobas e le componenti più importanti del proletariato italiano, non necessariamente caratterizzate dal prevalente profilo immigrato e dalla forte precarietà che invece caratterizzano i lavoratori protagonisti di queste mobilitazioni, rimane ancora una sfida da vincere. Tornando alle origini del S.I. Cobas, la questione della lotta dei facchini aveva posto, all’interno dello Slai Cobas, le condizioni di una discussione e di una conseguente rottura con cui alcuni militanti decidevano di abbandonare il sindacato di base nato nelle lotte di Arese. Il S.I. Cobas nasceva, quindi, da questa separazione, avvenuta al congresso del 2009. Lo Slai Cobas subiva la terza scissione, le altre avevano partorito altri due sindacati di base, Sin Cobas e Al Cobas. Le ragioni della scissione, secondo il parere espresso dai militanti del S.I. Cobas in un documento presente sul proprio sito web, erano dovute, da una parte, ad elementi strategici dell’impostazione sindacale, intesi come direttrici di sviluppo da percorrere per rafforzare ed estendere le lotte. L’altro aspetto era legato alla questione dei rapporti interni, alla dialettica e alla democrazia interne al sindacato. Alcune lotte determinanti per uscire dall’infima lacuna La mobilitazione di Origgio costituì l’inizio di quello che poi sarà un dilagare a piccole macchie di leopardo, soprattutto nel Nord Italia, di un movimento di lotta dei facchini. In soli nove mesi ad Origgio i lavoratori delle cooperative organizzarono 8 picchetti ed altrettanti scioperi. Era sostanzialmente dai tempi dell’organizzazione dello sciopero dell’Alfa dei primi anni Novanta che non vi erano stati fenomeni di lotta in grado di acquisire il significato di modello, di riferimento per una fascia rilevante di salariati. Se pensiamo che negli anni in cui montava la protesta dei facchini l’attenzione mediatica poteva concentrarsi, non di rado eleggendoli a nuovo paradigma della lotta operaia, su episodi di protesta che, più che la forza e l’incisività della mobilitazione proletaria, mettevano in luce la disperata ricerca di visibilità di lavoratori alle prese con l’affannosa, e sostanzialmente isolata da altre lotte, difesa del proprio impiego, si ha la misura di quanto l’avvio dell’esperienza dei lavoratori della logistica si sia collocato in una fase di generale debolezza del proletariato in Italia. Lo stesso Aldo Milani, sindacalista prima dello Slai Cobas e poi fondatore del S.I. Cobas, illustra come il bagaglio di esperienze a cui attingere per organizzare la lotta dei facchini continuasse ad essere debitore delle lotte degli anni ‘70: «Le esperienze di lotta passate ci permettevano di intuire le possibili risposte dei padroni e ci davano delle indicazioni sul modo con cui era più efficace organizzare l’iniziativa. Io avevo partecipato alle lotte e ai picchetti dei metalmeccanici degli anni settanta, e oltre ad una formazione teorica, disponevo di conoscenze legate alla conduzione di picchetti e di lotta operaia» 1 . Abbiamo osservato che una delle condizioni fondamentali per lo sviluppo di questo particolare sindacato di base fu l’avvicinamento ad un segmento di proletariato che viveva, e vive tuttora, in una situazione sociale particolarmente difficile. La mancanza di legami con il tessuto sociale locale, la condizione di immigrati e la difficoltà di inserimento in una società italiana ancora acerba nell’integrare la forza-lavoro straniera (il fenomeno migratorio in Italia arriva in ritardo rispetto alle altre centrali imperialistiche europee) imponevano a quei lavoratori una condizione salariata particolarmente esposta a forme di ricatto e di intenso sfruttamento. Il giovane proletariato immigrato non solo non aveva la possibilità di attingere a quelle briciole di welfare di cui potevano usufruire i lavoratori italiani, ma la loro situazione marginale come forza-lavoro difficilmente poteva favorire il loro impiego in settori ad alta concentrazione capitalistica. La loro condizione lavorativa poteva risultare non solo sottopagata, ma pagata in Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 3 nero, senza malattia, ferie o Tfr. La loro giornata lavorativa era spesso controllata da caporali che decidevano quando e per quanto gli operai potevano lavorare. Tra i lavoratori della logistica tutt’altro che infrequenti erano (e sono) autentici salari da fame. Una pratica comune a quasi tutte le cooperative che sfruttavano questa manodopera salariata era quella di chiudere di punto in bianco, cambiare ragione sociale o addirittura vendere la forza-lavoro ad altre cooperative. Così facendo quel minimo di garanzie acquisite dall’anzianità di lavoro veniva cancellato. Questi lavoratori, in sintesi, costituivano un proletariato che veramente aveva ben poco, se non nulla, da perdere nell’intraprendere una dura lotta per uscire dall’infima lacuna. Dopo la lotta di Origgio il movimento dei lavoratori della logistica prendeva piede in alcune periferie del Nord Italia. Alcune di queste lotte sono risultate esemplari per l’asprezza e l’intensità dello scontro. Tali lotte hanno rappresentato passaggi fondamentali per lo sviluppo e il rafforzamento del S.I. Cobas nel settore della logistica. Possiamo ricordare le agitazioni di Piacenza (Tnt e Ikea), Basiano (Il Gigante) e Bologna (Legacoop e Granarolo). Questi facchini non sono dipendenti diretti delle aziende che usufruiscono della loro manodopera, ma sono impiegati dalle cooperative che per aggiudicarsi l’appalto giocano al ribasso sul costo della forza-lavoro. Le prime lotte che hanno dato una forte e visibile impronta al movimento dei lavoratori della logistica e all’attività del S.I. Cobas sono state quelle avviatesi, verso la metà di luglio 2011, alla Tnt di Piacenza. La vertenza è stata sostenuta con scioperi e picchetti fuori dai cancelli, ed era diretta ad ottenere l’applicazione del Ccnl di categoria e il riconoscimento della libertà di adesione a sindacati che fossero diversi dai confederali. Non di minore importanza sono state le lotte per contrastare il fenomeno del caporalato, funzionale, tra l’altro, ad imporre una flessibilità oraria atta a gestire i picchi di lavoro. La lotta, inoltre, ha investito la prassi dei pagamenti in nero, del lavoro a chiamata e delle imposizioni di pause non retribuite. La reazione padronale non si è fatta attendere, arrivando anche alla serrata per rispondere allo sciopero dei facchini contro il licenziamento di 100 operai. Ma la capacità di resistenza dei lavoratori, la dimostrazione di unità nella lotta hanno superato quel fondamentale fattore di blocco costituito dal potere di ricatto insito nel permesso di soggiorno condizionato dal mantenimento del posto di lavoro, dando vita ad un’esperienza che si rivelerà di grande importanza nello sviluppo dell’organizzazione sindacale dei facchini. La situazione dei facchini della logistica non era molto diversa all’Ikea di Piacenza, dove ha preso corpo la stessa mobilitazione scandita da scioperi e picchetti. A Basiano l’andamento del confronto ha visto l’intervento delle forze dell’ordine contro i lavoratori in lotta. Il 22 marzo del 2013 è stato proclamato lo sciopero della logistica in tutta Italia. Ancora una volta picchetti, manifestazioni e assemblee sono stati gli strumenti di lotta messi in campo dal S.I. Cobas. Nel territorio emiliano della Legacoop lo scontro è diventato particolarmente aspro, assumendo a tratti anche un valore simbolico. Nella roccaforte del Pd, della Cgil, dei paladini della democrazia, della Costituzione e delle cooperative rosse, nonché dei figli dello stalinismo, sono puntualmente venute a galla le ignobili condizioni di lavoro dei facchini. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il licenziamento di 51 operai della cooperativa appaltatrice alla Granarolo, licenziamento che è avvenuto subito dopo lo sciopero. La protesta è montata anche per la riduzione in busta paga del «35% del salario, comparso in busta paga sotto la voce stato di crisi» 2 . La tenacia nel resistere alle cariche delle forze dell’ordine, l’unità tra i lavoratori e l’organizzazione del S.I. Cobas sono state determinanti per la capacità di reggere la lotta. I sindacati confederali sono risultati, nel migliore dei casi, completamente assenti da queste battaglie. La loro pratica sindacale ormai fatta di vertenze cloroformizzate e all’insegna della svendita degli interessi dei lavoratori, di servizi alla persona come nuova frontiera della presenza sul territorio e nella società, di scioperi di facciata non ha potuto certo garantire un ruolo di guida e di punto di riferimento. Ben altra cosa serviva ai lavoratori immigrati per la difesa dei loro più urgenti interessi di classe. Il S.I. Cobas nel giro di pochi anni è invece diventato un punto di riferimento per gli operai immigrati della logistica, ma ben altro bilancio si deve trarre in riferimento al peso di questa organizzazione tra i lavoratori italiani, soprattutto nei comparti manifatturieri di punta della produzione nazionale. In nessuna di queste realtà sono emerse significative dimostrazioni di solidarietà e di appoggio alla lotta dei lavoratori, in gran parte di origine straniera, della Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 4 logistica e delle cooperative. Il proletariato italiano, nonostante l’attacco imperialistico al salario, nonostante dagli anni ‘80 vi siano continui attacchi alle condizioni lavorative, non ha nel suo insieme ancora smaltito quegli accumuli di risparmio, quei tratti proprietari, quelle condizioni di compensazione all’arretramento salariale resi possibili da un lungo ciclo di espansione capitalistica e di realizzazione di ingenti sovraprofitti da parte dell’imperialismo italiano. Quanto di questo “grasso” sia ancora disponibile sarà da vedere, quanto ancora le attuali e le future leve proletarie riusciranno a mantenere quello che hanno ereditato dai loro padri e quanto tempo ancora passerà prima che il proletariato italiano abbandoni una generale condizione di passività, mettendo almeno in parte in discussione le connesse illusioni circa la propria condizione e le proprie possibilità di affermazione individuale nella società capitalistica, sarà materia di analisi e di conseguente lotta politica per lo sviluppo del partito leninista. Oggi la tendenza che ci troviamo di fronte è in ogni caso quella che sta plasmando un proletariato italiano sempre più spoglio delle reti di relativa protezione, delle relative garanzie venutesi a creare in una precedente fase, sempre più esposto ad attacchi alle proprie condizioni di vita e lavorative, un proletariato al contempo inserito in un tessuto industriale ben diverso da quello in cui si era prodotta l’ondata tradeunionistica della fine degli anni ‘60 e degli anni ‘70 e sui cui tempi e modi di reazione, quindi, incombono necessariamente importanti interrogativi. Ipotetiche tendenze a confronto Abbiamo visto come lo sviluppo del S.I. Cobas sia sostanzialmente dovuto alla capacità di collegarsi alle rivendicazioni dei lavoratori immigrati della logistica e al ruolo assunto nelle lotte di questo settore. Al contempo questi lavoratori hanno maturato un’esperienza di lotta non presente nei comparti maggioritari e più nevralgici del proletariato italiano. Il S.I. Cobas si è inserito in un settore dove la sindacalizzazione era di fatto assente e questo ha giovato molto a questa organizzazione, che in poco tempo ha conosciuto una crescita rilevante. Rimangono dei nodi, però, da affrontare se il S.I. Cobas intende diventare punto di riferimento sindacale anche per più ampi e rappresentativi settori della classe operaia italiana. La condizione di sindacato caratterizzatosi per il radicamento nel proletariato di origine straniera della logistica ha in sé sia elementi di forza sia elementi di debolezza. Da una parte, questa forza-lavoro immigrata e confinata nel mondo delle cooperative si è mostrata, proprio in ragione delle sue condizioni particolarmente critiche, disponibile e propensa ad ingaggiare livelli di lotta chiaramente superiori alla media della combattività del proletariato italiano nel suo insieme. Dall’altro, la stessa connotazione sociale che ha reso possibile questa spiccata combattività tende a tenere distanti queste componenti di proletariato dai comparti di classe caratterizzati da una maggiore integrazione nei meccanismi produttivi e sociali del capitalismo italiano. Il rischio, grave e concreto, è che le stesse ragioni che hanno fatto delle lotte dei lavoratori della logistica un’esperienza di particolare forza e intensità finiscano per diventare, complice ovviamente l’azione borghese, le ragioni per alimentare la separazione, il senso di una differenza rispetto alle masse dei lavoratori italiani, non caratterizzati da appartenenze etniche e da collocazioni lavorative assimilabili a quelle della maggioranza dei lavoratori organizzati dal S.I. Cobas. Dalla speranza, dalla prospettiva di essere avanguardia per l’insieme del proletariato operante nel quadro del capitalismo italiano si finirebbe così nell’incubo della ghettizzazione sindacale. Nel comunicato del S.I. Cobas relativo alla manifestazione indetta dalla Fiom il 14 novembre 2014 a Milano, si sono potuti cogliere i chiari segnali della consapevolezza della necessità di sfuggire a questo rischio di confinamento, dell’imperativo di integrare saldamente l’esperienza della lotta dei facchini in una dinamica di ripresa di classe che vada oltre i confini di una categoria o di una specifica composizione etnica. Il S.I. Cobas ha scelto di aderire al corteo della Fiom con il dichiarato intento di contribuire alla composizione di un fronte operaio in cui, sulla base di un oggettivo incremento della generale conflittualità operaia, si pongano le condizioni per stabilire collegamenti con reparti di avanguardia delle “tute blu” sfuggiti al controllo della direzione opportunista: «In poche parole, la nostra proposta politica è quella di affermare alla necessità di unire le forze soggettivamente e oggettivamente più rilevanti, al fine di rafforzare Prospettiva Marxista – www.prospettivamarxista.org Pag. 5 una prospettiva di resistenza e riscossa operaia» 3 . È ancora presto per concludere se questo tentativo abbia avuto successo o meno, le difficoltà non sono poche. Perché si stabilisca effettivamente un collegamento tra le lotte dei lavoratori organizzati dal S.I. Cobas e più ampie componenti del proletariato, anche al di fuori degli ambiti finora rivelatisi particolarmente favorevoli all’azione del sindacato di base, rendendo le esperienze significative dei lavoratori delle cooperative della logistica un patrimonio autentico ed elementi per la definizione di un ruolo di avanguardia all’interno di un vasto movimento di classe, è necessario che concorrano due tendenze, due processi. Le condizioni dei lavoratori italiani al di fuori degli ambiti finora esclusivo, o quasi, terreno di sviluppo e di leadership sindacale del S.I. Cobas, dovranno materialmente avvicinarsi sempre più alle condizioni di questi ambiti. Dovrà, infatti, ridursi drasticamente quella distanza in termini di mansioni, di condizioni (o aspettative) salariali, di elementi (o aspettative) di stabilità occupazionale, di modalità di accesso a varie forme di welfare, di grado di affidamento nelle capacità di intervento delle tradizionali organizzazioni sindacali e nelle istituzioni, che ancora attualmente spiega l’assenza in più generali realtà proletarie in Italia di forme di lotta modello S.I. Cobas e persino di condizioni basilari per una loro riproducibilità. Ma questo oggettivo terreno comune potrà dare frutti solo se al contempo il S.I. Cobas riuscirà a portare avanti uno sforzo per proiettare una sua presenza e rappresentatività al di fuori dei suoi ambiti tradizionali. Non si tratta ovviamente del richiamo ad un puro esercizio di volontà capace di annullare difficoltà e ostacoli oggettivi, di prescindere dalle condizioni materiali che hanno permesso al sindacato di base di raggiungere quella forza che gli consente oggi di potersi porre il problema di andare oltre un primo stadio di sviluppo. La semplice buona volontà, la dimostrata capacità di sostenere un impegnativo lavoro di organizzazione sindacale non possono di per sé garantire il successo di un’operazione di “esportazione” del modello S.I. Cobas come fattore di avanguardia all’interno di una più generale dinamica di ripresa della lotta di classe proletaria in Italia. Ma quello che può rientrare nelle effettive possibilità di un’organizzazione come questo sindacato di base è la formazione di collegamenti all’esterno dei propri ambiti finora privilegiati, di strategici “avamposti” capaci oggi, non di rovesciare i rapporti di forza con le più radicate forme di rappresentanza sindacale nei comparti di classe maggioritari e decisivi all’interno dell’assetto produttivo del capitalismo italiano, ma di costituire in prospettiva un vitale raccordo con fenomeni di mobilitazione legati al sempre più marcato concretizzarsi della tendenza all’avvicinamento materiale dettato da quel processo di generale deterioramento delle condizioni proletarie prima accennato. La formazione di queste unità di raccordo con il grosso della forza del S.I. Cobas negli specifici settori del proletariato immigrato, impiegato nelle cooperative della logistica, potrebbe, inoltre, svolgere da subito la funzione di controtendenza rispetto al rischio di un ripiegamento nelle sfere lavorative finora rivelatisi più raggiungibili. Se questo rischio dovesse concretizzarsi e prevalere, per il S.I. Cobas il destino non potrebbe essere altro che quello di un’organizzazione confinata in uno spazio sociale ristretto, condannata alla formazione di un personale incapace di relazionarsi al di fuori di ambiti affini per specifiche caratteristiche etniche o di categoria. La spinta alla lotta e all’organizzazione proveniente dalla dimensione generale di un proletariato italiano sempre più ricondotto alla più pura condizione di merce forza-lavoro alle prese con le oscillazioni del mercato e con la necessità di arginare la pressione padronale, troverebbe in questo caso altre esperienze di mobilitazione e rivendicazione, altre forme di organizzazione economica a cui fare riferimento. Ma un patrimonio non indifferente come quello accumulato dal S.I. Cobas in una fase difficile per la lotta di classe proletaria non darebbe l’apporto che pure ha nelle sue potenzialità.

Storia e nascita della UIL

UIL: la storia.

La UIL � nata per volont� di un gruppo di uomini portatori di comuni idealit�, capaci d�individuare obiettivi conseguibili dotandosi di una moderna organizzazione democratica, indipendente, autonoma e socialista nei fini.

Il DNA della UIL parte, quindi, da lontano, esso � composto da neucleotidi inconfondibili presenti in alcuni fin dalla loro opposizione al regime fascista, rafforzatisi in altri dall�impegno nella Resistenza e in altri ancora consolidatisi nell�attivit� sindacale svolta nella Confederazione unitaria. Uomini che hanno trasfuso nell�organizzazione i principi perseguiti da Filippo Turati, il capo riconosciuto dei riformisti, in congiunzione con l� idealit� di un altro grande padre della patria: Giuseppe Mazzini, il cui pensiero � sempre stato di straordinaria attualit�.

Turati e Mazzini due giganti che hanno, in campo politico, influenzato le scelte ideali di coloro che hanno fatto e guidato la UIL, cos� come Bruno Buozzi n� � stato l�esempio da seguire in quello sindacale. Divenendo permanente punto di costante riferimento di molti uomini di prestigio presenti fra i fondatori della UIL e nei dirigenti che si sono succeduti nell�organizzazione.

Il patrimonio ideale della UIL ha trovato un forte arricchimento nel movimento azionista, negli insegnamenti dei fratelli Carlo e Nello Rosselli e giovamento dalla vicinanza politica di grandi uomini della cultura, come Leo Valiani e Ignazio Silone.

Un sostegno che si � integrato perfettamente con il modello di sindacato idealizzato da Bruno Buozzi alla cui edificazione aveva profuso tante delle sue energie e che solo la sua uccisione ne aveva impedito il completamento dell�opera intrapresa.

Quel Bruno Buozzi che Giuseppe Di Vittorio nel discorso fatto in occasione dell�inaugurazione del monumento, dedicato all�esponente socialista, al cimitero del Verano l�11 marzo 1945 riconobbe come egli fosse il vero capo della CGIL con queste parole: �Buozzi � stato tolto con violenza alla CGIL della quale egli sarebbe stato il capo naturale�. Non fu da meno il riconoscimento fatto dal capo della corrente democristiana Achille Grandi il quale afferm� che in Buozzi �noi tutti vediamo in lui senza nessuna distinzione di parte il capo maggiore dell�organizzazione sindacale italiana.�

Questi giudizi e riconoscimenti ci inorgogliscono perch� sono fatti nei confronti del nostro padre putativo sindacale entrato stabilmente nel DNA dell�organizzazione. Tutto ci� ci fa affermare senza alcun dubbio che il DNA della UIL si � formato da un insieme di contributi sindacali, culturali e politici di assoluto valore.

Disponendo di un tale patrimonio la UIL fin dalla sua nascita, il 5 marzo 1950, diede vita ad una organizzazione laica e indipendente che rifiutava le egemonie partitiche nel sindacato, cos� come di essere solo uno strumento �che esaurisce le sue funzioni nelle rivendicazioni salariali e nella regolamentazione dei diritti e doveri dei lavoratori in fabbrica o nella azienda�, ma bens� con l�autonomia di divenire una Confederazione capace di affrontare �tutti i problemi che investono direttamente o indirettamente gli interessi della classe lavoratrice� in modo da non lasciare � alla sola iniziativa parlamentare e dei partiti politici di occuparsi dei suoi problemi, ma di affrontarli sostenuti dal sindacato con l�eventuale appoggio dei partiti senza per� vincolare la sua azione a questo o quel partito�.

Una posizione fondamentale che incider� sul mantenimento del ruolo sindacale dell� organizzazione e ne ispirer� molta parte della politica rivendicativa.

I padri fondatori della UIL, qualunque fosse la loro provenienza o estrazione politica: sindacalisti del pre-fascismo, socialisti, socialdemocratici, azionisti, repubblicani o altro trassero dalla fusione dei valori fondamentali, di cui erano portatori, l�energia necessaria per lanciare l�organizzazione e farla conoscere ed apprezzare come nuovo modello di sindacato. Il 5 marzo 1950 la UIL nacque con la partecipazione di 253 delegati, in rappresentanza di migliaia di dirigenti organizzati e presenti nella periferia, tutti decisi a compiere una scelta organizzativa in grado di offrire ai lavoratori una �organizzazione libera dall�egemonia delle due maggiori forze politiche dominanti all�interno della CGIL (i comunisti) e della CISL
(i democristiani), un sindacato che forte delle sue radici, delle sue idealit� e della sua coerenza sapesse coniugare con esse l�attualit� del momento ed elaborare le linee strategiche della sua azione futura.

E� possibile riscontrare il conseguimento del massimo risultato seguendo, oltre che la storia e gli avvenimenti succedutisi in oltre sessant�anni di vita, il percorso congressuale anche solo nella sinteticit� dei motti che hanno contraddistinto le diverse assise, per rendersi conto quanto siano state rigorosamente seguite le scelte compiute all�atto della fondazione.

Dall�enunciazione molto forti del 2� e 3� congresso �Pace Libert� Lavoro� e �I nuovi strumenti di lotta, pi� ampie prospettive per la classe operaia� con il 4� 5� e 6�congresso ci si immerge sempre di pi� nell�attualit� delle scelte di fondo decise dall�organizzazione con �La programmazione rafforza l�azione sindacale e ne garantisce l�efficacia� proseguendo con �Un sindacato forte per una societ� giusta� e di richiamo ai valori dell�unit� con �L�unit� della UIL per l�unit� di tutti i lavoratori�. I quattro congressi successivi tutti incentrati sul nuovo modo di essere del sindacato con �Partecipare per cambiare� �Dall�antagonismo al protagonismo� �Volgersi al nuovo� e �Far funzionare l�Italia� questi, pi� di altri, rappresentano in chiave moderna la trasposizione ideale di Bruno Buozzi.

Negli ultimi cinque Congressi la UIL con forza ripropone la centralit� del lavoro e del sindacato, altri temi tanto cari e sempre presenti nel pensiero e nell�azione di Bruno Buozzi, con �I diritti del lavoro, il lavoro per lo sviluppo� ���..pi� sindacato� �Pi� valore al lavoro� �Il lavoro vera ricchezza del Paese� e con l�ultimo congresso ribadire il riconoscimento pieno del riformismo quale azione indispensabile per realizzare una societ� pi� giusta nel quadro di un costante progresso democratico, civile e sociale, con �UIL il domani riformista�. Questa rapida e sintetica carrellata consente di affermare quanto la UIL non solo sia rimasta legata alle proprie origini, interpretando l�attualit� e soprattutto abbia saputo adeguare la sua azione ai cambiamenti, spesso riuscendo ad anticiparli.

Dalla storia ed ancor pi� dalla cronaca degli ultimi congressi, si evince come e quanto la UIL ponendo al centro della sua azione il lavoro come valore assoluto e vera ricchezza per il Paese ritenga il riformismo quale unica via per lo sviluppo e la piena valorizzazione di tutta la societ�.
E� l�affermazione di quel DNA che i laici e i riformisti hanno saputo trasmettere e che i continuatori non mancheranno a loro volta di passarlo a coloro che seguiranno garantendo il mantenimento del progressivo sviluppo dell�organizzazione.

Segretario Generale UIL: PierPaolo Bombardieri
Pierpaolo Bombardieri, Segretario generale UIL.

 

PierPaolo Bombardieri, nato a Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), si laurea in Scienze politiche all’Università di Messina. Inizia il suo impegno sindacale nella Uil giovani, di cui nei primi anni Novanta diviene il segretario generale.

 

Eletto segretario della Uil Università e Ricerca di Roma e del Lazio, nel 2007 passa in Confederazione regionale, dove assume l’incarico di Segretario organizzativo e, successivamente, nel 2013, quello di Segretario generale.

Ai vertici della Uil di Roma e del Lazio segue le numerose vertenze che coinvolgono i lavoratori del pubblico impiego, del privato e dei servizi. Inoltre, si confronta con le Istituzioni e nel dibattito pubblico sui cambiamenti e sui nuovi modelli di sviluppo, correlati alla delicatissima fase della trasformazione della provincia di Roma in Città metropolitana di Roma Capitale.

 

Nel novembre del 2014 diventa Segretario organizzativo della UIL e, nel gennaio del 2019, viene eletto segretario generale aggiunto.

 

Il 4 luglio 2020, il Consiglio Confederale Nazionale della UIL, riunitosi presso il Roma Convention Center La Nuvola, lo elegge all’unanimità Segretario Generale dell’Organizzazione.

 

Sposato, due figli, 56enne, un’ostentata passione per la pesca e il basket, studioso di Keynes e di Stiglitz, Bombardieri non smette mai di prestare attenzione ai giovani. Con loro ha organizzato viaggi ad Auschwitz e ha dato vita a un vero e proprio laboratorio formativo civile e sindacale, denominato Go Beyond.

 

Europeista convinto, fa parte dell’Esecutivo della Ces, la Confederazione Europea dei Sindacati. Un incarico, questo, che intende conservare, per dare al suo mandato un ampio respiro e un’ineludibile connotazione moderna e internazionale.

 

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Emanuele Ronzoni
Emanuele Ronzoni, Segretario organizzativo.
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Tiziana Bocchi
Tiziana Bocchi, Segretaria confederale UIL.
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Ivana Veronese, Segretaria confederale UIL.
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Domenico Proietti, Segretario confederale UIL.
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Storia e nascita della CILS

La nostra Storia

Un lavoratore, da solo, difficilmente riesce ad ottenere miglioramenti salariali e normativi. Per questo, fin dall’Ottocento, i lavoratori hanno cominciato ad unirsi, organizzandosi in sindacati, per cercare di migliorare le proprie condizioni lavorative e, più in generale, le proprie condizioni di vita. Parlare della storia della Cisl è raccontare una parte importante della storia del sindacato in Italia, quel sindacato sorto nell’Italia repubblicana, libera e democratica, nata all’indomani del secondo conflitto mondiale.

La Cisl nasce in un momento in cui l’Italia, e con essa il mondo del lavoro, era divisa ideologicamente e politicamente. Da una parte la democrazia occidentale, dall’altra il comunismo. Allora si fece una scelta in nome del progresso, della democrazia e della libertà della persona. Il crollo del sistema comunista ha dato ragione alla Cisl, ma soprattutto ha confermato la validità delle sue idee ispirate dal cattolicesimo democratico e dal riformismo laico. Ancora oggi l’identità della Cisl si impernia sull’autonomia del sindacato, sempre difesa, rispetto ai partiti politici e alle istituzioni. I valori tramandati dai padri fondatori della Cisl, di Giulio Pastore e Mario Romani, sono ancora oggi valori della cultura democratica e della civiltà del Paese.

 

Il Sindacato Democratico e i Valori 

La Confederazione italiana sindacati lavoratori si richiama e si ispira, nella sua azione, ad una concezione che, mentre vede la personalità umana naturalmente svolgersi attraverso l’appartenenza ad una serie organica di comunità sociali, afferma che al rispetto delle esigenze della persona debbano ordinarsi società e Stato. Le posizioni che essa prende dinanzi ai problemi dell’organizzazione economica e sociale mirano a realizzare la solidarietà e la giustizia sociale, mediante le quali si consegue il trionfo di un ideale di pace. Essa ritiene che le condizioni dell’economia debbano permettere lo sviluppo della personalità umana attraverso la giusta soddisfazione dei suoi bisogni materiali, intellettuali e morali, nell’ordine individuale, familiare e sociale. Essa constata che le condizioni attuali del sistema economico non permettono la realizzazione di questo fine e pertanto ritiene necessaria la loro trasformazione, in modo da assicurare un migliore impiego delle forze produttrici e una ripartizione più equa dei frutti della produzione tra i diversi elementi che vi concorrono: sul piano interno, mediante:

a. la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’unità produttiva e la loro immissione nella proprietà dei mezzi di produzione;
b. la partecipazione dei lavoratori alla programmazione ed al controllo dell’attività economica;
c. l’attuazione di radicali riforme atte all’utilizzazione, nell’interesse della collettività, di tutte le risorse del Paese;
sul piano internazionale, mediante:

a. la solidarietà internazionale dei sindacati lavoratori liberi e democratici;
b. l’unificazione economica dei mercati come premessa della unificazione politica degli Stati. Essa intende promuovere queste trasformazioni con il libero esercizio dell’azione sindacale, nell’ambito del sistema democratico; afferma che le organizzazioni sindacali devono separare le loro responsabilità da quelle dei raggruppamenti politici, dai quali si distinguono per natura, finalità e metodo di azione; intende rivendicare costantemente la piena indipendenza da qualsiasi influenza esterna e l’assoluta autonomia di fronte allo Stato, ai governi e ai partiti.

Essa afferma che l’accoglimento del sindacato democratico e della sua azione nel seno della società civile organizzata determina una crescente e inderogabile esigenza strutturale della stessa e costituisce una garanzia e una difesa dell’ordine democratico. Pertanto, mentre si ispira al principio della supremazia del lavoro sul capitale e si impegna a perseguire il miglioramento delle condizioni economiche del lavoratore e della sua famiglia e la loro elevazione morale, culturale e sociale, dall’entrata nel mondo del lavoro alla quiescenza, quale che sia la sua posizione contrattuale o pensionistica e a promuovere una politica di pari opportunità tra uomini e donne nel lavoro e nella società, ritiene che il movimento sindacale e la sua possibilità di azione si basino su una sola necessaria condizione: l’adesione libera e spontanea dei lavoratori all’organizzazione sindacale e la moltiplicazione della forza organizzativa di questa.

Decisa ad utilizzare al massimo le risorse formative proprie del movimento sindacale, essa intende, d’altra parte, fare appello al concorso delle forze intellettuali e morali capaci di servire alla preparazione dei lavoratori, in funzione delle responsabilità che loro incombono in un’organizzazione democratica della vita professionale ed economica, e della loro completa emancipazione.

La Cisl non dispone di un catechismo né di un manuale. La sua idea su se stessa, del resto, non è stata sempre identica e pacificamente condivisa. È utile perciò richiamare il nucleo fondamentale, l’idea essenziale che la Cisl ha proposto fin dalla sua nascita: il sindacato ricava la propria effettiva legittimità storica soltanto dallo stretto legame con i lavoratori, unendoli in un assetto associativo, volontaristicamente accolto e autonomo, ossia, prima di tutto, libero da qualsiasi controllo esterno, politico e organizzativo. È il sindacato dell’autonomia, dell’associazione, della contrattazione.

Autonomia: cioè indipendenza e progetto proprio. Si tratta della capacità di determinare i propri obiettivi, le vie e i mezzi per raggiungerli in piena indipendenza da qualsiasi condizionamento e da qualsiasi centro di potere privato o pubblico. Autonomia, quindi, dal padronato, dai partiti politici, dal Governo, dallo Stato.

Associazione: il sindacato è un’organizzazione che nasce per libera volontà dei lavoratori, è composto da questi lavoratori, può rappresentare di fatto anche gli altri, ma questi non hanno diritto a determinare la vita e gli orientamenti del sindacato. Questo vuol dire che la Cisl non è né istituzione statale, né indistinto movimento; che il sindacato non sta fuori dai luoghi di lavoro ma dentro; che la democrazia sindacale ha dei referenti, delle regole, è delegata, si basa sul mandato dai rappresentanti ai rappresentati.

Contrattazione: a essa il sindacato affida il compito fondamentale e primario di migliorare, in continuità, le condizioni economiche e professionali dei lavoratori. Quello contrattuale è il metodo che la Cisl ritiene nettamente superiore agli altri, alla tutela legislativa o al mutamento di prospettive politiche generali, perché impegna direttamente i lavoratori e le loro organizzazioni, perché dà concretezza e dinamismo al conflitto di interessi e lo conduce nell’alveo dei processi democratici.

La presenza sia di organizzazioni che tutelano gli interessi dei lavoratori sia di organizzazioni padronali ha fatto sì che si sviluppasse un confronto, denominato contrattazione collettiva, con lo scopo di arrivare ad un accordo, il contratto di lavoro, in grado di definire regole e procedure da osservare in un rapporto di lavoro. Una volta firmato, l’accordo diventa impegnativo per le organizzazioni che l’hanno sottoscritto e per tutti i loro aderenti, spesso assume anche valore erga omnes, cioè valido per tutti. Il contratto di lavoro è lo strumento che regola i rapporti tra lavoratori dipendenti e datori di lavoro.

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La Nascita della CISL
Alla fine della Grande Guerra (’14-’18), il sindacato in Italia è totalmente controllato dai partiti. Le adesioni ai sindacati sono in continuo aumento, ma aumenta anche la diaspora sindacale. Con la nascita del fascismo e dei cosiddetti “partiti di massa”, favoriti dallo spirito nazionalista, alcuni gruppi massimalisti confluiscono in piccoli sindacati, che in parte coincidono nei nascenti sindacati fascisti. Al contempo, i cattolici fondano la Cil (Confederazione Italiana dei Lavoratori), di cui Achille Grandi proclama l’autonomia. In questa fase prevale un sindacalismo rivoluzionario, che assume a riferimento la rivoluzione russa del 1917. All’interno delle fabbriche prevale il controllo politico, atteggiamento tradotto con la frase “dalla fabbrica allo Stato”. Il suo fallimento, apre però la strada al fascismo.
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L’inizio: gli anni ’50

 Nei suoi primi anni di vita l’intento della Cisl è quello di costruire un’organizzazione realmente autonoma dal suo retroterra politico, anche dal punto di vista culturale. Dal 1950 al 1965 il progetto operativo della Cisl assume una precisa configurazione. In realtà, essere sindacato nell’Italia dello sviluppo industriale e dell’urbanizzazione è estremamente complesso, perché è molto lontano dai luoghi di lavoro e subisce la repressione del padronato. In questa situazione si fa strada la proposta innovativa della Cisl, che si concretizza con i Consigli generali tenutisi a Roma (1950), Bari (1951) e Ladispoli (1953). In questi anni inoltre si svolgono i primi tre Congressi confederali della Cisl, rispettivamente a Napoli (11-14 Novembre 1951), Roma (23-27 aprile 1955) e di nuovo a Roma (19-22 marzo 1959). Per un approfondimento è possibile consultare il documento “Congressi confederali Cisl”.

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La Politica Contrattuale: gli anni ’60
In questi anni le tre organizzazioni sindacali hanno tutte una propria rappresentanza parlamentare. L’incompatibilità tra cariche politiche e sindacali viene sancita in anni relativamente più recenti. In tale contesto, se da un lato si registrano momenti di lotta unitaria tra i sindacati, segnati dallo slogan “Marciare divisi, colpire uniti”, dall’altro si hanno forti divisioni in occasione soprattutto di manifestazioni indette dalla Cgil su questioni di carattere internazionale o politico. È questo il periodo degli accordi separati, come nel caso della grande vertenza in merito al conglobamento dell’indennità di carovita nella paga base, che si conclude con un accordo interconfederale firmato da Cisl e Uil, mentre la Cgil, che si era ritirata dalle trattative, accetta l’accordo solo in seguito. Solo agli inizi degli anni Sessanta, tra le confederazioni sindacali, cominciano a verificarsi momenti di unità d’azione, in qualche categoria e in alcune località.
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La Federazione Unitaria: gli anni ’70

Dal 1969 ha inizio una nuova fase di rilancio dell’unità sindacale. Per tre volte i consigli generali di Cisl, Cgil e Uil si riuniscono per fissare le date dei congressi di scioglimento delle organizzazioni (che alcune strutture realizzano) in vista del Congresso unitario. In particolare, sulla spinta delle lotte sindacali dei primi anni ’70, a Firenze i Consigli generali di Cgil, Cisl e Uil avviano un processo di unità organica.

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La Caduta della Federazione: gli anni ’80

A partire dal 1980, l’economia italiana è vicina al collasso e il sindacato italiano si spacca sulla scelta della strada da perseguire. In questa situazione delicata la Cisl ha come obiettivi prioritari la lotta all’inflazione e la ripresa dello sviluppo del Paese. In questi anni si ha lo scontro tra Cgil e Cisl sulla scala mobile.

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La Concertazione: gli anni ’90

Particolarmente critica si presenta la situazione istituzionale agli inizi degli anni Novanta in Italia (in particolare nel 1992), alimentata sia dalle vicende politiche internazionali, come la fine dell’esperienza del comunismo reale, sia dall’intreccio di scandali politici scoperti dalla magistratura (Tangentopoli), che mina ulteriormente il sistema dei partiti politici. La Cisl, in questa epoca storica, riesce a cogliere gli elementi positivi del cambiamento, proponendo un nuovo protagonismo sindacale e riscoprendo l’attualità dei propri principi di unità.

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La Continuità dei Valori: la CISL del Nuovo Millennio

Anche nel nuovo millennio, la Cisl prosegue, con Savino Pezzotta (nuovo Segretario generale dal 2001), la via dell’autonomia sindacale e del dialogo in un panorama particolare, segnato da alcuni eventi che portano l’Italia a un clima di instabilità

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La responsabilità del sindacato negli anni della crisi e la stagione degli accordi

Dal XV Congresso Cisl al 2006, anno in cui Raffaele Bonanni divene il nuovo Segretario generale, si riaffermano i valori e le idee della Cisl, tutt’ora attuali: rifiuto del sindacato “governativo”; necessità di una vera “riforma” della contrattazione; bilateralità del mercato del lavoro e sostegno alla formazione continua; sostegno alle forti previdenze integrative e rifiuto di ogni legge sindacale. Dal 2008 si scatena in Europa la crisi economica, finanziaria e sociale più cupa dal dopoguerra. La Cisl lavora costantemente per recuperare coesione, e responsabilità, per trovare le soluzioni più giuste e necessarie per salvare quanti più posti di lavoro.

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Annamaria Furlan:la Cisl, «un Giacimento D’intelligenza Collettiva»
Nel giugno del 2014 con la nomina a Segretario Generale aggiunto di AnnamariaFurlan, la Cisl avvia una nuova stagione di rinnovamento e di ricambio della suadirigenza. L’8 ottobre successivo, Annamaria Furlan assume la Segreteria Generaledella confederazione di via Po, prima donna a ricoprire il ruolo che era stato di GiulioPastore.
Simbolico, ma anche gravido di valore politico, il riconoscimento alla straordinariastoria della militanza femminile nei sessantaquattro anni di storia della Cisl.
Al Consiglio Generale confederale che ne proclama la nomina al vertice dell’Organizzazione, Annamaria Furlan si rivolge con un discorso che «Conquiste del lavoro» sintetizza con un titolo molto efficace: la Cisl è «un giacimento di intelligenza collettiva», cioè un inesauribile patrimonio di donne e di uomini, di storia vissuta e di grandi idee, di valori e di azioni che solo attendono di essere riproposte e riattualizzate. Di fronte alla crisi, che si rivela più pesante in Italia che altrove, e di fronte all’atteggiamento governativo, le parole del nuovo Segretario Generale richiamano le responsabilità del sindacato ad aprirsi al confronto con tutti.
Cioè ad agire nella consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti della pluralità dei lavoratori e dei pensionati per coglierne le specifiche identità. E allo stesso tempo trovare nuove energie e risorse per farsi riconoscere e seguire da chi non ha mai apprezzato l’importanza dell’azione collettiva: i giovani, i precari, i tanti mondi difficili e discriminati che caratterizzano il mercato del lavoro moderno.
Sono queste le premesse per rigenerare la rappresentanza, costruire nuovo consenso tra i lavoratori e tra la gente. Per la Cisl vale sempre la convinzione che il sindacato è un grande soggetto sociale la cui azione è indispensabile per elaborare la sintesi tra gli interessi particolari e il bene comune. Vale a dire il nucleo costitutivo di quella democrazia partecipativa che segna, sin dalla nascita, l’identità della Confederazione di Pastore. Forte della convinzione che non ci sia altro modo concreto di agire per la tutela di chi ha un lavoro, di chi aspira ad averlo e di chi con il suo lavoro si è guadagnata la pensione.

CGIL, la nostra storia

CGIL, la nostra storia

 

Un racconto sintetico della storia centenaria della CGIL collocata all’interno della più generale vicenda italiana

Dalle origini all’età liberale, dall’Ottocento alla crisi dello Stato liberale nel primo dopoguerra, dal fascismo alla ricostruzione della democrazia, dalla crisi italiana e globale, che analizza le vicende di fine secolo a partire dalla crisi degli anni settanta ad oggi ripercorriamo la nostra storia con la consapevolezza – ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio – di servire una causa grande, una causa giusta.

Chi era Bruno Buozzi? Quale fu il dibattito sulla democrazia sindacale e come si è caratterizzato nelle diverse fasi dal dopoguerra ad oggi? E le origini e ragioni dello Statuto dei lavoratori? Dare una risposta a queste ed altre domande è importante non solo per noi stessi ma anche per fare meglio il dirigente sindacale, il delegato o il rappresentante dei lavoratori.

Lavoreremo – care compagne e cari compagni – perché il futuro abbia il cuore e la forza di questa storia, che è storia del paese, rinnovandola e riformandola, accettando le sfide, come sempre abbiamo fatto, quando la sfida ha avuto ed ha una posta importante.  Quello che ha alimentato una ragione di vita ed una ragione di appartenenza, per tanti, attraverso le generazioni, ci servirà per il cammino che ci aspetta.  (…) Ripartiamo con un nuovo inizio, orgogliosi della nostra storia e dei valori, che ne hanno segnato il percorso e ne accompagneranno il futuro, insieme con tanti altri al nostro fianco. In questo modo la storia centenaria della Cgil e di tutto il sindacato continuerà a vivere davvero e sarà stata una storia spesa bene, per chi la volle e per il paese.  Una storia che con emozione e orgoglio – non inferiore a quello che provarono i delegati di quel congresso cento anni fa – consegniamo a tutti coloro che verranno. Perché questa storia gli appartiene, perché vogliamo che il futuro comune riparta da qui (Guglielmo Epifani).

 

1. La nascita della CGdL (1906)

 

La nascita della CGdL (1906)

 

La Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) nacque al primo Congresso di Milano del 29 settembre – 1° ottobre 1906. Il primo Segretario generale fu il riformista Rinaldo Rigola, già in precedenza a capo del Segretariato Centrale della Resistenza, la struttura costituita nel 1902 con l’obiettivo di trovare la sintesi politica tra le spinte radicali dei rivoluzionari, che guidavano gran parte delle Camere del Lavoro, e le posizioni moderate dei riformisti, a capo delle principali Federazioni di mestiere e industriali.
→ Vedi lo Statuto fondativo della CGdL

Le prime strutture sindacali erano nate in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento. La fase “presindacale” fu caratterizzata dallo sviluppo delle Società di Mutuo Soccorso, le prime forme di associazionismo operaio. Il mutualismo aveva lo scopo di fornire assistenza ai soci in caso di disoccupazione, infortunio, malattia e vecchiaia, escludendo il ricorso alla lotta di classe.

La fase “sindacale” vera e propria iniziò con i primi scioperi, promossi tra gli anni ‘60 e ‘70 dell’Ottocento, quando i lavoratori individuarono nella resistenza lo strumento principale di lotta contro le ingiustizie sociali. Il progressivo passaggio dal mutualismo alla resistenza si intensificò negli ultimi anni del XIX secolo, in coincidenza con l’avvio, anche in Italia, della rivoluzione industriale. Le prime Leghe di Resistenza non nacquero, però, solo nell’industria manifatturiera, soprattutto tessile e metallurgica; esse si diffusero largamente nell’edilizia, nei servizi, nei trasporti e, soprattutto, in agricoltura.

Nel tentativo di rappresentare tutti i lavoratori di un territorio, negli anni ‘90 del XIX secolo furono costituite le Camere del lavoro. Le prime nacquero nel 1891 a Milano, Piacenza e Torino. Nel 1898, nel capoluogo lombardo, scoppiarono i “moti per il pane”, che vennero duramente repressi dal Governo: iniziava così la “crisi di fine secolo”, durante la quale furono emanati provvedimenti restrittivi della libertà sindacale e furono chiuse molte Camere del lavoro.

L’esito positivo del primo sciopero generale cittadino, proclamato a Genova nel dicembre 1900 in difesa della locale Camera del lavoro, e la svolta liberale, promossa nel febbraio 1901 dal nuovo Governo liberale, guidato da Zanardelli e con Giolitti Ministro dell’Interno, favorirono la ripresa del movimento sindacale. In quei mesi si costituirono le prime Federazioni nazionali di categoria; nel 1901 nacquero, tra le altre, le Federazioni dei metallurgici, dei tessili e dei chimici e la Federazione nazionale dei lavoratori della terra. Nel settembre 1904, in seguito agli “eccidi proletari” di Buggerru e Castelluzzo, veniva proclamato il primo sciopero generale nazionale.

2- La CGdL nell’età giolittiana (1906-1914)

La CGdL nell’età giolittiana (1906-1914)

Per tutta la durata dell’età liberale e fino al fascismo, la direzione confederale fu saldamente nelle mani dei riformisti. Lo scontro con la minoranza si mantenne acceso fino a giungere alla spaccatura del 1912, quando i sindacalisti rivoluzionari decisero la costituzione al Congresso di Modena dell’Unione Sindacale Italiana (USI).

Il programma confederale, confermato nei successivi Congressi nazionali di Modena, Padova e Mantova (tenuti rispettivamente nel 1908, 1911 e 1914), puntava al miglioramento graduale delle condizioni di vita delle classi lavoratrici italiane; in questa direzione andava anche l’accordo siglato all’inizio del 1907 tra CGdL, Federazione delle Società di Mutuo Soccorso e Lega Nazionale delle Cooperative (la cosiddetta “Triplice Economica”).

Gli strumenti principali individuati per la realizzazione del programma confederale furono due: lo sviluppo della legislazione sociale e la diffusione della contrattazione collettiva. Su quest’ultimo versante, la firma dei primi contratti (tra i più importanti l’accordo Itala-FIOM, firmato a Torino nel 1906) evidenziò il tentativo da parte sindacale di ottenere un riconoscimento “istituzionale” da parte di Governo e imprese (nel 1910 nasceva a Torino la Confederazione Italiana dell’Industria). I risultati furono significativi: la riduzione dell’orario di lavoro, la fissazione dei minimi salariali, il riconoscimento delle Commissioni interne nei luoghi di lavoro, il controllo del collocamento.

Tuttavia, la dura intransigenza padronale e le ricorrenti crisi economiche impedirono l’estensione e il rinnovo dei contratti. Quanto ai rapporti con il Partito Socialista Italiano (costituito a Genova nel 1892), dopo la nascita della CGdL non mancarono momenti di attrito e difficoltà. L’accordo di Firenze del 1907 sancì la “naturale” divisione dei compiti tra sindacato (economia) e partito (politica); ma sia la discussione sulla costituzione da parte sindacale di un eventuale Partito del lavoro, sia la vittoria dei massimalisti nel partito al Congresso di Reggio Emilia del 1912, segnalarono una crescente divaricazione tra PSI e CGdL.

Le tensioni aumentarono durante i fatti della “settimana rossa” del giugno 1914, quando un movimento insurrezionale e antimilitarista, partito da Ancona, si propagò in molte zone d’Italia. In appoggio ai manifestanti, la CGdL decise di proclamare lo sciopero generale; ma di fronte all’aggravarsi degli scontri con esercito e forze dell’ordine, la Confederazione decise di ritirare il suo sostegno alla mobilitazione in atto.

3. La prima guerra mondiale e il “biennio rosso” (1914-1920)

La prima guerra mondiale e il “biennio rosso” (1914-1920)

 

Allo scoppio della prima guerra mondiale (1914), l’Italia mantenne una posizione neutrale. La maggioranza del paese e delle forze politiche (liberali, cattolici, socialisti) rifiutava l’ingresso nel conflitto; anche la CGdL si schierò in modo convinto su queste posizioni, ribadendo la stessa opposizione mostrata durante la guerra coloniale di Libia del 1911-12. Nel giro di alcuni mesi, tuttavia, settori minoritari delle classi dirigenti imposero al Parlamento un colpo di mano che sancì l’intervento italiano in guerra a fianco della Triplice Intesa. Il PSI si ritirò sulla posizione del “né aderire, né sabotare”, mentre la CGdL inaugurò una politica di collaborazione istituzionale con Governo e imprenditori al fine di tutelare nel miglior modo possibile i lavoratori.

La prima guerra mondiale assunse ben presto caratteri devastanti, con un coinvolgimento senza precedenti dei civili. A milioni morirono nei campi di battaglia; in tantissimi, soprattutto donne, furono coinvolti nel sistema della Mobilitazione Industriale. Gli anni di guerra furono drammatici: ritmi asfissianti di lavoro, divieto di sciopero, equiparazione giuridica degli operai ai soldati al fronte. Il 1917 fu l’anno peggiore: già prima della sconfitta militare di Caporetto, nel Paese si registrarono moti popolari di protesta per il pane e contro la guerra; il più imponente si ebbe nel mese di agosto a Torino quando l’esercito sparò sulla folla provocando decine di morti.

Finito il massacro, in molti paesi europei, anche sull’onda delle notizie rivoluzionarie provenienti dalla Russia, scoppiarono numerose rivolte popolari. L’Italia registrò un periodo di accesa conflittualità sociale, il “biennio rosso” (1919-20). Dopo la firma nel febbraio 1919 dei primi contratti nazionali , che sancirono la conquista delle otto ore giornaliere, con l’estate si entrò nel vivo della mobilitazione. Protagonisti di questa fase furono i braccianti nelle campagne, mentre nell’industria operarono i Consigli di fabbrica, le nuove strutture di rappresentanza operaia, promotori di una politica rivendicativa fortemente antagonista, centrata sul controllo dell’organizzazione del lavoro e della produzione. La CGdL mantenne un atteggiamento diffidente verso il movimento dei Consigli, facilitandone in questo modo la sconfitta, avvenuta a Torino nell’aprile 1920. A settembre, dopo una dura vertenza culminata con l’occupazione delle fabbriche, la firma del “lodo Giolitti” tra Governo, CGdL e imprese pose fine al “biennio rosso”. Al V Congresso della CGdL, tenuto a Livorno nel 1921, il sindacato, a differenza del partito socialista, riuscì a evitare la scissione dei comunisti.

4. La violenza fascista (1921-1926)
5. Le due CGdL tra clandestinità ed esilio (1927-1939)
6. La seconda guerra mondiale e la Liberazione (1940-1945)
7. La CGIL unitaria (1944-1948)
8. La CGIL dopo le scissioni sindacali: i duri anni Cinquanta (1948-1955)
9. La ripresa sindacale (1955-1967)
10. Il “sindacato dei Consigli” (1968-1973)
11. La Federazione CGIL-CISL-UIL tra crisi economica e lotta al terrorismo (1973-1979)
12. Dalla vertenza Fiat allo scontro sulla scala mobile (1980-1985)
13. L’autoriforma della CGIL (1986-1991)
14. La concertazione degli anni novanta (1992-1998)
15. Nella crisi di inizio millennio (1999-2009)

Ilaria Romeoresponsabile dell’Archivio storico della Cgil nazionale

Michele Columbu

Chie semus e proite semus goi?

Scritto da Michele Columbu

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«La crisi e la marginalità economica» sun condissiones chi poden induire sa zente a si pompiare a fùrriu e a chèrrer ischire «chie semus e proite semus goi». Ma sas condissiones ebia non bastan ca sun comente unu terrinu prontu a retzire su sèmene, ma si sèmene non b’at, non bos iseteas frutu perunu. Crisis econòmicas difatis, e poberesa e fàmine meda e pòpulos postosa. pedes, no nd’est mancan mai, epuru est raru chi apan produìu cultura nova in Sardinza, si non cando dae foras sun arribaos sonos e ideas de àteros «mundos». E si nono, proite sèculos e sèculos, chene ghinnire ocru, e pentzi nande «ohi» a fura, amus pacau focàticos, donativos e dècumas, totu de badas, a meres istranzos? Proite semus abarraos a renes in terra, nande chi Deus at inventau su ricu e-i su pòberu, su mere e su theracu, e chi sa leze naturale est gai, e a chie li tocat parte manna e a chie minore?

Finas su pòpulu frantzesu est abarrau in intro de «la servitù della gleba tempus meda, e solu in s’Otantanove s’est pesau contras a s’aristocratzia mandrona e innorante de su Setichentos pustis de àer cumpresu, nessi in parte, sa cultura nova de J.J. Rousseau e de sos àteros intelletuales de cussu sèculu buddi-buddi. A Sardinza puru, cussos annos, dae Frantza b’at arribau voches oru oru chi an allutu su bulluzu e su focu de G.M Angioy – chi pero at incapau linna virde e lasca e istutadores medas.

Naro chi semper, pro allumare, bi cheret s’esca, ma chi no manchet mai s’ischintidda, si nono mizas de annos bi colan supra sa cultura predosa de unu pòpulu e supra sas condissiones suas, e no si movet nen foza nen chizu, coment’est capitau in medas cobiles de s’Isula finas a tempus nostru.

Oje est tirande àghera in totu sa Sardinza e b’ at zirande ideas chi venin dae s’Europa e dae prus abedda, ideas benevènnias in custa «area periferica e marginalità economica». Su discursu de «s’identidade» est semper prus forte e prus intesu; black is beautiful andat bene inoche comente aterube, e sos sardos sun comintzande a nàrrer «nois semus nois», sun atrogande a cara isparta de èsser sardos e no si travestin de continentales pro tènner deretu de viver in su mundu.

Sa prima ischintidda de custas ideas est antica. No naro nen chie nen cale pro no laudare mèritos de una parte, ca sas làudes piachen a totus e nessunu cheret gurpas. Ma solu in su tempus de como, dae una vintena de annos in goi, a su focu l’an dau un’alligl’ada pacos intelletuales chi oje sun antzianos, o nessi intraos in tempus. Mancu de custos no lùmeno a nessunu de parte peruna, ca no so’ istòricu e apo presse: ma in mesu de issos ponìebi a Michelànzelu Pira.

Custu focu est galu minore, però semper prus luchende, e sem­per prus bi s’acostiat e si caentat sa zoventude democràtica e progressista.

Ego no innoro su valore de sa limba cando unu pòpulu postu a pedes e chene memòria pertendet de antziare sa conca e nàrrer cosa; ma iseo puru chi si poden fàcher revolussiones in limba istranza, e peri in sa limba de su «mere», coment’ est capitau in totu sas Amèricas. Ma a che pèrder sa limba, destimonza de disaùras e ma­las sortes, pro unu pòpulu in chirca de pesare de renes, est unu dannu chene connotu. A su puntu chi semus, prusaprestu, no si podet presumire de abivare sa limba sarda esiliande sa limba italiana a parte chi non bi diat èsser sa manera – ca s’italianu dae prus de unu sèculu in goi est sa currente chi nos aùnit a sas culturas de su mundu. E duncas s’impreu est custu: italianu e sardu totu paris.

Ma pro connòscher bene duas limbas, mantenèndelas distintas una dae s’àtera, mesche si sun simizantes a pare comente s’italianu e su sardu, bi cheret frimesa, abilidade e cultura. A su prus de sa zente imbetzes lis mancat calidade e puntillu, su terrinu lu vien semper pranu e anzone o boe domau lis paren totunu. In custa condissione sa limba chi bi perdet est sa sarda, ca mancu sos sardos bi li cheren bene; s’italiana no, ca puru chi medas li facan ofesa, issa at amparu forte in sos iscritos de oto sèculos, in sas gramàticas, in sos vocabulàrios, in sas iscolas, in sos mastros rigorosos. Si unu narat «se sarei più grande », lu currezo «se fossi» e mi ponet mente; si unu narat «tres annos fachet» e lu currezo «como tres annos », mi respondet chi gai est a s’antica e chi sos de como naran «tres annos fachet».

E b’at puru chie narat «fàchelu intrare» e «fàchelu sèdere», a s’italiana, mentres chi in sardu amus semper nau «nàrali a intrare s e «nàralia si sèdere».

Peri sas mamas legas si ghetana s’ala de sos fizos e los azudan a nàrrer «sa pècora », «su formàgiu », «sas pernices », ca los volimus modernos, no anticos e tontos che a nois. E bastas est una revolussione a contràriu. (Pro custu motivu matessi e non pro àteru, mi paret a mime, sos zòvanos chi si vestin in costùmene pro sas isfiladas da «sas còpias», in sos «redentores», «fèrulas» e «candeleris», si presentan chene berrita, comente in crèsia e in sos tribunales inube sa Leze est «eguale per tutti», Toscana, Piemonte, Aristanis e Oroteddi).

Custu apèrrer de cara a «s’istranzu» e a «su modernu» est unu bisonzu lezìtimu chi no si depet isanimare ca est su puntòrju pro essire dae sos astrintòrjos de una cultura isserrada e pro arribare a culturas novas e largas. Custu bisonzu però diat dèper èsser guidau de sa menzus manera, ca si nono at a fàcher prus male chi non bene. So cuntentu chi unu piseddu sardu iscat nàrrer «le pecore di mio padre », e mezus e mezus si narat puru «les brebis de mon père» e “die Schafe meines Vaters» ; ma est a che iscontzare su fatu si mi narat «sas pècoras de su papà meu». A fabeddare gai unu nche reventit istranzu in domo sua e no arribat a culturas prus mannas ne a connòscher su mundu.

Pro cussu mi paret chi bi cherjat controllu e rigore. E a chie tocat su controllu? (Chi e come deve gestire tale contatto e controllarne gli effetti? – «Questionario, 2» – Chi deve guidare questi processi? – «Pira, p. 283»). Ego pesso chi su controllu, o mezus sa gestione, no si pothat comintzare chene una leze, primu primu, chi cuntzedat a sa limba sarda totu sos deretos chi tener sa limba italiana – e no naro cales – Su restu venit de sè, tales chi sa leze siat respetada e chi b’anat chie sos deretos los chircat. Ma so’ cunvintu, e no apo duda peruna, chi diat esser un’irballu mannu a nos ponneremus sul terreno della rinuncia agli strumenti comunque acquisiti di superamento delle distanze [ … ] (Pira, p. 138).

Mentras chi no so’ nudda de acordu cun M. Pira ube narat chi il riconoscersi militanti del grande fronte rivoluzionario mondiale contro il capitalismo e l’imperialismo è già più importante del fat­to di riconoscersi sardi (p. 283). Prus pacu puru so’ de acordu – e nde so’ finas sentìu – cando annaghet chi su fatu est notòriu finas agli indipendentisti meno rozzi.Mancu bi so’ credende chi custas paràulas las apat iscritas issu, ca mi paret una trabucada de sa pinna a fura sua, e no mi dechet a li respòndere a tonu; si nono dae banda mea diat pàrrer aberu una ruzesa.

In cantu a Marx, nessunu podet dennegare chi in s’istòria de su mundu s’anàlisi de sos mecanismos chi produin sa richesa e sa poberesa, sos isfrutaos e sos isfrutadores, est unu avantzamentu illimitau pro totus, pro sardos e no sardos. Su connòscher it’est s’imperialismu chi no s’abrentat mai e it’est su capitalismu arruncadore, induit s’òmine a refiutare s’isfrutamentu e a defender sos deretos suos naturales. Mentras chi su prozetu de s’auniren totu sos lavoratores de su mundu pro fàcher una revolussione manna cantu su mundu e illiberare su mundu intreu totu perpare, e pustis a lu pònner in ordine – amore, cosas zustas e pache – est unu visu bellu chi no reventìt.

Finas a oje difatis sa revolussione planetaria de sos isfrutaos no l’amus connota; revolussiones minores imbetzes, mancari unu pacu diferentes una dae s’àtera, nd’amus connotu medas, e b’at de pessare chi nd’amus a connòscher galu, non pro vìer su mundu perfetu ma nessi pro lu mezorare. Su de non crèder est custu: sos intelletuales sardos “de sinistra” sun totu cuntentos, fàchen telegramas e dimostrassiones, e votan documentos “unitàrios e solidales” cando essit s’issòniu de revolussiones in partes de mundu chi no s’ischit mancu ube si torran; ma si fabeddamus de revolussiones nostras in pache e de acordu, pro Sardinza, naran chi nono, chi est traissione de su fronte universale e lota de isulamentu e de “retroguardia”. Diat pàrrer chi sos sardos, in su mundu, che criaturas de pacu sen­tidu, sun proibios de pessare e de fàcher carchi cosa a manu issoro; depen istare chietos chietos in s’irbetu de revolussiones istranzas e a sa coa de cussos nos depimus astringhere pro nd’ essire nois puro a servamentu. Si sos intelletuales “de sinistra” in totube esseren gai, unu isetande a s’àteru pro mòver totu paris, su mundu non diat cambiare in nuddube. E b’ at puro de nàrrer chi nois no nos addata­mus a revolussiones anzenas chi no ischin chie semus e ite cherimus. A cada pòpulu sa revolussione sua, su socialismu suo, cunforma s’istòria sua, su bisonzu e su disizu. Puro a su pòpulu sardu. E nois, sos indipendentistas sardos, ruzos chi siamus, o pacu o meda, in custa lota non cherimus cannones, nen de ocidente nen de oriente, ca sos cannones, o de goi o de gai, dae cando su mundu est inventau, su prus dannu l’an fatu semper a sos pòberos.

E at a èsser custa puro un’utopia, chi assimizat a «la pace perpetua». Ma sas utopìas, finas cuddas chi paren contos de un’àtero mundu, sun comente istellas incanteras: a sa luche issoro non po­dimus arribare, però a chie viazat li dan carchi sinzale in su caminu.

da LA RAGIONE DELL’UTOPIA, omaggio a M. Pira, 1984 – tratto dalla parte centrale del lungo saggio dal titolo: Sardos malos a creschere… scritto da Columbu in sardo e in italiano

 

IL TESTO ITALIANO

Chi siamo? Perché ci troviamo in questa situazione?

«La crisi e la marginalità economica» sono condizioni di fatto che non si possono ignorare e che impongono dolorosi interrogativi:

Chi siamo? Perché ci troviamo in questa situazione? Ma le condizioni obiettive, da sole, non sono sufficienti a provocare serie reazio­ni operose ove non intervengano stimoli esterni, come semi su un terreno fecondo. Crisi economiche, infatti, povertà fino alla miseria e varie forme di oppressione, non sono fatti nuovi in Sardegna; tut­tavia non è mai accaduto che producessero fermenti politici e culturali di ribellione se non quando sono arrivate dall’ esterno idee e notizie stimolanti. Altrimenti non si spiegherebbe perché i sardi, per lunghissimi secoli e senza batter ciglio – salvo qualche sommesso lamento – si sono piegati a pagare pesanti tributi di ogni genere ai padroni d’oltremare. Non si capirebbe il loro rassegnato strisciare nella convinzione che le più ingiuste disuguaglianze sociali, la ricchezza e la povertà, il servo e il padrone, fossero di origine celeste e pertanto, fatalmente, un uomo viene al mondo in abiti principeschi oppure di mendicante.

Persino il popolo francese ha dovuto subire lungamente le op­pressioni feudali, e soltanto neIl’89 si ribellò all’ aristocrazia settecentesca impigrita nell’ignoranza. Ma ciò non si sarebbe potuto verificare stabilmente senza i fortissimi stimoli diffusi dalla nuova cultura di quel secolo fervidissimo. Proprio dalla Francia, alla fine del ’700, provenivano i fermenti che in Sardegna accesero i «moti angioiani »; i quali tuttavia si spensero presto perché i rivoluzionari sardi erano immaturi e la reazione fortissima. In altre parole, i fatti storici veramente nuovi richiedono sì un terreno favorevole ma an­che occasioni propizie; altrimenti la cultura semplice di un popolo può tramandarsi eguale di generazione in generazione e restare immobile per migliaia di anni, come è accaduto fino a poco fa, si può dire, a un certo tipo di cultura pastorale in Sardegna.

Oggi anche da noi qualcosa si muove e si vanno diffondendo « idee» nuove di origine europea e più lontana. Il discorso sull’« identità», per esempio, è sempre più vigoroso e più sentito. Black is beautiful trova riscontro qui come in altri paesi; anche i sardi prendono coscienza di se stessi, non si vergognano di essere sardi, e non sentono il bisogno di mimetizzarsi per aspirare al riconoscimento dei propri diritti.

La matrice di queste idee è quasi antica. Non dirò della sua provenienza per evitare imbarazzanti celebrazioni di parte. Ma solo da poco, da non più di vent’anni, certi aspetti della nuova cultura sarda sono stati interpretati vivacemente da alcuni intellettuali che ora sono anziani o scomparsi. Fra essi non si può tacere il nome di Michelangelo Pira. Questa «nuova cultura» è ancora ai primi passi, ma si va sviluppando in modo inarrestabile, anche per merito dei giovani democratici e progressisti che vi si accostano con appassionato interesse.

Io non sottovaluto l’importanza della lingua quando un popolo umiliato e dimentico della propria storia decide di riscattarsi; ma sono anche persuaso che è possibile lottare per la propria liberazione in qualunque lingua, anche nella lingua degli oppressori, come è accaduto, storicamente, in tutti i paesi delle due Americhe. In ogni caso, la perdita della lingua, che per molti versi può testimoniare le sventure e le sofferenze del passato, rappresenta un danno incalcolabile per un popolo che voglia rimettersi in piedi. Piuttosto, nell’attuale fase di decadimento a cui la lingua sarda è pervenuta, non si può pretendere che rifiorisca mettendo al bando la lingua italiana – a parte il fatto che non sarebbe materialmente possibile – perché solo mediante questa lingua, da oltre un secolo, i sardi hanno istituito e tuttora mantengono rapporti con la cultura del mondo. E dunque non c’è altra via che la pacifica convivenza delle due lingue.

Sennonché una conoscenza rigorosa dell’una e dell’ altra, evitando confusioni e reciproci inquinamenti – specialmente quando si tratti, come nel caso in questione, di lingue che presentano ingannevoli affinità – presuppone un puntiglioso impegno e una solida capacità di distinguere che mancano ai più. Molti, appena conoscono un po’ d’italiano, si esprimono con approssimazione deplorevole arrecando gravi guasti a entrambe le lingue, ma soprattutto al sardo. L’italiano, infatti dalle offese degli ignoranti trova riparo nel dizionari, nelle grammatiche e nella secolare tradizione scritta e nella severità della scuola. Pertanto, lo scolaro a cui scappa un condizionale in luogo di un congiuntivo viene corretto autorevolmente dal maestro; ma quando io richiamo qualcuno perché, in sardo, anzichè dire «como tresannos» dice (all’italiana) «tresannos fachet », mi risponde che io sono antiquato e che oggi si dice, e si deve dire, «tres annos fachet». La frequenza italiana del verbo «fare », indebitamente, passa in sardo in espressioni come «fàchelu intrare», «fàchelu sèdere», eccetera, in luogo di espressioni corrette come «narali a intrare» e «nàrali a si sèdere».

Anche le madri analfabete si schierano con i figli e li incoraggiano a dire «sa pècora», «su formàgiu», «sas pernices», perché «vogliamo bambini moderni, non antichi e stupidi come noi». E insomma si fa una rivoluzione a rovescio. (A mio parere, queste ragioni sono le medesime per cui i giovani che indossano il costume «nazionale» in occasione di sfilate – «sas còpias» – promosse dagli organizzatori delle varie sagre isolane, rinunziano a «sa berrita» e si mostrano a capo scoperto).

Questa propensione verso tutto ciò che appare «forestiero» e «moderno» non deve essere scoraggiata più che tanto, perché in definitiva mira a superare i vincoli di una cultura arcaica e angusta per stabilire rapporti con aree culturali più vaste. Tale esigenza, tuttavia, se non vogliamo che produca nuovi guasti, dovrebbe essere indirizzata nel modo più illuminato possibile. Mi fa piacere, per esempio, per quanto si riferisce alla lingua, che un bambino sardo sappia dire «le pecore di mio padre», e meglio ancora se può anche dire «le brebis de mon père» e «die Schafe meines Vaters»; ma fa opera di distruzione, e nient’altro, un bambino che dica “sas pècoras de su papà meu” . Chi parlasse a questo modo si ritroverebbe straniero in patria, senza peraltro acquisire nuove cittadinanze. Perciò mi sembra che la propensione al nuovo abbia bisogno di una guida severa e sapiente. E a chi spetta il dovere di guidare? («Chi e come deve gestire tale contatto e controllarne gli effetti?» – Questionario, punto 2 – «Chi deve guidare questi processi?» – Pira, pag. 283). Secondo me, nessun controllo può essere praticamente avviato se preliminarmente non siano riconosciuti alla lingua sarda gli stessi diritti della lingua italiana. E ciò mediante una legge. Il resto verrà da sé, un po’ alla volta, purché, beninteso, la legge abbia i suoi «ministri» e i suoi strumenti. Sono anche del parere, debbo ripeterlo, che non si debba rinunciare «agli strumenti comunque acquisiti di superamento delle distanze» (pag. 138).

Non sono affatto d’accordo con Michelangelo Pira, invece, dove egli scrive che «il riconoscerci militanti nel grande fronte rivoluzionario mondiale contro il capitalismo e l’imperialismo è già più importante del fatto di riconoscersi sardi» (pag. 283). E dissento totalmente – non senza un pizzico di risentimento – quando gli accade di aggiungere che ciò è ammesso anche dagli «indipendentisti meno rozzi». Questo passo mi sorprende a tal punto da farmi credere che talvolta la penna possa andare oltre le intenzioni di chi scrive. Questa considerazione mi vieta di aprire una polemica che davvero potrebbe apparire alquanto rozza oltre che inopportuna.

Per quanto si riferisce all’insegnamento di Marx – a prescindere dalla dottrina politica che ne discende – è innegabile che l’analisi dei meccanismi che presiedono alla produzione dei beni rappresenta un immenso passo avanti nella cultura dell’umanità. La conoscenza della natura insaziabile dell’imperialismo e del capitalismo di rapina apre gli occhi ai lavoratori e li prepara alla difesa dei propri diritti naturali. Benissimo. Ma la visione di un fronte unitario e mondiale del lavoro per realizzare una rivoluzione mondiale unitaria e magari simultanea, per liberare l’intero pianeta dalle ingiustizie sociali, oggi appare, e non solo a me, un progetto superato e irrealizzabile.

Finora infatti non abbiamo conosciuto una rivoluzione planetaria e unitaria, mentre si sono verificate molte rivoluzioni singolari, con caratteristiche singolari e diverse, tutte tendenti non dico alla perfezione del mondo ma al suo progressivo miglioramento. Sì, la cosa un po’ strana è questa: gli intellettuali sardi cosiddetti di sinistra manifestano la propria soddisfazione e incondizionata solidarietà quando hanno notizia di rivoluzioni socialiste (non meglio specificate) in qualche regione del mondo lontanissima dalla Sardegna e poco conosciuta, ma quando si accenna alla eventualità di una rivoluzione, anche democratica e semplicemente culturale, in quest’isola, insorgono denunziando il tradimento del «fronte universale». In altre parole, si direbbe che la Sardegna è ammessa a concorrere per costituire il complesso e vario insieme dei paesi della Terra ma, contrariamente agli altri singoli paesi, deve attendere e conformarsi ai risultati delle iniziative e, in taluni casi, delle rivoluzioni altrui. A noi sardi, come a dei poveri minorati mentali, in nome dell’universale sivuol negare non solo l’autonomia ma persino il desiderio dell’autonomia. Eppure oggi è molto diffusa, anche fra i socialisti, l’opinione che a ciascun popolo si debba concedere la scel­ta della «sua rivoluzione per il «suo socialismo”. Noi indipenden­tisti sardi reclamiamo anche il diritto di scegliere il metodo della nostra lotta: e abbiamo scelto di rifiutare con assoluta fermezza la via delle armi e qualsiasi alleanza armata, esperti come siamo che i cannoni, di marca occidentale o di marca orientale, da che mondo è mondo generalmente hanno sparato contro ipoveri e i deboli.

La non-violenza può darsi che sia un’utopia non diversa dal miraggio di «la pace perpetua». Sennonché anche le utopie concepite nel più lontano regno della favola conservano un fascino che ispira e guida chi ansiosamente cerca nuove vie della cultura e del progresso umano.

Quirinale

EUROPA

Come gli stati Ue implementano il Gdpr

Dall’entrata in vigore del Gdpr a oggi, sono state fatte più di 900 multe per violazione dei dati personali. Segno di una estesa applicazione del regolamento. Ci sono però disparità tra i vari paesi membri in quanto a numero di sanzioni e anche rispetto agli investimenti nel settore.

Il salario minimo nei paesi europei

Il parlamento europeo ha votato a favore della direttiva sul salario minimo, che però non ne prevede l’imposizione per legge negli stati membri. Ad oggi, l’Italia è uno dei pochi paesi sprovvisti di questa misura, nonostante l’elevato numero di lavoratori in condizioni di povertà.

Il riposizionamento dei rappresentanti italiani al parlamento europeo

I media hanno riportato di possibili cambi di gruppo da parte degli europarlamentari italiani. In particolare di quelli appartenenti a Lega e Movimento 5 stelle. Tali tendenze in parte sono il riflesso di quanto avviene a livello nazionale ma in parte potrebbero anticipare scenari futuri.

 

 

 

 

 

 

2. L’andamento di voti e scrutini

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, il presidente della repubblica è chiamato, tra le altre cose, a gestire le crisi di governo. Inoltre detiene il potere di sciogliere le camere e indire nuove elezioni. Più in generale si può affermare che tra i suoi compiti rientra quello di garantire il corretto funzionamento delle istituzioni. Quello del capo dello stato quindi è un ruolo delicato. Anche per questo motivo la procedura per la sua elezione risulta particolarmente complessa.

In base all’articolo 83 della costituzione infatti l’inquilino del Quirinale deve essere eletto dal parlamento in seduta comune (in quanto massimo organo rappresentativo della nazione). A cui si aggiungono 3 delegati per ogni regione (salvo la Val d’Aosta che ha un solo rappresentante). In attesa che trovi applicazione la riforma costituzionale approvata nel 2020 che prevede una riduzione del numero dei parlamentari, l’assemblea che elegge il presidente della repubblica si compone quindi ad oggi di 1.008 membri: 630 deputati, 320 senatori (inclusi i senatori a vita, attualmente 6) e 58 delegati regionali.

Da notare che attualmente i deputati sono 629 in virtù delle dimissioni di Roberto Gualtieri, eletto sindaco di Roma. Le suppletive per eleggere il suo sostituto però sono state fissate per il prossimo 16 gennaio, di conseguenza il sostituto dell’esponente dem potrà partecipare alle votazioni per il Quirinale. Anche in senato attualmente si registra una defezione. Nell’agosto scorso infatti è deceduto il senatore della Lega Paolo Saviane. Attualmente però non si hanno indicazioni sulla sua sostituzione.

1.008 gli attuali elettori del successore di Mattarella.

I presidenti della repubblica eletti sinora sono stati 12. L’unico ad essere scelto per un secondo mandato è stato Giorgio Napolitano nel 2013 (poi dimessosi due anni più tardi).

Come si svolgono le votazioni

Data l’importanza del ruolo la costituzione prevede una procedura particolare per l’elezione del capo dello stato. È infatti previsto il voto segreto e una maggioranza dei due terzi dell’assemblea. Se non si riesce a raggiungere questa soglia si procede a una nuova votazione. Dopo i primi tre scrutini, se ancora non si riesce ad eleggere un candidato, diventa sufficiente la maggioranza assoluta (la metà più uno dei votanti).

La seduta per l’elezione del presidente della repubblica è unica. Ciò significa che finché non viene eletto il successore al Quirinale l’assemblea non si scioglie. Vai a “Come si elegge il presidente della repubblica”

Da notare peraltro che, a seguito del taglio di deputati e senatori, il “peso” ricoperto dai delegati regionali nell’elezione del presidente della repubblica sarà maggiore. Se adesso infatti essi rappresentano meno del 6% dei suffragi, con il parlamento ridotto a 600 membri passerebbero ad esprimere il 10% circa. Una quota giudicata eccessiva da molti osservatori e addetti ai lavori. Per questo motivo in parlamento è stata presentata una proposta per la revisione della costituzione volta a “correggere” questo squilibrio. Il disegno di legge prevede la riduzione dei delegati regionali da 3 a 2.

Questa proposta tuttavia è ancora ai primi passi dell’iter. Attualmente infatti risulta in discussione nella commissione affari costituzionali della camera.

Come sono andate le votazioni per il presidente della repubblica finora

Il consenso intorno al nome del candidato è uno degli elementi che caratterizza maggiormente il processo di elezione del presidente della repubblica. L’obiettivo del costituente infatti era quello di cercare di trovare un nome che fosse condiviso il più possibile dalle forze politiche. Allo stesso tempo però c’era la necessità di evitare che si creasse un impasse istituzionale troppo lungo.

Trovare un accordo sul candidato da eleggere infatti è un’operazione che non sempre è stata semplice. Raramente l’inquilino del Quirinale è stato scelto entro i primi 3 scrutini. Quando cioè la costituzione richiede una maggioranza particolarmente ampia. Significativi, sotto questo aspetto, la previsione del voto segreto e che, tra una votazione e l’altra, vi siano delle interruzioni. Questo da un lato svincola gli elettori dal dover seguire pedissequamente le direttive di partito, dall’altro favorisce il dialogo per trovare la convergenza su un candidato.

Tanti scrutini sono solitamente sintomatici di grande indecisione politica al momento del voto.

Mediamente sono 9 gli scrutini necessari per arrivare ad eleggere il capo dello stato. Se da un lato infatti sia Francesco Cossiga nel 1985 che Carlo Azeglio Ciampi nel 1999 sono stati eletti al primo turno, dall’altro per Giuseppe Saragat e Giovanni Leone sono stati necessari oltre 20 scrutini (21 per il primo e 23 per il secondo). Sul podio delle elezioni più complicate anche quelle di Oscar Luigi Scalfaro nel 1992 e Sandro Pertini nel 1978, entrambe terminate dopo 16 votazioni.

Da notare inoltre che ben 4 delle 12 elezioni sono finite esattamente al quarto scrutinio. Quando cioè salta il vincolo della maggioranza dei due terzi. Si tratta di quelle di Luigi Einaudi nel 1948, Giovanni Gronchi nel 1955, Giorgio Napolitano nel 2013 e Sergio Mattarella nel 2015.

4 su 12 i presidenti della repubblica eletti al quarto scrutinio.

Tenendo sempre conto del diverso numero di scrutini necessari possiamo osservare che, ad oggi, il capo di stato eletto con il più ampio consenso è stato Sandro Pertini, con 832 voti sui 995 presenti e votanti (83,6%). Subito dietro di lui Gronchi (79%) e Cossiga (77%). Quattro presidenti della repubblica invece non hanno raggiunto la soglia del 60%. Si tratta di Luigi Einaudi (59,5%), Giorgio Napolitano nel 2006 (54,9%), Antonio Segni nel 1962 (52,6%) e Giovanni Leone nel 1971 (52%).

i presidenti della repubblica eletti con meno del 60% dei consensi.

Per quanto riguarda l’attuale inquilino del Quirinale possiamo osservare che Sergio Mattarella è stato eletto con il 66,8% dei voti, settimo per percentuale di consenso.

Le elezioni del 2015

I dati che abbiamo appena passato in rassegna ci mostrano come le operazioni che portano all’elezione del capo dello stato non siano sempre semplici e lineari. Ciò è in parte dovuto al voto segreto. Se da un lato infatti questo permette la convergenza dei parlamentari su un nome, indipendentemente dalle indicazioni di partito, dall’altro favorisce la possibilità dei cosiddetti “franchi tiratori”. Coloro cioè che nel segreto dell’urna votano in disaccordo rispetto a quanto pattuito all’interno dei singoli partiti o anche tra più forze politiche.

Il voto segreto favorisce i “franchi tiratori”.

Ciò è avvenuto ad esempio nel 2013. In quell’occasione il Partito democratico, allora gruppo di maggioranza relativa sia alla camera che al senato, aveva deliberato di far convergere i propri voti su Romano Prodi. Nel momento decisivo però un centinaio di parlamentari dem fece mancare il proprio apporto. In mancanza di un’alternativa valida e condivisa dalle varie forze politiche, si optò infine per eleggere nuovamente Giorgio Napolitano per un secondo mandato. Un mandato che sarebbe stato dichiaratamente di natura transitoria, destinato quindi a interrompersi anticipatamente.

Nel 2015 infatti, a due anni dall’inizio del suo secondo mandato, Napolitano rassegnò le dimissioni. Venne quindi convocato ancora una volta il parlamento in seduta comune per procedere alla scelta del suo successore. L’elezione di Mattarella al Quirinale non fu così travagliata come quanto avvenuto nel 2013, anche se si dovette comunque arrivare al quarto scrutinio.

In generale furono 46 i candidati che ottennero almeno un voto. Nei primi tre scrutini il nome di Mattarella aveva ottenuto appena una manciata di consensi. Ai primi posti infatti figuravano Ferdinando Imposimato (ex senatore e magistrato), Vittorio Feltri (all’epoca direttore del Giornale), Luciana Castellina (ex deputata del Pci e poi tra i fondatori de Il Manifesto), Emma Bonino (figura di spicco del partito radicale) e Stefano Rodotà (giurista e accademico). Nel quarto scrutinio invece la situazione si ribalta con Mattarella che ottiene 655 voti sui 995 totali.

Dall’analisi degli scrutini che portarono all’elezione di Mattarella emerge un altro dato interessante. E cioè il fatto, come vedremo meglio nei prossimi capitoli, che spesso ad essere eletto è un “outsider”. Un nome cioè che non risultava tra i favoriti della vigilia.

 

Il prossimo capitolo del report sarà pubblicato martedì 14 dicembre. 

Foto credit: Quirinale

 

Modello redditi 2021 in scadenza il 30 novembre: dichiarazione correttiva, tardiva ed omessa

Modello redditi 2021 in scadenza il 30 novembre: dichiarazione correttiva, tardiva ed omessa

Scade il 30 novembre il termine ultimo di invio della dichiarazione dei redditi Modello Redditi 2021 relativa i redditi 2020. I dettagli.

Modello redditi 2021

Entro il 30 novembre deve essere presentata la dichiarazione dei redditi, modello Redditi 2021 relativamente al periodo di imposta 2020. Superata la scadenza del 30 novembre, il contribuente può ancora presentare la dichiarazione senza che ciò comporti l’irregolarità della stessa. Attenzione però, il Fisco ammette una tolleranza nel ritardo che non può andare oltre i 90 giorni dal termine ordinario del 30 novembre.

Alla stessa data del 30 novembre scadono i seguenti modelli: Redditi Persone fisiche 2021 (PF), Redditi Società di Persone 2021 (SP), Redditi Società di Capitali 2021 (SC), Redditi Società Enti non commerciali 2021 (ENC).

Ricordiamo inoltre che questa dichiarazione riguarda coloro che nel corso dell’anno precedente hanno percepito redditi d’impresa, anche in forma di partecipazione, redditi di lavoro autonomo per i quali è richiesta la partita IVA, redditi diversi non compresi fra quelli dichiarabili con il modello 730, plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni ecc. Infine dovranno usare tale modello anche coloro che hanno già presentato il modello 730, ma hanno percepito redditi che non rientrano in quest’ultimo modello.

Il modello Redditi va inviato esclusivamente per via telematica, direttamente o tramite intermediario abilitato. Ma cosa succede se si va oltre tale termine di scadenza? Si pagano sanzioni? La dichiarazione è comunque considerata regolare?

A queste e ad altre domande risponderemo nella presente guida al modello Unico.

Modello Redditi 2021: come si presenta

Ai sensi dell’art.2 del  DPR 322/1998, il modello Redditi deve essere presentato entro il 30 novembre di ogni anno. Nell’anno n+1 i contribuenti presentano la dichiarazione dei redditi dell’anno N. Dunque entro il 30 novembre 2021, andrà presentata la dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2020.

I  Soggetti Ires (le società) sono tenuti a presentare la dichiarazione entro l’ultimo giorno dell’undicesimo mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta. Periodo d’imposta che può anche non coincidere con l’anno solare 1 °gennaio-31 dicembre.

Cosa succede se la dichiarazione è presentata dopo il 30 novembre? La dichiarazione è considerata regolare? Si pagano sanzioni?

Diciamo subito che per dichiarazione correttiva nei termini si intende quella presentata entro il 30 novembre a correzione di quella inviata in precedenza, sempre per lo stesso anno d’imposta. Per la  correttiva nei termini non si pagano sanzioni.

Ad esempio, non sono dovute sanzioni in caso di invio del modello Redditi 2021 al 10 novembre e di un modello correttivo nei termini entro il 30 dello stesso mese.

Il discorso cambia per la dichiarazione tardiva e per quella omessa.

Attenzione, il termine omessa dichiarazione non va inteso in senso stretto ma come vedremo è considerata omessa anche la dichiarazione presentata oltre un certo termine.

Modello Redditi, dichiarazione tardiva

Si considera tardiva la dichiarazione presentata entro 90 giorni dal termine ordinario. Dunque, in riferimento al modello Redditi 2021, è considerata tardiva la dichiarazione presentata entro lunedì 28 febbraio 2022.

La sanzione da versare per sanare l’irregolarità è pari a 25 euro ossia 1/10 della sanzione di cui all’art.1 comma 1 del D.Lgs 471/1997, 250 euro. La riduzione ad 1/10 opera in applicazione del ravvedimento operoso.

Ferma restando la sanzione per omesso versamento, max 30% laddove alla dichiarazione in ritardo si accompagni anche un carente o tardivo versamento del tributo emergente dalla dichiarazione stessa.

Modello Redditi, dichiarazione omessa

La situazione si fa molto più complicata laddove il contribuente presenti la dichiarazione dopo che siano trascorsi i 90 gg dal termine ordinario. Dunque, siamo nella situazione in cui la dichiarazione è presentata dopo il 28 febbraio 2022.

In tale caso, si configura la violazione di omessa dichiarazione. Il ravvedimento della dichiarazione omessa dopo 90 giorni non è possibile (circolare 42/e 2016). Nel senso che non è possibile chiudere pacificamente la partita con il Fisco.

Detto ciò, la violazione di omessa dichiarazione comporta l’applicazione della sanzione:

  • compresa tra il centoventi e il duecentoquaranta per cento dell’ammontare delle imposte dovute,
  • con un minimo di euro 250.

Se non sono dovute  imposte, si applica la sanzione da euro 250 a euro 1.000. Tuttavia, se, la dichiarazione omessa è presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo e, comunque, prima dell’inizio di qualunque attività amministrativa di accertamento di cui abbia avuto formale conoscenza, si applica la sanzione dal sessanta al centoventi per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di euro 200. In tale caso, se non sono dovute imposte, si applica la sanzione da euro 150 a euro 500.

Attenzione, anche se viene presentata nel termine appena richiamato, la dichiarazione è considerata comunque omessa. Le sanzioni non possono essere spontaneamente regolarizzate ricorrendo al ravvedimento operoso.

Ciò significa che si deve attendere la loro irrogazione piena da parte del Fisco.

Modello Redditi, dichiarazione integrativa

Se, una volta presentata la dichiarazione, il contribuente si accorge di aver commesso degli errori a favore o a sfavore del Fisco, è possibile presentare una dichiarazione integrativa. Ipotizziamo che dopo aver presentato il modello Redditi, il contribuente si accorge di non aver inserito un reddito da locazione non in cedolare secca. In tale caso, oltre a dover presentare la dichiarazione integrativa, il contribuente dovrà versare le relative sanzioni. L’omessa indicazione di un reddito rientra tra gli errori non rilevabili in sede di controllo automatizzato o formale delle dichiarazioni.

Da qui, le sanzioni sono diverse a seconda se l’integrazione è stata effettuata entro 90 giorni dal termine ordinario del 30 novembre o trascorsi 90 gg.

Nello specifico, nel primo caso, il contribuente sarà tenuto a versare:

  • la sanzione ex articolo 8, comma 1, del D.lgs. n. 471 del 1997, da euro 250 a euro 2.000 per errori formali relativi al contenuto della dichiarazione,
  • ricorrendo al ravvedimento operoso.

La sanzione dovuta sarà pari a 27, 78 euro ossia 250/9 (lett.a-bis, art.13 D.Lgs 472/1997).

Rimane ferma la necessità di regolarizzare anche l’eventuale omesso versamento versando la relativa sanzione (max 30% ravvedibile) e i relativi interessi.

Modello Redditi, dichiarazione integrativa trascorsi 90 giorni

Trascorsi 90 giorni, l’omessa indicazione di un reddito integra la violazione di infedeltà dichiarativa. Quanto dichiarato dal contribuente non rispecchia la sua reale situazione reddituale.

Da qui, il contribuente sarà tenuto a:

  • presentare la dichiarazione integrativa;
  • versare la maggiore imposta e gli interessi, nonché
  • la sanzione del 90% della maggiore imposta dovuta (art.1 c.2 del D.Lgs. 471/1997).

La sanzione che assorbe anche quella del 30% per carente/omesso versamento, può essere versata anche in ravvedimento operoso. Se non sono dovute imposte si applica la sanzione ex articolo 8, comma 1, del D.lgs. n. 471 del 1997, da euro 250 a euro 2.000 per errori formali relativi al contenuto della dichiarazione. Sanzione sempre ridotta in ravvedimento. La riduzione applicabile è quella rilevata nel momento in cui la stessa è versata.

Conguaglio IRPEF di fine anno 2021: occhio alla busta paga di dicembre

Conguaglio IRPEF di fine anno 2021: occhio alla busta paga di dicembre

Il conguaglio IRPEF di fine anno è il ricalcolo definitivo, nella busta paga di dicembre, delle imposte che il dipendente deve pagare.

Conguaglio IRPEF di fine anno: cos’è e come funziona? La busta paga di dicembre coincide con quell’operazione chiamata conguaglio fiscale ovvero il conguaglio Irpef di fine anno tramite il sostituto d’imposta. Questa operazione serve a stabilire in via definitiva l’ammontare delle imposte (Irpef) che il dipendente deve versare all’Erario sulla retribuzione erogata nel corso dell’anno dal datore di lavoro.

E’ noto infatti che sulle retribuzioni percepite nel corso di ciascun anno solare o periodo d’imposta (1 gennaio – 31 dicembre) il dipendente deve pagare delle “tasse” (non me ne vogliano i tecnici, si tratta solo di una semplificazione). Di conseguenza l’ammontare delle imposte definitivo dovuto allo Stato è noto solo in corrispondenza della retribuzione di dicembre. Il datore di lavoro, quale sostituto d’imposta, trattiene le imposte dalla busta paga e le versa all’erario tramite modello F24. Questa operazione di conguaglio può avvenire anche al termine di un contratto a tempo determinato. Infine il conguaglio dell’IRPEF definitivo, ove fosse necessario, si potrà fare nella dichiarazione dei redditi da presentare nell’anno solare successivo al periodo d’imposta. Pensiamo ad esempio a redditi aggiuntivi da dichiarare, oppure a detrazioni d’imposta non inserite in busta paga.

Questa operazione potrebbe portare ad un rimborso oppure ad una trattenuta nella busta paga di dicembre e di conseguenza la retribuzione potrebbe essere maggiore o inferiore al normale. Ma vediamo come si procede.

Calcolo e tassazione IRPEF in busta paga: come funziona

Conguaglio fiscaleNel corso dell’anno l’azienda, quale sostituto d’imposta, calcola e trattiene le imposte per conto del lavoratore, attraverso una diminuzione del suo compenso mensile. L’imposta, al netto delle detrazioni (lavoro dipendente e familiari a carico) così trattenuta dalla busta paga viene pagata poi dal datore di lavoro tramite F24 il 16 del mese successivo a quello di paga.

Ma come si calcola l’imposta da trattenere? Quando vengono elaborati i cedolini, l’ufficio paghe o il consulente / professionista per conto del datore, simula quale sarà la retribuzione complessiva dell’anno, prendendo a riferimento il compenso dello stesso mese di gennaio, perché è l’unico dato noto.

Il risultato della simulazione è preso come riferimento per calcolare le tasse da trattenere dal compenso mensile. Dalla tassazione IRPEF lorda vanno poi scalate le eventuali detrazioni fiscali per lavoro dipendente e per familiari (figli o moglie) a carico, sulla base della documentazione fornita dal lavoratore.

Lo stesso meccanismo avviene per i mesi successivi fino ad arrivare a dicembre (mese del conguaglio fiscale di fine anno).

Leggi anche: Come si legge una busta paga

Conguaglio IRPEF di fine anno: credito o debito in busta paga di dicembre 2021

rimborso irpefSe dalle operazioni di conguaglio emerge che le tasse prelevate nel corso dell’anno al dipendente sono superiori rispetto a quanto effettivamente dovuto nel periodo d’imposta (sulla base del reddito complessivo e definitivo) si parla di “conguaglio a credito” e al dipendente spetta un rimborso in busta paga (sempre di dicembre) pari all’importo delle imposte trattenute in più.

Qualora invece dal conguaglio emerge che l’Irpef pagata dal dipendente nel corso dell’anno è inferiore a quella effettivamente dovuta si tratta di un “conguaglio a debito” e al dipendente verrà trattenuta in busta paga una somma pari alle tasse non versate.

Ricordiamo infine che il conguaglio definitivo potrà essere fatto anche con la dichiarazione dei redditi, ovvero tramite modello 730. Può capitare ad esempio che vi siano maggiori detrazioni, perchè il lavoratore non le ha comunicate prontamente al datore di lavoro, oppure vi siano da calcolare nuovi bonus fiscali o detrazioni fiscali per spese sostenute nel corso dell’anno, o ancora si sia sbagliato il conguaglio del bonus Renzi. In questo caso si avrà ancora Irpef a debito o a credito da calcolare tramite il 730.

Vediamo nel dettaglio come vengono effettuate le operazioni di conguaglio da parte del datore di lavoro e quali sono gli elementi da considerare.

Conguaglio irpef: come si procede al calcolo

In corrispondenza della busta paga di dicembre, il consulente del lavoro o l’addetto paghe e contributi procede, attraverso l’ausilio di appositi software, ad una serie di operazioni per il calcolo del Conguaglio IRPEF di fine anno; ovvero al calcolo definitivo dell’IRPEF, delle addizionali comunali e regionali, del bonus fino a 100 euro.

Calcolo del totale delle retribuzioni

Stabilire l’ammontare delle retribuzioni è il primo passo da compiere per le operazioni di conguaglio. L’ufficio paghe o il professionista / studio per conto dell’azienda sommerà i compensi su cui calcolare le tasse (cosiddetto imponibile fiscale) maturati dal dipendente ogni mese da gennaio a dicembre (comprese le mensilità aggiuntive come tredicesima e quattordicesima).

Il totale rappresenta il monte retributivo per stabilire l’Irpef effettivamente dovuta dal dipendente.

Esempio:

  • Gennaio 2021 imponibile Irpef euro 1.520,00;
  • Febbraio 2021 imponibile Irpef euro 1.520,00.

Ipotizzando che per tutti i mesi restanti (tredicesima compresa) l’imponibile sia sempre pari a euro 1.520,00 ne consegue che la retribuzione utile ai fini del calcolo dell’Irpef (complessiva ed effettiva) dell’anno sarà pari a 1.520,00 * 13 = 19.760,00 euro.

Calcolo dell’imposta lorda attraverso aliquote e scaglioni IRPEF

Il secondo passo è stabilire l’imposta lorda (che non è l’importo definitivo dovuto dal dipendente). Per farlo, è necessario applicare le aliquote Irpef fissate dalla legge (art. 11 DPR n. 917/86), diverse a seconda degli scaglioni di reddito complessivo:

  • Reddito fino a 15.000 euro aliquota del 23%;
  • da 15.000 a 28.000 euro aliquota del 27%;
  • da 28.000 a 55.000 euro aliquota del 38%;
  • fra 55.000 e 75.000 euro aliquota del 41%;
  • oltre 75.000 euro aliquota del 43%.

Il calcolo si effettua prendendo il reddito complessivo (nel nostro esempio 19.760,00 euro) e assoggettare la quota fino a 15.000 euro all’aliquota del 23%, l’eccedenza al 27%:

  • 15.000 * 23% = 3.450 euro;
  • Il reddito restante al 27% cioè (19.760 – 15.000 = 4.760) 4760 * 27% = 1.285,20.

Di conseguenza l’imposta lorda dovuta per l’anno 2019 sarà pari a 3.450 + 1285,20 = 4.735,20.

Confronto con le ritenute già operate

Ultimo passaggio è il confronto con le ritenute già operate nell’anno. Si somma l’Irpef trattenuta in ogni mese da gennaio a dicembre e la si confronta con l’imposta netta ottenuta dalle operazioni di conguaglio e calcolata sulla retribuzione annua effettiva.

Riprendendo l’esempio precedente le situazioni che possono svilupparsi sono due:

  • Le ritenute già operate nell’anno dal datore (esempio euro 2.530,00) sono inferiori all’imposta netta calcolata in sede di conguaglio (euro 2.884,90 di cui sopra), in questo caso il datore dovrà trattenere dalla busta paga di dicembre 2019 la differenza di euro 354,90 (2.884,90 – 2530,00);
  • Le ritenute già operate nell’anno dal datore (esempio euro 2.985,30) sono superiori all’imposta netta calcolata in sede di conguaglio (euro 2.884,90 di cui sopra), in questo caso il datore dovrà rimborsare la differenza al dipendente nella busta paga di dicembre 2019 pari ad euro 100,40 (2.985,30 – 2.884,90).

Controllo del bonus 100 euro

Quest’anno non abbiamo più trovato in busta paga il bonus 80 euro (cosiddetto bonus Renzi) perchè si è avuto il passaggio definitivo al nuovo bonus fino a 100 euro in busta paga.

Anche questi importi andranno ad incidere sulla busta paga di dicembre in quando si dovrà effettuare il conguaglio definitivo e riportare a credito o a debito eventuali differenze.

Addizionale regionale e comunale in busta paga

Il reddito effettivo dell’anno proveniente dalle operazioni di conguaglio è la base su cui si calcoleranno le addizionali regionali e comunali.

L’addizionale regionale si calcola sul reddito complessivo del 2021 e si tratterrà nel corso del 2021.

Per l’addizionale comunale, invece, vige un sistema di acconto / saldo:

  • L’acconto 2022 (pari al 30%) da trattenere nello stesso anno è calcolato sul reddito effettivo del 2021 proveniente dalle operazioni di conguaglio;
  • Il saldo 2021 (da trattenere nel 2021) è pari all’aliquota applicata al reddito effettivo del 2021 cui è sottratto l’eventuale acconto 2021 pagato l’anno precedente.

Pensioni di garanzia per i giovani nella riforma 2022: il piano dei sindacati

Pensioni di garanzia per i giovani nella riforma 2022: il piano dei sindacati

Per le parti sociali, l’introduzione di norme su pensioni di garanzia non è rinviabile. I rischi legati a precarietà e carriere discontinue

Con l’approssimarsi della fine dell’anno e l’avvicinarsi di riforme essenziali per il futuro del paese, si torna prepotentemente a parlare di pensioni e di revisione dell’intero sistema previdenziale. In particolare, assume rilievo il tema delle pensioni di garanzia per i giovani: i sindacati hanno già promesso di portare questo delicato argomento al tavolo di confronto con l’Esecutivo.

Come è ben noto, le parti sociali spingono per mettere nero su bianco e varare una riforma organica, che di fatto aumenti in modo sostanziale la flessibilità in uscita rispetto alle discusse norme della riforma Fornero.

Vero è che il Premier Draghi ha rimarcato che al momento le disponibilità finanziarie per un progetto di così ampio respiro, non ci sono. Nella bozza della legge di Bilancio compare uno stanziamento pari a circa 600 milioni, per ‘attutire’ lo scalone prodotto dalla fine dell’esperimento denominato Quota 100.

Ma i sindacati insistono, tanto che il tema delle pensioni di garanzia continua ad essere caldo.

Leggi anche: Riforma Irpef da 5 a 4 aliquote, cosa cambia e chi ci guadagna

Pensioni di garanzia per i giovani: la strada è in salita

Vero è che quella del Governo non è una chiusura totale. D’altronde c’è di mezzo il futuro delle attuali e delle prossime generazioni. Pertanto discuterne appare coerente rispetto ad una visione prospettica e ad un disegno di riforma previdenziale davvero strutturale.

Non possiamo poi dimenticare che – alla luce della riforma Dini – chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 1995 avrà l’intero assegno pensionistico quantificato con il metodo contributivo, che considera soltanto i contributi versati. Conseguentemente, si tratta di un assegno di importo decisamente minore a quello calcolato con il metodo retributivo, e che penalizza chi ha avuto carriere discontinue. Queste ultime sono oggi molto frequenti, in considerazione della precarietà diffusa e di un mercato del lavoro con tratti di fragilità.

Ecco perché i sindacati insistono con la proposta delle pensioni di garanzia per i giovani. Ciò nell’obiettivo di integrare le pensioni future a garantire una pensione dignitosa anche a coloro i quali hanno avuto carriere frammentate e retribuzioni basse.

Le parti sociali hanno già nitidamente parlato di una ‘bomba sociale’ che potrebbe scoppiare tra qualche decennio. Si stanno creando infatti i presupposti per i quali centinaia di migliaia di persone rischieranno concretamente di essere costrette a vivere con pensioni di importo insufficiente; e tali da non garantire una vita dignitosa. Gli osservatori stimano che, senza le pensioni di garanzia per i giovani, il pericolo concreto per le giovani generazioni e per quelle che verranno, è di trovarsi con un assegno pensionistico di ammontare corrispondente a meno della metà dell’ultima retribuzione.

Leggi anche: Lauree abilitanti, legge di riforma in GU

Pensioni di garanzia tra soglia minima, requisiti di legge e resistenze del Governo

Dunque ben si comprende la volontà dei sindacati: portare il tema delle pensioni di garanzia per i giovani al tavolo di discussione sulla riforma previdenziale. La volontà è quella di varare un apparato di norme di sostegno alle giovani generazioni, che assicuri ai pensionati  di domani di non cadere sotto la soglia di povertà, dopo aver lasciato il mondo del lavoro con la vecchiaia.

L’idea della Cgil è quella di integrare tutte le pensioni future che non toccheranno a una soglia minima, ad esempio il 60% o 70% di un reddito medio. In ogni caso, detta soglia minima dovrà essere individuata con precisione, nel caso il progetto pensioni di garanzia vada avanti. Ovviamente, il meccanismo ideato dai sindacati, l’integrazione – versata dallo Stato – si realizzerebbe soltanto al raggiungimento dei requisiti di legge che consentono di maturare il diritto di andare in pensione (età più contributi o soltanto contributi).

Altro obiettivo, connesso all’ipotesi dell’introduzione delle pensioni di garanzia per i giovani, è rappresentato dalla volontà di ‘valorizzare’ almeno una parte dei buchi contributivi accumulati, sommatisi nel corso del tempo. Tra le ragioni di questi buchi, quelle collegate allo studio; alla formazione; alla maternità e ai periodi di ricerca di lavoro tra un contratto e l’altro.

Nonostante le attuali ‘resistenze’ del Governo che teme di non avere risorse sufficienti per immettere anche questo tassello nella riforma previdenziale, l’impulso al progetto di riforma di garanzia per i giovani, permane. Ecco perché con tutta probabilità, ai prossimi tavoli di discussione con il Governo, se ne parlerà, insieme a tutte le altre misure che dovranno essere varate per sostituire le varie Quote (prima 100, ed ora 102), e soprattutto per evitare dal primo gennaio 2023 un ritorno tout court alla rigide norme della legge Fornero. D’altronde di mezzo c’è il futuro di milioni di lavoratori.

Manovra, rottura governo-sindacati sul fisco. L’ipotesi sciopero generale

Legge di bilancio

Manovra, rottura governo-sindacati sul fisco. L’ipotesi sciopero generale

All’incontro al ministero dell’Economia Cgil, Cisl e Uil chiedono di destinare 8 miliardi su buste paga e pensioni. Bombardieri: «L’esecutivo cambi idea, valuteremo risposte»

30 novembre 2021

Cambia il Fisco, la riforma premiera’ i redditi medi

3′ di lettura

I sindacati bocciano l’intesa tra partiti e governo per il taglio delle tasse da inserire nella legge di bilancio in Parlamento. Dopo l’incontro di lunedì 29 novembre al ministero dell’Economia, Cgil, Cisl e Uil devono ora decidere come dare seguito a questa rottura. Non ci sono nuove convocazioni in vista. Il leader della Cgil Maurizio Landini ha chiarito che «assieme valuteremo tutto ciò che è necessario per far cambiare idea a governo e maggioranza». Il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri ha avvertito: «Aspettiamo una risposta sulle pensioni e ci sono mobilitazioni in corso in questi giorni, valuteremo».

Landini (Cgil): piano è il contrario della progressività

«Di fatto – ha spiegato il leader della Cgil Landini – ci è stato presentato l’accordo di maggioranza come il perimetro entro cui muoverci e per noi non va bene, va allargato. Per noi gli 8 miliardi devono andare tutti ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, e in più non è accettabile che dai 15 ai 30mila euro il ritorno sul piano della tutela del salario sia del tutto insufficiente. Non ha senso che chi prende 100mila euro all’anno abbia lo stesso vantaggio di chi ne prende 20 o 25mila, credo che sia il contrario della progressività e un messaggio sbagliato da dare alle lavoratrici e ai lavoratori e pensionati».

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Landini ha rinviato ai prossimi giorni la valutazione, con Cisl e Uil, di quanto «sarà necessario fare per far cambiare idea al governo e alle forze di maggioranza».

Bombardieri (Uil): governo cambi idea, valuteremo risposte

«L’incontro di ieri (lunedì 29 novembre, ndr) sul fisco non è andato bene. C’è un altro impegno con il presidente Draghi che è quello di discutere sulle pensioni» per modificare la manovra e avviare la riforma della legge Fornero. Chiediamo ancora al governo di cambiare idea, se non dovesse farlo, Cgil, Cisl e Uil faranno le loro valutazioni» ha affermato il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, intervenendo all’iniziativa su “Energia e lavoro”. «Lo sciopero per noi è uno strumento, non è un obiettivo. È già in corso una mobilitazione unitaria», ha risposto rimarcando che i sindacati valuteranno in base alle risposte.

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Il piano sul fisco presentato dal ministro dell’Economia Daniele Franco «non dà risposte a chi è rimasto indietro, a lavoratori dipendenti e pensionati, a chi ha pagato il prezzo più alto in pandemia» ha detto Bombardieri a Radio anch’io. «Un Robin Hood al contrario, non si dà nulla ai poveri», dice, ricordando che “nel corso della pandemia alle aziende sono andati 170 miliardi senza nessuna condizionalità, anche a chi ha licenziato e non ha investito. Noi diciamo di dare questi 8 miliardi disponibili nella Manovra a pensionati e lavoratori. Il governo rimodula l’Irpef avvantaggiando le fasce mediane ma se guardiamo i numeri l’effetto è diverso: al 40% dei pensionati che riceve fino 15mila euro non va nulla; il 30% dei pensionati tra 15 mila e 26 mila euro riceve circa 200 euro. Ma 200 euro vanno anche a chi ha tra 60 mila e 200 mila euro. Le risorse vanno concentrate su chi è in difficoltà. Franco ci ha detto che c’è un accordo politico definitivo, da me definito «la foresta di Sherwood, un Robin Hood al contrario».

Sbarra (Cisl): con il confronto arrivano i risultati

«Quando al centro delle relazioni si mettono il dialogo e il confronto, i risultati arrivano» ha sottolineato il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, intervenendo all’iniziativa promossa da Confindustria Energia e dai sindacati di categoria “Lavoro ed energia per una transizione sostenibile”. Una valutazione che vale anche per il confronto con il governo. «Quando le iniziative sono solitarie, i nodi arrivano al pettine, come con la legge di Bilancio», ha detto Sbarra.

Il leader della Uil ha detto che all’incontro di lunedì 29 novembre «il ministro dell’Economia si è dimostato indisponibile a raccogliere valutazioni, approfondimenti anche di natura tecnica, finalizzati a cambiare l’impostazione emersa dalla cabina di regia» che «secondo noi è sbagliata, inadeguata» perché «non dà priorità» al taglio delle tasse a favore dei redditi più bassi, dei lavoratori e dei pensionati.