Archivi giornalieri: 28 settembre 2015
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All’ultimo congresso del Pci: «Sono per una rifondazione comunista, non si può restare in mezzo al guado»
Documenti. Il discorso al XX congresso, l’ultimo, del Partito comunista italiano
Io parto dalla questione che mi sembra centrale nella relazione di Occhetto: siamo a una svolta della situazione mondiale. La svolta si materializza nella vicenda del Golfo. Perché una guerra tutto sommato concentrata in un’area ristretta e finora durata poche settimane, sta assumendo significato generale? La questione del petrolio non basta a spiegare tutto. E nemmeno la pazzia di Saddam o la volontà di Bush di far fronte a un declino economico americano. L’unica spiegazione che riesco a trovare è che la vicenda squaderna dinanzi a noi l’immagine sconvolgente che è o può essere la scienza della guerra moderna. Questo emerge da ambedue i fronti della vicenda.
Dal lato dell’aggressore iracheno: vediamo un piccolo tiranno di un paese a economia subalterna, di pochissimi milioni di abitanti che può lanciare missili su Israele e minacciare la guerra chimica e batteriologica. Contro questo piccolo despota i più possenti paesi dell’Occidente industrializzato dichiarano di non avere altri mezzi che una guerra senza pietà, condotta con i loro più sofisticati strumenti di sterminio. Quanto più mi dicono che questa guerra è necessaria, tanto più mi spavento.
C’è un’altra strada? Io vedo qui il grande valore della scelta che sta dinanzi a questo congresso. Noi stiamo dicendo qui che per risolvere i conflitti tra gli Stati e bloccare l’aggressore ci può essere un’altra via. E dinanzi all’orrore della guerra del Duemila stiamo cercando, provando, lottando per una nuova, grande strada pacifica.
La Costituzione italiana dichiara che l’Italia rifiuta la guerra. Invece per la prima volta in quarant’anni l’Italia è di nuovo in guerra. Questa è la scelta che ci sta dinanzi: se quel ripudio scritto nella Costituzione è solo una frase, o invece qui deve diventare realtà. Perciò la lotta per il ritiro delle navi dal Golfo non è superata o marginale o accessoria. È coerenza con ciò che diciamo: atto significativo e necessario di una strategia.
È possibile un’altra strada? Noi stiamo proponendo e cercando una lotta contro l’aggressione e una via per la regolazione dei conflitti che siano pacifiche. Oggi cerchiamo di agire concretamente per mettere in pratica, qui e ora dinanzi a questa crisi, a questa guerra del Duemila, la via della pace. Non è una via rinunciataria. Anzi è quanto mai ambiziosa. Discutiamo tanto della nostra identità. Se scegliamo davvero, se tentiamo davvero questa strada, questa è una straordinaria assunzione di identità.
Questa strada chiede una forte coerenza. Una conferenza sul Medio Oriente non può essere affidata a un impegno generico, su un imprecisato domani, come era ancora anche in quel comunicato del segretario di Stato Usa e del ministro degli Esteri sovietico, che pure giorni fa è stato rifiutato da Bush. E non fermarsi ai palestinesi e alla sicurezza di Israele ma deve riguardare anche il Libano e non solo l’indipendenza, ma la libertà del Kuwait. Cioè dobbiamo lavorare perché si affermi una autonomia e libertà dei popoli arabi come coessenziale obiettivo della pace. Questa via ha implicazioni politiche subito: vuol dire che noi lottiamo contro Saddam, ma anche contro il despota siriano Assad, di cui nessuno parla e che oggi è l’amico di Bush e di Gorbaciov; e contro i satrapi miliardari degli emirati.
Ho apprezzato che il segretario del partito abbia detto che bisogna allargare il Consiglio di sicurezza dell’Onu e abolire (ho capito bene?) il diritto di veto. Questo significa dire oggi che 1’Onu non è un organismo democratico ma è controllato e manovrato dalle grandi potenze, sino alla clamorosa violazione del suo Statuto compiuta con la risoluzione 678.
Quanto ci vorrà per rompere questa oligarchia? Ci vorrà moltissimo se noi già da ora non cominciamo ad aprire questo terreno di lotta. E su ciò, invece, in questi mesi abbiamo consentito una mistificazione. Parlai al congresso di Bologna degli F16. Non mi vergogno di tornare a parlarne dopo un anno. Oggi lo vediamo: non si tratta di una base qualunque. Si tratta del fianco sud del sistema militare atlantico sul Mediterraneo. Il ministro De Michelis dichiara letteralmente che «il pericolo viene da Sud e non più da Est» e che è necessaria una forza militare capace di intervenire non solo fuori dai confini nazionali, ma «a distanza». Gioia del Colle, Crotone, Taranto, Sigonella, sono solo l’anticipo di una strategia: apriamo finalmente una lotta reale e di massa per un Mezzogiorno di pace? Apriamo finalmente una controversia per il rifiuto unilaterale degli F16?
Alle parole deve corrispondere la lotta. Tutti, più o meno, abbiamo criticato qui il pesante deficit di iniziativa della Cee nel conflitto mediorientale. Ma c’è una base, o almeno un primo terreno reale di parti nella Cee? No. E non solo per l’egemonia finanziaria tedesca, ma perché ci sono nella Cee due potenze atomiche: Francia e Inghilterra. Questo dato non è mai contestato o fatto oggetto di reale negoziato. Su questo punto non è esistita nemmeno una lotta.
Voglio dire che la grande, enorme, scommessa sulla pace come regolatrice dei conflitti, come base di un primo germe di governo mondiale, ha bisogno di una rigorosa coerenza. Non si può fare a spicchi.
Non si può restare in mezzo al guado. E ha bisogno di costruire nuovi soggetti reali. Questo congresso invece è ancora contraddittorio. Per un verso spinge a una scelta di pace che sembra alludere ad una nuova idea della politica; e per un altro verso è monco nell’autocritica sul limite grave che la sinistra europea, ma anche noi, ha avuto nella lotta per il disarmo e per il Sud del mondo. E io stesso qui taccio sulla posizione assunta dal sindacati.
Sostengo che scegliere la via della pace per affrontare questo conflitto è un modo forte di assolvere ad una funzione nazionale e internazionale. Il ritiro delle navi dal Golfo non è trarsi fuori, un rimpicciolirsi oppure l’Italietta che si sottrae a un ruolo internazionale. È un’altra strategia. E anche la proposta di una tregua unilaterale riceve così una motivazione di fondo, non solo tattica. Una simile strada sarebbe un grande atto verso il Sud del mondo: un cambiamento nella storia stessa dell’Occidente cattolico-cristiano. Anche per questo parla Wojtyla. E io non ho per nulla in testa lo schema di una America sposata alla causa o alla funzione di gendarme mondiale. Tanta America di oggi discute più laicamente che in Italia della guerra del Golfo. Noi, sinistra europea, puntiamo su questa America o su Bush? Ecco un nodo essenziale su cui si misura e si costruisce l’alternativa. Facciamo l’ipotesi che si possa cominciare a camminare su questa strada pacifica, io credo che man mano che avanzi una tale pratica di pace essa si riverbererebbe su tutto il panorama sociale. Anche la prepotenza di Romiti sarebbe più debole.
E questa strategia di pace sarebbe un potente anticorpo contro i reami della violenza e le fonti del dominio sociale. Sarebbe anche una rottura contro l’etica maschilista del possesso.
Io sono comunista e sono sceso in campo per una rifondazione comunista. E vedo quale novità, e arricchimento questo affrontare concretamente la violenza con la pace introduce anche nella tradizione alta del comunismo italiano; e quale terreno straordinario esso può aprire con altre culture e civiltà. Altro che il ghetto in cui ci vede chiusi Craxi. Ma lo sa Craxi che in Francia si è dimesso il ministro socialista della Difesa?
Se siamo coerenti, se non arretriamo spaventati, assume un forte significato che questo partito, dato per defunto, si cimenti in una tale innovazione pacifica e con questo tema grande e inedito davvero il peggio sarebbe restare in mezzo al guado.
Allora, su la schiena. E attenti al rischio della separazione. Voi che siete la maggioranza avete oggettivamente il potere più forte per evitarla.
Perciò provo a fare un appello a me stesso. Non credo alle confusioni e ai pasticci, e forse ne ho dato qualche prova. Credo alla fecondità delle differenze che si dicono alla luce del sole. Ma se in qualche modo siamo davvero al cimento di cui ho parlato, e a questo punto di svolta della vita mondiale, tutti dobbiamo parlare in modo diverso. Tutti dobbiamo cambiare qualcosa fra di noi e soprattutto fra noi e gli altri. Speriamo davvero di farcela.
- Atti del congresso pubblicati su «l’Unità» del 3 febbraio 1991. Corsivi nostri.
Citto Maselli: Immagini e ricordi di Ingrao
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Citto Maselli: Immagini e ricordi di Ingrao
Pubblicato il 28 set 2015
Abbiamo chiesto al compagno Citto Maselli un ricordo di Pietro Ingrao. Lo ringraziamo per la bella testimonianza umana e politica.
Nel primo dopoguerra e tutti gli anni cinquanta la redazione dell’Unità era in pieno centro a pochi passi da piazza Venezia.
Così mi veniva quasi naturale passare da lì a salutare i compagni con cui avevo fatto la Resistenza al liceo Tasso, durante i nove mesi di occupazione tedesca. Erano Luigi Pintor e Arminio e Aggeo Savioli, diventati poi giornalisti e redattori dell’Unità. Ingrao allora ne era il direttore e quando loro mi presentarono notai che mi guardava con interesse e curiosità. Poiché in quei giorni era uscito un film a episodi che si chiamava “Amore in città” e conteneva il mio debutto alla regia con “Storia di Caterina” da un’idea di Cesare Zavattini, io ritenni che sicuramente l’interesse di Ingrao significava che aveva visto il film e gli era piaciuto. Ne fui così felice che girai per giorni tutto impettito, come un pinguino. Amara fu dunque la sorpresa quando Pintor mi raccontò giorni dopo che Ingrao non aveva affatto visto il film ed era solo curioso per la mia giovanissima età: aveva evidentemente letto il mio nome in qualche critica e dato che effettivamente non avevo ancora vent’anni era solo stupito che fossi già regista.
Non rividi più Ingrao fino all’autunno del ’56 quando scoppiò la rivolta in Ungheria e ci si trovava in tanti al nostro giornale per avere notizie. Ricordo che io litigai subito con Mario Alicata che difendeva a spada tratta Gheroe e i compagni ungheresi e l’atmosfera era tale che eravamo passati alle urla e alle accuse reciproche finché la porta della stanza in cui eravamo si aprì e apparve Ingrao. Era accigliato ma soprattutto aveva le lacrime agli occhi e piangeva. Tacemmo tutti di colpo esterrefatti e lui se ne andò. Mesi dopo o anni eravamo diventati quasi amici e ricordo che una volta gli domandai se ricordasse quella sera e quel suo inaspettato pianto. Mi rispose che ricordava benissimo quell’episodio e quanto al suo pianto ricordo che mi disse: “a Budapest la gente sparava sui nostri compagni, nella stanza accanto due compagni si insultavano a urli”. Tacque e poi aggiunse: ”Dico, non c’era da piangere?”.
Nel ’68 ero segretario dell’Anac (l’associazione storica degli autori cinematografici) e, convinto del significato positivo della carica polemica e del radicalismo degli studenti, lavorai per portare gli autori a contestare un festival con lo statuto fascista com’era quello veneziano, canalizzando però quella carica rivoltosa verso uno sbocco politico e riformatore e dunque verso una nuova legge e un nuovo statuto della Biennale. Non ricordo esattamente ma io vedevo in questa mia operazione l’applicazione concreta di quello che Pietro Ingrao definiva l’intreccio fra i movimenti e il partito, cioè il loro sbocco politico. Il discorso di Ingrao era sicuramente più complesso ma a me allora sembrava tale. Per cui ricordo che partendo per Venezia per preparare la contestazione in accordo con Golinelli segretario della federazione veneziana del Pci, mi recai a Lenola, vicino Roma, dov’era la casa natale di Ingrao e dove lui andava spesso. Ricordo che lui ascoltò la mia fervida esposizione con attenzione ma senza scaldarsi troppo. Ricordo che mi suggerì di chiedere al critico dell’Unità Ugo Casiraghi di scrivere degli articoli “posati” – questa fu la parola – sulle legittime ragioni di quella contestazione (da qui vennero cinque articoli dal titolo impegnativo “Perché contestiamo Venezia”).
Niente di più e così me ne tornai a Roma non proprio deluso ma certo frastornato. Le cose poi andarono bene: ottenemmo una legge nuova e uno statuto nuovo di quella grande istituzione culturale pubblica e malgrado le ricostruzioni qualunquistiche e negative che si fanno oggi, fu parte di quella grande stagione riformatrice che portò ai decreti delegati per la scuola, allo statuto dei lavoratori, alla legge sul divorzio, alla grande riforma della Rai sottratta finalmente al dominio governativo. Quando qualche storico indagherà seriamente su quel periodo, non potrà non individuare all’origine di tutta quell’imponente fase di sviluppo politico, sociale e culturale le intuizioni profonde e il pensiero di Pietro Ingrao.
Questo mi veniva in mente ieri sera ricordando quel mio viaggio a Lenola dove non ricevetti abbracci solidali e gli sperati applausi di Pietro ma solo la sua attenzione. Ingrao era fatto anche così.
il sole24ore
ULTIMISSIME LAVORO – FISCALE28/09/2015
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IL MATTINO
GIORNALE DI BRESCIA
IL SECOLO XIX
Inca e Fp
Inca e Fp – Leggi bene … per non farti male (settore sanità)
Lavorare in ospedale espone a mille pericoli. Dal medico all’infermiere, fino agli addetti alle pulizie, nei nosocomi italiani le possibilità di procurarsi infortuni o malattie sono innumerevoli. A mettere in guardia tutte queste figure professionali, indicando ogni singolo fattore di rischio, ci hanno pensato l’Inca Cgil e l’Ufficio Salute e sicurezza della Cgil Modena (in collaborazione con la Funzione pubblica Cgil) con il manuale “Leggi bene… per non farti male”, indirizzato appunto alle lavoratrici e ai lavoratori del settore ospedaliero.
Obiettivo della guida, aggiornata al luglio scorso, è aiutare lavoratori e iscritti sia ad avere informazioni sulle normative che regolano la sicurezza nei luoghi di lavoro e la tutela alla salute cui hanno diritto, sia ad affrontare le eventuali situazioni di disagio che si dovessero verificare nel corso delle proprie mansioni.
“La guida fa parte di una serie di manuali che il patronato, assieme alle diverse categorie, ha realizzato negli ultimi anni, come quelle sull’igiene ambientale, sulla metalmeccanica o sull’edilizia” spiega Marco Bottazzi, coordinatore medico-legale dell’Inca Cgil nazionale: “Ma nasce anche in coincidenza di un’attività di ricerca attiva delle malattie professionali che stiamo sviluppando nell’ambito di uno specifico progetto indirizzato alle regioni del Sud Italia”. Negli ospedali, dice Bottazzi, le condizioni di lavoro “sono molto cambiate: i rischi si stanno progressivamente spostando dai dipendenti ‘puri’ alle diverse altre figure professionali che fanno parte di cooperative o hanno le più disparate forme contrattuali. Ecco quindi che questa guida, frutto di incontri con Rls di numerose strutture italiane, quindi realizzata verificando sul campo i rischi reali, si rivolge anche a tutti questi lavoratori meno tutelati”.
Nella prima parte del testo vengono riassunti, anzitutto, le fonti legislative vigenti, i diritti e i doveri degli Rls, i ruoli e le funzioni degli altri soggetti che presiedono alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (come il medico competente. Trovano spazio, poi, informazioni sulla sorveglianza sanitaria, sull’obbligo della formazione e dell’addestramento, sul ruolo del Patronato, oltre a tutta una serie di consigli pratici su cosa fare in caso di infortunio o malattia. Una particolare attenzione, inoltre, viene dedicata all’inidoneità alla mansione che attualmente nei luoghi di lavoro, sia per il peggioramento delle condizioni, legate a ritmi e turni intensi, sia per la permanenza a un’età sempre più avanzata del personale, dovuta all’innalzamento dei requisiti alla pensione, crea forte preoccupazione, soprattutto se è messo in relazione al rischio della perdita del posto di lavoro.
La seconda parte, invece, indaga le possibili malattie professionali in ambito ospedaliero, mettendo in relazione le diverse patologie con i fattori di rischio presenti in ciascuna area o reparto, indicando anche il personale che maggiormente è interessato. Le patologie indicate sono 15: da quelle del rachide (dovute alla movimentazione di pazienti o di carichi pesanti, a vibrazioni oppure a posture incongrue) alle tumorali, dalle cutanee a quelle degli arti superiori, dai disturbi della sfera psichica alle patologie dell’apparato cardiovascolare. Di ogni patologia si indicano anche le cause che possono provocarle, le casistiche più frequenti, le situazioni in cui il danno si può accentuare.
M.Togna su Rassegna.it
Cassazione
Comporto, infortuni e licenziamento
È illegittimo il licenziamento al superamento del periodo di comporto nel caso in cui venga riconosciuto l’infortunio. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 13667/2015. La non legittimità scatta qualora una malattia viene poi riconosciuta come infortunio sul lavoro, fatto che rende inapplicabili le disposizioni contrattuali previste per la conservazione del posto per eventi morbosi.
Già in passato, con la sentenza n. 26307/2014 la Suprema Corte di Cassazione aveva ribadito l’orientamento maggioritario in materia di rapporto tra malattia professionale e comporto, ritenendo che nel calcolo di tale periodo non rientrino i giorni di assenza derivanti da malattia professionale causata dalla violazione da parte del datore di lavoro del principio di cui all’articolo 2087 del codice civile.
Ricordiamo inoltre che con la sentenza n. 22538/2013 la Corte di Cassazione aveva affermato che non devono essere inserite nel calcolo del periodo di comporto neanche le assenze del lavoratore derivanti da casi di mobbing da parte del datore di lavoro.
Per periodo di comporto si intende il tempo durante il quale il lavoratore assente dal lavoro per malattia, infortunio, gravidanza, puerperio, richiamo alle armi o chiamata per obblighi di leva, ha diritto a non esser licenziato per un intervallo di tempo definito dalla legge o dal CCNL. L’eventuale licenziamento intimato durante il periodo di comporto è inefficace, sussistendo in tal caso una situazione che non consente la prosecuzione del rapporto, neanche in via temporanea, a meno che non si tratti di:
•licenziamento per giusta causa;
•licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto a sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa;
•licenziamento per cessazione totale dell’attività di impresa;
•se lo stato di malattia non dipende dalla violazione di misure di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro del datore.
In generale il superamento del periodo di comporto consente al datore di intimare il licenziamento per sopravvenuta impossibilità del prestatore di adempiere all’obbligazione di lavoro.
Pmi.it
Sentenza UE
Inca e Cgil Marche su sentenza UE su permesso di soggiorno
Cgil e Inca ottengono dalla Corte di Giustizia europea un’importante sentenza contro la discriminazione verso gli stranieri. Una sentenza che, nelle Marche, interessa una platea molto vasta. Nel 2014, infatti, i cittadini stranieri che hanno ottenuto il permesso di soggiorno nella regione con scadenza sono 46.869, quelli che hanno ottenuto il permesso a scadenza di lungo periodo sono 79.727.
La sentenza coinvolge dunque 126.596 cittadini stranieri soggiornanti nelle Marche. Con questo atto dell’organismo europeo, questi cittadini stranieri dovranno essere rimborsati della tassa pagata. Il Governo, a questo punto, dovrebbe prendere atto di questo risultato e provvedere a sanare quanto prima quella che, di fatto, e’ una situazione oggi priva di base giuridica.
“Comunque – dice Gabriele Paolucci, coordinatore regionale Inca Marche – in attesa che ciò accada, le sedi CGIL e gli uffici del Patronato INCA sono a disposizione per fornire informazioni e per raccogliere la richiesta di restituzione delle somme che questi cittadini stranieri hanno versato dal 2012 ad oggi a titolo di contributo aggiuntivo per il rilascio e rinnovo del titolo di soggiorno“.
Nelle Marche, la provincia che ha il maggior numero di permessi di soggiorno rilasciati è Ancona con 39.717, seguono Macerata con 34.455, Ascoli Piceno e Fermo con 26.840 e Pesaro e Urbino con 25.584. Sui 126.596 cittadini stranieri che hanno richiesto il permesso di soggiorno nel 2014, i più numerosi sono quelli nella fascia di età da 0 a 17 anni pari a 32.212, poi ci sono quelli tra i 35 e i 39 anni pari a 14.656.
“Il provvedimento della Corte europea rende giustizia rispetto ad una tassa sullo ‘straniero’ che, come Cgil, sin dal 2011, abbiamo definito intollerabile e ingiustificata – dichiara Giuseppe Santarelli, segretario regionale Cgil – poiché va a colpire una delle fasce più deboli della popolazione. Nelle Marche, la platea è particolarmente ampia e, nonostante la crisi economica, rappresenta più del 10% della popolazione totale della regione”.
dal blog di Pietro Spataro
giubberosse
Il blog di Pietro Spataro
Ingrao, i giovani e l’invenzione dell’Unità
“Dimmi, dimmi quanti libri leggi. Dimmi quanti libri leggete voi giornalisti dell’Unità…”. Pietro Ingrao era fatto così, sempre diretto. Senza giri di parole. Pensava che per cambiare il mondo bisognasse conoscerlo. Per conoscerlo bisognasse stare nel gorgo. E poi studiare. Fare il giornalista per lui non è mai stata una passeggiata, e voleva che anche per quelli venuti dopo di lui nel giornale fondato da Gramsci fosse così: conoscenza e studio. Ora che se ne è andato con il carico di una storia grande, ritornano in mente i mille aneddoti di un rapporto con l’Unità che è stato forte, pieno di passione, in alcuni momenti anche conflittuale. Ma solo perchè voleva bene al giornale, voleva che fosse serio e popolare, rigoroso e curioso. Un po’ come era stato quando lui, giovanissimo, lo prese in mano dopo la guerra e lo fece diventare un grande giornale.
Ingrao diventa direttore l’11 febbraio del 1947 e il quotidiano è tutto da fare e da inventare. In quei giorni disordinati c’è una sola cosa chiara: fare un vero giornale. Che sia, come spiega a quei giovani Palmiro Togliatti, il “Corriere della sera della classe operaia”. Insieme con Ingrao arrivano in redazione altri ragazzi tra i quali Alfredo Reichlin, Luigi Pintor, Arminio Savioli, Paolo Spriano, Maurizio Ferrara, Luciano Barca, Davide Lajolo. Hanno fatto buoni studi e buone letture. Gli intellettuali, li chiamano. L’impresa è entusiasmante e loro la affrontano con grande passione e con uno sconfinato spirito di sacrificio. A una parete della redazione in via Quattro Novembre qualcuno ha appeso un cartello che ricorda a tutti di spegnere la luce quando si va via perché i “soldi sono degli operai”. Spesso la sera i giornalisti restano in redazione a parlare. O vanno a “confessarsi” con il direttore per gli amori bruciati. Ma non è tutto rose e fiori. Ci vuole, infatti, l’autorità di Togliatti per imporre al gruppo dirigente del Pci quel giovane intellettuale che ama le poesie di Montale. “Compagni, ma come si fa? Non è nemmeno membro del Comitato centrale”, protesta la vecchia guardia. Ma il Migliore non sente ragioni. E Ingrao si mette al lavoro e inventa tutto da zero: di fatto rifonda il giornale. Il profilo nazionale e popolare del quotidiano è subito chiaro. C’è molta politica, certo. Ma anche la cronaca, l’informazione sindacale, le inchieste sociali , gli spettacoli. C’è lo sport con le “cronache dal giro d’Italia” firmate dal poeta Alfonso Gatto. Quel collettivo guidato da Ingrao si misura con il giornalismo in modo “irruento e sfacciato”. I titoli sono aggressivi, gli articoli partigiani, vengono inventate rubriche cattive e corsivi che tolgono la pelle agli avversari.
Ma è la cultura il vero motore di questo nuovo giornale. La “cultura larga”, che si sporca le mani con la realtà: i migliori intellettuali si mettono al lavoro per raccontare il mondo con parole nuove. Solo per citarne alcuni: Umberto Barbaro, Giacomo Debenedetti, Bruno Barilli. Appaiono sull’Unità i reportage e le inchieste di Vittorini e Quasimodo, di Bontempelli e Calvino. Gianni Rodari cura una bella pagina domenicale per i ragazzi, Sibilla Aleramo si occupa delle donne. Pavese porta su quelle pagine i grandi scrittori americani. Per comprendere meglio questo “capolavoro” di Ingrao non si deve dimenticare il clima di duro scontro dopo le elezioni del ’48 e la sconfitta dei social-comunisti. C’è una cappa sul Paese. L’Unità di Ingrao si conquista così – prima che arrivi il gelo togliattiano – una vera e propria “funzione liberale” contro l’oscurantismo democristiano. La stessa fermezza mette, quel giornale, anche nella battaglia in difesa della democrazia e della Costituzione: negli archivi è conservata una foto di Ingrao con la testa insanguinata dopo essere stato picchiato dalla polizia a una manifestazione contro la “legge truffa” nel ’53.
Era il tempo feroce dei nemici. Della polizia che picchia e che spara contro gli operai, contro i contadini. Per questo il lavoro è l’altro motore che dà velocità all’Unità di Ingrao. Oggi può apparire una ovvietà, ma in quegli anni è un caso editoriale nel panorama di una stampa che aveva lo sguardo da un’altra parte. L’Unità decide che quel pezzo di paese dimenticato è il suo target. E per segnalare il senso profondo di questa scelta, si muove anche il direttore da grande inviato, raccontando le condizioni dei braccianti. Ma sulla condizione operaia si cimentano anche scrittori e registi, interviene Cesare Zavattini, parte Alberto Jacoviello per un lungo “viaggio nell’Italia dei diseredati”. Questa linea d’attacco dà presto i suoi risultati: il quotidiano cresce, nascono le prime associazioni Amici dell’Unità. La diffusione diventa capillare e presto si vendono oltre 400 mila copie. Poi arrivano le feste dell’Unità che saranno la “grande piazza” del giornale. Dalla sua stanza di Botteghe Oscure Togliatti vigila su quelle redazioni. Spesso bacchetta i giornalisti. A volte li esorta. I famosi bigliettini scritti con l’inchiostro verde fanno le pulci quasi ogni giorno. Ma Togliatti non è solo il censore feroce. E’ anche il difensore di Ingrao e della sua redazione. Lo fa nelle riunioni della Direzione, quando l’Unità viene crocifissa perché parla poco del partito e della Russia. E difende il giornale anche dalle pressioni esterne del Cominform.
Poi, però, arrivano le bufere. “Le parole ci cadono sulla testa come chicchi di grandine”: è il 5 giugno del 1956, il New York Times ha appena pubblicato il rapporto segreto di Krusciov su Stalin e nella redazione di Milano Rodari lo legge ad alta voce tra lo sconcerto. A Roma Ingrao aspetta che torni Togliatti da Mosca per saperne di più. Nessuna risposta. In questo strano silenzio Ingrao, però, decide di intervenire il 21 marzo con un editoriale dal titolo significativo: “Nuove vie aperte”. E’ un articolo importante perché rivendica il coraggio di discutere degli errori compiuti perfino da “una grande figura del movimento operaio qual è quella del compagno Stalin”. E centra il punto politico che poi infiammerà il dibattito del Pci: è possibile la “trasformazione del regime sociale seguendo un’altra via”? La sua risposta è sì: è la “via italiana al socialismo”. E’ forse il primo indizio di una riflessione critica sul regime sovietico e sul ruolo del Pci. Ma quel barlume si spegne presto e la reticenza si impone sulla voglia di aria nuova. E infatti quando la bomba Stalin esplode con un fragore assordante, l’Unità tace. Soltanto il 13 giugno compare in prima pagina un comunicato dell’ufficio stampa del Pci con il quale si annuncia un’intervista che Togliatti ha concesso alla rivista Nuovi argomenti. Ogni paese, dice il leader del Pci, deve seguire la sua via al socialismo, non esiste più un paese-modello. Sembra una svolta. Che Ingrao infatti decide di cavalcare sostenendo che bisogna liberarsi da “ogni ipoteca”.
Ma quel 1956 è un anno tremendo che sembra non finire mai. Proprio nei giorni in cui, molto faticosamente, si riesce a parare il colpo del rapporto segreto, dall’est arriva un’altra tegola. A fine giugno scoppia la rivolta di Poznan. Gli operai della fabbrica polacca Zispo protestano per le paghe ridotte e i turni massacranti. La polizia spara: trentotto morti, centinaia di feriti. La versione polacca è netta: sono stati i provocatori imperialisti. Vito Sansone è il primo giornalista occidentale ad arrivare a Poznan e racconta sull’Unità la rabbia degli operai, l’indignazione per il comportamento della polizia, i dubbi. Ma solo qualche giorno dopo su quelle domande cala la mannaia di un editoriale di Togliatti intitolato, non a caso, “La presenza del nemico”.
Il vento, però, non si può fermare con le mani. Ingrao tenta in tutti i modi di insinuarsi negli spiragli di riflessione aperti da quel dramma che viene da est. Ci prova a settembre inviando Alfredo Reichlin e Luciano Barca in Unione Sovietica: andate e raccontate, dice loro. Al ritorno i due giornalisti scrivono un lungo reportage a puntate. L’impressione che ricavano è problematica: “La visione di scorcio che abbiamo avuto della società sovietica è stata tale da modificare profondamente gli schemi politici e sentimentali che avevamo nella testa”. Ma proprio ora che questi primi, anche se timidi, segnali di dubbio si affacciano, arriva una nuova mazzata che cambierà la storia e soffocherà ogni pensiero critico. Il 23 ottobre una manifestazione di studenti sfocia in una rivolta contro il governo e il partito a Budapest. Anche in questo caso è la “presenza del nemico” a spiegare tutto. “Scontri nelle vie di Budapest provocati da gruppi armati di contro-rivoluzionari”, è infatti il titolo dell’Unità. Il giorno dopo Ingrao scrive quell’editoriale non firmato che lo perseguiterà a lungo e sul quale farà una spietata autocritica: “Da una parte della barricata a difesa del socialismo”.
Un’occasione mancata i cui effetti saranno pesanti: la redazione è in subbuglio e molti scrittori sono sul piede di guerra e abbandonano. Quel trambusto spinge Ingrao a reagire: decide di mandare a Budapest uno dei suoi inviati di punta, Alberto Jacoviello. Il suo primo reportage esce il 13 novembre, quando ormai l’invasione è compiuta. Ma quell’articolo apre un altro squarcio di verità: “Eppure non si può dire che tutti coloro che hanno preso le armi in Ungheria siano fascisti o banditi. Errore sarebbe dimenticare che al movimento hanno partecipato anche i lavoratori”, scrive Jacoviello. Ma il tempo sembra scaduto e la ferita del ’56 non si può rimarginare. E’ il tempo dei sogni che muoiono. E’ il tempo della Bonaccia delle Antille, come scriverà più tardi Italo Calvino: “Il capitano aveva spiegato che la vera battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti, ristudiando i piani delle grandi battaglie navali…”.
Quando lascia la direzione dell’Unità, Pietro Ingrao si porta sulle spalle questo decennio di ferro e di fuoco. Le sue speranze, i suoi sogni e i suoi errori. Entra nella segreteria del Pci. Ma prima di andare via chiede e ottiene che alla guida del giornale ci siano, l’uno a Roma e l’altro a Milano, due giovani brillanti: Alfredo Reichlin e Aldo Tortorella. Ingrao vuole difendere l’Unità moderna cresciuta, nonostante gli sbagli, dentro quelle bufere. E se un futuro c’è stato gran parte del merito lo si deve a lui. A un uomo che, navigando in mare aperto, ha inventato un grande giornale di popolo. Oggi che gli diciamo addio, è giusto ricordare anche quel pezzo di storia che ha segnato la vita dell’Unità e di tanti uomini e donne che al giornale hanno dedicato le loro grandi passioni.