Archivi giornalieri: 28 ottobre 2015

Osservatore Romano

Responsabilità di proteggere

 

 Intervento di monsignor Gallagher 

28 ottobre 2015

 
 

 

Il dovere della comunità internazionale di proteggere quanti sono investiti da guerre, violenze, persecuzioni e sistematiche violazioni dei diritti umani — sancito dal diritto internazionale — non trova ancora effettiva e responsabile applicazione. Lo ha ricordato oggi l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati, intervenendo alla conferenza internazionale sul tema della «Responsabilità di proteggere alla luce della morale e del diritto», organizzata dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, dalla Congregazione per i Vescovi e dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.

Questo il testo dell’intervento.

La promozione dell’applicazione del principio della “responsabilità di proteggere” è stato sempre uno dei principi cardini dell’attività internazionale della Santa Sede e ha fatto sempre parte del suo messaggio alla comunità delle Nazioni.

La Santa Sede, com’è noto, è presente ai lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in qualità di Osservatore sin dal luglio 1964. Dal 2004, le è stato riconosciuto anche il diritto di partecipare al primo segmento dell’Assemblea, chiamato “Dibattito Generale”, dove gli Stati membri danno la propria valutazione generale delle questioni politiche più importanti ed urgenti. A partire da quel momento, la Santa Sede non ha mai mancato di formulare, in occasione del Dibattito Generale, accorati appelli a salvaguardare e tutelare le popolazioni intrappolate in situazioni di guerra e condannato con forza l’uso delle popolazioni civili e inermi come bersagli bellici.

La responsabilità di proteggere alla luce della morale e del diritto

L’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa

La posizione della Santa Sede, manifestata con il linguaggio politico e giuridico internazionale proprio dell’ONU, rispecchia fedelmente quanto è detto dalla Dottrina sociale della Chiesa. Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa – eccellente strumento di riflessione, di studio e di lavoro offerto dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – sottolinea, infatti, come la “responsabilità di proteggere” sia un obbligo morale primordiale della comunità internazionale nel suo insieme e dei singoli governanti e, pertanto, parte integrale della loro responsabilità davanti a Dio e della loro rettitudine di vita. Il principio di umanità, iscritto nella coscienza di ogni persona e popolo, comporta l’obbligo di tenere al riparo la popolazione civile dagli effetti della guerra (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa [DSC], N. 505).

Successivamente, lo stesso Compendio passa all’aspetto giuridico fondamentale: ogni singolo essere umano e ogni aggregazione umana, in forza della loro dignità, hanno il diritto ad un minimo di protezione che lo preservi, non solo dai gravissimi crimini contro l’umanità, ma anche dal crimine abominevole della guerra totale e persino dal flagello di ogni guerra (cf. DSC, N. 505). A tale diritto primario, pertanto, corrisponde un obbligo giuridico anche fondamentale per i governanti.

La parola dei Papi

I Papi Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno dedicato una parte importante dei loro insegnamenti alla “responsabilità di proteggere”, nel contesto dei riferimenti alle persecuzioni dei cristiani e di altre minoranze, della soluzione pacifica dei conflitti e della sovranità del diritto internazionale. Vorrei ricordare, in modo particolare, l’intervento alle Nazioni Unite di Papa Benedetto XVI e quello, recentissimo, di Papa Francesco.

Benedetto XVI

Benedetto XVI, nel suo intervento alle Nazioni Unite il 18 aprile 2008 ha dedicato ben due paragrafi al principio della responsabilità di proteggere, ancorandolo, appunto, ai diritti derivati dalla natura umana stessa e facendolo diventare, pertanto, primo e fondamentale obbligo dei governanti:

«Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per l’innata dignità di ogni uomo e donna trovano oggi una rinnovata accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere…. Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale….»

«Il principio della “responsabilità di proteggere” era considerato dall’anticoius gentium quale fondamento di ogni azione intrapresa dai governanti nei confronti dei governati: … il frate domenicano Francisco de Vitoria, a ragione considerato precursore dell’idea delle Nazioni Unite, aveva descritto tale responsabilità come un aspetto della ragione naturale condivisa da tutte le Nazioni, e come il risultato di un ordine internazionale il cui compito era di regolare i rapporti fra i popoli. Ora, come allora, tale principio deve invocare l’idea della persona quale immagine del Creatore,… »

Papa Francesco

Il concetto della “responsabilità di proteggere” è anche presente lungo tutto il discorso di Papa Francesco all’ONU lo scorso 25 settembre che, in sintonia con il Suo predecessore, poggia sul diritto naturale: «Il compito delle Nazioni Unite, – dice Papa Francesco – … può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale » … «la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali ».

Tale affermazione fondamentale, porta Papa Francesco a ribadire che «la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente…», e a rinnovare l’appello rivolto ai responsabili della comunità internazionale il 9 agosto 2014: «… la più elementare comprensione della dignità umana [obbliga] la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le minoranze etniche e religiose” e per proteggere le popolazioni innocenti”» (Discorso di Papa Francesco all’ONU, 25 settembre 2015).

La Dottrina Sociale della Chiesa ricorda che, in simili casi, se tutti gli altri mezzi a disposizione si dovessero rivelare inefficaci è « legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore » (CDS, 506 e Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Internazionale della Pace 2000 ). Quasi con le stesse parole, Papa Francesco affermò: «…dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto… I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati….[tuttavia] … Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto… [ci sono oggi le] Nazioni Unite: là si deve discutere… Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità, ma è anche un diritto dell’aggressore, di essere fermato per non fare del male» (Papa Francesco, Conferenza Stampa nel volo di ritorno da Seoul, 18 agosto 2014).

Il necessario sviluppo giuridico all’ONU

L’obbligo di intervenire in questi casi estremi non è soltanto un obbligo morale, ma è un vero obbligo giuridico per la Comunità internazionale, corrispondente ai diritti fondamentali alla vita e al rispetto della dignità dei singoli e all’identità dei popoli.

Nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite, la Comunità internazionale ha, infatti, assunto tale obbligo, nell’impegnarsi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra e nel riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo e nella dignità e nel valore della persona umana. Manca tuttavia, una formulazione chiara dei mezzi giuridici di applicazione del principio, nel senso di una normativa che espliciti il modo concreto di attuazione e regoli l’eventuale uso della forza, sotto la guida e il controllo della comunità internazionale.

Perciò, le Nazioni Unite hanno oggi il compito ineludibile di interpretare le indicazioni giuridiche della propria Carta e, se necessario, di sviluppare una nuova normativa adatta alle sfide presenti. Come affermava il Segretario di Stato, l’Em.mo Cardinale Pietro Parolin, nel suo intervento al Dibattito Generale della 69a sessione dell’Assemblea Generale, il 29 settembre 2014: «…deve esserci una disponibilità autentica ad applicare scrupolosamente gli attuali meccanismi del diritto, restando allo stesso tempo aperti alle implicazioni di questo momento cruciale…. Questa disponibilità, laddove viene espressa in modo concreto attraverso nuove formulazioni giuridiche, certamente porterà una rinnovata vitalità alle Nazioni Unite. Aiuterà anche a risolvere conflitti gravi, siano essi in atto o latenti, che ancora colpiscono alcune parti dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, e la cui risoluzione definitiva richiede l’impegno di tutti».

Personalmente, ho avuto modo di dar seguito alle parole del Santo Padre Francesco e del Suo predecessore e ai suggerimenti del Cardinale Segretario di Stato dell’anno scorso, nel mio recentissimo intervento al Dibattito Generale della 70a sessione dell’Assemblea Generale, il 3 ottobre scorso. In quell’occasione, a nome della Santa Sede, ho suggerito due linee di riflessione sull’esercizio della “responsabilità di proteggere” e sul “rispetto del diritto internazionale”.

Ho ricordato come il principio della “responsabilità di proteggere”, che impegna innanzitutto gli Stati e sussidiariamente la Comunità internazionale, o i gruppi regionali di Stati, sembra oggi indiscusso. Ne è prova l’unanime adesione alle conclusioni del Vertice mondiale 2005 (cfr. A/RES/60/1, “2005 World Summit Outcome”).

Tuttavia, la realtà è che non risulta facile metterlo in opera, anche perché la sua attuazione spesso si scontra con un’interpretazione letterale e stretta del principio di non intervento sancito dal paragrafo 7° dell’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, e con il sospetto, storicamente fondato, che si voglia usare la scusa di un intervento umanitario per calpestare il principio di sovrana eguaglianza dei membri dell’ONU, stabilito dal paragrafo 2° dello stesso articolo della Carta.

Nonostante ciò, atteso l’inaccettabile costo umano dell’inazione, la ricerca di effettivi mezzi giuridici per l’attuazione del principio deve essere una delle più urgenti e centrali priorità delle Nazioni Unite. A tale scopo, servirebbe che gli Stati, nell’Assemblea Generale, nel Consiglio di Sicurezza e negli altri Organi delle Nazioni Unite, potessero identificare criteri chiari ed efficaci per l’applicazione del principio, compreso il modo di assicurare un esercizio responsabile del diritto di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, e per la relativa ed esplicita integrazione delle gravi emergenze umanitarie nel capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Anche facendo leva sulla ricca esperienza dell’Organizzazione in materia di peacekeeping, di peacebuilding e di altre operazioni a scopo umanitario delle Nazioni Unite e delle Agenzie dipendenti, si dovrebbero trovare modi efficaci e rapidi per attuare le eventuali decisioni relative alla “responsabilità di proteggere”.

A proposito della possibilità di bloccare le decisioni delle Nazioni Unite, per motivazioni politiche o per sfiducia riguardo alle intenzioni altrui, il Santo Padre Francesco segnalava nel suo intervento all’ONU che «…la riforma e l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni. Questa necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza…»

Responsabilità di compiere il diritto internazionale

Il secondo elemento richiamato dai conflitti attuali e dalla crisi umanitaria da essi causati è ciò che possiamo chiamare la “Responsabilità di compiere il diritto in vigore” nelle risposte alle crisi globali o regionali. Ciò esige, innanzitutto, una sincera e trasparente applicazione dell’articolo 2° della Carta delle Nazioni Unite. Il principio di non intervento, sancito dal paragrafo 7° di tale articolo, insieme con i paragrafi 3° e 4°, esclude ogni azione unilaterale di forza contro un altro membro delle Nazioni Unite ed esige il pieno rispetto dei Governi costituiti e riconosciuti secondo il diritto.

L’articolo 2°, tuttavia, non può diventare un alibi per i gravi attentati ai diritti umani. L’esperienza dei 70 anni di vita dell’ONU ha dimostrato sufficientemente che le gravi mancanze contro la dignità umana da parte dei Governi possono raddrizzarsi e risolversi tramite un’azione pacifica di denuncia e di persuasione, portata avanti in modo perseverante dalla società civile e dagli stessi Governi. Nel caso, poi, che gli attentati contro i diritti umani persistano e si veda necessario qualche ulteriore intervento, non vi è altra strada che l’applicazione delle misure dei capitoli VI e VII della Carta delle Nazioni Unite.

La Carta dell’ONU ha bandito definitivamente concetti quali la “guerra preventiva” e, molto più ancora, i tentativi di ridisegnare aree geografiche e distribuzione dei popoli in funzione di pretesi principi di sicurezza. Parimenti, la più palese e accessibile comprensione del paragrafo 4° dell’articolo 2° della Carta esclude ogni intervento di Stati terzi a favore di un gruppo o dell’altro in una situazione di conflitto civile. Con l’adesione all’ONU, gli Stati accettano che la sua Carta diventi la norma costituzionale di tutta la costruzione normativa internazionale. Inoltre, il principio cardine del diritto internazionale “pacta sunt servanda” non è una tautologia ma è l’affermazione della supremazia del diritto (rule of law) e dei principi di rispetto e fiducia reciproca.

Occorre un serio esame di coscienza per assumersi la parte di responsabilità che certi interventi unilaterali possono aver avuto nella crisi umanitaria che oggi colpisce il mondo. Come ha recentemente ricordato il Santo Padre: … «In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale » (Papa Francesco, Visita alla Sede dell’O.N.U, paragrafo 21). La crisi attuale, pertanto, richiama ad un rinnovato impegno per applicare il diritto in vigore e per sviluppare nuove norme, anche per poter debellare il fenomeno del terrorismo internazionale nel pieno rispetto del diritto.

Le affermazioni sulla sovranità del diritto, sulla ricerca di mezzi pacifici per risolvere i conflitti, e sui modi di legittimare un eventuale uso internazionale della forza, che ho potuto esporre recentemente alla 70asessione dell’Assemblea Generale, non sono altro che un’eco delle parole del Santo Padre pochi giorni prima:

«…bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. L’esperienza dei 70 anni di esistenza delle Nazioni Unite, in generale, e in particolare l’esperienza dei primi 15 anni del terzo millennio, mostrano tanto l’efficacia della piena applicazione delle norme internazionali come l’inefficacia del loro mancato adempimento. Se si rispetta e si applica la Carta delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini, come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati di pace. Quando, al contrario, si confonde la norma con un semplice strumento da utilizzare quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si apre un vero vaso di Pandora di forze incontrollabili, che danneggiano gravemente le popolazioni inermi, l’ambiente culturale, e anche l’ambiente biologico».

Le esigenti e profonde parole di Papa Francesco e del Suo predecessore mostrano come l’insegnamento della Chiesa riguardo all’azione politica internazionale e alla stessa attività internazionale della Santa Sede mettono la “responsabilità di proteggere”, il rispetto del diritto e lo sviluppo di una vera cultura giuridica internazionale al centro degli sforzi per la pace e, conseguentemente, per lo sviluppo umano integrale.

Non mancano, senza dubbio, moltissime voci nella società civile che si riconoscono nella voce della Santa Sede. Non mancano nemmeno governanti e politici che desiderano lasciarsi guidare sempre da una coscienza retta. E’ da augurarsi che siano sempre di più quelli che non solo manifestano il loro accordo con gli insegnamenti del Santo Padre, ma anche che trovano la forza, la decisione e la perseveranza per attuarli; quella “perpetua e costante volontà” di cui parlava Papa Francesco, per il bene e lo sviluppo armonico e pacifico di tutti i popoli.  

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Lavoro

Lavoro: Per Cgil, il rapporto Ilo smentisce le politiche di austerity contro la disoccupazione

Oltre 200 milioni di disoccupati nel mondo, 30 milioni in più dall’inizio della crisi, migliaia di miliardi di dollari di Pil globale perso a causa di una maggiore disoccupazione e salari più bassi. Sono solo alcuni dei preoccupanti dati emersi nel corso dell’iniziativa promossa dalla Cgil e dalla Fondazione di Vittorio (Fdv), durante la quale è stato presentato da Raymond Torres, direttore Ilo, il ‘World Employment and Social Outlook 2015’ elaborato dall’Organizzazione internazionale del lavoro.

“Un lavoro di importanza straordinaria per un’organizzazione tripartita formata da governi, sindacati e associazioni di impresa”, ha dichiarato Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione di Vittorio.

Quanto proposto e affermato dall’Ilo, ha proseguito Fammoni, “è in evidente controtendenza con le politiche di austerità e deregolazione di questi anni; per questo è importante che tali elaborazioni vengano fatte conoscere e diventino sempre più un punto di riferimento per l’iniziativa europea”.

Il rapporto evidenzia gli effetti numerici e sociali della grande crisi sul lavoro: oltre 200 milioni di disoccupati nel mondo, 30 milioni in più dal 2008, e l’irrisolto problema della creazione di ulteriore occupazione per coloro che ogni anno entrano nel mercato del lavoro globale. Tutto questo provoca mutamenti negativi nelle relazioni di lavoro e rappresenta un fattore di aggravamento della crisi: sono migliaia i miliardi di dollari di Pil globale persi a causa di maggiore disoccupazione e salari più bassi, con una conseguente riduzione degli investimenti e dei consumi.

“Le proposte avanzate dall’Ilo e contenute nel rapporto 2015 sono frutto di un’attenta analisi di molteplici dati, in controtendenza con le teorie deregolatrici di questi anni, che indicano la necessità di un aumento delle tutele e una maggiore protezione estesa a tutte le tipologie di impiego. La tesi secondo la quale la riduzione dei livelli di protezione stimolerebbe un aumento dell’occupazione non trova quindi riscontro nel rapporto. 

L’Ilo, inoltre, indica che risultati positivi sono più facilmente raggiungibili in presenza di un dialogo sociale”, sottolinea la nota.

Un altro dei punti fondamentali del rapporto riguarda i temi dell’istruzione e della formazione. Questi ultimi sono fondamentali sia per compensare la perdita occupazionale derivante da avanzamenti tecnologici e dalla globalizzazione della produzione, sia per la salvaguardia del lavoro esistente.

Inoltre, ci si sofferma, su un altro nodo di particolare rilievo ovvero la richiesta di rispetto delle norme internazionali anche all’interno degli accordi globali in discussione.

Mobilitazione

Mobilitazione – #PERCHE’NOINO: Campagna per il riconoscimento della DIS COLL ad assegnisti dottorandi e borsisti

Iniziative di mobilitazione CGIL, FLC CGIL, INCA, ADI

Il riordino degli ammortizzatori sociali (Dlgs 4 marzo 2015 n. 22) ha introdotto in via sperimentale per il 2015 la DIS-COLL, un’indennità di disoccupazione rivolta a collaboratori coordinati e continuativi e a progetto. Sia il testo del decreto che la successiva circolare INPS non contemplano tra i beneficiari i titolari delle altre tipologie contrattuali parasubordinate sottoposte al medesimo regime contributivo e iscritte alla Gestione separata Inps. 
 
Tra le tipologie non ricomprese figurano i precari delle Università e degli Enti di Ricerca: assegnisti di ricerca, dottorandi e borsisti, sottoposti, nel 2015, a un’aliquota previdenziale pari al 30,72%, esattamente uguale a quella di co.co.co e co.pro: una platea di poco meno di 60.000 persone che versano alla gestione separata INPS, mediamente hanno contratti di durata breve e alti tassi di espulsione dall’Università.

Tale esclusione ha sollecitato l’iniziativa della FLC CGIL e dell’ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) che hanno promosso congiuntamente la campagna #perchènoino, partita con una petizione per chiedere il riconoscimento della DIS-COLL anche ad assegnisti di ricerca, dottorandi e borsisti che ha raccolto in breve tempo oltre 8.000 adesioni.

La mobilitazione di FLC CGIL e ADI è proseguita con ulteriori iniziative di mobilitazioni sfociate in un presidio al Ministero del Lavoro per sostenere la richiesta di estensione della DIS-COLL e per contestare le gravi dichiarazioni del Ministro Poletti, il quale a seguito di una interrogazione parlamentare, sollecitata proprio dalla petizione su richiamata, aveva risposto negativamente riguardo alla platea dei beneficiari e sostenuto che quello delle figure in questione non può essere considerato “vero lavoro”, dimostrando così di conoscere poco le fattispecie su cui è intervenuto e sulle quali non ha articolato alcuna distinzione.

Al fine di esperire la possibilità di una estensione per via interpretativa della misura, la CGIL ha promosso istanza d’interpello al Ministero del Lavoro per sostenere le ragioni del riconoscimento  del diritto all’indennità di disoccupazione DIS-COLL e dei relativi benefici anche in favore di Assegnisti di ricerca, dottorandi e borsisti. L’istanza di interpello, avanzata a Luglio, non ha ancora ottenuto risposta.

In questo quadro la CGIL, la FLC e l’INCA, in collaborazione con l’ADI promuovono una ulteriore iniziativa per sollevare l’attenzione sul tema, sollecitare un intervento di modifica e, ove questo non avvenisse, perseguire la via giudiziaria. Si tratta di invitare dottorande/i e assegniste/i di ricerca cui sia scaduto il contratto ad avanzare presso l’INPS domanda per ottenere la DIS-COLL e a cui far seguire, a fronte del presumibile rigetto da parte dell’INPS, un ricorso amministrativo da parte degli interessati. Esaurita la fase amministrativa sarà quindi possibile attivare qualche ricorso giudiziario pilota.

Tale iniziativa, che si configura come iniziativa di pressione sull’INPS e sul Ministero affinché venga posto rimedio alla discriminazione prodotta dalla norma, sarà promossa attraverso adeguati materiali di comunicazioni nell’ambito della campagna #perchènoino e resa operativa con iniziative ad hoc da realizzare nei principali Atenei ed Enti di Ricerca. In tali iniziative sarà determinante la presenza del patronato INCA, grazie alla quale produrre in loco le domande.

I VIAGGIATORI ITALIANI E STRANIERI IN SARDEGNA

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di Francesco Casula

L’opera contiene la testimonianza di 37 personaggi (18 italiani e 19 stranieri:tedeschi, francesi, inglesi) che visitano la Sardegna (fuorché i primi due di cui si parla nel libro;Cicerone e Dante) e sulla nostra Isola scrivono.
Sono soprattutto scrittori, romanzieri e giornalisti (ricordo fra gli altri Honoré de Balzac e Vittorini, Levi e Lawrence, Valery e Bontempelli Savarese e Lilli); ma anche linguisti (Wagner) e letterati (Boullier), politici (Cattaneo, De Bellet) e antropologi (Mantegazza e Cagnetta), docenti universitari (Gemelli e Le Lannou), militari (La Marmora e Smyth, Domenech e Bechi), ecclesiastici (il pastore protestante Fuos e il gesuita Padre Bresciani), nobili (Francesco d’Este, Von Maltzan.), archeologi (Harden) e fotografi (Delessert), imprenditori (Tennant).
I giudizi e le valutazioni sulla Sardegna e sui sardi sono i più vari
Quelli di Cicerone sono infamanti e insultanti: i Sardi sono dipinti come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità – secondo l’oratore romano – viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai Fenici e dai Cartaginesi. Di qui l’accusa più grave, oggi diremmo “razzistica”: dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente nemmeno all’o¬rigine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?.
Per Dante – per cui nessun isolano è degno di stare in Paradiso, molti invece vengono collocati nell’Inferno – i Sardi, fra tutti i Latini, sembrano proprio gli unici a non disporre di un proprio volgare imitando la grammatica latina come le scimmie imitano gli uomini!
Con il Seicento e Settecento gli scritti di viaggio ebbero un ruolo importante di fonte documentaria: coloro che visitavano l’Isola erano funzionari del governo spagnolo e sabaudo, incaricati di rilevare le condizioni generali dell’isola. I “forestieri” che hanno visitato la Sardegna, a partire dal primo Seicento con il canonico Martin Carrillo, visitatore Generale di Filippo II, e il mercedario Tirso de Molina, hanno però messo in luce nelle loro opere anche aspetti inediti dell’Isola, a volte contradditori, a volte carichi di fascino.
Le opere che questi produssero erano comunque, almeno nel ‘700, per lo più di carattere amministrativo-economico, mentre era scarsa l’attenzione sociale e culturale. Quelle opere ci fanno conoscere il punto di vista dei piemontesi negli anni in cui la Sardegna era sotto il dominio sabaudo. Mettevano in evidenza la distanza, anche culturale, fra due paesi che si erano trovati sotto uno stesso regno ma in un rapporto non paritario, ma tra dominanti e dominati. A tale proposito, alla fine del 1700 Fuos, pastore luterano tedesco, scrisse che era il governo piemontese a mantenere l’isola debole e povera per poterla più facilmente governare. Nel contempo però, a proposito dei Savoia parla di Premura che i Re di questa casa hanno fin qui messo per favorire il rifiorimento dell’isola, elogiando i loro ordinamenti.
Dagli inizi dell’Ottocento si ebbe un fenomeno nuovo: la riscoperta dell’Isola. È un’apertura nuova perché si trattava di persone che, per motivi vari, erano intenzionati a visitarla, percorrere il suo interno, studiarla. Erano viaggiatori di tipo nuovo, spesso spinti dal desiderio di conoscere le diverse realtà di un’Isola distante per secoli anche culturalmente dal resto dell’Europa. Si era in età romantica, che succedeva ai Lumi e creava una sensibilità nuova, l’interesse per l’ “altro”, per la scoperta di ciò che è diverso. Scriveva Madame de Staël :”Le nazioni devono reciprocamente servirsi da guida […..]. C’è qualcosa di singolarissimo nella differenza fra un popolo e l’altro: il clima, l’aspetto della natura, la lingua, il governo, l’insieme degli avvenimenti storici [….] contribuiscono a questa diversità, e nessun uomo, per quanto superiore egli sia, può indovinare ciò che si sviluppa naturalmente nella mente di chi vive su di un altro suolo e respira un’altra aria. Si avrà dunque un beneficio in ogni paese se si accolgono le idee altrui; giacché, in questo genere di cose, l’ospitalità fa la fortuna di colui che riceve”.
L’Ottocento scopriva la storia, il senso del divenire storico, la nazione come individualità storica. La storia, accanto alla geografia, era considerata un ulteriore elemento di diversità, di specificità nazionale. Con l’Ottocento il concetto di divenire storico nasce ed entra a far parte della cultura occidentale. E l’Ottocento è anche il secolo della “scoperta” della Sardegna, dopo che per secoli era rimasta fuori dagli itinerari dei viaggiatori.
I viaggiatori, italiani e non, “investigavano” la realtà sarda secondo le loro lenti di lettura, creando particolari immagini-identità della Sardegna. Erano colpiti dal fascino dell’arcaicità e della primordialità dell’Isola. Vuillier la definirà Ile oubliée, e l’inglese Tyndale l’Isola mai vinta.
Questi mondi primitivi che essi descrivevano non erano stati ancora violati dalla civiltà europea, ma mantenevano una sorta di “civiltà naturale”. L’isola aveva le caratteristiche di un mondo “fuori dal tempo”. Immagini di questo tipo ispiravano una sorta di distanza storica, avvertita da molti viaggiatori che nel XIX secolo si trovarono a soggiornare in Sardegna. L’arcaicità della realtà sarda per loro rappresentò una sorta di diversità e l’impatto fu piuttosto forte.
D’altra parte, era inevitabile che il tempo quasi immobile della Sardegna, risultato dell’isolamento geografico e dell’arretratezza economica e sociale venisse confrontato con la realtà evoluta e dinamica dell’Europa, rispetto alla quale l’Isola era indietro di secoli. Tuttavia, questo carattere di chiusura e impenetrabilità non derivavano da un’ “assenza di storia”.
Ma non si può parlare di due tempi storici: il tempo rapido dell’Europa e quello statico della Sardegna. I ritardi e gli isolamenti erano il risultato – per intanto – della particolare posizione dell’Isola nella storia del Mediterraneo. Da una parte abbiamo una condizione storica che porta la Sardegna ad avere contatti, ad entrare in una rete di rapporti esteri. D’altro lato, i modi di vita dell’interno, la discontinuità dei rapporti con il mondo esterno, il fatto che la Sardegna non abbia partecipato alle rivoluzioni nei vari campi (culturali, politici, tecnici), hanno fatto sì che l’Isola seguisse un ritmo proprio di aperture e resistenze, chiusure, assimilazioni e persistenze. Da questo punto di vista, in Sardegna si trova una caratteristica falda di storia lenta di cui parla Fernand Braudel. La Sardegna ha conosciuto infatti per secoli un isolamento quasi ininterrotto e nonostante le invasioni e le dominazioni straniere, è rimasta sostanzialmente immune da influenze esterne. Ciò si è manifestato anche riguardo alla flora e alla fauna che mantenevano caratteristiche peculiari ed erano diverse da quelle delle regioni circostanti. A proposito del carattere peculiare dell’ambiente naturale sardo, Francesco Cetti, un naturalista settecentesco, autore fra l’altro di una Storia naturale di Sardegna, che su richiesta del governo sabaudo si stabilì in Sardegna per insegnare Matematica all’Università di Sassari, scriverà: Non v’è in Italia ciò che v’è in Sardegna, né in Sardegna v’è quel d’Italia.
La flora e la fauna sarde erano piuttosto varie e comprendevano specie da altre parti estinte. Basta citare come esempio il muflone che per certi aspetti diventò quasi il simbolo della Sardegna e che, nel corso del secolo, fu quasi sterminato come il bisonte americano. Un altro esempio è quello delle foche monache descritte da Lamarmora.
Anche sul piano del linguaggio si poteva riscontrare un’atipicità, infatti la lingua sarda è quella che è rimasta più simile al latino arcaico sia nelle parole che nella sintassi, come sosterrà autorevolmente soprattutto il tedesco Max Leopold Wagner.
Le stesse tradizioni isolane avevano un “carattere conservativo”: un antropologo tedesco, Karlinger, ha scritto, forse esagerando, che la Sardegna era un’eccezione tra le isole mediterranee, perché ferma e chiusa in se stessa; era un tesoro inalterato di folklore, un museo naturale di etnografia.
In qualche modo a conferma di ciò scrive uno storico sardo, Carlino Sole, in Sardegna e Mediterraneo: “La Sardegna, per particolari disparità di sviluppo imposte dalla condizione geografica e dalla stratificazione di dominazioni differenti, era riuscita a mantenere un involucro più conservativo di quello delle altre regioni del Mediterraneo: più tenacemente che altrove, per esempio, prolungava nell’età moderna e contemporanea forme di vita e di tradizioni tipiche del mondo medievale così come nell’antichità aveva conservato caratteri protostorici. Da alcune manifestazioni di «cultura materiale», come l’aratro a chiodo o il carro a ruota piena, dall’artigianato, dalla presenza nella musica popolare di forme arcaiche e rituali (come le launeddas), dalle maschere e dai canti è possibile ancora rintracciare, nonostante le inevitabili sovrapposizioni successive, i resti e gli spezzoni di civiltà scomparse. Come nelle feste barbaricine si celebra ancora il rito pagano d una civiltà di pastori ormai estinti”.
La realtà geografica avrebbe dunque condizionato le vicende storiche della Sardegna e della sua società. I Sardi, non sarebbero mai riusciti ad evadere dalla marginalità dell’Isola e ad espandersi verso altre terre perché dovunque il mare, invece di attirare gli isolani, sembra averli respinti verso l’interno dell’Isola. Il mare avrebbe circondato la Sardegna, isolandola. Questa sorta di cintura marina avrebbe ostacolato e ritardato i fermenti e gli stimoli provenienti dall’esterno. Come direbbe Giovanni Lilliu, la Sardegna diventava il frammento di un vecchio esteso continente alla deriva.
Solo di recente sono stati studiati gli effetti diretti e indiretti dell’insularità. In passato si concentrava l’attenzione sulla centralità della posizione mediterranea della Sardegna. Tuttavia è nel XVIII secolo che l’Isola entra a far parte degli interessi delle grandi potenze marittime dell’Europa di allora, la Francia e l’Inghilterra. Questo interesse rivelava come la Sardegna fosse importante sul piano strategico per ciascuna potenza marittima che era propensa a conquistarla o ad entrarne in possesso. La Sardegna non rappresentava più solo un luogo di rifugio dei naviganti e mercanti scampati alle tempeste o il luogo di prigionia di detenuti stranieri, ma comincia ad essere meta per osservatori militari, studiosi, diplomatici, cartografi francesi, svedesi, inglesi e tedeschi. A fine Settecento cominciava a maturare una nuova “coscienza nazionale”, ma anche nuove consapevolezze: l’insularità non derivava tanto (o soltanto) dalla posizione geografica, ma dall’essere rimasta esclusa dai traffici, dall’arretratezza delle strutture economiche e dal carattere coloniale della dominazione spagnola prima e piemontese poi.
Sui Savoia e sul dominio coloniale piemontese, Diderot e D’Alembert, così scrivono nell’Encyclopedie: “…il popolo impoverito si è scoraggiato, ogni iniziativa industriale è cessata; i sovrani non ricavano quasi nulla da quest’isola, l’hanno trascurata e gli abitanti sono caduti in un’ignoranza profonda di tutte le arti e di tutti i mestieri. Lo stesso re di Sardegna che, attualmente, possiede quest’isola non ha creduto opportuno rimediare al suo cattivo stato e riformare la costituzione. Anche la corte di Torino considera la Sardegna come nient’altro che un titolo che ha posto il suo principe tra le teste coronate”.
Se si guarda anche all’interno, al rilievo, la Sardegna si potrebbe definire, come ha fatto il grande storico francese Lucien Febvre, come un’Isola massiccia, un’”isola continentale”, una sorta di “continente minore”, ossia un’entità storica a parte. Da ciò non si deve però concludere che il mondo sardo fosse un mondo assolutamente chiuso. Febvre contrappone la Sardegna, esempio di “isola prigione” conservatrice di “antiche razze eliminate di vecchi usi, di vecchie forme sociali bandite dal continente”, alla Sicilia, “île carrefur”, una sorta di “quadrivio” naturale del Mediterraneo “volta a volta fenicia, …..poi greca, poi cartaginese, poi romana, poi vandala e gotica e bizantina, araba, poi normanna e poi angioina, aragonese, imperiale, sabauda, austriaca [….] l’enumerazione completa sarebbe interminabile”.
La Sicilia insomma avrebbe infatti sempre assimilato qualcosa delle ondate successive di civiltà differenti che si sono succedute nel corso della storia.
La Sardegna, invece, sarebbe rimasta spesso immune dalle influenze esterne, apparendo, anche nei tempi antichi, “un mondo ancestrale e fossile […..] l’immagine didattica della preistoria nella storia”.
In realtà occorre dire che la storia della Sardegna non è fatta solo da chiusure ed arcaismi: le coste certo hanno svolto un ruolo importante di filtro con la realtà esterna, ma non tutto è rimasto invariato nel tempo: ogni età o dominazione ha portato qualcosa e ne ha trasformato qualche altra. 
La Sardegna non possedeva all’interno un sistema di vie di comunicazione. Essa non ha mai conosciuto una civiltà cittadina. Infatti Cagliari e Sassari, divise da antichi odi e inimicizie, erano dei semplici grossi borghi se paragonati con le “metropoli” mediterranee come Napoli, Palermo, Venezia, Marsiglia, ecc…. L’unica finestra sul mondo è stata, per certi aspetti, Cagliari. Al suo interno, la Sardegna presentava un paesaggio “particellato” che ha creato nuclei culturali chiusi, isole nell’isola.
Come ha scritto Fernand Braudel, “la montagna è responsabile quanto se non più del mare, dell’isolamento delle popolazioni sarde. L’isolamento esterno va di pari passo con l’ isolamento interno”.
Dentro questo paesaggio e orizzonte storico occorre situare i giudizi e le valutazioni dei “viaggiatori” e “visitatori” della Sardegna dal ‘700 in poi di cui tratteremo in questo volume.
Ad iniziare dall’Anonimo Piemontese, secondo cui l’economia sarda è dominata da attivissimi e scaltrissimi genovesi, livornesi e napoletani. Tale situazione è dovuta alla poltronite naturale alla nazione sarda…e al difetto d’industria.
Invece secondo il gesuita Padre Gemelli che soggiornerà in Sardegna dal 1768 al 1771, l’arretratezza della Sardegna e segnatamente della sua agricoltura è da ricondurre alle terre comunitarie:Nasce tutto il disordine dalla comunanza o quasi comunanza delle terre. E dunque la terapia è molto semplice : Distruggasi quindi questa comunanza o quasi comunanza delle terre in Sardegna, concedendole in perfetta e libera proprietà alle persone particolari; e otterrassi di certo il disiato rifiorimento dell’agricoltura ne’ seminati, ne’ pascoli, nelle piante, e in ogni parte della rustica economia.
Anche il tedesco Fuos, ritorna ossessivamente sul “vizio” già denunciato dall’Anonimo Piemontese ovvero che ai Sardi sarebbero connaturati : L’oziosità e la pigrizia…e il difetto d’industria.
Mentre l’inglese Henry Smyth, da buon protestante, addebita alla Chiesa di Roma le superstizioni in cui, abbondantemente, i Sardi sarebbero ancora immersi.
Padre Bresciani, che visitò per ben quattro volte l’Isola fra il 1843 e il 1846, riscontra nei costumi de’ Sardi certe medesimezze con quelle dei primi popoli d’Asia, che non potrei dire quanto me ne sentissi riscosso e stupito. 
Secondo Lamarmora la Sardegna ha le caratteristiche di un’Isola-continente dove entro limiti ristretti si aveva una varietà di aspetti così grande degni di richiamare l’attenzione dell’osservatore […]:varietà di montagne, di terreni, di miniere, di fossili.
Francesco d’Austria-Este esprime giudizi molto severi sui vicerè: Riguardavano comunemente la Sardegna come un esilio – scrive – in cui stavano tre anni per arricchirsi, o farsi meriti presso la loro corte.
Altrettanto severo Francesco d’Este è nei confronti del clero, specie nei confronti dei preti più ricchi che abitavano in genere nelle città, essi infatti – secondo il duca – menano una vita pigra, comoda per la più parte, e molti anche scandalosa pubblicamente con donne.
Valery è entusiasta per l’ospitalità dei Sardi che è allo stesso tempo una tradizione, un gusto e quasi un bisogno per il sardo; di contro un altro francese, Honoré de Balzac, risentito per non essere riuscito nella sua impresa in Sardegna di arricchirsi attraverso lo sfruttamento delle scorie delle miniere d’argento abbandonate nella Nurra, vaneggia di uomini e donne nude come selvaggi, domiciliati in tane e abbruttiti dalle foreste, che addirittura mangiano un pane fatto di farina mista ad argilla. L’Africa comincia qui – scrive – ho intravisto una popolazione in cenci, tutta nuda, abbronzata come gli etiopi..
Secondo il milanese Carlo Cattaneo i Sardi, quasi incatenati da forza arcana di tradizioni non seppero dalla rude vita pastorale e dell’aratore levar la mente alle imprese marittime, alle arti, alli studi. 
L’inglese Tyndale analizza la realtà sarda, ai suoi occhi selvaggia e misteriosa, studiandone l’intricato ordito storico, economico, politico, sociale e culturale contestualmente a dati scientifici e curiosità. Seppur affascinato da questa terra esotica e primitiva, non trascura di sottoporne al lettore le problematiche più scottanti, tracciando un quadro a tutto tondo de L’isola di Sardegna; di contro il francese Jourdan, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, sfoga il suo malumore lanciandosi in contumelie,insulti e diffamazioni contro i Sardi e la Sardegna rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi: una Sardegna insomma come un focolare spento, carica di barbarie.
L’intento è solo quello di denigrare l’Isola, presentata solo come terra di banditi, misera e arretrata. Jourdan riesce perfino a falsificare la realtà dei Nuraghi scrivendo che si tratta di rovine, peraltro insignificanti perché resti incontrati vicino al mare in tre o quattro punti (sic!). Questi Noraghi – scrive il francese – misteriosi e giganteschi, se so¬no una prova delle dominazioni subite, non sono però né così numerosi né così importanti da attestare una civiltà decadente.
Al contrario, per un altro francese, Domenech, la Sardegna, sempre trascurata dal suo governo, ignorata e poco conosciuta dai turisti,ha per questo conservato fino a oggi le sue caratteristiche originali, eccezionali, e la sua fisionomia orientale e primitiva; tanto che è colpito dall’analogia delle usanze sarde con ciò che aveva letto nella Bibbia e in Omero e dove ritrova popolazioni ardenti, simpatiche,, buone, anime fortemente temperate, virtù patriarcali, difetti moderni, bizzarrie rispettabili, grandezza e poesia.
Dell’inglese Tennant sono estremamente interessanti e in qualche modo ancora attuali alcune proposte che attraversano tutta la sua opera, La Sardegna e le sue risorse: ad iniziare dalla necessità di una serie di intraprese tese a valorizzare la produzione locale per favorire le esportazioni e ridurre le importazioni. Individua a questo proposito i settori portanti dell’economia sarda sui quali intervenire: l’agricoltura, le miniere, le piccole industrie, la lavorazione in loco delle materie prime, una politica fiscale meno vessatoria, il turismo, grazie anche all’ambiente incontaminato e all’amenità dei luoghi, unito ai monumenti antichi unici al mondo.
Il francese Delessert, da letterato e fotografo, nel suo viaggio in Sardegna, è attratto dagli aranceti di Milis, dalle feste in costume e soprattutto dai balli all’aperto, dall’illuminazione della Grotta di Nettuno ad Alghero, dalle serenate e da su fastiggiu (il colloqui d’amore dalla finestra).
L’italiano Mantegazza, sociologo, economista e medico, denuncia invece l’abbandono e l’isolamento in cui è lasciata dai poteri centrali; l’uso di mandare nell’Isola, come una Siberia d’Italia funzionari rozzi, inetti, ignoranti o addirittura colpevoli; l’assalto dell’Isola da parte di avidi speculatori che, per esempio strappano le foreste, lembo a lembo, con feroce vandalismo; l’estrema povertà e insufficienza dell’ordinamento scolastico…gli ergastolani che gli fanno pensare che la società si vendica più di quel che si difenda.
Un altro francese, Boullier, innamorato della Sardegna, in due opere sui canti popolari e sui costumi dei Sardi, raccoglie, commenta ma soprattutto fa conoscere in Francia molta poesia popolare sarda, mentre l’italiano Aventi, conduce in Sardegna un’inchiesta agraria che, nata inizialmente come studio del progetto di colonizzazione della valle del Coghinas, si estende alle altre parti del territorio, considerato dal punto di vista dell’agronomo come vergine, incontaminato, dove cioè il margine di progresso della tecnica è vastissimo, dove tutto è da fare, tutto da innovare, per metterla parallela alle cognizioni e al progresso di parecchie Provincie del Continente.
Il Vuillier, pittore, disegnatore e scrittore francese della fine del XIX secolo, per quanto attiene alla nostra Isola descrive molto spesso donne e uomini con i costumi tradizionali dei vari paesi ma anche rappresentazioni di danze (del duru-duru), panorami, paesaggi e località, edifici, monumenti, chiese, scene agresti e persino oggettistica. 
Un altro italiano invece, Corbetta, nel suo libro dedicato alla Sardegna, tratta soprattutto della geografia, la storia, gli usi, le istituzioni, le antichità e l’economia corredata da molte statistiche.
L’inglese Edwardes consegna, attraverso pagine ora irreali ora scrupolose, ma quasi sempre appassionate, l’immagine della Sardegna all’Europa. Fra gli inglesi che visitarono la Sardegna nell´Ottocento, Charles Edwardes occupa infatti un posto del tutto particolare. La sua curiosità, si esercita in direzione non solo del paesaggio, ma anche della gente dell´Isola, delle differenze fra i cittadini e le popolazioni dell´interno. Il suo resoconto di viaggio assume così il senso e il significato di un continuo confronto di uomini e mentalità, alla ricerca del volto autentico dei Sardi.
Bechi invece, militare e scrittore, nel libro La caccia grossa, descrive episodi di “caccia” al bandito, come fosse un cinghiale selvatico, rivelando una mentalità coloniale,poliziesca e inumana.
Roissard de Bellet, nobile francese, pur trattenendosi in Sardegna qualche settimana appena scrive il suo libro sull’Isola dando molto risalto alla storia e, segnatamente, alla storia dei nuraghi, ai costumi e alle tradizioni dei Sardi ma soprattutto alle miniere, il vero interesse del barone francese, settore peraltro in cui mostra grandi conoscenze. La Sardegna – secondo De Bellet – è ricca di molti minerali fra cui la galena, la blenda, la pirite, le cerusite, l’ematite,il nickel, il cobalto. Ma anche di piombo, zinco argento. Sono inoltre presenti sorgenti minerali di acque alcaline, iodate, sulfuree, acidule. 
Ma forse la sua annotazione più importante e significativa è il riconoscimento di una Letteratura sarda::”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”.
Bontempelli, nelle sette pagine che dedica alla Sardegna nel suo libro Stato di grazia, racconta il suo viaggio a cavallo per i paesi dell’interno, della Barbagia di Ollolai. Ma si tratta di una descrizione che niente ha a che vedere con la realtà effettuale dell’Isola, piuttosto rientra nella sua “poetica”, nel suo realismo magico, governato dalla immaginazione e dalla fantasia, così come lo aveva teorizzato in varie opere.
L’inglese Flitch, approda in Sardegna alla fine di un tour nelle Isole del Mediterraneo. Descrive un’Isola un po’ troppo di maniera ma emerge anche una umanità diversa e inedita; una borghesia vista in un modo scanzonato, gli abitanti dei sottani cagliaritani descritti nella loro primitività, la gente osservata con acutezza, nei suoi pregi e nei suoi difetti.
Il siciliano Savarese, in forma essenziale e con un taglio giornalistico, racconta aspetti segreti o poco noti della terra sarda : un lembo di terra ancora umido di una freschezza verginale. In tale narrazione Savarese, che intuisce i cambiamenti che stanno per investire l’Isola, evidenzia una forte preoccupazione che, riletta a posteriori, si rivela premonitrice di una situazione ancora oggi molto attuale.
Lawrence nel suo libro Sea and Sardinia (Mare e Sardegna), descrive una Sardegna in cui è presente l’elemento autobiografico, il culto per la natura intatta e selvaggia e la primigenia istintività, l’esaltazione dei rapporti fisici visti come manifestazione vitalistica di somma importanza, la filosofia del racconto mitico basata sulla sua visione del cosmo e delle pulsioni vitali dell’uomo.
Wagner, dopo aver visitato la Sardegna in lungo e in largo, per studiare la lingua sarda e le tradizioni popolari, ci ha lasciato opere monumentali come il Dizionario etimologico sardo, La Lingua sarda i La vita rustica mentre, di contro, l’archeologo inglese Harden, non solo ci insulta, (parla di Sardegna, regione sempre retrograda) ma ci racconta un mucchio di balle storiche, archeologiche e linguistiche.
Il giornalista Virgilio Lilli, nel suo Viaggio in Sardegna ci consegna intatto il fascino dell’improvvisazione, tipico del reportage giornalistico; in questa circostanza l’esperienza di Lilli pittore e fotografo si somma a quella dello scrittore, che coglie gli aspetti più suggestivi dell’Isola come attraverso una serie di brevi ma intensi flashes; mentre il libro sulla Sardegna di Vittorini, che ha lo stesso titolo, Viaggio in Sardegna appunto, come scrive Geno Pampaloni, lo possiamo considerare un reportage e…un libro composito: un po’ poema in prosa, un po’ recensione di paesaggi e figure, un po’ aneddotica di racconto, un po’ (è il tono dominante) lirica moralità: una forma nuova per Vittorini e a lui subito congeniale. 
Un altro grande scrittore italiano invece, Carlo Levi in Tutto il miele è finito descrive una Sardegna di pietre e di pasto¬ri, e di uomini moderni e vivi. Corriamo così attraverso imma¬gini rapidissime, dove ogni momento è gremito di visioni. Tro¬viamo le querce e i prati di asfodeli, i pipistrelli delle domus de janas, le greggi, le sacre capre mannalittas, i nuraghi, le roc¬ce e il mare, e il Sopramonte deserto e feroce; gli operai, gli emigranti, gli uomini, e l’incedere divino delle antiche donne¬regine:così viene presentato dalla casa editrice Einaudi il suo libro.
Il francese Le Lannou considera la Sardegna come un grande mosaico di terra, le cui tessere siano state furiosamente scompigliate. E la montagna sarda è tutta paccata, fessurata, divisa da grandi gote, un tempo pressoché invalicabili. Una montagna difficile, aspra, severa: una montagna vera. Questa durezza della tettonica sarda ha anche avuto due conseguenze storiche, che hanno operato direttamente sulle vicende e il caratteri del sardi: ha isolato i villaggi l’uno dall’altro, alimentando nei secoli la disunione e l’estraneità fra gruppi pure contigui (dunque, impedendo la nascita di una più vasta unità “nazional-regionale”) e, secondo, ha isolato la montagna dal resto dell’isola, rendendone difficili gli accessi e spesso negando alta montagna più frequenti contatti con le pianure “civilizzate”.
Infine, l’ultimo “viaggiatore” e osservatore della Sardegna e delle cose sarde, che presentiamo in questo volume, l’italiano Cagnetta, in Banditi a Orgosolo, denuncia lo sfruttamento, la repressione poliziesca e nel contempo l’espropriazione etno-culturale, operate dallo Stato italiano, segnatamente nei confronti dell’area barbaricina, di cui Orgosolo è solo l’esempio paradigmatico.

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Dal 2012 vengono introdotte importanti novità che riguardano le lavoratrici e i lavoratori  dipendenti del settore privato e le lavoratrici e i lavoratori autonomi.
Dal prossimo anno saranno a disposizione di questi lavoratori solo due tipi di pensione, la pensione di vecchiaia e quella anticipata.
Altra novità riguarda l’età pensionabile. Le differenze fra uomini e donne nel settore privato e quelle fra lavoratori dipendenti e autonomi saranno progressivamente eliminate, con meccanismi che porteranno alla completa equiparazione a partire dal 1° gennaio 2018.
Ulteriori innovazioni sono previste per il calcolo della pensione. Le quote di anzianità contributiva maturate dopo il 1° gennaio 2012 saranno tutte calcolate con il sistema contributivo, con effetti differenti a seconda delle diverse situazioni contributive.
Una importante novità riguarda inoltre i lavoratori autonomi, per i quali aumentano le aliquote contributive dell’1,3% nel 2012 e dello 0.45% per gli anni successivi, fino a raggiungere il livello del 24%.

PENSIONE DI VECCHIAIA

Per avere diritto alla pensione di vecchiaia occorre aver maturato una determinata età (la c.d. età pensionabile) ed un’anzianità contributiva di almeno 20 anni.

ETÀ PENSIONABILE

L’età pensionabile delle lavoratrici, attualmente più bassa di quella degli uomini nel settore privato sia per i lavoratori dipendenti, sia per quelli autonomi, verrà elevata secondo un meccanismo progressivo che partirà il 1° gennaio 2012  per arrivare nel 2018 alla completa equiparazione.
L’età pensionabile continua poi ad aumentare per effetto dell’adeguamento alla speranza di vita.
Eccezioni sono previste per le lavoratrici che entro il 31 dicembre 2012 abbiano almeno 20 anni di contribuzione e 60 anni di età, che potranno andare in pensione a 64 anni.

Inoltre, sono soggetti alla vecchia disciplina della pensione di vecchiaia anche i lavoratori addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (chi svolge lavori c.d. usuranti).

PENSIONE ANTICIPATA

La pensione anticipata, prestazione che è indipendente dall’età del richiedente, è concessa a chi ha un’anzianità contributiva di almeno 42 anni e 1 mese (uomini) o 41 anni e 1 mese (donne). I requisiti contributivi sono aumentati di un ulteriore mese per il 2013 e per il 2014.
A questa anzianità occorre poi aggiungere l’ulteriore aumento determinato dall’adeguamento alla speranza di vita.
Eccezioni sono previste per i lavoratori che entro il 31 dicembre 2012 avrebbero maturato i requisiti previsti dalla normativa precedente per la pensione di anzianità,  che potranno avere la pensione anticipata a 64 anni.

Anche i lavoratori addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (lavori c.d. usuranti) sono esclusi dall’applicazione della nuova disciplina.

CALCOLO DELLA PENSIONE

Le anzianità contributive maturate dal 1° gennaio 2012 verranno calcolate per tutti i lavoratori e le lavoratrici con il sistema di calcolo contributivo.
Il sistema contributivo è un sistema di calcolo della pensione che si basa su tutti i contributi versati durante l’intera vita assicurativa
Si distingue dal sistema di calcolo retributivo, che si basa sulla media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di vita lavorativa.
Fino al 1995 le pensioni erano interamente calcolate con il sistema retributivo. La legge di riforma del 1995 ha introdotto il sistema contributivo, creando 3 differenti situazioni:

  1. chi aveva almeno 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 aveva la pensione interamente calcolata con il sistema retributivo;
  2. chi aveva meno di 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 aveva la pensione calcolata applicando il criterio del pro-rata: per le anzianità maturate fino al dicembre 1995 si applicava il sistema retributivo e per le anzianità maturate successivamente si applicava il sistema contributivo;
  3. chi iniziava a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 aveva la pensione interamente liquidata con il sistema di calcolo contributivo.

L’estensione del sistema di calcolo contributivo dal gennaio 2012 ha effetti sul calcolo delle prestazioni rientranti nel primo caso, quello cioè di coloro che avevano 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995, che avranno la pensione calcolata secondo il criterio del pro-rata, con applicazione del sistema retributivo alle anzianità maturate fino al 31 dicembre 2011, e del sistema contributivo alle anzianità maturate successivamente.
Nulla cambia, invece, per coloro che sono compresi nelle altre due situazioni.

Anzianità contribuiva maturata al 
31 dicembre 1995
Anzianità contributiva maturata fino al 
31 dicembre 1995
Anzianità contributiva maturata dal  1° gennaio 1996 
al 31 dicembre 2011
Anzianità contributiva maturata dal 
1° gennaio 2012
18 anni o più Calcolo Retributivo Calcolo Retributivo Calcolo Contributivo
meno di 18 Calcolo Retributivo Calcolo Contributivo Calcolo Contributivo
nessuna anzianità contributiva   Calcolo Contributivo Calcolo Contributivo

PENSIONE CONTRIBUTIVA

Chi ha la contribuzione interamente versata nel sistema contributivo, quindi ha cominciato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996, ed ha un’anzianità contributiva effettiva di almeno 20 anni potrà avere la pensione anticipata al compimento dei 63 anni a condizione che l’anzianità contributiva maturata sia di almeno 20 anni, e la pensione non sia inferiore di 2,8 volte all’ammontare dell’assegno sociale stabilito per quell’anno.
Anche in questo caso occorre aggiungere all’età iniziale di 63 anni l’ulteriore aumento determinato dall’adeguamento alla speranza di vita, secondo lo schema riportato.

  Lavoratori contribuenti dopo il 1° gennaio 1996
1° gennaio 2012 63 anni
1° gennaio 2013 63 anni e 3 mesi
1° gennaio 2014 63 anni e 3 mesi
1° gennaio 2015 63 anni e 6 mesi
1° gennaio 2016 63 anni e 7 mesi
1° gennaio 2017 63 anni e 7 mesi
1° gennaio 2018 63 anni e 7 mesi

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Stabilità 2016

 

Stabilità 2016 con taglio IRES: la UE concede risorse

UE apre alla flessibilità sui conti italiani, verso il finanziamento del taglio IRES 2016 nella Legge di Stabilità: ecco il calendario della manovra, che comincia l’iter di approvazione in Parlamento.

 – 28 ottobre 2015
Pmi TVSquinzi: Legge Stabilità accettabile
 

 

Junker vs Renzi
La UE apre all’Italia sull’utilizzo della clausola migranti, che consente uno 0,2% diflessibilità sul rapporto Deficit/PIL nella Legge di Stabilità: significa 3,1 miliardi in più di risorse, per finanziare in primi l’anticipo parziale al 2016 del taglio IRES alle imprese.  Non c’è una decisione ufficiale, ma il presidente della commissione di Bruxelles, Jean Claude Juncker, ha dichiarato che, nei confronti dei paesi maggiormente impegnati sul fronte dell’emergenza immigrazione, le regole del patto di stabilità:

 

«contengono un margine di flessibilità che verrà utilizzato: se un paese fa uno sforzo straordinario, deve esserci un’interpretazione in linea con questo sforzo».

Non viene citata direttamente, ma il riferimento all’Italia è ritenuto abbastanza chiaro. La posizione di Bruxelles, in pratica, è quella di decidere caso per caso, in base alle risorse che i diversi Stati Membri stanno impegnando per l’emergenza immigrazione.

=> Stabilità 2016: numeri, impegni, risorse

Utilizzo risorse

Dunque, in vista c’è un via libera europeo alla richiesta italiana di uno 0,2% di flessibilità, che vale oltre 3 miliardi. Una somma che l’Esecutivo ha già dichiarato di voler utilizzare tramite la Legge di Stabilità per anticipare al 2016 un primo taglio (intorno all’1,5%) all’IRES per le imprese, che dovrebbe quindi scendere nel 2016 al 26% dall’attuale 27,5%. Nel 2017 ci completerà la riduzione prevista, attestandosi al 24%. Si attendono pertanto le decisioni ufficiali di Bruxelles, anche per capire se prevedere i correttivi del caso da inserire in Stabilità 2016.

=> Taglio IRES: il nodo dello sconto fiscale nel 2016

Iter Legge di Stabilità 2016

Intanto la manovra, approvata dal Consiglio dei Ministri dello scorso 15 ottobre, dopo la firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il deposito in Senato, inizia l’iterparlamentare (per l’approvazione, da parte di Camera e Senato, entro fine anno). La conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama ha fissato in calendario le comunicazioni del presidente Pietro  Grasso, in Aula al Senato, sull’apertura della sessione di bilancio: data prevista, 29 ottobre. La commissione Bilancio inizia il 28 ottobre l’esame del testo per i pareri.

=> Legge di Stabilità 2016: il testo depositato al Senato

Da lunedì 2 novembre i lavori proseguono con le audizioni (in commissione): lunedì saranno ascoltate le parti sociali (imprese e sindacati), martedì 3 novembre Corte dei Conti, ufficio parlamentare di Bilancio, Banca d’Italia e ISTAT, mentre mercoledì 4 novembre parlerà il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.

=> Tutte le misure della Legge di Stabilità

La commissione ha tempo fino al 13 novembre per esaminare il testo: il termine per gliemendamenti è il 14 novembre. La settimana successiva (probabilmente, martedì 17 novembre) il testo della Legge di Stabilità 2016 approda nell’aula del Senato.

 

Se vuoi aggiornamenti su STABILITÀ 2016 CON TAGLIO IRES: LA UE CONCEDE RISORSEinserisci la tua e-mail nel box qui sotto: