Archivio mensile:settembre 2015
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Rossana Rossanda
Rossana Rossanda “Per proteggere il partito rinunciò a cambiare la storia”
Ingrao
Il manifesto
La nostra tribù, mai una corrente
La storia di Pietro. L’ascolto degli altri e l’idea della politica come partecipazione, due caposaldi dell’ingraismo che valgono assai più di ogni ortodossia. Perché restano una buona bussola per un nuovo impegno
Quando chi viene a mancare ha più di cent’anni all’evento si è preparati, e dunque il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, perché proprio la loro lunga vita ci ha finito per abituare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eternità. Pietro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tantissimi di noi che è difficile persino pensare alla sua morte senza pensare alla propria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altrettanto vecchi).
Così, quando domenica mi ha raggiunto la telefonata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ramblas a Barcellona dove, essendo di passaggio per la Spagna, mi ero fermata per aspettare i risultati elettorali della Catalogna, il suo tristissimo annuncio è stato quasi una fucilata. Perché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse asportato un pezzo del mio stesso corpo.
Così, io credo, è stato per tutta la larghissima tribù chiamata «gli ingraiani», qualcosa che non è stata mai una corrente nel senso stretto della parola perché la nostra introiettata ortodossia non ci avrebbe neppure consentito di immaginare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di intendere la politica, e dunque la vita, al di là della specificità delle analisi e dei programmi che sostenevamo. Sicché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingraiani sono in qualche modo distinguibili, sebbene le loro scelte individuali siano andate col tempo divergendo, dentro e fuori del Manifesto; e poi dentro e fuori le successive labili reincarnazioni del Pci. Oggi poi — dentro una sinistra che fatica a riconoscere i propri stessi connotati e nessuno si sente a casa propria dove sta perché vorrebbe la sua stessa casa diversa da come è –questo tratto storico dell’ingraismo direi che pesa in ciascuno anche di più.
Vorrei che non si perdesse, perché al di là delle scelte diverse cui ha condotto ciascuno di noi, è un patrimonio prezioso e utile anche oggi.
Di quale sia stato il nucleo forte del pensiero di Pietro Ingrao, ho già parlato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il manifesto ha dedicato ai suoi cent’anni, riproposto on line proprio ieri. Vorrei che quelle sue analisi e linee programmatiche che purtroppo il Pci non fece proprie, non venisse annegato, come è accaduto per Enrico Berlinguer, nella retorica riduttiva e stravolgente dell’ “era tanto buono, bravo onesto, ci dà coraggio e passione”.
Oggi, comunque, di Pietro vorrei affidare alla memoria soprattutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della politica come, innanzitutto, partecipazione e perciò soggettività delle masse.
Quando incontrava qualcuno, o anche nelle riunioni e persino nel dialogo con un compagno ai margini di un comizio, era sempre lui che per primo chiedeva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giudichi quel fatto?”; “cosa proporresti?”. Non era un vezzo, voleva proprio saperlo e poi stava a sentire. Perché il suo modo di essere dirigente stava nel cercare di interpretare il sentire dei compagni. Anche di portare le loro idee a un più alto livello di analisi e proposta, certamente, ma sempre a partire da loro, per arrivare, assieme a loro, e non da solo, a una conclusione, a una scelta.
Per questo quel che per lui contava, quello che a suo parere qualificava la democrazia e la qualità di un partito, era la partecipazione, la capacità di stimolare il protagonismo, la soggettività delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teoria né prassi significativa.
Non voglio esplicitare paragoni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Rossana, rispondendo ad un’intervista di La Repubblica, ieri ha detto di Pietro, anche della sua reticenza nell’assumere posizioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingraiani doc”, operammo la rottura della pubblicazione della rivista Il manifesto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiutava lo scioglimento del partito proposto dalla maggioranza occhettiana, pur riconoscendosi nella relazione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da compiere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifondazione, e chi — come Pietro — decise invece che sarebbe comunque restato nell’organizzazione, il Pds, che, già malaticcio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rimasta scolpita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pietro si fosse unito alla costruzione di un nuovo soggetto politico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifondazione comunista più ricca e davvero rifondativa, per via del suo personale apporto ma anche di quella larga area di quadri ingraiani che costituiva ancora un pezzo vivo del Pci e sarebbero stati preziosi alla nuova impresa; e invece restarono invischiati e di malavoglia nel lento deperire degli organismi che seguirono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pietro però capì subito che stare in quel contesto non era più “stare nel gorgo”, perché il gorgo, sebbene assai indebolito, scorreva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impegnò nei movimenti che generazioni più giovani avevano avviato. E da questi fu ascoltato.
La storia come sappiamo non si fa con i se. Ma riflettere su quel passaggio storico, per ragionare sugli errori compiuti, da chi e perché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico.
Per farlo nascere bene mi sembra comunque essenziale portarsi dietro l’insegnamento fondamentale di Pietro, che non è inficiato dal non avere, qualche volta, tentato abbastanza : che non c’è partito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diventare una forza in grado di sollecitare la soggettività popolare, perché questa è più preziosa di ogni ortodossia.
Ma vorrei che di Pietro ci portassimo dietro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa parabola di Brecht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comunismo italiano). Come ricorderete, il sarto insisteva che l’uomo avrebbe potuto volare, finché, stufo, il vescovo principe di Ulm gli disse “prova” e questi si gettò dal campanile con le fragili ali che si era costruito. E naturalmente si sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine l’uomo ha volato. E’ la parabola del comunismo: fino ad ora chi ha provato a realizzarlo su terra si è sfracellato, ma alla fine, come è accaduto con l’aviazione, ci riusciremo.
E’ questo l’impegno che nel momento della scomparsa del nostro prezioso compagno Pietro Ingrao vorrei prendessimo: di provarci.
Il Messaggero
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All’ultimo congresso del Pci: «Sono per una rifondazione comunista, non si può restare in mezzo al guado»
Documenti. Il discorso al XX congresso, l’ultimo, del Partito comunista italiano
Io parto dalla questione che mi sembra centrale nella relazione di Occhetto: siamo a una svolta della situazione mondiale. La svolta si materializza nella vicenda del Golfo. Perché una guerra tutto sommato concentrata in un’area ristretta e finora durata poche settimane, sta assumendo significato generale? La questione del petrolio non basta a spiegare tutto. E nemmeno la pazzia di Saddam o la volontà di Bush di far fronte a un declino economico americano. L’unica spiegazione che riesco a trovare è che la vicenda squaderna dinanzi a noi l’immagine sconvolgente che è o può essere la scienza della guerra moderna. Questo emerge da ambedue i fronti della vicenda.
Dal lato dell’aggressore iracheno: vediamo un piccolo tiranno di un paese a economia subalterna, di pochissimi milioni di abitanti che può lanciare missili su Israele e minacciare la guerra chimica e batteriologica. Contro questo piccolo despota i più possenti paesi dell’Occidente industrializzato dichiarano di non avere altri mezzi che una guerra senza pietà, condotta con i loro più sofisticati strumenti di sterminio. Quanto più mi dicono che questa guerra è necessaria, tanto più mi spavento.
C’è un’altra strada? Io vedo qui il grande valore della scelta che sta dinanzi a questo congresso. Noi stiamo dicendo qui che per risolvere i conflitti tra gli Stati e bloccare l’aggressore ci può essere un’altra via. E dinanzi all’orrore della guerra del Duemila stiamo cercando, provando, lottando per una nuova, grande strada pacifica.
La Costituzione italiana dichiara che l’Italia rifiuta la guerra. Invece per la prima volta in quarant’anni l’Italia è di nuovo in guerra. Questa è la scelta che ci sta dinanzi: se quel ripudio scritto nella Costituzione è solo una frase, o invece qui deve diventare realtà. Perciò la lotta per il ritiro delle navi dal Golfo non è superata o marginale o accessoria. È coerenza con ciò che diciamo: atto significativo e necessario di una strategia.
È possibile un’altra strada? Noi stiamo proponendo e cercando una lotta contro l’aggressione e una via per la regolazione dei conflitti che siano pacifiche. Oggi cerchiamo di agire concretamente per mettere in pratica, qui e ora dinanzi a questa crisi, a questa guerra del Duemila, la via della pace. Non è una via rinunciataria. Anzi è quanto mai ambiziosa. Discutiamo tanto della nostra identità. Se scegliamo davvero, se tentiamo davvero questa strada, questa è una straordinaria assunzione di identità.
Questa strada chiede una forte coerenza. Una conferenza sul Medio Oriente non può essere affidata a un impegno generico, su un imprecisato domani, come era ancora anche in quel comunicato del segretario di Stato Usa e del ministro degli Esteri sovietico, che pure giorni fa è stato rifiutato da Bush. E non fermarsi ai palestinesi e alla sicurezza di Israele ma deve riguardare anche il Libano e non solo l’indipendenza, ma la libertà del Kuwait. Cioè dobbiamo lavorare perché si affermi una autonomia e libertà dei popoli arabi come coessenziale obiettivo della pace. Questa via ha implicazioni politiche subito: vuol dire che noi lottiamo contro Saddam, ma anche contro il despota siriano Assad, di cui nessuno parla e che oggi è l’amico di Bush e di Gorbaciov; e contro i satrapi miliardari degli emirati.
Ho apprezzato che il segretario del partito abbia detto che bisogna allargare il Consiglio di sicurezza dell’Onu e abolire (ho capito bene?) il diritto di veto. Questo significa dire oggi che 1’Onu non è un organismo democratico ma è controllato e manovrato dalle grandi potenze, sino alla clamorosa violazione del suo Statuto compiuta con la risoluzione 678.
Quanto ci vorrà per rompere questa oligarchia? Ci vorrà moltissimo se noi già da ora non cominciamo ad aprire questo terreno di lotta. E su ciò, invece, in questi mesi abbiamo consentito una mistificazione. Parlai al congresso di Bologna degli F16. Non mi vergogno di tornare a parlarne dopo un anno. Oggi lo vediamo: non si tratta di una base qualunque. Si tratta del fianco sud del sistema militare atlantico sul Mediterraneo. Il ministro De Michelis dichiara letteralmente che «il pericolo viene da Sud e non più da Est» e che è necessaria una forza militare capace di intervenire non solo fuori dai confini nazionali, ma «a distanza». Gioia del Colle, Crotone, Taranto, Sigonella, sono solo l’anticipo di una strategia: apriamo finalmente una lotta reale e di massa per un Mezzogiorno di pace? Apriamo finalmente una controversia per il rifiuto unilaterale degli F16?
Alle parole deve corrispondere la lotta. Tutti, più o meno, abbiamo criticato qui il pesante deficit di iniziativa della Cee nel conflitto mediorientale. Ma c’è una base, o almeno un primo terreno reale di parti nella Cee? No. E non solo per l’egemonia finanziaria tedesca, ma perché ci sono nella Cee due potenze atomiche: Francia e Inghilterra. Questo dato non è mai contestato o fatto oggetto di reale negoziato. Su questo punto non è esistita nemmeno una lotta.
Voglio dire che la grande, enorme, scommessa sulla pace come regolatrice dei conflitti, come base di un primo germe di governo mondiale, ha bisogno di una rigorosa coerenza. Non si può fare a spicchi.
Non si può restare in mezzo al guado. E ha bisogno di costruire nuovi soggetti reali. Questo congresso invece è ancora contraddittorio. Per un verso spinge a una scelta di pace che sembra alludere ad una nuova idea della politica; e per un altro verso è monco nell’autocritica sul limite grave che la sinistra europea, ma anche noi, ha avuto nella lotta per il disarmo e per il Sud del mondo. E io stesso qui taccio sulla posizione assunta dal sindacati.
Sostengo che scegliere la via della pace per affrontare questo conflitto è un modo forte di assolvere ad una funzione nazionale e internazionale. Il ritiro delle navi dal Golfo non è trarsi fuori, un rimpicciolirsi oppure l’Italietta che si sottrae a un ruolo internazionale. È un’altra strategia. E anche la proposta di una tregua unilaterale riceve così una motivazione di fondo, non solo tattica. Una simile strada sarebbe un grande atto verso il Sud del mondo: un cambiamento nella storia stessa dell’Occidente cattolico-cristiano. Anche per questo parla Wojtyla. E io non ho per nulla in testa lo schema di una America sposata alla causa o alla funzione di gendarme mondiale. Tanta America di oggi discute più laicamente che in Italia della guerra del Golfo. Noi, sinistra europea, puntiamo su questa America o su Bush? Ecco un nodo essenziale su cui si misura e si costruisce l’alternativa. Facciamo l’ipotesi che si possa cominciare a camminare su questa strada pacifica, io credo che man mano che avanzi una tale pratica di pace essa si riverbererebbe su tutto il panorama sociale. Anche la prepotenza di Romiti sarebbe più debole.
E questa strategia di pace sarebbe un potente anticorpo contro i reami della violenza e le fonti del dominio sociale. Sarebbe anche una rottura contro l’etica maschilista del possesso.
Io sono comunista e sono sceso in campo per una rifondazione comunista. E vedo quale novità, e arricchimento questo affrontare concretamente la violenza con la pace introduce anche nella tradizione alta del comunismo italiano; e quale terreno straordinario esso può aprire con altre culture e civiltà. Altro che il ghetto in cui ci vede chiusi Craxi. Ma lo sa Craxi che in Francia si è dimesso il ministro socialista della Difesa?
Se siamo coerenti, se non arretriamo spaventati, assume un forte significato che questo partito, dato per defunto, si cimenti in una tale innovazione pacifica e con questo tema grande e inedito davvero il peggio sarebbe restare in mezzo al guado.
Allora, su la schiena. E attenti al rischio della separazione. Voi che siete la maggioranza avete oggettivamente il potere più forte per evitarla.
Perciò provo a fare un appello a me stesso. Non credo alle confusioni e ai pasticci, e forse ne ho dato qualche prova. Credo alla fecondità delle differenze che si dicono alla luce del sole. Ma se in qualche modo siamo davvero al cimento di cui ho parlato, e a questo punto di svolta della vita mondiale, tutti dobbiamo parlare in modo diverso. Tutti dobbiamo cambiare qualcosa fra di noi e soprattutto fra noi e gli altri. Speriamo davvero di farcela.
- Atti del congresso pubblicati su «l’Unità» del 3 febbraio 1991. Corsivi nostri.
Citto Maselli: Immagini e ricordi di Ingrao
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Citto Maselli: Immagini e ricordi di Ingrao
Pubblicato il 28 set 2015
Abbiamo chiesto al compagno Citto Maselli un ricordo di Pietro Ingrao. Lo ringraziamo per la bella testimonianza umana e politica.
Nel primo dopoguerra e tutti gli anni cinquanta la redazione dell’Unità era in pieno centro a pochi passi da piazza Venezia.
Così mi veniva quasi naturale passare da lì a salutare i compagni con cui avevo fatto la Resistenza al liceo Tasso, durante i nove mesi di occupazione tedesca. Erano Luigi Pintor e Arminio e Aggeo Savioli, diventati poi giornalisti e redattori dell’Unità. Ingrao allora ne era il direttore e quando loro mi presentarono notai che mi guardava con interesse e curiosità. Poiché in quei giorni era uscito un film a episodi che si chiamava “Amore in città” e conteneva il mio debutto alla regia con “Storia di Caterina” da un’idea di Cesare Zavattini, io ritenni che sicuramente l’interesse di Ingrao significava che aveva visto il film e gli era piaciuto. Ne fui così felice che girai per giorni tutto impettito, come un pinguino. Amara fu dunque la sorpresa quando Pintor mi raccontò giorni dopo che Ingrao non aveva affatto visto il film ed era solo curioso per la mia giovanissima età: aveva evidentemente letto il mio nome in qualche critica e dato che effettivamente non avevo ancora vent’anni era solo stupito che fossi già regista.
Non rividi più Ingrao fino all’autunno del ’56 quando scoppiò la rivolta in Ungheria e ci si trovava in tanti al nostro giornale per avere notizie. Ricordo che io litigai subito con Mario Alicata che difendeva a spada tratta Gheroe e i compagni ungheresi e l’atmosfera era tale che eravamo passati alle urla e alle accuse reciproche finché la porta della stanza in cui eravamo si aprì e apparve Ingrao. Era accigliato ma soprattutto aveva le lacrime agli occhi e piangeva. Tacemmo tutti di colpo esterrefatti e lui se ne andò. Mesi dopo o anni eravamo diventati quasi amici e ricordo che una volta gli domandai se ricordasse quella sera e quel suo inaspettato pianto. Mi rispose che ricordava benissimo quell’episodio e quanto al suo pianto ricordo che mi disse: “a Budapest la gente sparava sui nostri compagni, nella stanza accanto due compagni si insultavano a urli”. Tacque e poi aggiunse: ”Dico, non c’era da piangere?”.
Nel ’68 ero segretario dell’Anac (l’associazione storica degli autori cinematografici) e, convinto del significato positivo della carica polemica e del radicalismo degli studenti, lavorai per portare gli autori a contestare un festival con lo statuto fascista com’era quello veneziano, canalizzando però quella carica rivoltosa verso uno sbocco politico e riformatore e dunque verso una nuova legge e un nuovo statuto della Biennale. Non ricordo esattamente ma io vedevo in questa mia operazione l’applicazione concreta di quello che Pietro Ingrao definiva l’intreccio fra i movimenti e il partito, cioè il loro sbocco politico. Il discorso di Ingrao era sicuramente più complesso ma a me allora sembrava tale. Per cui ricordo che partendo per Venezia per preparare la contestazione in accordo con Golinelli segretario della federazione veneziana del Pci, mi recai a Lenola, vicino Roma, dov’era la casa natale di Ingrao e dove lui andava spesso. Ricordo che lui ascoltò la mia fervida esposizione con attenzione ma senza scaldarsi troppo. Ricordo che mi suggerì di chiedere al critico dell’Unità Ugo Casiraghi di scrivere degli articoli “posati” – questa fu la parola – sulle legittime ragioni di quella contestazione (da qui vennero cinque articoli dal titolo impegnativo “Perché contestiamo Venezia”).
Niente di più e così me ne tornai a Roma non proprio deluso ma certo frastornato. Le cose poi andarono bene: ottenemmo una legge nuova e uno statuto nuovo di quella grande istituzione culturale pubblica e malgrado le ricostruzioni qualunquistiche e negative che si fanno oggi, fu parte di quella grande stagione riformatrice che portò ai decreti delegati per la scuola, allo statuto dei lavoratori, alla legge sul divorzio, alla grande riforma della Rai sottratta finalmente al dominio governativo. Quando qualche storico indagherà seriamente su quel periodo, non potrà non individuare all’origine di tutta quell’imponente fase di sviluppo politico, sociale e culturale le intuizioni profonde e il pensiero di Pietro Ingrao.
Questo mi veniva in mente ieri sera ricordando quel mio viaggio a Lenola dove non ricevetti abbracci solidali e gli sperati applausi di Pietro ma solo la sua attenzione. Ingrao era fatto anche così.
il sole24ore
ULTIMISSIME LAVORO – FISCALE28/09/2015
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