Archivi giornalieri: 28 maggio 2022

L’importanza del patrimonio culturale dell’Abruzzo Osservatorio Abruzzo

L’importanza del patrimonio culturale dell’Abruzzo Osservatorio Abruzzo

Edifici storici e complessi monumentali, ma anche musei e biblioteche. L’Abruzzo è colmo di beni culturali, che oltre a rappresentare un fattore di crescita culturale, possono essere messi a sistema per attrarre persone e investimenti nei territori. Con il Pnrr si può cogliere un’opportunità.

Chiese, edifici storici, complessi monumentali, ma anche musei, biblioteche, oggetti e tradizioni antiche, portali secolari e rituali arcaici. Sono i beni culturali dell’Abruzzo, un patrimonio immenso da tutelare e anche da riqualificare, attraverso il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

La crescita socio-economica della regione, infatti, può e deve passare anche dall’offerta di cultura, intesa anche come messa a rete delle infrastrutture di un sistema dinamico e multiforme.

Le potenzialità sono enormi in Abruzzo, come nel resto del paese. Basti pensare che l’Italia detenga ancora oggi il primato nel mondo per numero di siti patrimonio dell’umanità iscritti nella lista dell’Unesco: 58. Più della Cina (56) e della Germania, ferma a 51 siti.

 

Prima della pandemia in Italia erano attive 291mila imprese legate alla cultura, che impiegavano circa 1,5 milioni di occupati, per un valore aggiunto del sistema culturale nel paese che, secondo Cassa depositi e prestiti, nel 2018 ammontava a circa 96 miliardi di euro.

Con un fatturato complessivo di 85 miliardi (pari al 5,7% sul totale dell’economia), la filiera, nonostante le criticità riscontrate durante la pandemia, ha impattato su soggetti e servizi i cui output appartengono ad altre attività economiche, generando indirettamente 240 miliardi di euro.

Già da prima dell’emergenza pandemica si assisteva a una discesa degli investimenti pubblici sul settore della cultura. Questa tendenza può però essere invertita a partire dalle risorse previste nel piano di ripresa e resilienza.

Cosa prevede il Pnrr sul fronte della cultura

Gli investimenti per la cultura nel piano ammontano a circa 5,7 miliardi di euro, pari al 2,4% del totale.

Le principali linee di azione dedicate a questo settore sono contenute nella terza componente della prima missione: “Turismo e cultura 4.0“.

Gli obiettivi sono incrementare il livello di attrattività modernizzando le infrastrutture, migliorare la fruibilità e l’accessibilità dei luoghi di cultura, rigenerare i piccoli paesi (chiamati nel Pnrr “borghi”) attraverso la promozione di attività culturali, migliorare la sicurezza sismica e la conservazione dei luoghi di culto. In ultimo, ovviamente, si vuole anche sostenere la ripresa dell’industria culturale e artistica.

Com’è prevedibile, la maggior parte degli investimenti vede la regia del ministero della cultura. Questi possono essere ricondotti a 10 distinte voci di spesa. La più significativa è contenuta nel “Piano strategico dei grandi attrattori culturali” (1,46 miliardi).

25,6% dei fondi per la cultura nel Pnrr sono dedicati al “Piano strategico dei grandi attrattori culturali”.

Seguono gli investimenti volti a valorizzare i borghi (oltre 1 miliardo) e quelli per la messa in sicurezza in chiave antisismica dei luoghi di culto.

Alla valorizzazione e al finanziamento di borghi e paesi abruzzesi dedicheremo un approfondimento specifico nelle prossime settimane.

Il patrimonio culturale abruzzese

Nel parlare comune, il concetto di “patrimonio culturale” di un territorio evoca una molteplicità di aspetti, attinenti alla sua storiaarchitetturapaesaggiotradizioni e tipicità localiusi e costumi. Fenomeni diversi, variabili nel tempo e perciò sfuggenti a una classificazione rigida.

Allo stesso tempo, la legge deve definire chiaramente cosa costituisce il patrimonio culturale, proprio con la necessità di tutelarlo e valorizzarlo. Il codice dei beni culturali in vigore identifica una divisione principale tra beni culturali e beni paesaggistici.

Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che (…) presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le
altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge (…)

È ancora il codice dei beni culturali a stabilire che quelli di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, salvo che non vi siano ragioni di tutela ad impedirlo.

Censire i beni culturali significa mettere insieme diverse banche dati.

Ma di cosa parliamo, nello specifico, nel caso dell’Abruzzo? Per cominciare, la premessa obbligata è che sul tema esistono tante fonti informative diverse, in continua evoluzione. Una loro ricongiunzione è effettuata dal ministero della cultura incrociando una serie di banche dati differenti. In primo luogo, tutti i decreti di vincolo su beni immobili emessi dal 1909 al 2003, contenuti nel sistema informativo “carta del rischio“. Poi due banche dati curate dalla direzione generale belle arti e paesaggio. In particolare, il sistema informativo dei beni tutelati e le perimetrazioni dei vincoli paesaggistici contenute nel Sitap (sistema informativo territoriale ambientale e paesaggistico). Infine il sistema informativo generale del catalogo, contenente le singole opere e beni culturali catalogati per autore, tipologia e localizzazione (qui ad esempio quelli presenti nel forte spagnolo dell’Aquila).

le banche dati da ricongiungere per ricostruire il patrimonio culturale italiano e abruzzese.

Consultato il 10 maggio scorso, il sistema informativo vincoli in rete ha restituito diverse migliaia di beni censiti per l’Abruzzo, di tutti i tipi, mobili e immobili. Tra questi oltre 100mila tra opere, oggetti d’arte e reperti, ma anche beni architettonici, tra cui circa 900 chiese, oltre 1.500 tra case e palazzi storici, 156 cimiteri, nonché fontane, mura, ville.

Senza contare il patrimonio archeologico, in cui figurano tra gli altri 8 anfiteatri e 14 insediamenti rupestri, oppure delle opere d’arte e dei singoli reperti archeologici. Tanti tipi di beni diversi, censiti da una pluralità di soggetti differenti. Trattandosi di un censimento di tante fonti diverse, in costante evoluzione, è lo stesso portale ad avvertire sull’affidabilità dei dati in tempo reale.

Per ricostruire in modo più omogeneo il patrimonio culturale abruzzese, anche nel confronto tra le diverse regioni e comuni, utilizziamo i dati provenienti dal portale mappa rischi di Istat. Questi, ricostruiti al 2018, comprendono le informazioni di 3 delle fonti appena viste (Iccd, Iscr e beni tutelati) e mostrano come a quella data fossero censiti 3.909 beni culturali in Abruzzo, di cui 3.705 categorizzati come “architettonici”.

Complessivamente, parliamo di 3 beni culturali censiti ogni 1.000 residenti nella regione, un dato piuttosto in linea con la media nazionale (3,4). Un rapporto superiore rispetto ad altre 9 regioni, anche se distante da quello rilevato nelle Marche, in Molise e in Liguria.

Tra le province spicca il dato dell’Aquila. In questo territorio sono 6,7 i beni culturali censiti ogni 1.000 residenti, oltre il doppio della media regionale. Nel contesto abruzzese, quella del capoluogo è anche l’unica provincia che supera la media nazionale. Si attestano infatti su valori inferiori le province di Chieti (2,1), Teramo (1,9) e Pescara (1,6).

6,7 i beni culturali censiti ogni 1.000 residenti in provincia dell’Aquila. Molto più della media nazionale (3,4).

Osservando i dati comune per comune, emerge come i capoluoghi rispecchino l’ordine delle rispettive province. L’Aquila è di gran lunga la città con più beni culturali censiti: 690 di cui 679 architettonici e 11 archeologici. In rapporto a una popolazione di circa 70mila residenti, parliamo di poco meno di 10 beni culturali ogni mille abitanti. Tra i capoluoghi, Chieti si colloca al secondo posto con 176 beni culturali, di cui 131 architettonici e 45 archeologici a fronte dei circa 50mila abitanti (3,5). Seguono Teramo (3,2) e Pescara (1).

Tra le altre città maggiori, Avezzano (2,2) e Vasto (2) superano ampiamente il rapporto di Montesilvano (0,2). Nel comune del pescarese infatti vivono circa 54mila abitanti e risultano censiti 13 beni culturali.

I musei come strumento di valorizzazione del patrimonio culturale

L’Abruzzo perciò dispone di un patrimonio culturale vasto e diffuso sul territorio, rappresentato sia da edifici storici, monumenti, opere d’arte, reperti archeologici.

È la legge a indicare come obiettivo, accanto alla tutela di questi beni, quello della valorizzazione per consentire la fruibilità da parte del pubblico.

I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela.

In questo senso, è cruciale il ruolo dei musei e delle istituzioni assimilabili, perché consentono proprio quella accessibilità ai beni culturali che altrimenti non sarebbe possibile, o sarebbe comunque più difficile. Ad esempio attraverso l’organizzazione di percorsi divulgativi e di visite guidate.

In Abruzzo le strutture presenti sono orientate soprattutto alla valorizzazione del patrimonio archeologico. In totale il 29,4% delle strutture museali abruzzesi sono destinate a questa finalità, una quota superiore di quasi 10 punti rispetto alla media nazionale (19,9%).

In Abruzzo più musei di archeologia, ma meno di storia rispetto alla media nazionale.

Nello specifico oltre un quinto delle strutture abruzzesi sono musei di archeologia (21,2% del totale, contro una media italiana del 13%) e un ulteriore 8,2% sono aree e parchi archeologici (media Italia 6,9%). Seguono i musei d’arte (17,6% delle strutture museali abruzzesi, in linea con la media nazionale) e quelli di etnografia e antropologia (16,5%, quasi 6 punti in più del dato italiano).

Strutture rivolte alla valorizzazione del patrimonio abruzzese e dei beni culturali presenti nella regione. Un ruolo fondamentale che però è stato messo in crisi durante l’emergenza.

85 i musei abruzzesi aperti, almeno parzialmente, nel 2020.

La pandemia ha posto una sfida enorme al sistema culturale.

In Abruzzo sono oltre 100 i musei e le istituzioni presenti (108 nel 2018). Di questi, sono 85 quelli che sono rimasti aperti (almeno parzialmente) nel 2020, primo anno della pandemia. Anno che, non casualmente, ha visto un crollo nel numero di visitatori, a livello nazionale e regionale. In Italia si è passati dai circa 130 milioni annui registrati nel biennio 2018-19 ai 36 milioni del 2020.

In Abruzzo nello stesso periodo si è passati da una media di 360mila visitatori annui nel biennio 2018-19 (313mila nel 2018, 407mila nel 2019) ai 163mila del 2020.

-54,7% il calo di visitatori dei musei abruzzesi tra 2018-19 e 2020 (media nazionale: -72%)

Nella regione perciò il crollo è stato più contenuto della media nazionale, dove si registra un calo superiore al 70% (addirittura -76% per i soli musei statali). Tuttavia ha interrotto un trend di crescita visibile nei mesi precedenti l’emergenza, evidente per quasi tutte le province abruzzesi (con l’eccezione di Teramo, per cui i dati tra 2018 e 2019 mostrano un calo).

GRAFICO
DA SAPERE

I dati presentati derivano dall’indagine sui musei e gli istituti similari effettuata da Istat.

In base alla classificazione di Istat, “per visitatore si intende la persona che ha accesso a un museo o a un istituto museale per la fruizione dei beni e delle collezioni in esso esposte nonché di eventuali mostre e esposizioni temporanee in esso organizzate. Il numero di visitatori di un museo o istituto similare corrisponde al numero di ingressi effettuati per la visita di quel museo o istituto similare, e non al numero di persone fisiche che vi hanno avuto accesso (le quali vengono conteggiate per ogni visita effettuata), né al numero di biglietti emessi.”

Nello specifico:

  • se una persona ha avuto accesso a più parti espositive di uno stesso istituto museale, conta come un unico visitatore;
  • se una persona, con un unico biglietto, ha avuto accesso a più musei appartenenti allo stesso circuito, conta come visitatore singolo in ciascuno dei musei che ha visitato.

FONTE: elaborazione openpolis per Osservatorio Abruzzo su dati Istat
(ultimo aggiornamento: lunedì 2 Maggio 2022)

Tra il biennio 2018-19 e il 2020, i visitatori annuali sono calati dell’82,6% nei musei della provincia di Pescara, una contrazione superiore alla media nazionale (-72%) e regionale (-54,7%). Il calo è stato del 68,8% nella provincia di Chieti, mentre in quelle dell’Aquila e di Teramo la contrazione tra la media del biennio 2018-19 e il 2020 è inferiore alla media regionale.

-39,3% il calo di visitatori dei musei della provincia dell’Aquila tra 2018-19 e 2020.

Ma quali erano le performance in termini di visitatori dei musei abruzzesi prima che l’emergenza obbligasse alla chiusura delle strutture o al loro funzionamento limitato? Attraverso i dati 2018, possiamo ricostruire un quadro della situazione pre-pandemica.

Sono 66 su 305 i comuni che a quella data avevano un museo attivo sul proprio territorio, per un totale di 108 strutture complessive. I comuni con più musei censiti prima della pandemia sono Sulmona (6) e Chieti (5). Tra i capoluoghi, si segnalano Pescara (4 strutture), Teramo (2) e L’Aquila (4 strutture censite nel 2018, 5 nell’anno successivo).

 

Nel 2018 il comune che ha totalizzato più visite nei suoi musei è stato Chieti (42.866 nelle 5 strutture presenti), seguito da Civitella del Tronto (36.061 visitatori), Pescara (35.029) e Celano (24.626).

In termini di rapporto tra visitatori e musei presenti, quelli abruzzesi hanno totalizzato una media di circa 2.900 visitatori per struttura nel 2018, dato salito a 3.700 l’anno successivo e sceso sotto quota 2.000 nel 2020.

2.898 i visitatori medi di un museo abruzzese nel 2018 (media Italia: 26.210)

I 3 comuni con più visitatori medi per museo hanno tutti meno di 5.000 abitanti.

In quell’anno il comune con più visitatori per museo è stato Civitella del Tronto, con 36.061 accessi all’unica struttura presente sul territorio. Si tratta del museo delle armi e mappe antiche ospitato nella fortezza di Civitella, punto militare strategico almeno dal XII secolo. Il secondo comune per numero di visitatori medi per museo è stato Massa d’Albe. Anche qui è presente un’unica struttura che nel 2018 ha totalizzato da sola 20mila visitatori. Si tratta dell’area archeologica di Alba Fucens, una importante colonia romana nell’Italia centrale. Al terzo posto il comune di Castiglione a Casauria. Piccolo comune di 748 abitanti, qui si trova l’abbazia di San Clemente a Casauria, complesso monumentale che ha registrato 19.690 visite nel 2018.

36.061 i visitatori nel 2018 del museo abruzzese con più accessi: la fortezza e museo delle armi e delle mappe antiche di Civitella.

Tra i singoli musei, quello con più visitatori è la già citata fortezza e museo delle armi e mappe antiche a Civitella del Tronto. Al secondo posto, il Castello Piccolomini di Celano, con 23.523 visitatori. Il terzo museo abruzzese più visitato nel 2018 si trova a Pescara ed è il museo casa natale di Gabriele D’Annunzio (21.052 accessi che ne fanno il terzo museo). Seguono, con circa 20mila visite ciascuno, le già citate area archeologica di Alba Fucens e l’abbazia di San Clemente a Casauria.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati presentati derivano dall’indagine sui musei e gli istituti similari effettuata da Istat.

In base alla classificazione di Istat, “per visitatore si intende la persona che ha accesso a un museo o a un istituto museale per la fruizione dei beni e delle collezioni in esso esposte nonché di eventuali mostre e esposizioni temporanee in esso organizzate. Il numero di visitatori di un museo o istituto similare corrisponde al numero di ingressi effettuati per la visita di quel museo o istituto similare, e non al numero di persone fisiche che vi hanno avuto accesso (le quali vengono conteggiate per ogni visita effettuata), né al numero di biglietti emessi.”

Nello specifico:

  • se una persona ha avuto accesso a più parti espositive di uno stesso istituto museale, conta come un unico visitatore;
  • se una persona, con un unico biglietto, ha avuto accesso a più musei appartenenti allo stesso circuito, conta come visitatore singolo in ciascuno dei musei che ha visitato.

FONTE: elaborazione openpolis per Osservatorio Abruzzo su dati Istat
(ultimo aggiornamento: martedì 23 Marzo 2021)

Tra i 10 musei abruzzesi più visitati solo uno si trova nel capoluogo regionale.

Nel 2018 hanno totalizzato oltre 10mila visite anche due strutture di Chieti: il museo archeologico nazionale d’Abruzzo – Villa Frigerj (15.140 visitatori) e il museo La Civitella (13.240). Sopra quota 10mila anche il museo del Lupo Appenninico a Civitella Alfedena (12.538) e il museo nazionale d’Abruzzo, che si trova all’Aquila (11.378). Nella top 10 abruzzese anche il museo delle genti d’Abruzzo a Pescara (9.829 visitatori nel 2018).

52,9% dei musei abruzzesi sono gestiti da un ente locale (più della media nazionale: 46,9%).

Musei che in non pochi casi sono gestiti da comuni. Nel 2020 quasi il 53% delle strutture aperte sul territorio abruzzese erano gestite da enti locali, contro una media nazionale del 47%. Ma quanto spendono i comuni nel settore culturale?

La spesa dei comuni abruzzesi in cultura

Per valutare le politiche pubbliche intraprese da un’amministrazione locale può essere utile l’analisi dei bilanci comunali, i principali documenti che regolano i flussi economici di entrata e uscita degli enti di prossimità.

In questo senso i comuni possono allocare i fondi previsti per la cultura tra le spese, alla missione “Tutela e valorizzazione dei beni e delle attività culturali“.

Per la cultura i comuni abruzzesi spendono in media circa 32 euro pro capite in un anno.

Se guardiamo agli ultimi dati disponibili, relativi al 2020, possiamo affermare che le amministrazioni abruzzesi spendono mediamente 32,16 euro pro capite per questo ambito, un valore appena maggiore della media nazionale (27,87).

I comuni della provincia dell’Aquila sono quelli che riportano in media le somme maggiori, con 49,37 euro pro capite. Seguono quelli della provincia di Chieti (31,53), di Pescara (11,97) e di Teramo (14,85).

A leggere i bilanci è il comune di Santo Stefano di Sessanio (L’Aquila) a far registrare le uscite maggiori: 3.014,03 euro pro capite. Seguono tre località del chietino: Rosello (927,79), Montelapiano (804,95) e Colledimacine (343,65).

Il Pnrr e il futuro della cultura in regione

Entro il prossimo giugno il ministero della cultura dovrà pubblicare gli esiti di 5 diversi bandi che finanzieranno gli investimenti del Pnrr a cui abbiamo cennato in apertura.

Questi bandi riguardano rispettivamente l’attrattività dei borghi; la tutela e la valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale; l’efficientamento energetico di cinema, teatri e musei; la valorizzazione di parchi e giardini storici, e gli interventi per la sicurezza sismica.

A oggi, però, è stato pubblicato il decreto di riparto delle risorse solo per i primi due ambiti di investimento, sui borghi e sul paesaggio rurale.

Complessivamente, per queste due misure, all’Abruzzo andranno oltre 30 milioni sui circa 1,6 miliardi previsti per borghi e valorizzazione di architettura e paesaggio rurale.

32 milioni di euro dovrebbero essere assegnati all’Abruzzo per i due ambiti di investimento sull’attrattività dei borghi e sulla tutela e valorizzazione dell’architettura e paesaggio rurale.

In questo senso l’Abruzzo figura agli ultimi posti, se confrontata con le altre regioni italiane. Solo il Molise, la Valle d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano, infatti, risultano beneficiarie di una quota inferiore di risorse.

Si tratta però di dati da prendere con le dovute cautele. Non si tratta infatti di risorse già effettivamente assegnate. Molto dipenderà dalla qualità delle proposte presentate da ogni singolo territorio. Se non sarà giudicato ammissibile a finanziamento un numero adeguato di proposte, la ripartizione territoriale delle risorse potrebbe anche variare.

Come seguire Osservatorio Abruzzo

Osservatorio Abruzzo è un progetto di Fondazione openpolis, EtipublicaFondazione HubruzzoGran Sasso Science Institute StartingUp. Per seguire gli aggiornamenti del nostro monitoraggio puoi iscriverti alla nostra newsletter dedicata. Ti invieremo una news, di lunedì, ogni due settimane. Riceverai articoli, dati, grafici e mappe liberamente utilizzabili per promuovere un dibattito informato.

Foto: castello Piccolomini di Celano (Pietro Battistoni – licenza)

L’importanza di un sistema idrico efficiente Ambiente

L’importanza di un sistema idrico efficiente Ambiente

L’acqua potabile è una risorsa fondamentale per la nostra sopravvivenza, ma esauribile. L’Italia è il secondo paese Ue che ne estrae di più per uso pubblico quotidiano, ma nei centri abitati oltre un terzo va perso a causa di problemi tecnici del sistema idrico.

 

Essenziale per la nostra sopravvivenza, l’acqua potabile non è una risorsa inesauribile né equamente distribuita tra la popolazione globale.

Per questo è cruciale in paesi come il nostro, che hanno meno problemi di approvvigionamento rispetto ad altri, evitarne il più possibile gli sprechi. Uno dei passi fondamentali in questo senso è rendere più efficienti i servizi idrici, ancora oggi caratterizzati da notevoli perdite di acqua – con danni sia ambientali che economici.

Un bene essenziale

L’acqua potabile è necessaria per la vita sulla Terra, e la possibilità di accedervi è considerato un diritto fondamentale di ogni essere umano.

L’acqua dovrebbe essere sicura, economica e accessibile per tutti.

Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua è uno dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite. Il traguardo da raggiungere è che l’acqua sia sicura (non contaminata), economica e accessibile. Ma è importante anche il livello infrastrutturale, che deve garantire una gestione del sistema idrico efficiente, sostenibile e di qualità. Un obiettivo quest’ultimo che risulta particolarmente rilevante nel nostro paese che, a differenza di molte aree del sud globale, non ha gravi problemi di approvvigionamento idrico o di scarsa salubrità dell’acqua.

Va inoltre sottolineato che negli ultimi decenni la disponibilità di acqua potabile è diminuita drasticamente anche a causa dell’aumento delle temperatura e della siccità, correlati al processo di cambiamento climatico in corso. Per questo è ancora più cruciale evitare gli sprechi.

152,4 metri cubi (m3) pro capite di acqua sono estratti ogni giorno per uso pubblico in Italia (2018).

Secondo i dati Eurostat, l’Italia è uno dei paesi Ue che fa il maggior uso di acqua potabile in rapporto alla popolazione residente.

Da questo punto di vista il nostro paese è secondo soltanto alla Grecia, che nel 2018 estraeva circa 157 metri cubi di acqua per persona ogni giorno. Mentre all’ultimo posto troviamo Malta, con meno di 30 m3 per abitante, seguita dai paesi baltici, che riportavano cifre comprese tra i 49 e 44 metri cubi giornalieri.

Il dato italiano è molto elevato anche se paragonato a quello degli altri grandi paesi dell’Unione. Risulta infatti significativamente più alto rispetto a quello spagnolo (105,3 m3 pro capite), quasi doppio rispetto a quello francese (80,7) e più che doppio rispetto al dato tedesco (63,3).

Se poi approfondiamo il dato a livello locale, la situazione interna alla penisola risulta piuttosto eterogenea.

 

Tra i comuni monitorati da Istat, sono 5 quelli in cui ogni giorno vengono fatturati più di 200 litri di acqua per persona per uso domestico. Tra questi il primo in assoluto è Milano, con 265 litri pro capite. Seguono Catanzaro, con 236 litri giornalieri, e Monza e Cosenza, entrambe con 225.

Mentre l’ultima città sotto questo aspetto è Siena, la sola a registrare un dato inferiore ai 100 litri pro capite (77).

Il ruolo cruciale del sistema idrico

I dati relativi all’estrazione e alla fatturazione di acqua nel nostro paese sono elevati, e l’obiettivo di ridurli va perseguito sicuramente adottando anche una serie di strategie a livello domestico. Tuttavia, ancora più urgente è assicurarsi che lo spreco non sia strutturale, ovvero causato da malfunzionamenti dello stesso sistema idrico.

Le perdite idriche sono causate da malfunzionamenti strutturali.

Con perdita idrica si intende la differenza in percentuale tra l’acqua immessa e l’acqua erogata, ovvero tutta quella parte di risorse che va persa per problemi tecnici nella gestione del sistema. Le perdite idriche non costituiscono soltanto un problema a livello ambientale, in quanto comportano lo spreco di una risorsa fondamentale ed esauribile, ma anche economico.

36,2% dell’acqua potabile immessa in rete va persa nei capoluoghi di provincia e città metropolitane del nostro paese, secondo i dati Istat (2020).

Già dal 2006, con il decreto legislativo 152, sono state introdotte in Italia misure per il risparmio idrico che prevedevano un miglioramento delle strutture. Un ruolo cruciale in questo senso è rivestito dai comuni, come abbiamo raccontato in un recente approfondimento, i quali sono responsabili delle spese legate alla fornitura di acqua potabile, ai controlli sulla qualità del servizio idrico e alla manutenzione.

Il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha previsto degli investimenti in questo settore, per rendere più efficiente il sistema e ridurre gli sprechi. Da una parte tramite la digitalizzazione e il monitoraggio delle reti idriche, dall’altra con riducendo le perdite, che nel nostro paese ancora costituiscono un problema di grande portata.

900 milioni di euro, i fondi del Pnrr stanziati per il servizio idrico integrato.

Tra i comuni italiani più popolosi (con una popolazione residente superiore ai 200mila abitanti), Messina è il primo per perdite idriche, con una quota pari a oltre il 52%. E anche a Prato e Catania si perde oltre la metà dell’acqua immessa.

 

Foto: Il Gelo – licenza

 

I centri di elaborazione dati, un rischio per l’ambiente Europa

I centri di elaborazione dati, un rischio per l’ambiente Europa

In un mondo fortemente digitalizzato, molti settori e attività dipendono dall’elaborazione di grandi quantità di dati. Le strutture che li elaborano – i cosiddetti data center – consumano però molta energia e, considerata la crescita del settore, costituiscono una minaccia ambientale.

 

data center, o centri di elaborazione dati, sono delle infrastrutture fisiche in cui vengono immagazzinate molte delle informazioni prodotte nel mondo digitale. La domanda di tali impianti ha visto una crescita straordinaria negli ultimi anni.

Si tratta però di un business comporta una serie di rischi, in primis in termini di sostenibilità energetica e ambientale.

L’elaborazione dati, un’esigenza del mondo digitale

In un periodo storico fortemente digitalizzato, in cui piattaforme e reti sociali sono presenti in modo capillare, controllo e gestione dei dati sono diventati elementi centrali della strategia commerciale delle aziende tecnologiche. Ma questi non sono gli unici soggetti interessati. Banche, assicurazioni, società di videogiochi, il settore delle criptovalute e altri sempre più digitalizzati come quello sanitario dipendono fortemente dall’elaborazione di grandi quantità di dati. Per controllare e gestire tali processi sono essenziali i cosiddetti “data center”.

I centri di elaborazione dati consumano più di alcuni paesi.

I centri di elaborazione dati sono strutture composte da hardware estremamente pesanti che hanno un consumo energetico globale che supera quello di interi paesi come l’Indonesia o il Sudafrica. Si tratta degli spazi fisici da cui dipende internet. Nonostante la centralità di tali strutture, si sa ancora poco sulla localizzazione e sull’impatto energetico e ambientale generato da tale settore, che oltretutto ha registrato durante la pandemia da Covid-19 un nuovo impulso.

Secondo Cloudscene, un fornitore di servizi di cloud australiano, ci sono attualmente quasi 2mila data center nei 27 paesi dell’Unione europea. A cui ne vanno aggiunti altri 596, situati in paesi vicini come Regno Unito, Norvegia e Svizzera.

La Germania, con più di 480 strutture, è il paese Ue che registra il maggior numero di data center. Ma è importante evidenziare che non tutti i centri di elaborazione dati hanno le stesse dimensioni, e oltretutto il loro numero non è sempre proporzionale al peso demografico o economico del paese nel quale si trovano. I Paesi Bassi ad esempio, con una popolazione che è meno di un quarto di quella tedesca, ospitano circa 280 strutture, la maggior parte delle quali si trova ad Amsterdam.

La capitale olandese, insieme ad altre città come Londra, Parigi e Francoforte, è diventata uno dei principali poli europei per questo settore nascente. Altre città dove assistiamo ad aumento di data center sono Madrid, Monaco e Milano, tutte con più di 50 strutture.

Anche se l’Europa non è ancora al livello del nord America – Stati Uniti e Canada contano, insieme, oltre 3.000 strutture – non c’è dubbio che i data center rappresentino già un’attività importante nel settore tecnologico.

Ma anche in Europa come nel continente nordamericano gli investimenti nei data center sono aumentati considerevolmente negli ultimi tempi, secondo le analisi di ReportLinker.

58% l’aumento degli investimenti nei centri di elaborazione dati in Ue, secondo ReportLinker (2021).

Il consumo di energia: una minaccia per l’ambiente

I data center richiedono grandi quantità di energia per funzionare, ma anche per raffreddare i loro sistemi. Vista la rapida crescita del settore negli ultimi anni, sono diverse le organizzazioni e le istituzioni che hanno espresso preoccupazione per l’impatto di queste infrastrutture, che consumano da 10 a 100 volte più energia di un edificio commerciale di dimensioni simili.

Non ci sono dati precisi sulla localizzazione dei data center e sul loro consumo energetico.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), alla fine del 2019 i data center erano responsabili di circa l’1% del consumo globale di energia. Un dato che però non considera il mining di criptovalute, altro settore che si appoggia enormemente su server e hardware per l’archiviazione dei dati. Il problema è che, come per il numero e l’ubicazione dei data center, non esistono misurazioni ufficiali e aggiornate del consumo energetico effettivo di queste strutture in Europa.

A livello Ue, una delle ultime stime pubblicata in un rapporto del 2020 della Commissione europea, ha indicato che il consumo dei data center in Unione europea è cresciuto di quasi il 42% tra il 2010 e il 2018. Cifre che rappresentano il 2,8% di tutta la domanda energetica della regione. Per quanto riguarda l’impatto ambientale, il rapporto ha notato che, nonostante l’assenza di dati precisi, i data center potrebbero emettere tra lo 0,4% e lo 0,6% del totale dei gas serra generati nell’Ue.

1% di tutta l’energia globale è consumata solo dai data center, secondo le stime Aie (2019).

L’European Green Deal e la crescita esponenziale dei data center

Anche se la preoccupazione delle istituzioni europee per la sostenibilità dei data center risale almeno al 2008, è solamente dal lancio del green deal europeo nel 2019 che si è cominciato a pensare a una vera regolamentazione del settore.

Di conseguenza, le piattaforme che riuniscono i grandi operatori di centri europei di elaborazione dati hanno iniziato a muoversi. Nel gennaio 2021, 25 aziende – tra cui giganti come Amazon e Google, ma anche grandi attori del mercato europeo come Equinix e Interxion – hanno lanciato il Climate neutral data centre pact, una sorta di accordo sul clima per preparare la strada prima di un possibile inasprimento delle regole Ue. Promettendo di ridurre le emissioni, fino a raggiungere la neutralità climatica nel 2030. Un tipo di iniziativa che ha numerosi precedenti in vari settori commerciali.

Al momento, la crescita è esponenziale. Secondo uno studio di Eirgrid, la compagnia pubblica di elettricità irlandese, nel 2028 i centri di elaborazione dati assorbiranno circa il 30% della domanda energetica del paese. Mentre uno studio del Danish council on climate change sostiene che i data center faranno aumentare il consumo totale di energia della Danimarca del 17% nei prossimi 10 anni.

European data journalism network, i dati nel resto dell’Europa

Openpolis fa parte dell’European data journalism network, una rete di realtà che si occupano di data journalism in tutta Europa. La versione originale di questo articolo è di El orden mundial, un giornale europeo, ed è partner di Edjnet. I dati relativi ai centri di elaborazione dati presenti in Europa sono disponibili qui.

 

Foto: Taylor Vick – licenza

 

I sussidi per l’abitazione nelle amministrazioni al voto Bilanci dei comuni

I sussidi per l’abitazione nelle amministrazioni al voto Bilanci dei comuni

I comuni gestiscono il sistema dell’edilizia pubblica abitativa ed erogano dei contributi per i pagamenti sulle case di proprietà. Si tratta di spese che ritroviamo nei bilanci.

 

Il diritto all’abitazione è stato sancito per la prima volta nella Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo. Attraverso la gestione del sistema delle case popolari e l’elargizione di sussidi, i comuni possono contribuire a garantire questo diritto ai più indigenti. Le spese vengono poi iscritte a bilancio in una voce dedicata.

Il sostegno delle amministrazioni è uno dei possibili interventi per aiutare chi è in condizioni di povertà. Tra le persone marginalizzate, il caso limite è quello di chi non ha una casa. Questo è un fenomeno complesso da misurare, anche per la difficoltà nell’iscrizione ai registri anagrafici che permette di godere di determinati diritti civili e sociali fondamentali per la vita di un cittadino.

Nel dettaglio, la legge 94/2009 afferma che per chi non ha fissa dimora esiste un apposito registro nazionale in cui iscrivere il comune in cui la persona gravita maggiormente oppure il comune di nascita della persona. Questa iscrizione avviene attraverso l’istituzione di una via fittizia come stabilito da una circolare Istat.

L’ultima rilevazione ufficiale riguardante le persone senza dimora è stata fatta nel 2015. È stato fatto uno studio campionario su 158 comuni italiani intercettando le persone che hanno usufruito almeno una volta nel periodo di indagine (tra novembre e dicembre del 2014) del servizio mensa oppure dell’accoglienza notturna.

50.274 le persone senza fissa dimora che hanno utilizzato un servizio di mensa o accoglienza notturna tra novembre e dicembre 2014, secondo le stime di Istat.

Di queste, l’85,7% sono uomini, il 58,2% è straniero e il 76,5% vive da solo.

Nel 2014, le aree in cui si concentrava il maggior numero di persone senza dimora erano il nord-ovest (38%) e il centro (23,7%). Seguono nord-est (18%), sud (11,1%) e isole (9,2%). Complessivamente, nel nord c’erano il 56% delle persone senza dimora e nel mezzogiorno il 20,3%. Tra il 2011 e il 2014 c’è stato un incremento di quasi un punto percentuale nel centro e di due punti e mezzo nelle isole.

Oltre a trattarsi di stime, i dati di Istat si riferiscono a un periodo risalente a qualche anno fa. Oggi, complici le crisi che si sono susseguite (non ultima la pandemia), le rilevazioni potrebbero presentare dati anche peggiori.

Per andare incontro a queste e ad altre persone in condizioni di povertà materiale, molti enti privati e pubblici possono mettere in atto degli interventi specifici. Quelli dei comuni rientrano all’interno di una specifica voce del bilancio.

Le spese per il diritto alla casa

Nella missione di spesa dedicata ai diritti e alle politiche sociali, c’è una voce specifica per gli interventi per il diritto alla casa. Si includono qui gli aiuti per le famiglie per il pagamento di ipoteche o di interessi sulle case di proprietà. Sono comprese anche le uscite legate all’assegnazione degli alloggi economici e popolari.

Non sono considerate le spese per la progettazione, la costruzione e il mantenimento di suddetti alloggi. Queste operazioni infatti sono comprese nella missione dedicata all’assetto del territorio e all’edilizia abitativa pubblica.

Analizzeremo ora le uscite per questo ambito nei comuni prossimi alle elezioni amministrative di giugno 2022. Si parla del rinnovo dei consigli comunali di 979 enti locali, tra cui 26 capoluoghi di provincia e 4 di regione. Sono quindi numerose le comunità interessate, che compongono il 17,4% della popolazione italiana.

Considerando i capoluoghi al voto, quello che spende di più per i sussidi legati al diritto alla casa è Lucca con 43,59 euro pro capite. Seguono Frosinone (27,87), Genova (24,67) e Padova (19,70). Al contrario, Taranto (1,76), Viterbo (0,30) e Palermo (0,16) sono le città in cui le uscite sono minori. Non sono riportate spese per questa voce nei bilanci di Barletta e L’Aquila.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa della voce “interventi per il diritto alla casa”. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Non è disponibile il dato di Lodi perché alla data di pubblicazione non risultano accessibili i bilanci consuntivi 2016. Non sono inclusi i dati di Barletta e L’Aquila dal momento che non riportano spese nella voce considerata sia nei bilanci del 2016 che del 2020.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2016-2020
(ultimo aggiornamento: giovedì 19 Maggio 2022)

 

Il comune che riporta la variazione più ampia in termini di euro pro capite è Frosinone (+15,4). Seguono Genova (+14,44 euro pro capite), Oristano (+9,06) e Padova (+8,56). Al contrario, i capoluoghi in cui si spende di meno tra il 2016 e il 2020 sono Como (-4,52 euro pro capite), Viterbo (-6,88) e Asti (-8,03).

Considerando gli enti locali prossimi alle elezioni, la città di Lucca è quella in cui spende di più per questa voce di bilancio. Seguono Monfalcone (Gorizia, 42,95 euro pro capite), Riccione (Ravenna, 39,59) e Aulla (Massa-Carrara, 37). Andando invece a includere tutte le amministrazioni italiane, è Baradili, un piccolo comune in provincia di Oristano, quello in cui le uscite sono maggiori (250 euro pro capite). È seguito da Siziano (Pavia, 94,61), Sogliano al Rubicone (Forlì-Cesena, 91,59) e Spoleto (Perugia, 90,41).

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto credit: igor – licenza

 

Il governo è ancora alle prese con la questione dei decreti attuativi

Il governo è ancora alle prese con la questione dei decreti attuativi

Nonostante l’impegno su questo fronte, i ministeri ancora faticano a smaltire le attuazioni a loro carico. Per questo sono state introdotte delle nuove modalità operative mirate a velocizzare ulteriormente le procedure.

Fin dal suo insediamento, il governo Draghi ha riposto una grande attenzione nel cercare di risolvere l’annoso problema dei cosiddetti decreti attuativi. Quelle norme di secondo livello cioè che contengono indicazioni operative di dettaglio indispensabili per l’applicazione pratica delle disposizioni stabilite da leggi, decreti legge e decreti legislativi.

Negli ultimi anni, specie dopo l’esplosione della pandemia, il ricorso a questo tipo di atti si è fatto più consistente e i vari esecutivi che si sono succeduti hanno faticato nel pubblicare tutte le attuazioni richieste in tempi ragionevoli. Proprio per questo motivo il governo nel 2021 aveva annunciato l’introduzione di un nuovo modello operativo che prevedeva, tra le altre cose, l’assegnazione di specifici obiettivi di produzione per ogni ministero.

Il fine era non solo smaltire velocemente i provvedimenti attuativi legati alle misure varate dall’attuale esecutivo ma anche recuperare l’arretrato ereditato dai governi Conte e anche, addirittura, dalla XVII legislatura. Purtroppo, nonostante gli sforzi profusi, il numero di decreti attuativi che ancora oggi manca all’appello rimane molto consistente.

510  i decreti attuativi ancora da pubblicare.

Inoltre, come evidenziato in una relazione del sottosegretario alla presidenza del consiglio Roberto Garofoli, molti dicasteri faticano a rispettare gli obiettivi loro assegnati. Anche per questo motivo sono state introdotte ulteriori linee guida mirate alla velocizzazione del processo di pubblicazione delle attuazioni mancanti.

La situazione a maggio 2022

Ma qual è quindi lo stato dell’arte a proposito dei decreti attuativi? Grazie ai dati messi a disposizione dall’ufficio per il programma di governo (Upg) possiamo osservare che, alla data del 23 maggio, le attuazioni richieste per le norme pubblicate nella XVIII legislatura sono 1.656, di cui 510 ancora da pubblicare. Parliamo di oltre il 30% rispetto al totale di quelle richieste.

Confrontando i dati con il nostro ultimo aggiornamento si nota una riduzione nelle attuazioni mancanti. I decreti ancora da emanare infatti erano 556 a marzo. Ciò nonostante che, nello stesso periodo, il numero totale di decreti attuativi richiesti sia aumentato (erano 1.611) in virtù dell’entrata in vigore di nuove norme di primo livello.

-3,8  la riduzione, in punti percentuali, delle attuazioni mancanti rispetto al dato di marzo.

Se ci focalizziamo esclusivamente sulle misure varate dall’attuale esecutivo, possiamo osservare come ancora manchi all’appello circa il 50,6% dei decreti attuativi richiesti. Anche in questo caso però il trend risulta in significativa diminuzione rispetto al nostro ultimo aggiornamento (era al 57,2%).

Gli atti e i ministeri più coinvolti

Nonostante si tratti certamente di un risultato positivo, il fatto che circa un terzo dei decreti attuativi ancora non sia stato pubblicato rappresenta un problema non di poco conto. Senza questi atti infatti non è possibile, ad esempio, erogare risorse già stanziate a favore di cittadini, istituzioni e imprese. Proprio perché le attuazioni vanno a definire nel dettaglio a chi devono andare i fondi e come devono essere erogati.

Spesso leggi e decreti non sono immediatamente eseguibili. Devono essere definiti aspetti pratici, burocratici e tecnici. Elementi indicati nei decreti attuativi, affidati principalmente ai ministeri. Vai a “Che cosa sono i decreti attuativi”

Ma di che tipo di atti stiamo parlando? Anche in questo caso il portale creato dall’Upg ci viene in aiuto. In base ai dati disponibili sappiamo che la stragrande maggioranza delle attuazioni richiede la pubblicazione di decreti ministeriali o interministeriali. Se a questi aggiungiamo anche i decreti del presidente del consiglio dei ministri (Dpcm) vediamo che le attuazioni che fanno capo a organi diretta emanazione dell’esecutivo rappresentano il 92,5% del totale. Di questa porzione, sono 474 quelli che ancora mancano all’appello.

Sostanzialmente tutti i ministeri sono incaricati della pubblicazione di alcuni decreti attuativi ma il carico di lavoro non è uguale per tutti. Da questo punto di vista il dicastero con il maggior numero di attuazioni a carico è quello dell’economia (240). Seguono il ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (151) e il ministero dell’interno (143). Prendendo in considerazione i 15 dicasteri a cui è richiesto il maggior numero di attuazioni, possiamo osservare che quello con il più alto numero di atti ancora da emanare è il ministero della transizione ecologica (74), seguito proprio dal Mef (64) e dal Mims (58).

Se però consideriamo la percentuale di attuazioni mancanti rispetto al totale di quelle richieste la situazione cambia leggermente. Al primo posto in questo caso troviamo ancora il Mite con il 65,5% di attuazioni che ancora mancano all’appello. C’è poi solo un’altra struttura con una percentuale di attuazioni ancora da pubblicare superiore al 50%. Si tratta del dipartimento dello sport (55,6%). Seguono, ma molto distanziati, il ministero della salute (38,5%) e quello delle infrastrutture (3,4%).

L’attività del governo nel primo trimestre del 2022

Fin qui ci siamo soffermati sullo stato dell’arte ma cosa possiamo dire invece sull’attività svolta dall’attuale governo su questo fronte? Da questo punto di vista il documento più recente disponibile è la già citata relazione del sottosegretario Roberto Garofoli che si focalizza su quanto fatto fino al 31 marzo. Il documento in particolare sottolinea il grande impegno profuso dall’esecutivo su questo fronte. Dal 13 febbraio 2021 (data di insediamento del governo Draghi) sono stati “smaltiti” complessivamente 955 provvedimenti attuativi, comprensivi anche di quelli richiesti da norme varate nella precedente legislatura.

Più nello specifico, 291 dei decreti attuativi smaltiti fanno riferimento a disposizioni entrate in vigore con l’attuale governo. Sono invece 461 quelli “ereditati” dai due esecutivi che hanno caratterizzato la prima parte della XVIII legislatura. Invece 203 risalgono al quinquennio 2013-2018.

La relazione di Garofoli evidenzia inoltre l’aumento della produttività delle diverse amministrazioni coinvolte rispetto alle esperienze dei governi Conte I e II. Nel primo caso infatti le attuazioni pubblicate ammontavano a 349 in un anno e tre mesi di attività. Dato simile anche per il secondo governo Conte che ha emanato 362 attuazioni in un anno e cinque mesi.

73,5 i decreti attuativi pubblicati in media ogni mese dal governo Draghi.

Facendo un confronto a livello di dati medi possiamo osservare che l’esecutivo attualmente in carica ha pubblicato in media 73,5 decreti attuativi al mese. Il Conte I invece 23,3, il Conte II 21,3.

La performance dei ministeri tra gennaio e marzo 2022

Nonostante questi dati incoraggianti, dall’analisi del documento presentato da Garofoli emerge che nel periodo gennaio-marzo 2022 le amministrazioni, considerate complessivamente, non hanno raggiunto gli obiettivi assegnati. Nel primo trimestre dell’anno infatti i ministeri avevano il compito di emanare complessivamente 295 decreti attuativi. L’obiettivo è stato conseguito al 77%. In base ai dati disponibili infatti possiamo osservare che per il mese di gennaio le amministrazioni hanno smaltito complessivamente 62 provvedimenti rispetto ai 100 previsti, a febbraio 80 su 100 mentre a marzo 85 su 95.

77% il tasso di adozione dei decreti attuativi rispetto agli obiettivi fissati dal governo nel periodo gennaio-marzo 2022.

Per quanto riguarda i singoli dicasteri a cui era stato assegnato un target si evidenzia che solo 7 ha raggiunto e/o superato l’obiettivo previsto. Si tratta in particolare dei ministeri della cultura, dell’università e ricerca, delle politiche giovanili, degli esteri, della difesa, dell’istruzione e della salute. Ci sono poi 12 amministrazioni che invece hanno raggiunto o superato l’obiettivo in almeno uno dei 3 mesi considerati.

GRAFICO
DA SAPERE

Il grafico mostra la percentuale di raggiungimento del target assegnato per lo smaltimento delle attuazioni per ogni ministero. Dove la percentuale è superiore al 10%% significa che sono stati smaltiti più decreti attuativi rispetto a quelli richiesti. Con il termine smaltiti ci si riferisce al fatto che non tutte le attuazioni richieste sono poi state effettivamente emanate. In alcuni casi infatti il provvedimento richiesto è stato giudicato come non più necessario visto il mutamento del quadro normativo a cui faceva riferimento. Il ministero per il sud, quello per la disabilità e quello per i rapporti con il parlamento non avevano obiettivi assegnati.

FONTE: elaborazione openpolis su dati sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri
(ultimo aggiornamento: lunedì 23 Maggio 2022)

Infine 3 ministeri non sono stati in grado di raggiungere mai gli obiettivi assegnati. Si tratta del ministero della giustizia, di quello delle politiche agricole e di quello delle infrastrutture. Particolarmente rilevante il dato del Mims al quale era richiesta la pubblicazione di 38 decreti attuativi (il secondo obiettivo più alto dopo quello del Mef che ne aveva 41) di cui solamente 21 sono stati effettivamente emanati.

Nuove modalità operative

A oggi la proliferazione dei decreti attuativi rimane un problema nonostante sia stato chiesto a più riprese di limitare l’eccessivo ricorso a questo tipo di atti, approvando quindi dei provvedimenti che possano essere immediatamente applicabili. Basti pensare che solamente le norme varate nel 2022 richiedono 123 attuazioni. Dato che sale a 275 se nel conteggio si considera anche la legge di bilancio per il 2022, approvata il 30 dicembre scorso e che da sola necessita di 152 attuazioni. Si tratta del valore più alto mai registrato per una legge di questo tipo, secondo la relazione di Garofoli.

L’eccessivo ricorso ai decreti attuativi rende complicato smaltirli.

Da questo punto di vista si evidenzia in particolare il ruolo del parlamento. Spesso infatti deputati e senatori, attraverso i loro emendamenti, inseriscono nuove disposizioni a quelle già previste dal governo. In molti casi però le aggiunte dei parlamentari rimandano proprio ad atti di secondo livello per individuare le modalità più appropriate per l’attuazione della norma introdotta. Da questo punto di vista la relazione di Garofoli cita l’esempio delle conversione dei decreti legge varati dal governo. Successivamente alla conclusione dell’iter parlamentare infatti, le disposizioni di secondo livello richieste sono passate da 172 a 322.

Come variano i decreti attuativi richiesti dai decreti legge del governo Draghi dopo l’intervento del parlamento

Decreto legge Denominazione sintetica Provvedimenti attuativi previsti dal decreto- legge Provvedimenti attuativi previsti dalla Legge di conversione Differenza
L. 55/2021 D.L. 22/2021 Riordino attribuzioni dei ministeri 9 10 1
L. 69/2021 D.L. 41/2021 COVID-19 – Decreto Sostegni 17 32 15
L. 76/2021 D.L. 44/2021 COVID-19 – Disposizioni in materia di vaccinazioni, giustizia e concorsi pubblici 2 3 1
L. 101/2021 D.L. 59/2021 COVID-19 – Fondo complementare al Pnrr 0 5 5
L. 106/2021 D.L. 73/2021 COVID-19 – Decreto Sostegni-bis 42 86 44
L. 108/2021 D.L. 77/2021 Governance del Pnrr, misure di rafforzamento delle struttureamministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure 18 30 12
L. 109/2021 D.L. 82/2021 Cybersicurezza 8 9 1
L. 113/2021 D.L. 80/2021 Rafforzamento delle pubbliche amministrazioni per l’attuazione del Pnrr 13 17 4
L. 125/2021 D.L. 103/2021 Tutela vie d’acqua di interesse culturale, salvaguardia di Venezia e tutela del lavoro 3 5 2
L. 133/2021 D.L. 111/2021 COVID-19 – Sicurezza delle attività scolastiche e dei trasporti 0 1 1
L. 147/2021 D.L. 118/2021 Crisi d’impresa e giustizia 0 1 1
L. 155/2021 D.L. 120/2021 Decreto incendi 1 2 1
L. 156/2021 D.L. 121/2021 Pnrr – Decreto Infrastrutture e mobilità sostenibili 7 23 16
L. 171/021 D.L. 130/2021 Decreto energia 0 1 1
L. 205/2021 D.L. 139/2021 Decreto capienze 2 4 2
L. 215/2021 D.L. 146/2021 Decreto fiscale 6 13 7
L. 233/2021 D.L. 152/2021 Attuazione del Pnrr e prevenzione infiltrazioni mafiose 23 36 13
L. 11/2022 D.L. 221/2021 COVID-19 – Proroga dello Stato di emergenza e ulteriori misure per il contenimento
dell’epidemia
1 4 3
L. 15/2022 D.L. 228/2021 Decreto proroghe 1 9 8
L. 18/2022 D.L. 1/2022 COVID-19 – Misure per fronteggiare l’emergenza nei luoghi di lavoro e nelle
scuole
1 2 1
L. 25/2022 D.L. 4/2022 COVID-19 – Sostegno attività economiche e servizi sanitari e territoriali e contrasto
rincari settore elettrico
18 29 11
Totale 172 322 150

Aggiornamento al 31 marzo 2022 

150 i decreti attuativi aggiuntivi richiesti dai decreti legge varati dal governo Draghi a seguito dell’iter di conversione.

Questo dato non deve sorprendere. La presentazione di emendamenti alle iniziative legislative del governo rappresenta infatti uno dei pochi momenti in cui i parlamentari hanno la possibilità di avere voce in capitolo. Ne abbiamo parlato anche recentemente a proposito dei voti sulla guerra in Ucraina.

Vista la grande difficoltà nel tenere il passo con l’enorme quantità di attuazioni richieste apprendiamo, sempre dalla relazione di Garofoli, che nella conferenza dei capi di gabinetto del 9 febbraio scorso sono state introdotte delle nuove modalità operative volte a velocizzare ulteriormente le procedure.

L’elevato numero dei provvedimenti da adottare unitamente all’entrata in vigore di nuove disposizioni primarie determina un costante e progressivo aumento dei provvedimenti attuativi con la conseguenza che l’impegno del Governo per smaltire i provvedimenti attuativi deve proseguire ancora in modo più intenso e senza soluzione di continuità.

In particolare, per quanto riguarda la pubblicazione di quelle attuazioni che richiedono il concerto di più amministratori è stato disposto che sia data priorità a quelle previste per il raggiungimento del target del mese di riferimento. Inoltre è stata rinnovata la richiesta di “prestare particolare attenzione” alla fissazione dei termini per l’adozione dei provvedimenti di secondo livello. Come noto infatti in alcuni casi, la disposizione normativa può anche prevedere un tempo limite entro cui il decreto attuativo debba essere pubblicato. La richiesta in questo caso è stata quella di prevedere tempi ragionevoli per l’adozione dei provvedimenti.

L’elemento forse più rilevante di queste nuove modalità operative però è stata la richiesta, fatta a tutte le amministrazioni, di stilare un cronoprogramma per l’azzeramento degli stock di decreti attuativi entro la fine dell’anno (ad eccezione di quelli con termine successivo al 2022). Un obiettivo piuttosto ambizioso che però, come abbiamo appena visto, se non sarà accompagnato da una drastica riduzione del ricorso a questo tipo di atti sarà molto difficile da raggiungere.

Foto: palazzo Chigi – Licenza

L’abbandono implicito di chi finisce la scuola senza competenze adeguate #conibambini

L’abbandono implicito di chi finisce la scuola senza competenze adeguate #conibambini

In Italia circa il 13% dei giovani tra 18 e 24 anni ha lasciato la scuola prima del tempo. Ma si tratta solo della forma esplicita di abbandono. La quota sale di quasi 10 punti se si somma la dispersione implicita di chi finisce la scuola senza le competenze di base minime.

 

Si avvicina la conclusione della scuola e si entra nel periodo degli esami, per le ragazze e i ragazzi all’ultimo anno di scuola. Un passaggio importante: in attesa di sapere con precisione quanti saranno quest’anno a svolgere la prova di maturità, possiamo dire che l’anno scorso gli studenti iscritti agli esami sono stati circa 540mila.

Nel 2021 era stato poi effettivamente ammesso il 96,2% dei frequentanti e si è diplomato il 99,8% di chi ha sostenuto le prove. Un passaggio mancato per ragazze e ragazzi che hanno lasciato la scuola prima del tempo.

12,7% i giovani 18-24 anni che hanno lasciato i percorsi di istruzione e formazione con al massimo la licenza media (2021).

Dati che ci ricordano l’impatto della dispersione scolastica esplicita (l’abbandono precoce degli studi vero e proprio) e quello – spesso sottovalutato – della dispersione implicita. Parliamo di chi, pur completando il percorso di istruzione, non raggiunge un livello di competenze adeguato.

Due forme diverse di dispersione scolastica

Nel nostro paese la quota di abbandoni scolastici espliciti è progressivamente diminuita negli ultimi anni. Anche sulla scorta degli obiettivi europei fissati nell’ambito dell’agenda Europa 2020, la quota di giovani che hanno lasciato la scuola prima del tempo è passata dal 17,8% del 2011 a circa il 13% attuale.

Nel decennio scorso l’Unione europea aveva fissato come obiettivo che – entro il 2020 – i giovani europei tra 18 e 24 anni senza diploma superiore (o qualifica professionale) fossero meno del 10% del totale. Vai a “Che cos’è l’abbandono scolastico”

Un miglioramento netto, che ha consentito di raggiungere l’obiettivo nazionale (16%), sebbene la soglia del 10% fissata in sede Ue resti ancora lontana. Un target che peraltro è stato reso ancora più sfidante nel febbraio 2021. In vista del 2030, infatti, le istituzioni europee hanno deciso di abbassarlo ulteriormente di un punto (9%).

Tuttavia, la quota di giovani senza diploma non è l’unico parametro attraverso cui valutare l’impatto della dispersione scolastica. Di fianco ad essa è importante considerare anche la percentuale di chi, pur concludendo formalmente il proprio percorso scolastico, non ha raggiunto le competenze minime necessarie.

9,5% gli studenti che nel 2021 hanno concluso la scuola superiore con competenze di base inadeguate (+2,5 punti in più rispetto al 2019).

Se all’abbandono esplicito rilevato nel 2020 si somma quello “implicito” di chi termina la scuola con un livello di apprendimenti insufficiente (rilevato da Invalsi a partire dai dati delle prove all’ultimo anno di istruzione), il tasso di dispersione scolastica complessiva sale di quasi 10 punti.

Un dato – quello della dispersione implicita – che mostra un aumento negli anni successivi alla pandemia, come rilevato da Invalsi attraverso i dati dei test:

Analizzando i risultati delle prove Invalsi si osserva che nel 2021 in Italia il 9,5% degli studenti termina la scuola secondaria di secondo grado con competenze di base decisamente inadeguate, 2,5 punti in più rispetto al 2019.

Tale fenomeno ha un impatto anche sulle disuguaglianze territoriali. I dati relativi alle prove 2021, disaggregati su base comunale, mostrano come siano soprattutto le città e i territori del mezzogiorno a restare indietro.

Isolando i 100 comuni che nei test di italiano 2020/21 hanno raggiunto i punteggi più elevati tra gli studenti dell’ultimo anno, ben 90 si trovano nell’Italia settentrionale. In particolare 54 nel nord-ovest e 36 nel nord-est. Sono 7 quelli collocati nell’Italia centrale, mentre 2 si trovano al sud e 1 nelle isole.

3% dei comuni con i punteggi Invalsi migliori si trovano nel mezzogiorno.

Ai primi posti quasi solo comuni dell’Italia settentrionale.

I territori con più comuni che si collocano ai primi 100 posti sono la provincia di Bergamo (9 comuni), seguita da Trento (6), Brescia (6) e Treviso (5). Si piazzano nella classifica con 4 comuni ciascuno le province di Vicenza, Verona, Torino, Sondrio, Monza e Brianza, Milano, Lecco, Cuneo e Como.

Al contrario, tra i 100 comuni con i punteggi più bassi, 63 si trovano al sud19 nelle isole, 11 nell’Italia centrale e rispettivamente 3 e 4 nel nord-ovest e nel nord-est. Nello specifico, 24 si trovano tra Napoli (9) e Salerno (13). Seguono la provincia di Cosenza (8 comuni tra i 100 con i punteggi medi più bassi), la città metropolitana di Reggio Calabria (6), la provincia di Caserta (5).

Calcolando i punteggi mediani nei comuni rilevati per ciascuna provincia, quelli più elevati si registrano nei territori di Lecco, Aosta, Sondrio e Bergamo. Mentre quelli più bassi si riscontrano nei comuni tra Cosenza e Crotone. Tra i capoluoghi, ai primi posti Sondrio (214,7 punti), Trento (208,3) e Aosta (208,2). In fondo alla classifica invece le città di Avellino (148,8), Cosenza (161,2), Carbonia (161,5) e Crotone (163,1).

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. La fonte dei dati sugli apprendimenti è Invalsi.

Foto: Flickr Biblioteca i Documentació UdL – Licenza

 

Il teorema dei “profughi finti e i profughi veri” alimentato dai discorsi d’odio Hate speech

Il teorema dei “profughi finti e i profughi veri” alimentato dai discorsi d’odio Hate speech

Fin dall’inizio della guerra in Ucraina si è diffusa l’idea secondo cui i rifugiati del paese ex sovietico sarebbero i “veri profughi”, diversamente da chi arriva via mare. Discorsi d’odio strumentali che mirano ad alimentare l’intolleranza e aumentare le disuguaglianze.

 
Partner


Negli ultimi anni, le crisi economiche e sociali susseguitesi in Europa sono state accompagnate da una crescita esponenziale dei discorsi d’odio nei confronti di alcune categorie, classi sociali e minoranze etniche, che sarebbero responsabili della situazione di disagio socio-economico di cui soffre parte della popolazione.

Nel linguaggio comune si chiama “guerra tra poveri” ed è da sempre una tecnica comunicativa tristemente diffusa. Perché si tenta di porre in contrasto gruppi di persone ugualmente svantaggiati, in un conflitto sociale che parte dalla mancata identificazione delle reali motivazioni che portano a disagi e disuguaglianze.

In questo contesto, una delle manifestazioni più diffuse della “guerra tra poveri” è la divisione tra “buoni e cattivi” quando si parla di migranti che arrivano nel nostro paese. Se già prima del conflitto in Ucraina le distinzioni tra “migranti economici” e chi scappa da una guerra erano marcate da parte della classe politica (con il risultato di semplificare situazioni invece più complesse), dopo l’invasione russa queste differenze sono state evidenziate ancora di più.

Un migrante economico si muove dal paese di origine per migliorare le sue condizioni di vita, cercando un lavoro. Il termine viene spesso usato per distinguere queste persone da chi si sposta a causa di guerre, conflitti o persecuzioni. Vai a “Che cosa si intende per migranti irregolari, richiedenti asilo o rifugiati”

A partire dall’invasione russa di fine febbraio, infatti, alcuni esponenti politici hanno utilizzato la fuga di milioni di profughi ucraini per evidenziare quanto, a loro dire, sia invece inopportuna l’accoglienza di persone provenienti da paesi dell’Africa sub-sahariana.

A marzo la Lega ha costruito una propria strategia sui social, a partire dal tweet del leader Matteo Salvini, con il fine di rimarcare la differenza tra “profughi veri” (donne e bambini ucraini) e “profughi finti”, che attraversando il Mediterraneo sbarcano sulle coste italiane.

Si tratta di concetti ribaditi anche da altri importanti rappresentanti istituzionali, come il parlamentare europeo della Lega Alessandro Panza.

Anche Fratelli d’Italia ha rimarcato queste differenze, per bocca della sua leader Giorgia Meloni, intervenuta a proposito persino in parlamento.

In realtà, anche se volessimo assumere il fatto che sia giusto scappare da un paese solo se si è vittime di una guerra, è bene ricordare che sono numerose quelle che attraversano da decenni molti stati del continente africano. Per non parlare delle persecuzioni di tipo razziale, religioso e sessuale, o delle violenze da parte di gruppi di miliziani e paramilitari.

Basti pensare che secondo l’osservatorio indipendente Armed conflict location & event data project (Acled) sono ben 12 i paesi africani ad aver superato la soglia dei mille morti per violenze armate, dal gennaio 2021 a oggi.

Eppure negli ultimi mesi il solco tra migranti ucraini e quelli arrivati da altre aree critiche, come l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia centrale, è stato tracciato anche attraverso politiche dell’Unione europea che hanno generato alcune innegabili disparità di trattamento, generando in questo caso sì reali differenze tra chi arriva via mare e chi fugge dal paese ex sovietico.

Le peculiarità dei rifugiati ucraini

Nei primi tre mesi di guerra più di 6,5 milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina. Tutti via terra (essendo lo spazio aereo ucraino chiuso dalla fine di febbraio) e quindi tutti almeno inizialmente diretti verso i 7 paesi confinanti.

6.577.318 persone sono fuggite dall’Ucraina, secondo l’Unhcr, dal 24 febbraio al 23 maggio 2022.

Metà dei rifugiati (50,4%) sono andati in Polonia, il 13,7% in Romania, mentre il 13,1% si è recato nella stessa Federazione Russa. Negli ultimi due mesi, infatti, sono quasi triplicati gli ingressi di ucraini in Russia, passando da circa 350mila persone di inizio aprile alle 919mila attuali.

Sono inoltre 649mila le persone fuggite attraverso il confine ungherese (il 9,3% del totale). Seguono poi gli ingressi in Moldavia (6,7%) e Slovacchia (6,3%). Infine, poco meno di 30mila i rifugiati andati in Bielorussia.

GRAFICO
DESCRIZIONE

Nei primi tre mesi dopo l’invasione in Ucraina da parte della Federazione Russa 6,6 milioni di persone hanno lasciato il paese per rifugiarsi nelle nazioni confinanti, prima di proseguire eventualmente il proprio altrove. Metà di queste (50,4%) è andata in Polonia, il 13,7% in Romania e il 13,1% si è rifugiata nella stessa Federazione Russa. Nei mesi di aprile e maggio sono quasi triplicati gli ingressi di ucraini in Russia, passando da circa 350mila persone alle 919mila attuali. Sono 649mila le persone fuggite attraverso il confine ungherese (il 9,3% del totale). Seguono poi gli ingressi in Moldavia (6,7%) e Slovacchia (6,3%). Infine, poco meno di 30mila i rifugiati andati in Bielorussia.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Unhcr
(ultimo aggiornamento: lunedì 23 Maggio 2022)

 

Considerate le vaste dimensioni di questo fenomeno migratorio, a inizio marzo le istituzioni europee hanno deciso di attivare in via del tutto eccezionale una direttiva europea risalente a oltre vent’anni fa (la direttiva 55/2001), allora pensata per l’esodo proveniente dai paesi balcanici in guerra.

L’articolo 6 della direttiva sancisce che le persone che fuggono dal conflitto possano godere di una protezione temporanea in Ue, uno status simile a quello del rifugiato, in qualsiasi paese dell’Ue e per un anno dall’ingresso, rinnovabile per altri due.

La guerra in Ucraina dovrebbe generare un cambio radicale nell’approccio alle questioni migratorie.

Da parte dell’Ue si tratta indubbiamente di un cambio di paradigma radicale rispetto ai passati approcci alla questione migratoria. Basti pensare che negli anni della cosiddetta “crisi dei rifugiati”, provenienti per lo più dalla Siria in guerra e da paesi dell’Asia centrale come Afghanistan e Pakistan, è stato scelto di affidare ai paesi di approdo le procedure di asilo individuali – come accade da anni alle nazioni dell’Europa meridionale, interessate dagli sbarchi di cittadini africani – o di esternalizzare l’accoglienza a paesi terzi, come nel caso degli accordi con la Turchia per i profughi siriani.

Il fatto che cittadini extra-comunitari possano attraversare liberamente il continente alla ricerca di un riparo e di un futuro migliore rappresenta certamente un passo in avanti positivo e significativo.

Dovrebbe essere da apripista e da esempio a una profonda riforma dell’accoglienza in Ue per tutti i migranti. Come abbiamo scritto in numerose occasioni, infatti, le procedure per il riconoscimento della protezione sono complesse e rappresentano un vero e proprio ostacolo per la ricerca di un lavoro e di una stabilitàcontribuendo alla marginalizzazione sociale e di conseguenza soffiando sul fuoco acceso dal razzismo e dai discorsi d’odio.

Le differenze nel monitoraggio dei fenomeni

Le differenze tra l’accoglienza delle famiglie ucraine e del resto della popolazione migrante è evidente anche nel nostro paese, a partire dall’approccio con cui le istituzioni affrontano il fenomeno.

Il ministero dell’interno non pubblica dati sugli ingressi tramite i confini terrestri.

Infatti, se per gli arrivi via mare un importante strumento informativo è il cruscotto giornaliero del ministero dell’interno, a cui abbiamo più volte accennato anche in occasione dei rapporti annuali sul sistema di accoglienza in Italia, per la questione ucraina la protezione civile ha pubblicato una dashboard ricca e dettagliata, dove vengono monitorati flussi, richieste e caratteristiche delle persone che oltrepassano il confine.

È il dipartimento della protezione civile (che fa capo alla presidenza del consiglio dei ministri), infatti, a gestire l’accoglienza di ucraini e ucraine in Italia. A differenza dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati provenienti da altre zone del mondo, sistema governato dal ministero dell’interno.

Si tratta dell’unico monitoraggio permanente pubblico sui flussi di entrata via terra (o via aereo) verso l’Italia. Il Viminale, infatti, non ha mai pubblicato i dati degli ingressi di migranti non ucraini via terra, attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”.

Sono 117.165 le persone provenienti dall’Ucraina entrate in Italia da inizio marzo fino a metà maggio, con una media di oltre milleseicento persone al giorno.

1.605 persone arrivate in Italia dall’Ucraina ogni giorno, in media, dal 3 marzo al 14 maggio 2022.

Di queste 79.172 sono adulte e le rimanenti 37.993 minori. La maggioranza (61.553) è rappresentata da donne, per via del divieto di uscita dal paese imposto dal governo ucraino agli uomini di età compresa tra 18 e 60 anni.

Com’è evidente dal grafico, i flussi di entrata in Italia sono costanti ma hanno rallentato nel corso delle settimane. Nell’ultimo mese, infatti, solo due giorni (29 aprile e 11 maggio) hanno visto ingressi in numero superiore alla media giornaliera.

Delle quasi 120mila persone rifugiatesi in Italia, 94.015 hanno presentato la richiesta di permesso di soggiorno per protezione temporanea presso gli Uffici immigrazione delle Questure, in virtù della direttiva 55/2001 di cui abbiamo parlato precedentemente.

Si tratta anche in questo caso della stragrande maggioranza di donne (68.047), a fronte di 25.968 maschi, dei quali 75% sono minori. Sempre tramite i dati messi a disposizione dal dipartimento di protezione civile rileviamo che i maggiori volumi di richieste sono stati inoltrati nelle questure delle regioni nel nord. In particolare in Lombardia (12.258), Emilia Romagna (10.940), Veneto (8.248) e Piemonte (7.732).

Il ritorno in patria

Rispetto ad altri fenomeni migratori recenti, una peculiarità è rappresentata dal fatto che in molti, dopo essere fuggiti dall’Ucraina, fanno ritorno in patria. È il caso di molte famiglie provenienti dal centro e dall’ovest del paese, soprattutto dagli oblast popolosi di Leopoli e Kiev.

Si tratta di una dinamica impossibile da porre in essere per i migranti che provengono da paesi extra-comunitari, a meno che non aderiscano a un definitivo rimpatrio volontario.

Le differenze tra contesti diversi non dovrebbero essere strumentali all’alimentazione dell’odio.

Sebbene sui flussi di rientro non si abbiano dati disponibili per l’Italia, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) stima che al 22 maggio più di 2 milioni di ucraini siano rientrati nel proprio paese. Una cifra che riflette i movimenti transfrontalieri (persino dei pendolari) e che la stessa Unhcr indica come “prematura per trarre conclusioni sulle tendenze definitive”.

2.086.500 ucraini rientrati nel proprio paese dopo il 24 febbraio 2022, secondo le stime di Unhcr.

Tuttavia, si tratta di dati forniti dal servizio statale della guardia di frontiera ucraina. E che, con tutte le premure del caso, restituiscono un’ulteriore peculiarità di questo fenomeno rispetto ad altri flussi migratori che attraversano il vecchio continente, oltre che smentire ulteriormente il falso teorema dei “profughi finti e profughi veri”. In quanto, semplicemente, si tratta di situazioni differenti per natura, di caratteristiche sociali di chi è colpito, dei paesi di provenienza e delle enormi difficoltà che ognuno incontra sulla propria strada.

Persone che, tuttavia, hanno qualcosa in comune: l’esigenza di essere accolti degnamente, per potersi costruire una vita migliore.

 

Il sostegno della Commissione europea alla produzione di questa pubblicazione non costituisce un’approvazione del contenuto, che riflette esclusivamente il punto di vista degli autori, e la Commissione non può essere ritenuta responsabile per l’uso che può essere fatto delle informazioni ivi contenute.

Foto: frontiera moldavo-ucraina a Palanca – Andrea Mancini

 

Nel silenzio generale aumentano le indennità degli amministratori locali Mappe del potere

Nel silenzio generale aumentano le indennità degli amministratori locali Mappe del potere

Dopo anni di tagli la legge di bilancio per il 2022 ha aumentato le indennità previste per i sindaci e per gli atri membri delle giunte e dei consigli comunali. Un provvedimento con molte ragioni, adottato però in assenza di un dibattito pubblico.

 

Dopo anni di tagli, con la legge di bilancio per il 2022, il parlamento è intervenuto in senso opposto aumentando le indennità dei componenti delle giunte comunali.

Si tratta di un aumento considerevole che in vari casi raddoppia gli importi precedentemente ricevuti dagli amministratori locali. Sono molte le ragioni alla base di un provvedimento di questo tipo. Indennità eccessivamente basse infatti rappresentano un disincentivo alla partecipazione politica a tempo pieno.

Inoltre i sindaci, a maggior ragione dei comuni più grandi, sono figure con responsabilità molto importanti che al contempo non dispongono delle tutele giuridiche previste invece per i parlamentari e i membri del governo.

Se ci sono valide ragioni per un provvedimento di questo tipo, sarebbe stato utile affrontarle in un dibattito pubblico.

Tuttavia dopo anni di discussioni sulla riduzione del costo della politica, lascia perplessi che un provvedimento che interviene su questa materia in modo così significativo sia passato praticamente inosservato. Al contrario affrontare pubblicamente il tema sarebbe stato forse più corretto oltre che più efficace per contrastare narrazioni di tipo populista. Questa poi sarebbe potuta essere anche l’occasione per iniziare una più ampia discussione sia sui costi della politica sia sulla capacità dei vari livelli amministrativi di rispondere ai bisogni dei cittadini.

Infine salta agli occhi il fatto che il provvedimento sia stato adottato in questo particolare momento. La legislatura infatti si avvia verso la sua conclusione e dopo le prossime elezioni saranno molti di meno i seggi disponibili in parlamento.

Le norme approvate nella legge di bilancio

Prima dell’approvazione dell’ultima legge di bilancio le indennità percepite dai sindaci e degli altri amministratori comunali erano regolate da un decreto del ministero dell’interno del 2000. Su questa norma di base il parlamento era già intervenuto. Prima con la legge finanziaria per il 2006 (articolo 1 comma 54), disponendo una riduzione del 10%, e poi nel 2019 (D.l. 124/2019 articolo 57 quater) con un incremento che tuttavia riguardava solo i comuni con popolazione inferiore a 3.000 abitanti.

La nuova norma invece prevede, per i comuni delle regioni a statuto ordinario, che l’indennità del sindaco sia parametrata a quella del presidente di regione, in proporzione al numero di residenti ma anche alle funzioni ricoperte dal comune. Ovvero se si tratta di città metropolitane, capoluoghi di regione o di provincia.

[…] l’indennità di funzione dei sindaci metropolitani e dei sindaci dei comuni ubicati nelle regioni a statuto ordinario è parametrata al trattamento economico complessivo dei presidenti delle regioni […] in relazione alla popolazione risultante dall’ultimo censimento ufficiale […]

Come vedremo più avanti poi dall’indennità del sindaco è possibile determinare le indennità degli altri amministratori e la cifra massima percepibile dai consiglieri comunali attraverso i gettoni di presenza.

La legge di bilancio in ogni caso non ha introdotto questi aumenti già dal primo anno, o almeno non integralmente. L’incremento infatti è applicato per il 45% nel 2022, per il 68% nel 2023 e integralmente dal 2024.

Le indennità dei sindaci

Come accennato, la legge stabilisce l’indennità lorda attribuita ai sindaci in proporzione alla popolazione e alle funzioni specifiche del comune. Così mentre l’indennità dei sindaci metropolitani è integralmente equiparata a quella dei presidenti di regione (13.800 euro lordi al mese), l’indennità attribuita ai sindaci di capoluoghi di regione è pari all’80% e via via a calare fino al 16% dei primi cittadini di comuni fino a 3mila abitanti.

Si tratta di un incremento importante, che in alcuni casi aumenta di una volta e mezzo importo dell’indennità percepita dai sindaci (ad esempio nei capoluoghi di provincia fino a 50mila abitanti).

Tuttavia questo incremento è più modesto per i piccoli comuni (+33% per quelli fino a 3mila abitanti). Dunque visto che proprio i piccoli comuni sono la maggior parte, in media la crescita percentuale delle indennità si assesta poco sotto il 50%.

+47,14% la crescita media delle indennità percepite dai sindaci degli oltre 6.500 comuni di regioni a statuto ordinario.

Il criterio appare in effetti piuttosto lineare considerando da un lato la popolosità del comune e dall’altro le sue funzioni amministrative, che derivano dall’essere o meno una città metropolitana o un capoluogo di regione o di provincia.

Le quote individuate tuttavia lasciano in alcuni casi delle perplessità. La più evidente riguarda il confronto tra città capoluogo di provincia con popolazione inferiore a 50mila abitanti e quelle che, pur non essendo capoluogo, hanno una popolazione superiore ai 100mila abitanti. Nel primo caso infatti l’indennità lorda attribuita al sindaco arriva a 9mila 600 euro al mese, mentre nel secondo è pari a 6mila 600, una cifra considerevolmente inferiore. Ad ogni modo si tratta di un caso molto raro. Ad oggi infatti l’unica città non capoluogo di provincia a superare i 100mila abitanti è Giugliano in Campania.

Il difficile ruolo dei sindaci

Quello del sindaco è un mestiere notoriamente complicato, con molte responsabilità che non di rado possono portare a contestazioni giudiziarie a cui il politico in questione deve rispondere in prima persona. Negli anni infatti sono cresciute sempre di più le leggi che attribuiscono nuove funzioni gestionali ai sindaci, dalle quali possono derivare responsabilità penali ed erariali.

Una questione che dunque può pesare nella scelta di un politico di correre per questo tipo di carica, a maggior ragione se si considerano le tutele che invece sono previste per i politici nazionali. Certo confrontare il ruolo di un sindaco con quello di un parlamentare è un’operazione da molti punti di vista impropria. Innanzitutto perché si tratta di due funzioni del tutto diverse. I sindaci esercitano una funzione di tipo amministrativo, mentre i parlamentari sono dei legislatori. Ma disporre di un metro di confronto può essere comunque utile per comprendere la scelta di fronte alla quale si trova una persona che, disponendo di un ruolo politico, debba scegliere se partecipare alla contesa elettorale per essere eletto sindaco, oppure a quella per diventare parlamentare.

Diversamente dai sindaci, ad esempio, i parlamentari si possono avvalere dell’insindacabilità sancita dall’articolo 68 della costituzione. Ma anche i membri del governo, rispetto ai quali questa disposizione non si applica, dispongono di meccanismi di tutela. La legge legge costituzionale 1/1989 (articolo 9 comma 3) infatti prevede che per procedere penalmente nei confronti di un membro dell’esecutivo sia necessaria l’autorizzazione da parte del parlamento. È escluso infatti che si possa procedere  nel caso in cui il politico abbia agito “per la tutela di un interesse dello stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”.

Le indennità dei parlamentari

Certamente però questo tema non poteva essere risolto con la legge di bilancioMa è anche in virtù di queste considerazioni che, attraverso questo strumento, si è deciso di conferire un maggiore riconoscimento economico alle persone che ricoprono la carica di sindaco.

l’iniziativa legislativa è volta a risolvere la questione della grave sproporzione del trattamento economico dei sindaci, tale da essere percepito come ingiusto e non equo a fronte dell’importanza del ruolo, del carico di responsabilità e talvolta dei rischi a cui i sindaci devono far fronte.

Anche da questo punto di vista dunque può essere utile un confronto con i politici nazionali. Purtroppo anche solo ricostruire quale sia l’importo che percepiscono deputati e senatori non è una questione per nulla semplice. Approssimativamente però si può dire che ai deputati spetti un indennizzo lordo di circa 10mila euro, a cui ne vanno aggiunti altri 7mila circa tra diaria e rimborsi.

Come accennato si tratta di una cifra del tutto approssimativa che non considera le indennità aggiuntive ricevute da chi ricopre particolari incarichi (come i presidenti di commissione), ulteriori tipi di rimborsi ma anche le possibili decurtazioni dovute ad esempio alle assenze.

Una decisione in assenza di dibattito

Per quanto fondamentale sia il compito dei parlamentari è indubbio che quella di sindaco sia una funzione complessa che merita un riconoscimento.

Allo stesso tempo tuttavia non può che stupire come questo provvedimento sia passato inosservato e non abbia suscitato una discussione pubblica. E ciò nonostante il tema del costo della politica abbia dominato buona parte del dibattito politico delle ultime legislature, rappresentando anche uno degli argomenti alla base della riforma costituzionale che ha portato alla riduzione del numero dei parlamentari.

Dopo un decennio di discussioni sui costi della politica questa decisione avrebbe meritato di essere spiegata all’opinione pubblica.

Se si riteneva esistessero ottime ragioni per aumentare le indennità degli amministratori locali, sarebbe forse stato corretto spiegarle pubblicamente. D’altronde l’unico modo per contrastare la narrazione populista che vede ogni spesa destinata alla politica come uno spreco è quello di definire un sistema trasparente e di essere in grado di spiegarlo in modo lineare all’opinione pubblica.

Magari poi questa discussione avrebbe potuto allargarsi a temi più generali come il costo della politica ma anche il corretto funzionamenento degli enti amministrativi. Dal primo punto di vista si sarebbe potuto riaprire il capitolo dei rimborsi ricevuti dai parlamentari, mentre dal secondo sarebbe stato utile discutere della scomparsa delle province e più in generale del fenomeno della frammentazione amministrativa.

Come ha fatto notare lavoce.info infatti, l’aumento degli emolumenti può essere utile, in particolare nei piccoli comuni, a spingere le persone ad occuparsi a tempo pieno della propria comunità. Questo però non è sufficiente a rendere i comuni degli enti amministrativi efficienti, non incidendo in alcun modo sulla frammentazione amministrativa. Si tenga presente infatti che in Italia circa la metà dei comuni di regioni a statuto ordinario hanno meno di 3mila abitanti, e circa mille comuni non superano i 500.

Alcuni parlamentari non rieletti potrebbero candidarsi nei comuni.

Infine non si può non notare come questa decisione sia stata presa dai deputati e dai senatori in un momento molto particolare della storia parlamentare. Tra meno di un anno infatti la legislatura volgerà al termine e le nuove elezioni porteranno alla camera e al senato 600 parlamentari invece degli attuali 945. Chi non riuscirà ad essere eletto nel nuovo parlamento dovrà dunque scegliere se interrompere la propria attività di rappresentante politico o se proporsi in altri tipi di elezioni. Come quelle al parlamento europeo, nei consigli regionali o, per l’appunto, nei comuni.

Gli altri amministratori comunali

Ma l’aumento degli emolumenti non riguarda solo i sindaci. Come accennato infatti le indennità previste per i vicesindaci, gli assessori e i presidenti di consiglio comunale sono stabilite in proporzione a quella del rispettivo sindaco. In questo caso la legge di bilancio rimanda nuovamente al decreto del ministero dell’interno 119/2000 (articoli 4 e 5), il quale determina le indennità di questi in proporzione ai sindaci.

Anche in questo caso maggiore è la popolazione, maggiore è la quota riconosciuta agli amministratori. Gli assessori dei comuni sotto i mille abitanti ad esempio hanno diritto a un’indennità pari al 10% di quella prevista per il loro sindaco. Invece per le città con popolazione superiore a 250mila abitanti questa percentuale sale al 65%.

Nessun accenno invece viene fatto in legge di bilancio per quanto riguarda le somme percepite dai semplici consiglieri comunali. Ma questo semplicemente perché si applica automaticamente la quota del 25% dell’indennità dei sindaci indicata all’articolo 82 del Testo unico per gli enti locali (Tuel).

I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di percepire, nei limiti fissati dal presente capo, un gettone di presenza per la partecipazione a consigli e commissioni. In nessun caso l’ammontare percepito nell’ambito di un mese da un consigliere può superare l’importo pari a un quarto dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco […].

In questo caso tuttavia la percentuale indicata non riguarda l’indennità, ma la cifra massima percepibile dai consiglieri comunali attraverso i gettoni di presenza. Resta implicito dunque che ciascun comune può stabilire l’ammontare di questi gettoni, pur nei limiti stabiliti dalla legge.

 

Riforma pensioni 2022/ Barbagallo (Uilp): lavori socialmente utili agli anziani

Riforma pensioni 2022/ Barbagallo (Uilp): lavori socialmente utili agli anziani

Riforma pensioni, le parole di Carmelo Barbagallo, Segretario generale della Uilp, ricordano l’importanza di interventi per gli anziani

Riforma pensioni 2023

LE PAROLE DI BARBAGALLO

Intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, Carmelo Barbagallo spiega che “da qualche anno a questa parte, i pensionati sono diventati il bancomat del nostro Paese. Bisogna ridurre le tasse sulle pensioni. Noi paghiamo come pensionati il 22,5% di tasse, a livello europeo la media è di 9,7%. Vediamo di metterci d’accordo. Non può essere sempre che i pensionati e i lavoratori devono pagare per tutti gli altri.

 

Draghi finalmente ha fatto una cosa giusta, parziale ma giusta, di dare i 200 euro anche ai pensionati, cosa che non aveva fatto neanche Renzi che aveva negato gli 80 euro ai pensionati. Spero, ora, che tutto ciò che è provvisorio nel nostro Paese diventi stabile, che i 200 euro diventino strutturali e non episodici, perché una pensione di 2 milioni di lire era una signora pensione, una pensione di meno di mille euro è una pensione che per chi ha un mutuo, un affitto, per chi fa da ammortizzatore sociale per la famiglia, non basta”. Per il Segretario generale della Uilp, inoltre, invece di far fare i lavori socialmente utili ai giovani, “questi lavori si potrebbero far fare agli anziani che lo desiderano, in modo che possano anche integrare le basse pensioni”.

+EUROPA CONTRO LA LEGA

Valerio Federico attacca la Lega sul fronte della riforma delle pensioni. “Salvini torna a sbraitare sulle pensioni e sulla linea del Governo Draghi che ha mandato in soffitta quota 100, oltre 11 miliardi di euro per non produrre un posto di lavoro in più e per pesare sugli under 34, la popolazione che più si è impoverita negli ultimi 20 anni.

Al blocco Salvini-Landini diciamo che se si vuole introdurre flessibilità in uscita questa va legata al ricalcolo contributivo, in sostanza facendola pagare a chi opterà per andare prima in pensione rispetto ai contributi versati, non a tutti i contribuenti”, spiega l’esponente di +Europa, secondo cui “ogni misura non finalizzata a ridurre la spesa a carico della fiscalità generale a integrazione dei contributi versati dai lavoratori e non volta a ridurre il divario tra la retribuzione media dei lavoratori e l’importo medio delle pensioni, corrisponde a un attentato ai diritti dei giovani, dei lavoratori attuali e dei pensionati di domani. La strada del Governo Draghi anche grazie al Pnrr è una sola: maggiori investimenti in produttività, quindi occupazione, quindi crescita dei salari”.

L’ANALISI DI COTTARELLI

Nel corso di un’audizione sull’indagine conoscitiva sulla funzionalità del sistema previdenziale obbligatorio e complementare, nonché del settore assistenziale, Carlo Cottarelli, come riporta Ansa, ha spiegato che in campo previdenziale “la sfida principale è costituita dall’invecchiamento della popolazione, dal conseguente tendenziale squilibrio tra il numero dei lavoratori e il numero dei pensionati.

La soluzione del problema richiede il prolungamento della vita lavorativa, ma anche riforme per aumentare la partecipazione al lavoro, l’aumento della produttività, la diminuzione della disoccupazione, un flusso migratorio regolare. Questo vale indipendentemente dal fatto che le forme di finanziamento della previdenza siano pubbliche o private”. Per l’ex commissario alla spending review, il ruolo che il servizio privato svolge “nella fornitura di un secondo pilastro nella fornitura servizi sanitari e previdenziali resta il più piccolo nel nostro rispetto agli altri paesi avanzati europei e vale la pena chiedersi se questo ruolo non debba essere aumentato”.

LE PAROLE DI TRIDICO

Il Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, in occasione di un convegno organizzato dall’Università la Sapienza per la presentazione del Rapporto sullo stato sociale 2022 a 35 anni dalla scomparsa di Federico Caffè, come riporta Il Sole 24 Ore, in tema di riforma delle pensioni ha detto che “sulla flessibilità del sistema pensionistico ne parliamo da troppo tempo e probabilmente nemmeno questa legislatura riuscirà a chiudere questo cantiere: almeno non mi sembra che questo capitolo sia in procinto di essere chiuso”.

Come riporta l’Ansa, il giorno seguente, a margine del congresso della Cisl, ha ricordato che sulle pensioni “è stato fatto un lavoro al ministero con cui coniugare la flessibilità per andare in pensione anticipata ma all’interno del modello contributivo salvaguardando la sostenibilità finanziaria. L’agenda politica è stata poi occupata da eventi straordinari e drammatici come la guerra. Ma mi sembra ci sia tutta l’intenzione da parte del governo e del ministero di proporre soluzioni che vadano esattamente in quella direzione”, ovvero di “coniugare flessibilità e conti”.

RIFORMA PENSIONI, LA CIRCOLARE INPS SULL’APE SOCIAL

Come spiega Il Sole 24 Ore, la proroga dell’Ape social è contenuta tra le misure di riforma pensioni della Legge di bilancio approvata alla fine dello scorso anno, ma la circolare Inps con le regole aggiornate è stata diffusa solo in settimana e contiene una precisazione importante: “l’Ape è compatibile con il Reddito di cittadinanza ma non con il Reddito di emergenza e con l’Iscro e quindi in caso di doppia corresponsione si procederà al recupero di quanto non spettante (Rem o Iscro)”.

L’Inps spiega anche che “la riduzione del requisito contributivo a 32 anni si applica ai ceramisti individuati dai relativi codici Ateco previsti dalla norma, nonché agli operai edili con Ccnl delle imprese edili e affini, ma nell’ambito dei codici Ateco individuati nell’allegato 3 alla Legge di bilancio 2022, dove però non sono indicati codici specifici del settore edile”.

RIFORMA PENSIONI, L’INTERROGAZIONE DI TOSATO

Intanto, come riporta Il Sannio, il senatore della Lega Paolo Tosato in un’ interrogazione al ministro del Lavoro, Andrea Orlando, chiede che il riconoscimento di lavoro usurante o gravoso per i necrofori o gli operatori cimiteriali, “due attività professionali soggette a numerosi rischi, di ordine psicologico, fisico, chimico e biologico”, evidenzia Tosato. Il senatore leghista chiede quindi al ministro Orlando “quali iniziative stia valutando di adottare al fine di tutelare le figure professionali dell’operatore funebre e dell’operatore cimiteriale, in particolare al fine di disporre l’inserimento di tali mansioni tra quelle considerate usuranti o gravose”.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

 

Pensioni, Dai CdL la proposta per una Quota 100 «flessibile»

Pensioni, Dai CdL la proposta per una Quota 100 «flessibile»

La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro propone un mix di combinazioni più elastiche per maturare la quota 100 partendo da un minimo di 61 anni o 34 anni di contributi con delle penalizzazioni sul calcolo dell’assegno.

Una Quota 100 o 102 veramente flessibile, che combini anzianità contributiva e vecchiaia, invece della formula rigida finora prevista dalla normativa, per dare un input al mercato del lavoro, favorendo il ricambio generazionale. Una soluzione per riformare il cantiere delle pensioni potrebbe essere l’introduzione di formule più elastiche di pensionamento, secondo un’analisi di Fondazione Studi Consulenti del Lavoro riassunta in un approfondimento dal titolo «Alla ricerca della vera flessibilità: una nuova quota». .

Sono circa 470mila, secondo le elaborazioni della Fondazione Studi sulla base dei dati Inps, i lavoratori di età compresa tra i 61 e i 66 anni che presentano un’anzianità contributiva superiore ai 34 anni e inferiore ai 41, soglia a partire dalla quale si può accedere alla pensione di anzianità.

Rispetto all’attuale Quota 100 «rigida», che prevede l’accesso alla pensione con 38 anni di contributi e 62 anni di età, una Quota 100 «flessibile» consentirebbe di raddoppiare quasi la platea dei potenziali beneficiari con un incremento attorno all’81% dei lavoratori interessati. Tale formula raccoglierebbe soprattutto 65-66enni con un’anzianità contributiva superiore ai 35 anni (ma inferiore ai 38 attualmente richiesti) e aiuterebbe i lavoratori più vicini alla pensione di vecchiaia ad anticipare l’ingresso. Le stesse stime sono state realizzate anche con riferimento a Quota 102, prevedendo la possibilità di estendere le combinazioni anzianità-vecchiaia oltre l’attuale “64+38”. Con l’adozione di un sistema flessibile, sostengono dalla Fondazione, ci sarebbe un incremento dell’88,7% di lavoratori (soprattutto 66enni) con un’anzianità contributiva inferiore ai 38 anni necessari per poter andare in pensione.

Per quanto riguarda il requisito anagrafico, entrambe le formule flessibili vedrebbero aumentare la quota di potenziali pensionati, soprattutto tra le fasce d’età più alte dove l’accesso alla pensione è precluso a chi, pur in possesso dei requisiti anagrafici, non ha maturato quelli contributivi.

Le considerazioni sulla flessibilità, secondo l’approfondimento, non possono non tenere conto delle necessità di contenimento della spesa e di sostenibilità dei costi a carico dello Stato in un’ottica di corrispondenza tra contribuzione effettivamente versata e oneri correnti di spesa pensionistica.

Per raggiungere questo scopo, secondo i consulenti del lavoro, ci sono due scenari possibili: una parziale conversione al metodo contributivo per i beneficiari di quote retributive di pensione o, ancora, una riduzione percentuale proporzionale all’anticipo, secondo un meccanismo analogo rispetto a quello originariamente previsto dalla Riforma Fornero, per chi accedeva alla pensione anticipata con meno di 62 anni.

 

San Germano di Parigi

 

San Germano di Parigi


Nome: San Germano di Parigi
Titolo: Vescovo
Nascita: fine del V secolo, Autun, Francia
Morte: 28 maggio 576, Parigi, Francia
Ricorrenza: 28 maggio
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione

Visse al tempo dei Merovingi. Ebbe come amico e biografo l’ultimo grande poeta di lingua latina, Venanzio Fortunato. Svolse un ruolo decisivo nel consolidamento della Chiesa e della monarchia in Francia.

Germano nacque ad Autun, in Borgogna, verso la fine del V secolo da famiglia agiata che gli garantì una buona formazione culturale e religiosa.

Ordinato diacono e sacerdote, nel 540 venne scelto dal vescovo Nettarlo come abate del monastero di San Sinforiano. Due i tratti caratteristici del suo governo monastico: una forte pratica ascetica nella vita quotidiana; e l’attenzione per i poveri, cui destinava parte dei beni del monastero, suscitando la protesta di alcuni monaci per l’eccessivo rigore.

Nel 555 venne nominato vescovo di Parigi dal re Chilperico. Tre anni dopo consacra la Chiesa costruita dal sovrano alle porte della città dedicandola al martire spagnolo san Vincenzo. Accanto alla Chiesa fonda un grande monastero facendovi venire dei monaci da San Sinforiano. Il sostegno del re gli consente di dare impulso alle opere di carità e di promuovere nuove fondazioni di chiese e monasteri. Venanzio parla di una nobile gara di generosità tra il re e il vescovo.

Nulla può, invece, nella sanguinosa falda che oppone i figli dopo la morte del re. il suo appello alla pace resta inascoltato. Muore in tarda età nel 576 ed è subito venerato come santo. Due secoli dopo, nel 756, Pipino il Breve fa solennemente traslare il suo corpo sotto l’altare maggiore della chiesa di San Vincenzo che da quel momento diventa Saint-Germain des-Prés, appena al di fuori della cinta muraria parigina. Sempre alle prese con i re, san Germano è ricordato soprattutto per il suo amore per i poveri.

PRATICA. Rispettiamo e veneriamo le immagini sacre.

PREGHIERA. Fa’, te ne preghiamo, Dio onnipotente, che la veneranda solennità del tuo confessore e Pontefice Germano ci accresca la devozione e ci assicuri la salvezza.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Parigi in Francia, san Germano, vescovo, che fu dapprima abate di San Sinforiano di Autun e, eletto poi alla sede di Parigi, mantenne uno stile di vita monastico, dedicandosi a una fruttuosa opera di cura delle anime.