Archivi giornalieri: 9 settembre 2015

25 agosto 2015

 

Comunicazioni Obbligatorie, pubblicata la nota riferita al mese di luglio 2015

I dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sui movimenti di rapporti di lavoro nel mese di luglio

 

È stata pubblicata la nota flash (a 20 gg) con i dati riferiti al mese di luglio 2015 concernenti le attivazioni e cessazioni di tutti i rapporti di lavoro, al netto dei settori del lavoro domestico e della Pubblica Amministrazione.

I dati sono tratti dal sistema informativo delle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (SISCO).

Per maggiori informazioni e approfondimenti vai alla Sezione Studi e Statistiche

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Jobs Act

4 settembre 2015

Jobs Act: approvati in via definitiva in Consiglio dei Ministri quattro decreti attuativi

 

Nel corso del Consiglio dei Ministri tenuto a Palazzo Chigi il 4 settembre 2015 sono stati approvati, in via definitiva, quattro decreti attuativi del Jobs Act.

In particolare, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche  Sociali, Giuliano Poletti, ha adottato, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183:

1. il decreto legislativo recante disposizioni per la razionalizzazione e la semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale;

2. il decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive;

3. il decreto legislativo recante disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità;                       

4. il decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro.

 

Guarda la Conferenza stampa tenuta dal Ministro Poletti al termine del Consiglio dei Ministri.  

Per maggiori informazioni e approfondimenti vai alla sezione dedicata del sito www.governo.it

Comunicati ARAN

 

Osservatore Romano

 

Al lavoro
come sempre

 

 Al regno di Elisabetta II il primato di longevità nella storia britannica ·

07 settembre 2015

 
  

«Siamo consapevoli che si tratta di una data storica, ma si lavorerà come al solito». Questo semplice annuncio fatto di recente da Buckingham Palace è tipico dell’intero regno di uno dei monarchi più notevoli che si sia mai seduto su un trono. Tuttavia quella data non segnerà un giorno “normale”, bensì una pietra miliare davvero eccezionale. Il 9 settembre di quest’anno, sua maestà la regina Elisabetta II batterà il record di 63 anni e 216 giorni stabilito dalla sua trisnonna, la regina Vittoria, diventando il monarca dal regno più lungo della storia britannica.

La regina Elisabetta II

Vittoria stabilì il suo record il 23 settembre 1896. Nel suo diario scrisse: «Oggi è il giorno in cui ho regnato un giorno più a lungo rispetto a qualsiasi altro sovrano inglese». Il sovrano al quale pensava era suo nonno Giorgio II, che regnò dal 1760 al 1820. Prima del suo, il regno più lungo nella storia britannica era stato quello di Giacomo VI di Scozia, in seguito divenuto Giacomo I d’Inghilterra: fu re di Scozia per 57 anni, dal 1567 al 1625 (divenne re d’Inghilterra e quindi della Gran Bretagna solo nel 1603). Vittoria trascorse la giornata tranquillamente, nella sua residenza scozzese, il castello di Balmoral, intrattenendo l’ultimo zar e la zarina di Russia. Ed è lì che, tranquillamente, trascorrerà la giornata anche la regina Elisabetta II, il cui regno è il più lungo tra quelli dei quarantuno re e regine d’Inghilterra e di Gran Bretagna dopo la conquista normanna.

Non c’è alcun dubbio che la regina trascorrerà almeno parte della giornata a esaminare i documenti di Stato ufficiali, come ha fatto ogni giorno da quando, a 25 anni, è diventata regina dopo la morte di suo padre re Giorgio VI, avvenuta nelle prime ore del 6 febbraio 1952. «Elisabetta la brava, Elisabetta la diligente», l’ha definita uno storico, e il dovere e il servizio alla nazione sono stati il segno distintivo del suo regno. Per oltre 63 anni è rimasta fedele alle parole pronunciate all’inizio: «Mi sono impegnata con sincerità al vostro servizio, così come tanti di voi sono impegnati al mio. Per tutta la vita e con tutto il cuore cercherò di essere degna della vostra fiducia».

Come Vittoria, ha rappresentato un segno di continuità mentre il Paese è cambiato e si è modernizzato. Ha servito attraverso il XX secolo, passando per il millennio, fino al XXI secolo. Come principessa Elisabetta ha presenziato agli austeri Giochi olimpici che si sono svolti a Londra, nel 1948, dopo la seconda guerra mondiale. Come regina, ha celebrato il suo giubileo di diamante nell’anno delle Olimpiadi di Londra 2012. Il suo primo premier britannico è stato sir Winston Churchill, che aveva combattuto in Sud Africa nella guerra dei boeri. L’ultimo, David Cameron, dodicesimo del suo regno, è nato 14 anni dopo la sua ascesa al trono. Il primo ministro continua la prassi seguita da tutti i suoi predecessori dell’udienza settimanale con la regina, durante la quale la monarca ascolta, ma incoraggia anche e aiuta a guidare. Oggi non esiste figura politica con più esperienza al mondo.

Per molti è “la regina d’Inghilterra”, o più semplicemente “la regina”. Il suo titolo ufficiale è Elisabetta II, Dei Gratia Britanniarum Regnorumque Suorum Ceterorum Regina, Consortionis Populorum Princeps, Fidei Defensor. Tuttavia è bene ricordare che oltre a ciò è anche regina del Canada, dell’Australia, della Nuova Zelanda e di altri 12 regni, dalle Isole Salomone nel Pacifico alla Giamaica nei Caraibi. È capo del Commonwealth delle Nazioni, che comprende 53 Stati indipendenti in tutto il mondo, per la maggior parte antichi membri dell’impero britannico. Per giunta è guida suprema di Fiji, duca di Normandia a Guernsey, Jersey e l’Isola di Man, nonché capo sovrano del molto venerabile Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, equivalente anglicano del Sovrano Militare Ordine di Malta.

Inoltre, cosa importante, è governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra. Di fatto, si potrebbe dire della regina Elisabetta II che la fede cristiana ha sorretto la sua vita, il suo servizio e il suo regno. Lei stessa lo ha ammesso nel suo messaggio di Natale nell’anno del millennio: «Per molti di noi, ciò in cui crediamo è di fondamentale importanza. Per me gli insegnamenti di Cristo e la mia responsabilità personale dinanzi a Dio costituiscono la cornice nella quale cerco di condurre la mia vita. Anch’io, come tanti di voi, in tempi difficili ho tratto grande conforto dalle parole e dall’esempio di Cristo».

È un regno che ha assistito a progressi tecnologici straordinari, sconvolgimenti politici e sviluppi culturali. I suoi primi anni da regina sono stati caratterizzati dal costante smantellamento dell’impero britannico quando una serie di Paesi, dal Ghana alla Malesia, hanno ottenuto la loro indipendenza. Per molti aspetti, il 1952, anno in cui è salita al trono, è stato testimone di un mondo da lungo scomparso. La terra era abitata da poco più di 2,6 miliardi di persone. Attraverso l’Europa era stata tirata la cortina di ferro, che non sarebbe stata tolta per altri 37 anni. Re Farouk d’Egitto fu rovesciato. Il premio Nobel per la pace fu vinto dal teologo e filosofo luterano Albert Schweitzer (al quale la regina ha conferito l’Ordine al Merito nel 1955). Truman era presidente degli Stati Uniti. Era Papa Pio XII e il concilio Vaticano ii era molto di là da venire.

La sua prima visita di Stato da regina nella Santa Sede, con al fianco, come sempre, il duca d’Edimburgo, si è svolta nel 1960, con Papa Giovanni XXIII, ora santo. Quella più recente si è svolta nel 2014, con Papa Francesco. Il suo regno ha assistito a progressi straordinari nelle relazioni ecumeniche, inconcepibili quando è iniziato. L’arcivescovo di Canterbury è un ospite abituale in Vaticano, ma la prima visita di questo genere dopo la riforma non è avvenuta che nel 1960. L’incontro dell’arcivescovo con il Papa aveva senz’altro ricevuto la previa approvazione della regina che, in occasione di una visita a Lambeth Palace durante il suo Giubileo di diamante, ha spiegato in modo chiaro la sua visione del ruolo della Chiesa d’Inghilterra: «Il concetto della nostra Chiesa costituita talvolta viene frainteso e, ritengo, spesso non abbastanza apprezzato. Il suo ruolo non è quello di difendere l’anglicanismo fino a escludere altre religioni. Anzi, la Chiesa ha il dovere di proteggere la libera pratica di tutte le fedi in questo Paese. Certamente fornisce un’identità e una dimensione spirituale ai suoi numerosi fedeli. Tuttavia, ha anche creato, in modo graduale e certo, un ambiente che consente ad altre comunità di fede, e perfino alle persone prive di fede, di vivere liberamente. Inserita nel tessuto di questo Paese, la Chiesa ha contribuito a costruire una società migliore, cooperando sempre più attivamente con gli appartenenti ad altre confessioni per il bene comune».

Fede, servizio, saggezza e dovere sono stati i leitmotiv del suo regno. Queste virtù ricordano e confermano la natura sacrale della sua incoronazione nell’abbazia di Westminster nel 1953, definita «un grande atto di comunione nazionale». Per molti aspetti, il monarca appartiene alla nazione, ed è una cosa che la regina Elisabetta ha compreso in tutto il suo lungo regno.

Inevitabilmente, adesso molte persone la stanno paragonando alla regina Vittoria. La gente spesso parla di un’“età elisabettiana”, con chiaro riferimento all’epoca vittoriana. Uno dei motivi per cui il 9 settembre 2015 «si lavorerà come al solito» è che la regina desidera evitare simili paragoni per rispetto alla sua predecessora. È però difficile. Dopotutto, fu Lord Palmerston a dire, parlando della giovane principessa Vittoria: «Solo poche persone hanno avuto occasioni per formarsi un giudizio corretto sulla principessa; ma sono incline a pensare che si rivelerà una persona notevole, e dotata di molta forza di carattere». Si sarebbe potuto dire lo stesso della regina attuale.

Nigel Baker 
Ambasciatore della Gran Bretagna presso la Santa Sede

 
 

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La guerra non è mai santa

 

 Da Tirana appello di quattrocento leader religiosi ·

09 settembre 2015

 
  

«La guerra non è mai santa, l’eliminazione e l’oppressione dell’altro in nome di Dio è sempre blasfema. L’eliminazione e l’oppressione dell’altro e della sua storia, usando il nome di Dio, è un orrore». 

È questo il fermo convincimento degli oltre quattrocento leader delle grandi religioni mondiali, riunitisi dal 6 all’8 settembre a Tirana su invito della comunità di Sant’Egidio, in occasione dell’incontro internazionale sul tema «La pace è sempre possibile. Religioni e culture in dialogo», organizzato in collaborazione con la Conferenza episcopale locale e la Chiesa ortodossa albanese.

In un momento in cui la comunità internazionale stenta a trovare soluzioni ai conflitti, i congressisti hanno rivolto ai governanti un richiamo all’importanza del dialogo: «La guerra — si legge nell’appello — non si vince con la guerra: è un abbaglio. La guerra sempre sfugge di mano. Non illudetevi. La guerra rende disumani interi popoli. Ripartiamo dal dialogo, che è una grande arte e una medicina insostituibile per la riconciliazione tra i popoli».

Si è affrontato anche l’argomento rifugiati, per i quali oltre all’accoglienza è necessario e urgente lavorare per la pace, poiché solo la fine dei conflitti potrà arrestare il grande esodo. Ne è convinto Andrea Riccardi, che nella cerimonia finale ha sottolineato come i credenti debbano essere in prima fila nel ridare al mondo una speranza per il futuro. Infine il fondatore della comunità di Sant’Egidio ha auspicato che «dalle religioni rinasca un movimento di cuori e di pace che non si rassegni alla guerra e al dolore».

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Osservatore Romano

Momento della sincerità

  Juncker lancia il nuovo piano europeo sull’accoglienza ·

09 settembre 2015

 
  

«In Europa è arrivato il momento della sincerità e non dei discorsi vuoti. L’Unione non versa in buone condizioni. Manca l’unione e manca anche l’Europa». Sono parole dure e severe quelle con cui il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha aperto oggi il suo discorso sullo stato dell’Unione davanti al Parlamento di Strasburgo.

Il presidente ha richiamato tutti a un impegno comune, a rispettare le regole, che pure ci sono, ma che spesso vengono ignorate, ma soprattutto ad accogliere con umanità quanti fuggono dalla guerra e dal terrore in cerca di una vita migliore. L’immigrazione è dunque, oggi, la principale sfida che l’Europa deve affrontare. E deve farlo prima che sia troppo tardi. Questo infatti — ha detto Juncker — «non è il momento degli affari correnti» ma quello in cui l’Unione deve affrontare «i grandi problemi aperti». Siamo europei, «siamo tutti europei. Sono alla guida di un organismo politico, sono un politico. Non un politicante. È finito il tempo del business as usual».

E dopo le parole e gli appelli, i fatti. Juncker ha annunciato un nuovo piano di accoglienza per ulteriori 120.000 rifugiati in Europa (oltre ai 40.000 già previsti), da ripartirsi in quote obbligatorie tra gli Stati membri. «Chiedo che venga adottato questo meccanismo» ha detto l’ex premier lussemburghese. «Gli europei devono prendersi carico di queste persone, abbracciarli e accoglierli. Spero che tutti siano coinvolti, che non ci siano retorica e solo parole, ma che ci siano azioni». Il nuovo piano sarà il primo punto dell’agenda del prossimo vertice tra i ministri degli Interni europei che si terrà lunedì 14 settembre. Il richiamo di Juncker arriva in un momento delicatissimo. Ieri il premier ungherese, Viktor Orbán, ha detto che il suo Governo intende accelerare la costruzione del muro al confine per fermare l’accesso dei migranti e dei rifugiati. La Spagna ha invece comunicato che accetterà la quota di rifugiati proposta da Bruxelles. Un aiuto all’Europa arriva dall’Australia, che ha deciso di accogliere 12.000 profughi siriani. Si muove, intanto, anche il palazzo di Vetro. L’Onu ha richiamato ieri l’attenzione sulla necessità di rispettare il diritto di asilo «senza alcuna forma di discriminazione» nell’affrontare la crisi migratoria in Europa.

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