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Rassegna stampa del 09/10/2015

Rassegna stampa
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Rassegna stampa del 09/10/2015

 

Lavoro e Diritti > Ministero del lavoro

Nuova maxisanzione per lavoro nero, indicazioni dal Ministero

Indicazioni operative del Ministero del Lavoro sul regime intertemporale per l’applicazione della nuova maxisanzione per lavoro nero introdotta dal Jobs Act

Nuova maxisanzione per lavoro nero, indicazioni dal Ministero

Con lettera circolare n. 16494 del 7 ottobre 2015 la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, fornisce le prime indicazioni operative in merito alla nuova maxisanzione per lavoro nero, a seguito delle novità normative introdotte dal D. lgs n. 151/2015 ovvero il cosiddetto decreto Semplificazioni in materia di lavoro entrato in vigore lo scorso 24 settembre in attuazione del Jobs Act.

Leggi anche: Decreto Semplificazioni in materia di lavoro, guida dei CdL

Con questa Circolare il Ministero fa chiarezza sull’orientamento da seguire in questa fase transitoria, ovvero sul regime intertemporale, soprattutto nei confronti degli organi competenti in materia, quali le Direzioni Interregionali e Territoriali del Lavoro, l’INPS, l’INAIL e gli altri organi con poteri ispettivi.

Nuova maxisanzione per lavoro nero: indicazioni operative sul regime intertemporale 

Si ritiene opportuno, nelle more dell’emanazione delle prime indicazioni operative sulla nuova disciplina della c.d. maxisanzione per lavoro “nero” introdotta dall’art. 22 del D. Lgs. n. 151/2015 entrato in vigore il 24 settembre u.s. fornire i seguenti chiarimenti sul regime intertemporale.

In particolare, si ricorda che, ai sensi dell’art. 1 della L. n. 689/1981, tale disciplina trova applicazione agli illeciti commessi successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo.

Pertanto, per le condotte iniziate e cessate prima del 24 settembre u.s., si applica l’apparato sanzionatorio precedentemente vigente, ivi compresa la fattispecie attenuata di maxisanzione (c.d. maxisanzione affievolita).

Alle medesime condotte non si applica inoltre la procedura di diffida introdotta dall’art. 22 del D. lgs. n. 151/2015, in considerazione dei suoi contenuti sostanziali riferiti, in particolare, al mantenimento in servizio per almeno tre mesi del lavoratore irregolare.

Per le condotte iniziate sotto la previgente disciplina e proseguite dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo, stante la natura permanente dell’illecito che si consuma al momento della cessazione della condotta, trova applicazione, all’intero periodo oggetto di accertamento, la nuova disciplina ivi compresa la procedura di diffida.

Si rammenta inoltre che per tali fattispecie non troveranno altresì applicazione le sanzioni di cui all’art. 19, commi 2 e 3, del D. lgs n. 276/2003 relative alla mancata consegna della lettera di assunzione, espressamente escluse dalla norma.

Fonte: http://www.lavoroediritti.com/2015/10/nuova-maxisanzione-per-lavoro-nero/#ixzz3o3pGyhJ9

Pensioni

Pensioni/3. Opzione donna deve essere confermata. Istat: il 52,8 per cento delle pensionate ha redditi inferiori a 1.000 euro lordi

La possibilità per le lavoratrici di esercitare l’opzione donna per poter andare in pensione con 35 anni di contributi e 57 anni e tre mesi di età per le dipendenti e 58 anni e 3 per le autonome,  è una necessità che va confermata, perché si tratta di una scelta spesso indotta da necessità ineludibili. E’ quanto è emerso al convegno promosso dall’Inca su Pensioni: la povertà del sistema contributivo.

Maria Luisa Gnecchi, della Commissione Lavoro della Camera, nel suo intervento, ha ricordato come nell’audizione del 7 agosto scorso, lo stesso Inps, insieme al ministero del lavoro, concordassero sull’interpretazione di dare la possibilità di usufruire dell’opzione donna a coloro che avessero raggiunto i requisiti anagrafici e contributivi entro il 31 dicembre 2015, anche se la cosiddetta finestra si sarebbe collocata dopo tale data.

A tutt’oggi invece, secondo l’interpretazione ministeriale, vale quanto era stato stabilito nelle circolari n. 35 e n. 37 del 2012  e cioè che questa possibilità sia limitata alle pensioni con la decorrenza fino al 2015 e, quindi, per effetto della finestra mobile (attesa di 12 e di 18 mesi), le lavoratrici devono aver raggiunto i requisiti anagrafici e contributivi entro novembre 2014 per le dipendenti e entro maggio dello stesso anno per le autonome.

Una scelta che penalizza le donne, già drammaticamente discriminate nel mondo del lavoro. Gli ultimi dati Istat dicono che il 52,8 per cento delle lavoratrici pensionate percepiscono meno di 1.000 euro lordi mensili. Ma non basta. Nella loro carriera lavorativa, oltre ad avere più interruzioni per motivi familiari, hanno spesso contratti atipici.

Secondo l’Istituto di statistica, tra gli occupati, di età compresa tra i 16 e i 64 anni nel 2009, solo il 61,5 per cento delle donne ha avuto un percorso interamente standard. Inoltre, dagli anni ’90 è progressivamente aumentato il part time femminile (spesso involontario), passando dal 21 per cento del 1994 al 32,2 per cento del 2014, con conseguenti minori livelli medi di retribuzione e importi più bassi dei contributi versati. A questo si aggiunga che il 30 per cento delle donne occupate lascia il lavoro dopo il primo figlio, confermando la drammatica incompatibilità tra vita familiare e occupazione.

Pensioni

Pensioni/2. Cambiare la legge Fornero è una necessità (Piccinini – Inca)

La povertà del sistema contributivo

di Morena Piccinini, presidente Inca 

Quando abbiamo iniziato ad organizzare questo appuntamento non sapevamo che si sarebbe collocato all’interno della settimana di mobilitazione decisa da CGIL CISL UIL sui temi della previdenza, ma ora siamo molto contenti di questa coincidenza.

E’ molto importante il rilancio della piattaforma unitaria perché condividiamo che la prossima legge di stabilità non potrà assolutamente prescindere dalle richieste sindacali e dal fatto che la questione previdenza è una emergenza non differibile ad altre momenti.
Anzi, alcune questioni, secondo noi non dovrebbero neppure rientrare nella legge di stabilità, nel senso che la loro attuazione non dovrebbe essere postata con leggi di spesa, nonostante ciò che sostiene la Ragioneria dello Stato e alcuni tecnici dei ministeri.
Abbiamo detto più volte, e molti parlamentari con noi, che la soluzione del problema esodati, ovvero la settima salvaguardia, non ha bisogno di risorse aggiuntive, ma solo di un pieno utilizzo di quanto stanziato fino ad ora, non speso per le precedenti salvaguardie e reincassato di anno in anno al bilancio dello Stato.
Malcostume contabile molto utilizzato, soprattutto in previdenza (ricordiamo tutti quanto successo con i fondi stanziati nel 2007 per i lavori usuranti) che rasenta la malafede nel modo in cui si contabilizzano i possibili costi dei diversi interventi e poi si reincassa quanto non speso lasciando inesaudite migliaia di situazioni che potrebbero benissimo trovare soluzione proprio con quelle risorse già stanziate.
Così come dovrebbe stare fuori dalla Legge di stabilità la proroga della cosiddetta “opzione donna”. Qui si sommano una serie di fattori paradossali: dalla circolare interpretativa dell’INPS non solo volutamente restrittiva, ma sbagliata anche giuridicamente nel pretendere che entro il 2015 fosse assolto anche il requisito per la liquidazione (con la finestra) e non solo per la maturazione del requisito contributivo.

Ennesimo esempio di come l’INPS si presti, in modo che non esitiamo a definire fin troppo acquiescente se non ispiratore, a fornire interpretazioni tecniche della legislazione che, guarda caso, tendono sempre a circoscrivere l’esercizio dei diritti in modo addirittura peggiorativo di quanto previsto dalle stesse leggi, di come quella interpretazione, per essere superata, si pretende necessiti di ulteriori risorse.

L’altro fattore paradossale è proprio quello di pensare che l’opzione donna necessiti di risorse, per essere finanziata, quando l’unico soggetto che guadagna da questa operazione è proprio l’INPS e il bilancio previdenziale pubblico. Negli esempi che verranno illustrati emergerà chiaramente chi si avvantaggia.

Bisogna dire chiaramente che la “opzione donna” è in molte situazioni è la pensione della disperazione, di donne che hanno perso il lavoro 6-7 anni prima della pensione di vecchiaia e si trovano tutte le porte chiuse e si accontentano di una pensione taglieggiata del 30% per tutta la loro vita perché non trovano altra alternativa;  di donne che hanno 60 anni di età e nell’effetto rincorsa al quale sono state condannate dalla Monti-Fornero si trovano aumentato di 7 anni il tempo di lavoro e non ce la fanno più per le condizioni del lavoro stesso, per i tempi di lavoro, per i turni di lavoro o non ce la fanno più perché non trovano quella necessaria assistenza per gli anziani che permetterebbe loro di non ammazzarsi di doppio o triplo lavoro. E c’è ancora chi pensa che sia un privilegio poter “scegliere” la pensione con la opzione donna.

E, certo, noi chiediamo che rimanga e che venga confermata, perché senza neanche quella possibilità pensionistica, quella povera pensione contributiva, rimarrebbe solo la disperazione a quelle donne.
Opzione donna, ovvero il grande risparmio per il sistema previdenziale pubblico. Se nessuno si stupisce, tranne noi, nel parlare della possibilità dei pensionati di agire con un prestito su se stessi (rimborsando nella vita pensionistica quanto anticipato) perché ci si stupisce se la stessa logica la si richiede applicata allo Stato? Anticipa oggi, ma nel tempo recupera non solo quanto anticipato ma molto, molto di più.

Per questi motivi pensiamo che la questione esodati e la opzione donna dovrebbero essere risolti con atti legislativi ma senza essere considerati come atti di spesa.

Invece pensiamo che la legge di stabilità dovrebbe cominciare a fare giustizia su talune questioni, alcune molto conosciute, altre meno, che derivano da profondi errori commessi negli anni dalle continue sovrapposizioni normative sempre di carattere restrittivo.

E’ evidente che il primo grande errore da superare è quello della rigidità in uscita introdotto dal 2012 e quindi affronta il grande tema della flessibilità in uscita.
Le informazioni giornaliere sono molto discordanti: da chi assicura che la legge di stabilità se ne farà carico, a chi invece la garantisce ma in un percorso a parte, soprattutto ancora troppi dicono che non deve costare.

In una certa misura è naturale  che vengano vagliate varie ipotesi, dal prestito su se stessi alle modalità di disincentivo, ovvero le penalizzazioni. Ma attenzione a cosa significa prestito e poi: delle imprese?

Noi diciamo poche cose:
1. è una emergenza perché la legge attuale invita alla riduzione degli ammortizzatori, produce esodati, disoccupazione e povertà.

2. La soluzione deve essere strutturale e non limitata a poche, marginali, situazioni di emergenza;

3. Siamo contrari a penalizzazioni pesanti. Sappiamo bene che la flessibilità in uscita è chiesta anche dal sistema delle imprese per accompagnare i loro processi di riorganizzazione e il turn over del personale, per chi lo fa.

Processi di espulsione con ridotti ammortizzatori e che vedono come ultima soluzione una pensione penalizzata determinerebbero un serio conflitto sociale.

4. Sia chiaro che sarebbe intollerabile tradurre la flessibilità con la pura applicazione del contributivo retroattivo.

La continua evocazione del contributivo retroattivo, il depistaggio informativo di chi pubblica ogni giorno notizie di una categoria di pensionati che riceverebbe troppo rispetto ai contributi versati, dimostrano una intolleranza sospetta per i tempi della transizione tra sistema retributivo e sistema contributivo. 

Ci chiediamo:
c’è dietro un’idea di equità o invece una smania di ben apparire dimostrando che il contributivo, addirittura retroattivo, farebbe risparmiare bel oltre quanto già previsto dalla Monti-Fornero?

Bisognerebbe fare chiarezza sul passato: la contribuzione fino al ’95 non era di fatto inferiore ma attribuita in modo diverso, dal ’96 il 32,70% non coincise con l’aumento dei contributi versati ma un diversa loro attribuzione!

Altra cosa è invece affrontare il fatto che, anche a parità di contribuzione, continuamo a rimanere, questi sì retroattivi, i benefici di chi fino a pochi anni fare aveva rendimenti pensionistici molto elevati. Ancora oggi vengono liquidati pro-rata pesantissimi, per esempio a dirigenti di aziende con rendimento ben oltre il 2% previsto per il mondo del lavoro dipendente.

Ma quello che ci preme oggi è lanciare un appello sulla esigenza che si torni a riflettere in modo più approfondito su cosa è il contributivo oggi, cosa produce in alcune situazioni che forse non sono numerose ma si manifestano come una grande ingiustizia.

Con alcuni esempi, che rappresentano situazioni reali, vogliamo dare sostanza al nostro titolo, la povertà del contributivo, ovvero quando un sistema pensionistico viene usato in modo spietato, arido e senza alcun correttivo e crea povertà, oltre che vere e proprie ingiustizie sociali.

Rivendico la battaglia del ’95 che la CGIL ha fatto per far comprendere al paese e ai lavoratori l’importanza della riforma. Sono trascorsi 20 anni da quella riforma epocale. Nessun governo le ha dato il tempo di assestarsi se, come ci ricorda Gronchi, “il caos normativo ha pervaso il ventennio, alla media di 1,5 provvedimenti all’anno, per un totale di 30, aggravando gli errori e le lacune iniziali”.

La novità del sistema fece dire anche al legislatore che ci sarebbero state verifiche complessive sugli effetti di quella riforma, l’unica vera verifica è stata fatta sui coefficienti di trasformazione. Per giunta, ora, con modifiche che non solo non vengono discusse con le parti sociali, ma non vengono neppure rese pubbliche nei processi che le determinano.

Credo che CGIL debba pretendere che il governo renda pubblici tutti i dati, le procedure, i parametri, attraverso i quali determina con cadenza biennale, un tale peggioramento dei rendimenti. Non c’è aspettativa di vita che tenga.

La spietatezza con la quale viene applicato il sistema contributivo mina alla radice il sistema a ripartizione. Stiamo chiedendo ai giovani di pagare le pensioni in essere e di sostenere un tasso di solidarietà altissimo per alcune situazioni oggettivamente immotivate, ma a loro diciamo che non beneficeranno mai, in nessun contesto, neppure di un briciolo di solidarietà, come se fosse una pura assicurazione, ma dovranno accontentarsi di rendimenti dettati da logiche politiche e quindi molto, molto più bassi di quanto è in grado di garantire lo stesso mercato.

Noi siamo totalmente contrari a sostituire la decontribuzione fiscalizzata per i nuovi assunti, messa in discussione nella legge di stabilità, con una decontribuzione pura (del 6%?) a vantaggio di imprese e lavoratori, siamo contrari alla riduzione della contribuzione figurativa nella NASPI e alla tentazione di allargare la portata ad una casistica più vasta.

Dopo avere irrigidito il sistema ogni atto è rivolto addirittura a ridurre quantità e qualità della contribuzione, per penalizzare ulteriormente soprattutto i giovani.

Sembra quasi che i gestori del sistema previdenziale pubblico (enti e politica) siano diventati tutti sponsor occulti del sistema assicurativo privato.

Ma bisogna rendere di nuovo credibile il sistema previdenziale pubblico, e oggi non è credibile, anzi è crudele verso tanti lavoratori, giovani e non solo, donne e precari.

Nel nostro lavoro incontriamo troppe situazioni di intollerabile ingiustizia sociale e non possiamo tacere. Cosa possiamo dire al figlio minorenne di una persona deceduta in età giovane, quindi con pochi contributi, al quale viene riconosciuta una quota di pensione inferiore ai 100 euro mensili, con i quali si dovrebbe mantenere fino alla fine degli studi? Perché la vecchia integrazione al minimo non c’è più e l’assegno sociale è solo per l’età anziana?
Attenzione, non voglio neanche mettere l’accento sulla ingiustizia per il coniuge superstite, ma verso il minore è una crudeltà.

Proprio perché non sono molto numerosi questi casi, non si può neanche invocare l’eccessivo costo. Ho detto prima che non condividiamo l’elenco quotidiano dei beneficiati dai vecchi sistemi, ma devo confessare che anche io ho pensato alla pensione dei prefetti e altre situazioni simili e al divario rispetto alle reversibilità per i minori.

E che dire a persone che rimangono gravemente inabili in età giovane e con pochi contributi e pur non riuscendo più a lavorare sono condannati a pensioni miserrime?

E’ questa la equità del contributivo? In un sistema a ripartizione, pubblico e solidale?
La selezione dei casi ci dice che non basta dire esodati, opzione donna e flessibilità per avere la coscienza a posto.
Bisogna analizzare tutte quelle casistiche nelle quali le persone lasciate sole sono condannate a condizioni di povertà, bisogna guardare ai casi limite.

Viene spesso evocato il sistema svedese come esempio di applicazione del contributivo, ma lì, le invalidità e il sostegno ai superstiti sono tenuti fuori dalla logica strettamente legata ai soli contributi versati. Lo Stato interviene con risorse proprie per farsi carico di queste situazioni che sarebbero eccessivamente impoverite dalla applicazione della logica strettamente contributiva.

A proposito, in Svezia hanno anche introdotto le coorti di età per coefficienti di trasformazione del montante in rendita.

Dossier Povertà

Il dossier dell’Inca sulle povertà delle future pensioni contributive

Casi emblematici per descrivere il futuro pensionistico di migliaia di persone. E’ il dossier che questa mattina l’Inca ha presentato in occasione del seminario su “Pensioni: la povertà del sistema contributivo”, a 20 anni dall’introduzione del sistema contributivo di calcolo delle pensioni.  

I casi – spiega Fulvia Colombini, del collegio di presidenza dell’Inca – descrivono situazioni che non riguardano certamente la generalità dei lavoratori e lavoratrici che sono iscritti al sistema contributivo, ma una quota di persone che, già oggi, è a forte rischio di povertà; se non si introdurranno dei correttivi, assisteremo al peggioramento della situazione in generale”.

“Siamo partiti -rivela Colombini – da casi reali e concreti, da pensioni di inabilità già liquidate, da assegni di invalidità già riconosciuti, da simulazioni sugli effetti della ridotta contribuzione figurativa della Naspi. Si tenga presente che oggi nel sistema contributivo, per effetto della sua relativamente breve vita, ci sono pochissimi casi di pensioni anticipate e/o di vecchiaia già liquidate”. 

“Nei prossimi cinque/sei anni – avverte Colombini – assisteremo alla graduale uscita dal mondo del lavoro di coloro che andranno in pensione con il sistema prevalentemente retributivo, avendo già maturato 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995. Successivamente, la popolazione attiva che si avvicina al pensionamento sarà composta da coloro che avranno diritto al calcolo con  il sistema misto (non avendo maturato i 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995) e diventeranno sempre più numerose le fasce di persone per le quali si applicherà  il solo calcolo contributivo per la liquidazione delle loro pensioni. Riteniamo che, anche per ragionare in prospettiva,  sia utile l’attenzione proprio su questa ultima fascia.

Oggi è ancora possibile introdurre una serie di correttivi che, a nostro avviso, con una spesa limitata e spalmata negli anni, andrebbero ad alleviare tante situazioni di disagio e di povertà che rischiano di diventare situazioni di esclusione sociale.

Le proposte di Inca 

• Reintrodurre l’integrazione al minimo, per integrare importi di pensione troppo bassi che non raggiungono neppure il minimo vitale.

• Eliminare i massimali alla contribuzione figurativa sui trattamenti legati alla disoccupazione involontaria Naspi, perché le persone vengono penalizzate due volte, prima quando perdono il lavoro e successivamente per la misura della propria pensione che si riduce.

• Diversificare l’aspettativa di vita tenendo in considerazione che le varie tipologie di lavoro non sono tutte uguali; in particolare, necessitano una particolare attenzione i lavori usuranti per consentire un’uscita anticipata dal lavoro, aggiornando anche i coefficienti di trasformazione per il calcolo della misura.

• Eliminare le incongruenze e le disparità tra lavoratori,  come ad esempio la possibilità di andare in pensione anticipatamente solo per coloro che maturano importi di pensione più alti.

• Introdurre la possibilità di riscatto della maternità facoltativa, anche oltre i cinque anni previsti e eliminare la diversa valorizzazione retributiva dei periodi figurativi.

• Rilanciare l’opzione donna, riducendo il danno economico attraverso la revisione del metodo di calcolo di queste pensioni. Non dimentichiamo che l’esigenza di reintrodurre una maggiore flessibilità di uscita dal lavoro investe anche gli uomini. 

• Considerare le maggiorazioni contributive previste per determinate categorie di lavoratori (es. invalidi civili, del lavoro, non vedenti e sordo muti) ai fini del calcolo della pensione.   

Di seguito i casi

Primo caso:  “Assegno e Pensione di inabilità”
Maja, 36 anni, nata il 27.5.1979 
Anzianità contributiva complessiva pari a n. 356 settimane (6 anni e 10 mesi circa), così composta:
• dal 1.6.2002 al 31.10.2009 n. 326 settimane da collaboratore familiare;
• dal 9.12.2009 al 30.6.2010 n. 30 settimane di disoccupazione.
Maja si ammala e dal 1° luglio 2010 percepisce l’assegno ordinario di invalidità per un importo di circa € 50 lordi mensili, ma non riprende più il lavoro. 
Successivamente, le sue condizioni di salute si aggravano. Quindi, nel 2014 le viene riconosciuta la pensione di inabilità assoluta e permanente e con essa una maggiorazione contributiva, come se avesse effettuato i versamenti previdenziali fino a 60 anni di età. Nonostante l’incremento di 1.309 settimane, ovvero 25 anni e 2 mesi (maggiorazione convenzionale fino a 60 anni di età), l’importo del trattamento passa a circa € 260 lordi mensili, senza avere diritto a nessun trattamento di integrazione al minimo, poiché il sistema contributivo di calcolo della pensione non lo consente.

N.B. Se avesse avuto, invece, anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, soddisfacendo i limiti reddituali personali e coniugali, le sarebbe stato  garantito il trattamento minimo (501,89 euro per il 2015).

Secondo caso: “Pensione di inabilità e poi di reversibilità riconosciuta agli eredi ”
Minore a rischio povertà

Ramadan, nato il 18.2.1963 e deceduto il 20.10.2014, ha un’anzianità contributiva complessiva pari a n. 508 settimane (9 anni e 9 mesi circa), così composta:
• dal 1.11.2002 al 23.9.2013 n. 431 settimane da lavoro dipendente privato;
• n. 77 settimane di disoccupazione.
Si ammala e non può più lavorare. Dal 1° dicembre 2013 percepisce la pensione di inabilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa e con essa una maggiorazione contributiva come se avesse effettuato i versamenti previdenziali fino a 60 anni di età. Nonostante l’incremento di 480 settimane, ovvero 9 anni e 3 mesi (maggiorazione convenzionale fino a 60 anni di età), l’importo del trattamento è pari a circa € 340 lordi mensili.
Dal 1° novembre 2014, gli eredi di Ramadan – coniuge casalinga Drite nata il 13.4.1969 e figlio minorenne Endris nato il 19.5.2003 –  percepiscono la pensione di reversibilità, nella misura dell’80%, di € 276,37 lordi mensili, a cui si aggiunge l’assegno al nucleo familiare di € 137,50 (in pratica la metà dell’importo del trattamento pensionistico). 
Anche in questo secondo caso, la famiglia di Ramadan non può ricevere l’integrazione al minimo della pensione di reversibilità perché il sistema contributivo di calcolo delle pensioni non lo consente. La cosa è particolarmente grave perché mentre per la moglie di Ramadan si può ipotizzare che cerchi un lavoro, per il figlio minore l’importo della sua pensione di reversibilità è così irrisorio da pregiudicare il suo futuro.

N.B. Se Ramadan avesse avuto, invece, anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, soddisfacendo i limiti reddituali previsti, sarebbe stato garantito il trattamento minimo sulla pensione di inabilità; quella di reversibilità, riconosciuta ai superstiti, sarebbe stata integrata al minimo, comunque, senza dover rispettare  alcun limite reddituale.

Terzo caso: “Pensione di inabilità” –   perdi il lavoro, sei inabile e condannata alla povertà –  
Roberta, nata il 24.7.1967, è stata assunta dal Comune il 16 settembre 1996 come operatore culturale a tempo indeterminato con contratto part-time al 50%.
Nel mese di luglio 2001 le viene diagnosticata una grave malattia che le impedisce di proseguire permanentemente il servizio. Dopo essere stata in aspettativa per malattia per oltre un anno chiede la pensione di inabilità a qualsiasi attività lavorativa, ex art. 2, comma 12, legge 335/95.
Riconosciuta inabile dalla competente commissione medica viene licenziata dal servizio il 14/11/2001.
Roberta ha accumulato un’anzianità contributiva complessiva di 5 anni, 1 mese e 29 giorni (dal 16/9/1996 al 14/11/2001).
Dal 15 novembre 2001 percepisce la pensione di inabilità, liquidata sulla base di una maggiorazione contributiva di 25 anni e 8 mesi e di 5 anni e 2 mesi di versamenti effettuati quando era in servizio. Per un totale di 30 anni e 10 mesi di anzianità contributiva.  
L’Inpdap ha liquidato un trattamento di pensione dal 15 novembre 2001 di € 273,83 lordi mensili (€ 3.559,82 annui).

N. B. Se avesse avuto, invece, anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, la pensione di inabilità sarebbe stata integrata al trattamento minimo.

 

Quarto caso: “Dipendente pubblico 37enne”   
Marco, nato il 20.7.1978, lavora presso un Ente Parco con iscrizione all’ex INPDAP dal 1.8.2008. Nel 2014 ha percepito un reddito da lavoro dipendente pari a € 18.682 e ha svolto il servizio militare  per un anno tra il 1998 e il1999. 
Dal 1.8.2005 al 31.7.2008 è stato collaboratore a progetto.
Marco ha un’anzianità contributiva complessiva alla data del 30.9.2015 pari a 11 anni e 2 mesi, così composta:
• 8 anni e 2 mesi nell’ex INPDAP (compreso il servizio militare);
• 3 anni nella gestione separata dell’INPS.
In caso di malattia grave, Marco potrebbe percepire solo la “pensione di inabilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa”, poiché ha già maturato i requisiti richiesti di 5 anni di contribuzione di cui 3 nell’ultimo quinquennio. 
Se, invece, la Commissione medica dovesse riconoscergli soltanto una inabilità inferiore (ovvero, l’incapacità a svolgere qualsiasi “proficuo lavoro”), scatterebbe immediatamente il licenziamento, senza poter avere nessuna pensione, per la quale occorrono almeno 15 anni di versamenti contributivi; e con pochissime prospettive di reimpiego. Inoltre, se volesse trasferire i contributi ex Inpdap presso l’Inps, potrebbe farlo solo pagando oneri pesanti perché, a partire dal 2010, le ricongiunzioni sono diventate onerose ed è stata abrogata la legge n. 322/1958, che consentiva un’altra possibilità di trasferimento gratuito, con la conseguenza di non poter richiedere neanche l’assegno ordinario di invalidità.
Nel caso in cui Marco dovesse lavorare senza interruzioni gli si prospettano le seguenti possibilità di pensionamento:
• pensione anticipata – presumibilmente a 66 anni e 3 mesi di età – con 20 anni di contribuzione effettiva, sempreché riuscirà a maturare un importo pensionistico di almeno 2,8 volte quello dell’assegno sociale (impossibile col reddito che percepisce);
• pensione di vecchiaia – presumibilmente a 69 anni e 7 mesi di età, con 20 anni di contribuzione, sempreché l’importo di pensione maturato sia di almeno 1,5 volte quello dell’assegno sociale (circa 672,78 euro nel 2015).

Quinto caso: “Lavoro povero e discontinuo”
Matteo, nato il 16.11.1988, 27enne dipendente privato a tempo determinato, a volte anche part-time”. Ha lavorato:
• come apprendista dal 1.6.2004 al 26.9.2010;
• da dipendente privato dal 1.3.2011 a tutt’oggi.
Ha percepito l’indennità di disoccupazione ASpI dal 16.12.2013 al 13.6.2014.
Al 30 giugno 2015, Marco non ha maturato neanche 5 anni di contribuzione e, dunque, in caso di malattia non avrebbe diritto neanche all’assegno ordinario di invalidità o alla pensione di inabilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa. 
Se la sua carriera professionale dovesse seguire lo stesso andamento, sarà difficile – anzi, impossibile –  per lui perfezionare il diritto alla pensione anticipata, per la quale tra il 2016-2018 sono richiesti 42 anni e 10 mesi di contributi, o, in alternativa, 63 anni e 7 mesi di età, 20 anni di contribuzione effettiva e aver maturato un importo pensionistico di almeno 2,8 quello dell’assegno sociale (1.255,86 euro nel 2015). 
Matteo, inoltre, non potrebbe andare in pensione di vecchiaia alla stessa età prevista per i lavoratori assicurati prima del 1° gennaio 1996, per mancanza del requisito minimo di pensione maturato, pari almeno a 1,5 volte quello dell’assegno sociale (672,78 euro nel 2015). 
L’unica prospettiva è quella di poter accedere alla pensione di vecchiaia, con almeno 5 anni di contribuzione effettiva, a prescindere dall’importo maturato, presumibilmente a 74 anni di età. La legge n. 214/2011 aveva previsto questo pensionamento a 70 anni di età, ma l’INPS ha adeguato anche questo requisito anagrafico all’incremento della speranza di vita (diventati 70 anni e 3 mesi nel 2013-2015 e 70 anni e 7 mesi nel 2016-2018).
Dal 1° gennaio 2019 ci sarà un ulteriore adeguamento legato all’aspettativa di vita. Da questa data seguiranno adeguamenti con cadenza biennale. Non è quindi possibile indicare l’età effettiva del pensionamento.

N.B. Con il sistema misto, invece, quelli che avevano anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, al compimento dell’età pensionabile – presumibilmente a 70 anni (nel 2016-2018 richiesti 66 anni e 7 mesi di età) – avrebbero percepito il trattamento pensionistico di vecchiaia se in possesso di almeno 20 anni di contribuzione, a prescindere dall’importo maturato, con garanzia del trattamento minimo nel caso in cui non avessero superato determinati limiti reddituali.
 

 Sesto caso: Assegno ordinario di invalidità. Per pochi mesi cambia il regime

Romana, nata il 19.4.1968,  “47enne titolare di assegno ordinario di invalidità” ha lavorato:
• da dipendente privato dal 1.10.1996 al 31.1.2002 – circa 4 anni e 4 mesi di contribuzione ai fini del diritto;
• come artigiana dal 1.1.2003 al 30.6.2014 – 11 anni e 6 mesi di contributi;
• come collaboratore nel periodo 2002-2010 – 3 anni e 4 mesi di contributi, coincidenti con quelli da artigiano.
Si ammala e dal 1° agosto 2014 percepisce l’assegno ordinario di invalidità di circa € 265 lordi mensili, nel quale sono stati considerati solo i contributi da lavoro dipendente e da artigiano, con esclusione, quindi, della contribuzione da collaboratore perché le norme attuali non lo prevedono. Romana potrà valorizzare i contributi come collaboratore in due casi: se si aggrava la sua salute e le viene assegnata la pensione di inabilità totale, oppure al compimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia. 
Romana maturerà il diritto alla pensione di vecchiaia presumibilmente a 68 anni e 9 mesi di età se avrà maturato 20 anni di contribuzione e l’importo minimo di almeno 1,5 volte quello dell’assegno sociale. Non perfezionando tali requisiti dovrà aspettare presumibilmente 73 anni di età ed accedere alla pensione di vecchiaia con almeno 5 anni di contribuzione effettiva, a prescindere dall’importo maturato.

N. B. Se avesse avuto, invece, anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, l’assegno ordinario di invalidità sarebbe stato integrato al trattamento minimo, possedendo redditi inferiori ai limiti previsti. Al compimento dell’età pensionabile – presumibilmente a 68 anni e 9 mesi – avrebbe percepito il trattamento pensionistico di vecchiaia se in possesso di almeno 20 anni di contribuzione, a prescindere dall’importo maturato (in questo caso non è richiesto l’importo minimo di 1,5 volte quello dell’assegno sociale).

Conclusione
Ci sembra evidente che in futuro saranno sempre più frequenti le situazioni di persone che versano i contributi a gestioni diverse, perché potrà succedere di cambiare lavoro con una certa frequenza e che le limitazioni sopra descritte penalizzano e non favoriscono la mobilità professionale delle persone. 

Settimo caso: “Opzione donna”
Nadia, nata il 16.07.1953, decide di anticipare il pensionamento a 62 anni, anziché aspettare i 67 e ha un’anzianità contributiva complessiva pari a 35 anni:
– dipendente privata dal 1.9.1982;
– 4 anni riscattati per corso di laurea.
Dal 1° settembre 2015 percepisce la pensione di anzianità in regime sperimentale donna (art. 1, comma 9, legge n. 243/2004), liquidata interamente col sistema contributivo.
L’importo del trattamento erogato è di € 21.000 lordi annui.
Alla stessa data, l’importo calcolato con il sistema retributivo è di circa € 30.000. Col calcolo contributivo perde € 9.000 l’anno lordi, ma anticipa il pensionamento di circa 5 anni.
N.B. Considerando una vita media delle donne di 84 anni, tralasciando le rivalutazioni annuali, Nadia percepirà complessivamente, nel corso di 22 anni circa € 462.000 lordi. Col calcolo retributivo, realizzato sulla base dell’anzianità contributiva maturata al 1.9.2014, invece, per 17 anni circa, percepirebbe complessivamente € 510.000 lordi, con un risparmio per le casse dell’Inps di circa 50 mila euro lordi, quasi due volte la pensione di due anni.

Conclusione
Il presunto costo a carico dell’Inps per la prosecuzione dell’opzione donna dopo il 2015  secondo noi è sostenibile perché, spalmato nel tempo e in molte proiezioni, come quella evidenziata, si rivela addirittura favorevole per le casse dell’Inps.

 

Ottavo caso – Anna perde il lavoro ed è obbligata a ridurre anche la sua pensione 
Anna  è assistente alla poltrona presso uno studio dentistico; ha compiuto 61 anni essendo nata il 1/10/1954, lavora dal 1/11/1976.
Viene licenziata il 30 aprile 2014 a seguito della crisi e della necessità dello studio di ridurre il personale; fa domanda di Aspi che percepisce per 18 mesi.
Al momento si trova disoccupata; ha finito gli ammortizzatori sociali e non è riuscita a rioccuparsi, nonostante abbia cercato un nuovo lavoro con assiduità e impegno.
Complessivamente, Anna ha totalizzato 39 anni di contributi, così suddivisi: 
• 37 anni e 6 mesi di contributi con il lavoro;
• 18 mesi di contribuzione figurativa per l’Aspi.
Anna ha due possibilità per limitare i danni:
• effettuare il versamento di contributi volontari per arrivare a 41 anni e 10 mesi di anzianità contributiva;
• aspettare i 67 anni di età circa per andare in pensione di vecchiaia.   
Per anticipare il pensionamento di 6 anni, Anna decide di esercitare, quindi, “l’Opzione donna”.
Con il vecchio sistema di calcolo retributivo, Anna avrebbe maturato una pensione di 25.000 euro l’anno, ma con “l’opzione donna”, che la costringe al contributivo obbligatorio, l’importo della sua pensione sarà decurtato di circa il 30%, per un totale di euro 17.500 annui.
N.B. Considerando l’aspettativa media di vita delle donne 84 anni, Anna percepirà con l’anticipo di circa 6 anni,  23 anni di pensione per un totale di 402.500. Se fosse andata in pensione a  67 anni avrebbe percepito la pensione per 17  anni per un totale di 425.000 euro. La vecchiaia di Anna si presenta con un futuro di ristrettezze.

Conclusione
Come si può notare il beneficio non è per la lavoratrice/pensionata , ma per l’Inps!