Archivi giornalieri: 26 aprile 2014

Il canto civile di Pasolini di Carlo Felice Casula


  Ricordi  

 

Vedi anche: tutti gli aggiornamenti di “Pagine corsare” da ottobre 1998 

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.. “Pagine corsare”
RicordiIl canto civile di Pasolini
di Carlo Felice Casula
da “Informagiovani”
Con un appunto-promemoria su “Valle Giulia”

Nei primi giorni di novembre del 1975, fresco di laurea e di movimento studentesco, ma già assistente all’Università di Roma, ero a Bari, invitato a un convegno su TogIiatti e il Mezzogiorno che si teneva alla Fiera del levante con la presenza di molti noti storici e leader politici, tutti però quasi oscurati dalla presenza, anche fisica di Giorgio Amendola, con la sua mole, la sua verve, la sua Storia. 

Non ero, anche per stile generazionale, assiduo spettatore di telegiornali, o forse nella splendida casa di campagna dell’entroterra barese di Enzo Modugno, che proprio allora stava dando vita a Marxiana, la rivista più raffinata e prestigiosa dell’ultra-sinistra, dove ero ospite con altri amici, più semplicemente la televisione non c’era. 

Fatto sta che, quando la mattina del 2 novembre comprammo i quotidiani (di questi eravamo invece voraci consumatori e per di più dovevamo premunirci contro la possibile noia di una lunga mattinata di relazioni e interventi), fummo presi e sconvolti dai titoIoni in prima pagina sulla tragica morte di Pier Paolo Pasolini. Non ricordo se e come nel convegno si reagì a questa notizia-evento; ricordo invece, come se fosse oggi, che per me l’impatto fu molto forte e coinvolgente, anche perché il modo in cui l’intensa vita di Pasolini si era conclusa (una morte atroce, dopo un incontro di sesso mercenario, per mano di un “ragazzo di vita”, un “marchettaro”, nel crudo gergo romanesco, scoperto, amato e rilanciato da Pasolini in alcuni dei suoi più noti romanzi, Ragazzi di vita, appunto, e Una vita violenta) non ci sembrò, pur essendo in generale così sensibili alle tesi complottiste, né strana né sospetta, ma emblematica e quasi preannunciata dal cupio dissolvi che traspariva dall’ultimo e certo non più bello dei suoi film, Salò o le 120 giornate di Sodoma.

Lo scandalo della sua vita di uomo e di intellettuale-poeta attento e quasi preveggente, sensibile e impegnato fino a un sofferto coinvolgimento personale (la sua produzione vasta e variegata di scrittore, regista, sceneggiatore, saggista-opinionista è tutta riconducibile a questa sua dimensione), trovava nella sua morte orribile una emblematica conclusione-conferma. Scandalo nel significato che San Paolo attribuisce alla vita e alla morte in croce di Gesù (non sembri il paragone blasfemo o irriverente), come eccezione clamorosa rispetto alla normalità, ma anche come realtà e testimonianza con cui tutti si debbono misurare e confrontare.

Nel mio sgomento e sconforto era presente anche il ricordo di un personale incontro. Nella primavera del 1968 in tutta Italia era esplosa la protesta studentesca che a partire dall’università aveva coinvolto e travolto il mondo giovanile. Sono fatti fin troppo noti, anche perché, nel tempo, il Sessantotto è diventato quasi una epopea ripetutamente rievocata nei media da protagonisti e dai testimoni e osservatori. 

Pasolini, dopo la manifestazione di Valle Giulia che si ebbe a Roma nel mese di marzo, con centinaia di feriti tra giovani, ma anche per la prima volta tra gli ancora sprovveduti poliziotti, decine di arresti e moltissimi fermati, (compreso chi scrive), scrisse di getto per l’eIitaria rivista Nuovi Argomenti una lunga poesia, Il Pci ai giovani, che suscitò clamore, stupore e scandalo, anche perché fu pubblicata in contemporanea, “proditoriamente” (secondo l’esplicita affermazione di Pasolini) dal settimanale “L’Espresso”, all’interno di un ampio reportage, con il provocatorio titolo Vi odio cari studenti! L’intellettuale impegnato, di sinistra, comunista, nello scontro che aveva visto contrapposti in un campo di battaglia, non più solo metaforico, giovani studenti e giovani poliziotti, scriveva di preferire decisamente questi ultimi, sia per la loro estrazione sociale, popolare e meridionale, sia, ancor più, per la loro “innocenza”. 

Il Movimento studentesco reagì sdegnato e offeso e così pure non pochi uomini di cultura, come Fortini, e politici in carriera come Achille Ochetto, che intervenne con un articolo sprezzante su “Rinascita”. Sotto accusa per lutti era la presunta incapacità di Pasolini di cogliere le ragioni dello scontro in atto e di comprendere il ruolo di repressione svolto dalle forze di polizia in difesa del vecchio ordine. Facevo allora parte del “collettivo fuorisede”, composto da giovani studenti universitari, anch’essi per lo più poveri e meridionali. Nei confronti di Pasolini e, in particolare, del suo cinema, avevamo una vera e propria passione e, anche per questo, si sviluppò al nostro interno una discussione accesa e prolungata su queste sue affermazioni. A differenza, tuttavia, dei nostri compagni del Movimento studentesco e, in particolare, di quella componente che chiamavamo i “pariolini”, quasi istintivamente, riuscimmo a cogliere la “verità interna” contenuta nella poesia incriminata. Ci ragionammo molto insieme, in seguito, quando Pasolini ritornò sull’’argomento sul settimanale “Tempo”, a distanza di un anno, il 17 maggio del 1969. Pur senza nulla, ritrattare Pasolini. esprimendo anzi rammarico e sconcerto per la sostanziale incomprensione della verità, precisava a scanso di ulteriori equivoci:

“… Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti fìgli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di Architettura di Roma […] non era che una boutade una piccola furberia oratoria paradossale per richiamare l’attenzione del lettore e dirigerla su ciò che veniva dopo in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità anche di fare di questi poveri deglì strumenti […]: le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui Ia qualità della vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università”. 

La nostra cultura non era così raffinata da saper cogliere nella poesia di Pasolini (e Pasolini è, al di là forse dei suoi stessi intenti, poeta che si esprime con la scrittura e con le immagini-suono-ritmo del cinema, e non sociologo, antropologo, né tanto meno commentatore politico) la funzione centrale, oltre che della metafora, anche della “sineddoche”, dell”‘ossimoro”, del “paradosso”, ossia del suo frequente ricorrere, per esprimere un concetto, a enfatizzare un aspetto, quasi sottacendo il resto e tralasciando il contesto. Proprio in quei mesi avevamo, invece, fatto una singolare convergente esperienza sul campo. In centinaia, per protestare contro le disfunzioni della mensa universitaria, per diversi giorni portavamo i tavolini per strada e mangiavamo all’aperto, bloccando così il traffico. La polizia non tardò ad arrivare, ma non fu da noi accolta con gli usuali fischi e improperi. Con il megafono, a più voci, parlammo-dialogammo con passione con i poliziotti in tutti i dialetti del meridione; l’ufficiale che li comandava già pronto a ordinare la carica, con tanto di fascia e di trombettiere a fianco, percepì, anch’egli, come noi, tra i suoi ragazzi in divisa, una stupefacente onda di vera e propria commozione-simpatia nei confronti di quegli studenti che provenivano dagli stessi paesi e forse anche dalle stesse famiglie. 

L’episodio fu riportato nella cronaca cittadina dei giornali della Capitale; Pasolini; sempre attento a questo tipo di avvenimenti, per vie traverse ci comunicò che era curioso e contento di incontrarci. Tra l’altro la via dove questa nostra originale manifestazione si era svolta era non distante dal Tiburtino, nella periferia est di Roma, dove Pasolini aveva conosciuto alcuni dei suoi amici-interlocutori più cari, come Franco e Sergio Citti, ispiratori, personaggi e attori di suoi importanti libri e film (Una vita violenta, Ragazzi di vita, Accattone, Mamma Roma). 

Ci andammo in tre, i “leader”, con grande riservatezza, perché avevamo il timore di comprometterci con gli altri collettivi del Movimento studentesco. Aggressivi e indifesi, come tanti suoi giovani personaggi, parlammo e ascoltammo a lungo con grande emozione, anche quando il discorso dalla politica passò ad altro e anche a quello, per noi ragazzi meridionali, più difficile e imbarazzante-pruriginoso, della sessualità. Su cui, pur tuttavia, ci eravamo, preventivamente; documentati, per non presentarci sprovveduti, con la proiezione del suo bellissimo film documentario Comizi d’amore del 1964, di cui egli stesso ci aveva prestato una copia. Per quanto concerne questo specifico tema, così presente e centrale negli scritti, nei film e nella vita stessa di Pasolini, non può non essere giudicata strumentale e irriguardosa l’operazione che in taluni ambienti cattolici è stata compiuta tentando di arruolarlo, post-mortem, nello schieramento antidivorzista e antiabortista. La questione vera che egli sollevava e “scandalosamente” viveva era quella dell’autonomo, positivo, valore della sessualità, anche di fuori della specifica finalità creativa. Non si può negare-disprezzare-perseguitare la sessualità non procreativa e al contempo essere favorevoli all’aborto: è questo un tipico ossimoro-paradosso pasoliniano.

Ma ritorno al ricordo dell’incontro del Collettivo fuorisede con Pasolini: ci diede una grossa somma di denaro per le nostre iniziative e al meno “politicizzato” di noi tre promise di farlo lavorare in uno dei suoi film. Cosa che poi puntualmente avvenne, con grande gioia dell’interessato e molto orgoglio da parte nostra. Nel Canto civile, del dicembre 1969, ci parve di cogliere, a posteriori ma a ridosso, quasi un’eco di questo nostro incontro, nel verso “Chi farebbe la rivoluzione – se mai la si dovesse fare – se non loro? Diteglielo: sono pronti, tutti allo stesso modo, così come abbracciano e baciano e con lo stesso odore nelle guance”. I due versi finali, solo apparentemente, mostravano un esito pessimistico: “Ma non sarà la loro fiducia nel mondo a trionfare./ Essa deve essere trascurata dal mondo”. Era sufficiente, per capovolgerne il senso, far ricorso alle più semplici categorie sapienziali del Vangelo. Forse Pier Paolo Pasolini in questo unico intenso (per noi sicuramente, probabilmente anche per lui) incontro, aveva visto dei giovani capaci di rendersi conto, individuando cause e responsabilità, che nell’Italia industrializzata e secolarizzata, ma non per questo più ricca per usare una sua notissima metafora, ai bordi delle strade “erano improvvisamente scomparse le lucciole”.

* * *

Valle Giulia
di Luca Villoresi, la Repubblica marzo 1998

Il primo marzo avvenne all’improvviso il primo scontro tra studenti e poliziotti. Le idee dei ragazzi erano in realtà molto variegate. C’erano i maoisti, ma anche i cattolici o i socialisti. I combattimenti furono cruenti ma ingenui. E un maresciallo gridava disperato «La Seicento, no!» 

Era una gran bella giornata. Su questo non c’è dubbio. I testimoni sono tutti d’accordo. 

E a questo particolare riconducono quasi sempre l’avvio del proprio racconto, come se quella circostanza meteorologica, ancora così ben fissata nella memoria a trent’anni di distanza, potesse avere in qualche modo condizionato il corso degli eventi.

Chissà se il primo di marzo del 1968 a Roma fosse piovuto… Invece quel venerdì il sole splendeva e l’aria frizzava di tramontana. E la storia del Sessantotto, da qualsiasi parte la abbordiate, si ritrova a fare i conti con la cronaca di una giornata che l’epica rivoluzionaria ha celebrato con il nome di “battaglia di Valle Giulia”.

Dunque, c’era il sole. Tutti d’ accordo. E non è poco. Perché da questa constatazione in poi il resoconto dell’evento collettivo perde ogni parvenza di oggettività per frantumarsi in una miriade di rimembranze individuali, parziali e concitate come del resto, il giorno dopo, appariranno i verbali della questura e i rendiconti dei giornali.

Il fatto è che quell’esplosione prese tutti alla sprovvista. E questa, in fondo, resta l’essenza di quell’avvenimento: una battaglia, sì, ma totalmente improvvisata e scomposta nel caos di cento combattimenti corpo a corpo. Niente a che vedere con ciò che avverrà di lì a poco, con gli scontri preparati a tavolino dagli stati maggiori e guidati dai servizi d’ordine, con la violenza organizzata dello champagne molotov e della compagna P 38. Tanto che alla fine di quella sommossa, che pure conterà più di duecento feriti, la prognosi più grave non supererà i 35 giorni.

Non che il ’68 non fosse già in marcia prima di quel primo marzo. Anzi. Il movimento che avrebbe scosso la società occidentale aveva dato abbondanti segni di sé nei mesi precedenti: un ribollire, espresso più dalla musica che dai testi del marxismo, che saldava le marce di protesta contro la guerra del Vietnam e la minaccia atomica alle prime contestazioni della famiglia e della morale “borghese”.

Nei licei e nelle università i giovani, con la conquista dell’ assemblea, avevano appena scoperto il diritto di parola. E la vera scintilla di Valle Giulia era scoccata il pomeriggio precedente, quando il rettore dell’ateneo romano aveva chiamato la polizia per ristabilire l’ordine minacciato dagli studenti che, occupate le aule, rifiutavano il voto e chiedevano di sostenere gli esami anche su argomenti diversi da quelli fissati dai programmi.

Proprio per protestare contro quell’intervento, la mattina dopo, quattro o cinquemila ragazzi, medi e universitari, si erano riuniti a piazza di Spagna e avevano deciso di raggiungere la facoltà di Architettura, presidiata da duecento uomini, tra polizia e carabinieri. Sia tra le forze dell’ordine, sia tra i giovani nessuno immagina quello che sta per accadere.

Nei giorni precedenti, sotto il Palazzo di Giustizia di piazza Cavour, gli studenti che chiedevano la liberazione di alcuni compagni arrestati erano stati manganellati. Ma tutto era finito lì, nello spazio di dieci minuti. Invece quando, poco prima delle undici, gli agenti caricano le prime file della manifestazione che è arrivata sotto Architettura lanciando un paio d’uova e gridando “Poliziotti andatevene a casa!”, avviene qualcosa di totalmente nuovo. Gli studenti reagiscono. Con una rabbia sconosciuta.

È un caos. Di cui, si diceva, ogni protagonista ricorderà confusamente un suo piccolo spicchio, filtrato dalle emozioni prima che dall’intelletto. E non solo perché certi punti di vista erano ovviamente opposti: basti pensare a quello dei “celerini”, accanto ai quali nei giorni seguenti, scatenando una delle sue più celebri polemiche, si schiererà Pier Paolo Pasolini.

Il fatto è – e questa resta un’altra delle peculiarità fondamentali di quella giornata – che anche dalla parte dei ragazzi le idee, per quanto cementate da un invisibile collante, sono estremamente variegate. Nel corteo non ci sono solo i maoisti, i giovani del Pci, i cani sciolti della sinistra. Ci sono anche i cattolici, i liberali, i repubblicani, i socialisti, via via fino alla destra della Primula goliardica e di Caravella.

L’alchimia è arcana. Ma quella mattina, sarà per il vento di tramontana, la miscela esplode. Gli studenti all’inizio si difendono con tutto quello che hanno sottomano, roteano le cartelle, lanciano i libri. Poi divelgono il selciato e le panchine, si armano di bastoni e sampietrini, partono al contrattacco, riconquistano posizioni.

L’escalation è rapida. E il fronte della mischia, man mano che da una parte e dall’altra, dalle scuole e dalle caserme, affluiscono rinforzi, si allarga disperdendosi tra i prati di Villa Borghese, il viale delle Belle arti, le scalinate della Galleria nazionale d’arte moderna. Il fumo bianco dei lacrimogeni si confonde con quello, nero, delle camionette incendiate. E l’eco delle urla e delle sirene si allarga tutto attorno, per chilometri e chilometri. I combattimenti sono cruenti. Eppure ingenui. Come il vecchio maresciallo, fedele servitore di uno Stato ancora parsimonioso, che implora disperato “No! La Seicento no! Ce l’hanno appena consegnata!” cercando di fermare il cerino (altro piccolo ricordo di un’Italia scomparsa) che sta per appiccare il fuoco alla benzina dell’auto blu nuova di zecca. O come gli studenti che, conquistato l’atrio di Architettura travolgono, sfiorando la tragedia, anche un poliziotto terrorizzato che spiana la pistola intimando inutilmente il suo “Fermi tutti o sparo”.

Per chiudere la battaglia, che dura fino al pomeriggio, devono intervenire un migliaio di agenti, con decine di camionette e gli idranti che sparano acqua e ammoniaca. Alla fine si contano 144 feriti tra le forze dell’ordine, 47 tra gli studenti (ma la maggior parte dei giovani evita di farsi curare in ospedale). I fermati sono 228; di cui però – particolare che scatenerà altre polemiche – solo quattro vengono arrestati. Il bilancio di quella giornata, tuttavia, non è certo riassumibile in questi dati. Né negli otto automezzi bruciati, o nelle cinque pistole rubate agli agenti, come in seguito vorranno ricordare le letture militari di quegli avvenimenti. Valle Giulia è sicuramente un passaggio cruciale nel rapporto del Sessantotto con la violenza. E, in un movimento ancora ampiamente venato di pacifismo e aperto alle posizioni più moderate, l’esaltazione di quello scontro contribuirà non poco a rafforzare le tendenze che spingono verso una radicalizzazione della lotta, vuoi in nome della costruzione di un partito di stampo leninista, vuoi, più semplicisticamente, in nome della teoria del ciclo “repressione-mobilitazione”, secondo la quale a ogni azione violenta dello Stato corrisponde una reazione delle coscienze e quindi ben vengano gli arresti e le manganellate.

Valle Giulia, però, è davvero qualcosa di più. Un simbolo, che ognuno riempie di ciò che preferisce. E uno spartiacque. Basta riguardare le foto. Tra le immagini di quel primo marzo, rigidamente in bianco e nero, e quelle di tre o quattro anni dopo si direbbe esista una distanza maggiore di quella che corre, ad esempio, tra il ’77 e l’oggi.

Si vedano i poliziotti, impastranati nei cappottoni e vestiti, noterà Pasolini, “come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio, fureria e popolo”. E si vedano i ragazzi. Il look, come l’eskimo, è una parola che ancora nessuno conosce. Quei giovani, che nessuno saprebbe ancora assegnare dal semplice aspetto alla destra o alla sinistra, hanno le sfumature alte, la giacca e la cravatta, le scarpe coi lacci; il massimo della trasgressione è un giubbotto, un montgomery, un giaccone blu alla marinara. Sono il Sessantotto; ma ancora non lo sanno.

Libri di Carlo Felice Casula

Carlo Felice Casula


Carlo Felice Casula (Ollolai28 agosto 1947) è uno storico italiano. Nel 2018 è stato nominato professore emerito di Storia contemporanea nell’Università degli Studi Roma Tre

Biografia e carriera


Nato nel cuore della Sardegna da una famiglia di sette figli, dopo le elementari ha fatto per un anno il pastore con il padre. Ha potuto poi proseguire gli studi, prima a Cagliari nella scuola apostolica dei padri Gesuiti e poi a Roma, a Villa Nazareth, con borse di studio per meriti scolastici, frequentando il Liceo Virgilio.

Iscritto a Scienze politiche alla Sapienza, si è laureato a pieni voti nel 1972. Contemporaneamente ha seguito anche i corsi della Scuola italiana di scienze politiche e economiche, diretta da Franco Rodano e Claudio Napoleoni. Ha partecipato attivamente alle lotte del movimento degli studenti del Sessantotto. Per poter frequentare l’università nei mesi estivi ha lavorato come operaio metalmeccanico in Svezia alla Saab Scania a Trollhättan, dove è stato anche eletto delegato dei lavoratori stagionali.

Dopo laurea ha insegnato per alcuni anni in una scuola media, per avere poi un contratto alla Sapienza, dove nel 1980 ha vinto il concorso di ricercatore universitario presso la Facoltà di Magistero, collaborando con Pietro Scoppola. La sua formazione postuniversitaria è proseguita all’Istituto Luigi Sturzo con una borsa di studio biennale del FORMEZ, seguendo in particolare i corsi di Gabriele De Rosa e Federico Caffè e a Parigi, con una borsa del CNR, presso l’École pratique des Hautes Études en Sciences Sociales-Sociologie des religions, avendo come tutor Émile Poulat.

Nei primi anni Ottanta ha lavorato nella redazione delle Edizioni Lavoro, fondate nel 1978 da Pierre Carniti, curando in particolare la pubblicazione di libri di storia del sindacato in Italia e in Europa. Nel 1989 da ricercatore ha vinto il concorso nazionale per professore ordinario e, pur continuando a risiedere a Roma, per dodici anni ha insegnato nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari, dove ha insegnato storia contemporanea, storia moderna e storia della pubblica amministrazione e governo locale, dirigendo l’Istituto politico internazionale.

Richiamato dall’Università Roma Tre, in tale ateneo ha insegnato storia contemporanea, storia sociale, storia del lavoro e storia della pace, presiedendo il corso di laurea e dirigendo il Master internazionale in scienze della cultura e della religione. Per più mandati è stato membro del Senato accademico e responsabile della Commissione ricerca d’ateneo.

Dal 2003 al 2010 ha insegnato anche storia delle relazioni internazionali e Pace e guerra nel mondo contemporaneo presso la Link Camppus University of Malta in Rome, svolgendo le funzioni di Programme Leader del BA, MA in International Studies. È stato anche membro dell’Unesco History Project; e dell’ILO Century Project. Nel 2018 è stato nominato professore emerito di storia contemporanea e continua a insegnare storia del lavoro. Dirige la collana “Insegnare il Novecento” della Casa editrice Anicia.

La sua produzione scientifica ha riguardato la storia sociale, politica, culturale e religiosa dell’Ottocento e del Novecento (movimento operaio e sindacale in Italia e Europa, Roma, Sardegna, politica internazionale della Santa Sede, Unesco e Ilo, rapporti storia-cinema), registrata sull’Anagrafe della ricerca di Roma Tre è di oltre 250 monografie e saggi pubblicati con tutte le maggiori case editrici e in riviste prestigiose, senza tenere conto degli articoli pubblicati sui quotidiani cui ha collaborato (L’Unità, Paese Sera, L’Unione sarda, L’Osservatore Romano). Diversi saggi sono stati tradotti in lingua francese, spagnola, portoghese, inglese. Ha collaborato a diversi programmi culturali della RAI e alla realizzazione di film documentari e fiction: Roma occupata; Le Passioni dell’accademia; Il 1948 in Italia; Quel giorno di aprile; Tormenti di Furio Scarpelli; Il generale dei briganti.

A latere del lavoro d’insegnamento, di ricerca e di governo dell’università ha sempre avuto un forte impegno politico, prima con il Movimento degli studenti, dal 1976 con il Partito comunista italiano nel quale è stato anche a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, segretario della sezione dell’Eur e membro del comitato federale di Roma. Dopo il suo scioglimento ha privilegiato l’impegno sociale collaborando con la Comunità Domenico Tardini che segue negli studi giovani meritevoli di famiglie povere, le Acli, la Fondazione internazionale don Luigi Di Liegro e l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.

Pubblicazioni


Tra i suoi libri, indicativi dei percorsi di ricerca: Cattolici comunisti e sinistra cristiana 1938-1945, Il Mulino, Bologna 1976; Domenico Tardini. L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Studium, Roma 1988; L’Italia dopo la grande trasformazione, Carocci, Roma 1999; La Chiesa tra Guerra e pace. Dottrina politica e modernità da Leone XIII a Giovanni XXIII, Liberal Edizioni, Roma 2005; Unesco 1945-2005. Un’utopia necessaria, Città Aperta, Troina 2005; Le ACLI. Una bella storia italiana, Anicia, Roma 2008; Insegnare il Novecento, Anicia, Roma 2014; L’isola bella e infelice, Carlo Delfino, Sassari 2015; Da credenti nella sinistra. Storia dei Cristiano sociali 1993-2017, Il Mulino 2019. Tra i libri da lui curati: Continuità e mutamento. Classi, economie e culture a Roma e nel Lazio (1930-1980), Teti Editore, Milano1981; I sindacati francesi dall’anarco sindacalismo al governo delle sinistre, Edizioni Lavoro 1982; Agostino Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi comunisti (1963-1989), Einaudi, Torino 2000; La Rerum Novarum. Il documento-evento dell’insegnamento sociale della Chiesa, Anicia, Roma 2011; Il Giubileo del Lazio. Percorsi culturali, storici e religiosi, Anicia, Roma 2016; Ciak si lotta. Il cinema dell’autunno caldo in Italia e nel mondo, LiberEtà 2011; La conquista dell’impero e le leggi razziali tra cinema e memoria, Effigi 2020; Salvatore Satta, Lettere a Piero Calamndrei 1939-1956, Il Mulino 2020.

Collegamenti esterni


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Unesco 1945-2005

Un’utopia necessaria

di Casula Carlo FeliceLiliosa Azara

Pacem in terris

dalla guerra giusta alla pacem in terris

di Carlo Felice Casula

L’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII costituisce il punto d’arrivo di una lunga e intensa riflessione della Chiesa Cattolica sui temi della guerra e della pace nel Novecento. Le conquiste della rivoluzione industriale, piegate alle esigenze militari, hanno modificano nel profondo la realtà della guerra, destinata a diventare parte integrante e avanzata della modernità. È d’obbligo partire dal magistero di Leone XIII, il grande pontefice, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte, che con la «madre di tutte le encicliche sociali», la Rerum Novarum del 1891, con coraggio e determinazione, avvia il dialogo della Chiesa con la modernità, a partire dalla questione più drammatica ed emblematica, quella sociale. In diversi suoi interventi egli avanza forti perplessità sul semplice possesso d’armi, prima ancora del loro uso. Traspare in fondo l’idea di una positiva , interiorizzata, non semplice aspirazione d’idealisti, ma programma di governo desiderabile e praticabile, che implica la costruzione di un ordinamento sociale e politico percepito dai più come giusto. Giacomo Della Chiesa eletto papa il 3 settembre del 1914 col nome di Benedetto XV, nella sua prima enciclica, parla di «gigantesche carneficine» a proposito della Grande Guerra in corso, che, il 1° agosto del 1917, nella Nota ai capi dei popoli belligeranti , viene definita «inutile strage». Tale definizione indispettisce governi e autorità militari, ma, per la sua essenzialità ed immediatezza, non trova consenso e riscontro nell’esperienza quotidiana di milioni di donne e d’uomini travolti dagli sconvolgimenti bellici. Il pontificato di Achille Ratti-Pio XI (febbraio 1922-marzo 1939) si dipana per intero nella risi tra le due guerre mondiali. La sua condanna della guerra diventa sempre più coerente e coraggiosa, nel tempo, come nel caso della Guerra d’Etiopia, in altre parole, dell’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia. Il cardinale Eugenio Pacelli, eletto Papa nel marzo del 1939, nella Seconda Guerra Mondiale opera attraverso la diplomazia vaticana per circoscrivere il conflitto, enuncia le condizioni e i principi ispiratori di un possibile ritorno alla pace che non assumesse le connotazioni vendicative del Trattato di Versailles, impegna la Santa Sede, con l’ostilità aperta dei Nazisti, nel difficile compito di «difendere i vinti e tutelare i deboli». I limiti della posizione di Pio XII sono evidenti: nella guerra totale in cui non solo opera la sconvolgente potenza distruttrice delle nuove armi messe in campo, ma anche il ricorso sistematico alle rappresaglie contro le inermi popolazioni civili, per la Santa Sede, così come per altre organizzazioni umanitarie, come la Croce Rossa, è difficile ottenere il rispetto dello Ius in bello anche da parte di coloro che combattono una Good War (guerra giusta), per usare un’espressione dello storico inglese Alan John P. Taylor. Emblematica conclusione della guerra è, non a caso, Hiroshima, uno dei tre terribili «deliri dell’homo faber » del secolo appena concluso, assieme ad Auschwitz e all’eterogenesi dei fini del comunismo, rappresentata dai gulag sovietici. Nel dopoguerra nel nuovo contesto del mondo bipolare e della guerra fredda, la corsa agli armamenti, sia tradizionali sia atomici, diviene inarrestabile, garantisce la deterrenza e l’equilibrio del terrore. Pio XII stesso parla di «coesistenza nel timore». Contemporaneamente, però, la Carta costitutiva delle Nazioni Unite e gran parte delle costituzioni postbelliche, compresa la nostra all’articolo undici, bandiscono solennemente e rigorosamente la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Nel diritto internazionale, dopo lo ius ad bellum e lo ius in bello, si comincia a codificare lo ius contra bellum, in tal senso, si muovono diffusi e vasti movimenti per la pace, di diversa ispirazione ideale, ma convergenti nella consapevolezza che l’umanità ha ormai conseguito con la bomba atomica, per la prima volta nella storia, il potere terrificante di autodistruggersi. Giovanni XXIII, sfruttando anche la sua grande popolarità, subito dopo la convocazione del Concilio Vaticano II, contribuisce, con «un vibrante appello alla pace», lanciato dalla Radio Vaticana, a disinnescare lo scoppio della cosiddetta crisi dei missili precipitata, nell’ottobre del 1962. Nel contesto del pur contraddittorio nuovo clima di dialogo e apertura tra gli Stati Uniti di Kennedy e l’Unione Sovietica di Chru˜cëv, l’ultraottantenne pontefice riprende e rilancia il tema della pace, come motivo centrale del magistero della Chiesa, mater et magistra, esperta in umanità, tesa più che a emettere condanne o a ribadire posizioni assertive, ad ascoltare e a dialogare fuori e dentro la comunità ecclesiale, operando sempre la distinzione tra errore e erranti, con tutti gli uomini di buona volontà. L’enciclica Pacem in terris pubblicata l’11 aprile del 1963, rivolta, last but not least, anche a loro, suscita sconcerto in alcuni ambienti curiali e trova, invece, una straordinaria accoglienza nella comunità ecclesiale, in grande fermento per il Concilio Vaticano Secondo in corso, e anche fuori di essa, compreso il mondo comunista. Nella traduzione in italiano pubblicata da L’ Osservatore Romano si può cogliere qualche addolcimento-stravolgimento del testo latino, per esempio al par. n. 67: «riesce quasi impossibile pensare nell’era atomica che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia», nella versione ufficiale originaria si riscontra la ben più concisa e categorica espressione «alienum a ratione». La Pacem in Terris costituisce, indubbiamente il punto più alto del suo magistero. Nonostante i ripetuti rinvii nelle citazioni a Pio XII, rappresenta, anche per l’abbandono del tradizionale metodo deduttivo a favore di quello induttivo, un’indubbia coraggiosa discontinuità. Questo concerne innanzi tutto la teoria della guerra giusta (jus ad bellum) ancora prevalente nella Chiesa di Pio XII. I concreti sanguinosi svolgimenti delle guerre moderne, non solo le due guerre totali del Novecento, ma anche le innumerevoli guerre locali, con tutta evidenza, dimostrano come queste sottili e astratte condizioni non siano mai state rispettate. In Giovanni XXIII, con la Pacem in Terris, l’abbandono della teoria della guerra giusta non comporta la semplice rassegnazione nei confronti della violenza e dell’ingiustizia. La pace non è più l’assenza di guerra: certamente si affida all’«ottimismo della Provvidenza», ma implica anche il superamento dei rapporti di dominio tra gli uomini e tra gli Stati, leggendo i segni dei tempi individua gli interlocutori privilegiati in tre nuovi soggetti interessati a uscire da una specifica condizione di soggezione e subalternità e a costruire un futuro pacifico e solidale: i lavoratori, i paesi del Terzo Mondo e le donne. La pace è, poi, il ritorno coerente al messaggio biblico: i colori della pace oggi così presenti nelle piazze e nei balconi di tante case, che si vorrebbe non fare entrare più nelle Chiese, perché simbolo politico, non sono proprio quelli dell’arco sulle nubi , dopo il diluvio universale, di cui parla la Bibbia? «L’arco sarà sulle nubi/ e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna/ tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne/ che è sulla terra»(Genesi 9, 12-17).

10 April 2003pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 31) nella sezione “Religioni

Ernesto Balducci

Ernesto Balducci e l’«uomo planetario»La lezione di modernità del padre scolopio profeta della «globalizzazione solidale»

di Carlo Felice Casula

Ricorre quest’anno il decimo anniversario della morte di padre Ernesto Balducci, sacerdote, insegnante, tessitore di dialogo e costruttore di pace, intellettuale e organizzatore di cultura, che ininterrottamente, negli anni del dopoguerra, ha lasciato nella Chiesa, nella politica e nella cultura italiana un’impronta profonda, originale e feconda. La morte improvvisa lo colse il 25 aprile del 1992, a seguito di un incidente di macchina, nel pieno vigore fisico e intellettuale dei suoi settant’anni benportanti. L’incidente Per la sua tragica banalità, emblema terribile dei paradossi della modernità , su cui, nell’ultimo decennio della sua vita, si era incentrata la sua ricerca e riflessione filosofica, antropologica e teologica, suscitò grande commozione e vasta attenzione negli ambienti più diversi. Una prima ricostruzione della sua figura e della sua opera venne subito dalla un numero monografico triplo, intitolato semplicemente Ernesto Balducci, di Testimonianze (a. XXXV, luglio-agosto-settembre 1992, nn.7-8-9), la rivista fiorentina da lui fondata nel 1958, assieme a Mario Gozzini e Lodovico Grassi, al fine di proporre alle inquiete coscienze del primo cattolicesimo italiano conciliare un modello di fede e di spiritualità che recepisse le suggestioni più avanzate e radicali dell’esperienza teologica e pastorale francese, che avesse fondamento non più sul «proselitismo aggressivo», di geddiana memoria, sul «dominio delle coscienze», ma, appunto, sulla «testimonianza». Della sua vastissima produzione, fatta di frequentissimi interventi alla radio e alla televisione, di numerosissimi articoli su ben 14 quotidiani, da L’Osservatore Romano a L’Unità, da Il Corriere della Sera a La Nazione fino a L’Ora di Palermo, di saggi e infine di decine di volumi è sufficiente ricordare: Le ragioni della speranza (Coines, Roma 1977), Il terzo millennio (Bompiani, Milano 1981), L’uomo planetario (Camunia, Milano 1985) che è stato ripubblicato nel 1990 in un’edizione aggiornata e accresciuta dalla sua amata ultima creatura editoriale, Le edizioni Cultura della pace di Fiesolet , La terra del tramonto (Edizioni cultura della Pace, Fiesole 1992). Ricordo ancora la sua intervista autobiografica, curata da Luciano Martini, Il cerchio che si chiude (Marietti, Genova 1986). E non solo per vanità personale ricordo Ernesto Balducci. Cristianesimo e conflitto sociale (Cuec, Cagliari 1997), da me curato, che riproduce, dopo una paziente e rispettosa trascrizione dal parlato allo scritto, la conferenza tenuta nell’affollatissima aula magna della Facoltà di Scienze politiche di Cagliari, dove era stato invitato a parlare sul tema Di fronte alla crisi della modernità, le paure e le speranze del mondo d’oggi. Il testo della conferenza è uno dei suoi ultimi interventi pubblici e costituisce una brillante e stimolante sintesi del suo pensiero e, al contempo, un esemplare documento di una temperie culturale, ideale, religiosa e civile di cui egli si sentiva ed era considerato ispiratore nel profondo, attore partecipe e testimone attento. Nel decimo anniversario della sua morte sono in corso di svolgimento numerose iniziative, che si propongono di rivisitarne il pensiero e l’insegnamento e di ripercorrerne l’opera. Bruna Bocchini Camaiani, studiosa nota e apprezzata del riformismo religioso e della Chiesa fiorentina, responsabile dell’archivio della Fondazione Balducci, ha di recente pubblicato la prima esauriente e documentata biografia: Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità (Laterza, Roma-Bari 2002, pp.283, E. 24). A partire da una lunga e meticolosa ricerca d’archivio e dalla rilettura e interpretazione della sterminata produzione di scritti, editi e inediti, di Balducci, a partire dai suoi diari e quaderni manoscritti adolescenziali, l’autrice ha ricostruito con grande finezza il percorso di studi intensi e di letture vaste e variegate di Balducci nel Seminario Calasanctianum di Roma, lo Studentato filosofico-teolgico dell’Ordine degli Scolopi, dove egli entrò a sedici anni, dopo la prima formazione compiuta con borse di studio in collegi della Toscana e della Liguria. Aveva trascorso un’infanzia povera libera e curiosa a Santa Fiora e la prima adolescenza a Santa Fiora, paese di minatori, sui pendii del monte Amiata. Una terra già nell’Ottocento d’anarchici e di socialisti, nonché di seguaci di Davide Lazzaretti, il predicatore-carrettiere che fondò la Chiesa universale giurisdavidica e che nel 1878 fu ucciso dai carabinieri per le sue eversive tesi sulla comunione del lavoro e dei beni. Il secondo capitolo del libro – ma anche la seconda fase della vita di Ernesto Balducci, ormai sacerdote scolopio – concerne, negli anni Cinquanta, l’esperienza ricca e stimolante nel laboratorio culturale e religioso, ma anche politico, della Firenze di monsignor Elia Dalla Costa e di Giorgio La Pira. È indubbia la maggiore libertà di letture e di studi, oltre che d’iniziative per il giovane e focoso sacerdote, ma lo sono anche i primi occhiuti controlli sulla sua partecipazione ad iniziative sul tema del dialogo e della pace. Ne seguì una sua condanna per apologia di reato, per avere difeso l’obiezione di coscienza, come poi avvenne all’altro grande sacerdote fiorentino, don Lorenzo Milani, e un suo allontanamento da Firenze. Segue la breve e densa stagione del Concilio Vaticano II delle cui innovazioni e delle cui speranze in ordine ad una profonda riforma della Chiesa, Balducci è una delle voci più forti e convinte, divenendo un punto di riferimento importante per il variegato mondo delle comunità di base, dei gruppi del dissenso cattolico, ma anche per alcuni settori della Chiesa istituzionale. Dalla seconda metà degli anni Settanta e negli anni Ottanta, infine, anche in seguito alla delusione per gli esiti del postconcilio e a una crescente insoddisfazione per le linee di fondo espresse dall’episcopato italiano, Balducci – che condivide l’idea di don Lorenzo Milani «l’obbedienza non è più una virtù» – pur conservando la sua fedeltà critica, svolge la propria funzione-vocazione sacerdotale e educativa in un sempre più intenso lavoro di elaborazione, divulgazione, confronto e dibattito sui temi dell’impegno politico e sociale per e dei poveri del Nord e del Sud del mondo. Si impegna nel dialogo interculturale, nella difesa dell’ambiente, della pace, come via maestra e obbligata al contempo per lo sviluppo e la stessa sopravvivenza dell’uomo planetario, ma anche per l’annuncio e la ricezione del messaggio evangelico.

14 November 2002pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 28) nella sezione “Cultura

Franco Rodano

Militante antifascista già al liceo

di Carlo Felice Casula

 Franco Rodano, nato a Roma nel 1920, prima di laurearsi in Lettere alla Sapienza, acquisisce, come molti giovani della sua generazione, una precoce solida formazione letteraria, storica e filosofica negli anni del liceo. Sono anni per lui decisivi in quanto il Liceo Visconti che lui frequenta, di cui era preside Felice Piersanti, era, nel cuore di Roma, una scuola non fascistizzata, frequentata da molti studenti che costituirono il nucleo intellettuale dell’antifascismo romano. Nelle aule del Visconti conosce anche Marisa Cinciari. Si sposano molto giovani e fu il loro non solo un matrimonio felice con cinque figli, ma anche un’intesa profonda spirituale e intellettuale. Franco sceglierà di dedicarsi all’attività di studio, di ricerca e di elaborazione, mentre Marisa deciderà per l’impegno politico attivo, ricoprendo ruoli importanti nel Partito comunista itliano, nell’Udi e nelle istituzioni. Iscritto all’Azione Cattolica, è indirizzato nella sua formazione religiosa e spirituale dai Gesuiti. Nella sua maturazione culturale e politica antifascista è influenzato dalla lezione di Benedetto Croce, dal marxismo e dall’incontro con altri giovani studenti comunisti, da Paolo Bufalini ad Antonio Amendola, Pietro Ingrao e Lucio Lombardo Radice. Dalla fine degli anni Trenta, nel contesto della lunga e profonda crisi del Fascismo, è l’animatore e il leader di un gruppo di giovani antifascisti, che con diverse denominazioni (Partito cooperativista sinarchico, Partito comunista cristiano, Sinistra giovanile cattolica) costituirà, nel 1944-45, il nerbo del Movimento dei Cattolici comunisti, che ebbe tra i suoi dirigenti più prestigiosi anche Adriano Ossicini, Fedele D’Amico, Felice Balbo, Marisa Cinciari, Giglia Tedesco. In stretto rapporto con i Comunisti esso svolse un ruolo attivo nella Resistenza, specialmente a Roma, pubblicando un giornale, Voce Operaia e diversi opuscoli, tra cui, Il comunismo e i cattolici. Il MCC, dopo la liberazione di Roma, assunse la nuova denominazione di Partito della Sinistra cristiana , per sfuggire ad un’aperta condanna da parte delle sospettose gerarchie ecclesiastiche, ma Rodano, nel dicembre del 1945, nonostante i parziali successi organizzativi e la diffusione a livello nazionale, spinse per decidere l’autoscioglimento con l’indicazione di continuare «l’azione di cattolici e di democratici sui fronti di lotta della classe operaia», all’interno del Partito comunista e delle sue organizzazioni di massa. Rodano, che stabilisce un personale stretto rapporto di stima e collaborazione con Palmiro Togliatti, ma anche con esponenti della cultura laica e tecnocratica, come Benedetto Croce, Giovanni Malagodi, Raffaele Mattioli, Piero Sraffa, collaborò a Rinascita, Il Politecnico di Elio Vittorini, Cultura e Realtà di Cesare Pavese, Il Contemporaneo. Nel dicembre del 1947 gli fu comminato dall’autorità ecclesiastica, «per avere sostenuto tesi atte a fomentare divisioni e malumori tra il clero», l’interdetto personale, vale a dire l’esclusione dai sacramenti, che gli fu tolto solo dopo il Concilio Vaticano II. Negli anni Cinquanta anima due prestigiose riviste, Lo Spettatore Italiano e Il Dibattito politico e negli anni Sessanta, con Claudio Napoleoni, fonda la Rivista Trimestrale. Al centro della sua elaborazione la rifondazione del concetto di rivoluzione, la laicità della politica, la critica della società opulenta. Sempre in collaborazione con Claudio Napoleoni e Michele Ranchetti fonda e anima a Roma la SISPE, una libera e rigorosissima scuola di scienze politiche e economiche frequentata, dopo un concorso di ammissione da un ristretto gruppo di giovani, per lo più impegnati nel Movimento studentesco. Le registrazioni delle lezioni svolte da Rodano sono state trascritte e pubblicate in due postumi splendidi libri: Lezioni di storia possibile (Marietti 1986) e Lezioni su servo e signore. Per una storia postmarxiana (Editori Riuniti 1990) Negli anni Settanta costituisce un fondamentale punto di riferimento nei variegati ambienti dell’associazionismo cattolico che si avvicinano al Partito comunista, specie durante la segreteria di Enrico Berlinguer. Il suo libro, Questione democristiana e compromesso storico , pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1977 ebbe una larga diffusione. Dal 1974, anche per sfatare il mito di consigliere del principe che agiva nell’ombra, avviò una regolare collaborazione con il quotidiano Paese Sera, allora diretto da Piero Pratesi. Muore a Monterado nelle Marche il 21 luglio del 1983 lasciando una ricca e ancora attualissima eredità culturale e morale. Una prima documentata e stimolante ricostruzione della sua figura intellettuale e politica è stata pubblicata nel 1993 da Marcello Mustè in un volume edito da Il Mulino, dal titolo pregnante: Franco Rodano. Critica delle ideologie e ricerca della laicità.

21 July 2003pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 25) nella sezione “Cultura

CENTRI PER L’IMPIEGO REGIONE LAZIO

CENTRI PER L’IMPIEGO

CENTRI PER L’IMPIEGO REGIONE LAZIO

CENTRI PER L’IMPIEGO REGIONE LAZIO

FROSINONE E PROVINCIA

Centro l’Impiego di Anagni 
Indirizzo: Via della Sanità’ (Località’ S. Giorgetto)
Città: Anagni
cap: 03012
tel: 0775/726327
fax: 0775/779429
e-mail:cigs.anagni@provincia.fr.it
sito: www.frosinonelavoro.info

Centro l’Impiego di Cassino 
Indirizzo: Via Volturno, 7
Città: Cassino
cap: 03043
tel: 0776/32591
fax: 0776/325946
e-mail: cigs.cassino@provincia.fr.it
sito: www.frosinonelavoro.info

Centro l’Impiego di Frosinone 
Indirizzo: Via Tiburtina, 321
Città: Frosinone
cap: 03100
tel: 0775/824017
fax: 0775/826242 – 3
e-mail: cigs.frosinone@provincia.fr.it
sito: www.frosinonelavoro.info

Centro l’Impiego di Pontecorvo 
Indirizzo: Via Leuciana, 96/98
Città: Pontecorvo
cap: 03037
tel: 0776/760234
fax: 0776/760234
e-mail: cigs.cassino@provincia.fr.it
sito: www.frosinonelavoro.info

Centro l’Impiego di Sora 
Indirizzo: Via Cellaro 1
Città: Sora
cap: 03039
tel: 0776/83981
fax: 0776/839855
e-mail: cigs.sora@provincia.fr.it
sito: www.frosinonelavoro.info

ROMA E PROVINCIA

Centro per l’Impiego di Albano Laziale 
Indirizzo: Via San Francesco, 28
Città: Albano Laziale
cap: 00041
tel: 06/93262006
fax: 06/9320849
e-mail: impiego.albano@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Anzio 
Indirizzo: L.go Venezia
Città: Anzio
cap: 00042
tel: 06/98673056
fax: 06/9872440
e-mail: lavanzio@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Bracciano 
Indirizzo: Via di Valle Foresta, 6
Città: Bracciano
cap: 00062
tel: 06/98268000
fax: 06/97240799
e-mail: impiego.bracciano@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Cerveteri 
Indirizzo: L.go di Villa Olio, 9/10
Città: Cerveteri
cap: 00052
tel: 06/99552849
fax: 06/9940020
e-mail: impiego.cerveteri@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Civitavecchia 
Indirizzo: Via Lepanto 13
Città: Civitavecchia
cap: 00053
tel: 0766 547025
fax: 0766 542489
e-mail: impiego.civitavecchia@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Roma Cinecittà 
Indirizzo: V.le Rolando Vignali, 14
Città: Roma
cap: 00173
tel: 06.67661
fax: 06.72991302
e-mail: impiego.roma1@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Colleferro 
Indirizzo: Via Carpinetana sud , 144
Città: Colleferro
cap: 00034
tel: 06/97235000
fax: 06/97236327
e-mail: impiego.colleferro@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Roma Dragoncello 
Indirizzo: Via Ottone Fattiboni, 77
Città: Dragoncello
cap: 00126
tel: 06/52169707
fax: 06/5216633
e-mail: impiego.dragoncello@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Fiumicino 
Indirizzo: Via del Canale 16
Città: Fiumicino
cap: 00054
tel: 06/65047933
fax: 06/65047433
e-mail: impiego.fiumicino@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Frascati 
Indirizzo: Piazzale Aldo Moro, snc
Città: Frascati
cap: 00044
tel: 06/94015468
fax: 06/ 94015468
e-mail: impiego.frascati@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Guidonia 
Indirizzo: Via Roma, 192
Città: Guidonia Montecelio
cap: 00012
tel: 0774/300831
fax: 0774/340568
e-mail: impiego.guidonia@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Marino 
Indirizzo: C.so Vittorio Colonna snc
Città: Marino
cap: 00047
tel: 06/93801054
fax: 06/9387194
e-mail: impiego.marino@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Monterotondo 
Indirizzo: Via Val di Fassa, 1/c
Città: Monterotondo
cap: 00015
tel: 06/9004918
fax: 06/9060892
e-mail: impiego.monterotondo@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Morlupo 
Indirizzo: Via San Michele, 87/89
Città: Morlupo
cap: 00067
tel: 06/9072763
fax: 06/90192776
e-mail: impiego.morlupo@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Palestrina 
Indirizzo: Via degli Arcioni, 15
Città: Palestrina
cap: 00036
tel: 06/95311091
fax: 06/9538237
e-mail: impiego.palestrina@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Pomezia
Indirizzo: Via Pontina Vecchia, 13
Città: Pomezia
cap: 00040
tel: 06/91801050
fax: 06/91601246
e-mail: impiego.pomezia@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Roma Primavalle 
Indirizzo: Via Decio Azzolino, 7
Città: Roma
cap: 00167
tel: 06/61662682
fax: 06/6270798
e-mail: impiego.primavalle@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Roma Tiburtino 
Indirizzo: Municipi Roma III , Roma IV , Roma V
Città: Roma
cap: 00155
tel: 06/45614901
fax: 06/45614943-35
e-mail: impiego.tiburtino@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Subiaco 
Indirizzo: Piazza 15 martiri,loc. Madonna della Pace
Città: Subiaco
cap: 00020
tel: 0774/809131
fax: 0774/809382
e-mail: impiego.subiaco@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Tivoli 
Indirizzo: Via Empolitana, 234/236
Città: Tivoli
cap: 00019
tel: 0774/334984
fax: 0774/333171
e-mail: impiego.tivoli@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Roma Torre Angela 
Indirizzo: Via Jacopo Torriti, 7
Città: Torre Angela
cap: 00133
tel: 06/2017542
fax: 06/20627827
e-mail: impiego.torreangela@provincia.roma.it
sito:http://www.informaservizi.it/default.asp

Centro per l’Impiego di Velletri 
Indirizzo: C.so della Repubblica,241
Città: Velletri
cap: 00049
tel: 069640372 – 06/96154543 – 0696149742
fax: 06/96142597
e-mail: lavvelletri@provincia.roma.it
sito: http://www.informaservizi.it/default.asp

RIETI E PROVINCIA

Centro per l’Impiego di Rieti 
Indirizzo: Via Fundania
Città: Rieti
cap: 02100
tel: 0746/286657
fax: 0746/286613
e-mail: cir@provincia.rieti.it
sito: http://www.portalelavororieti.it/index.html

Centro per l’Impiego di Poggio Mirteto 
Indirizzo: Via De Vito
Città: Poggio Mirteto
cap: 02047
tel: 0765/24051
fax: 0765/441079
e-mail: cipm@provincia.rieti.it
sito: http://www.portalelavororieti.it/index.html
VITERBO E PROVINCIA

Centro per l’Impiego Civita Castellana 
Indirizzo: Largo Salvador Allende
Città: Civita Castellana
cap: 01033
tel: 0761/599422
fax: 0761/591824
e-mail: centroimpiego.civita@provincia.vt.it
sito: http://www.provincia.vt.it/lavoro/default.asp

Centro per l’Impiego Civita Castellana,ufficio di Orte 
Indirizzo: P.zza della Libertà, 21
Città: Orte
cap: 01028
tel: 0761/493226
fax: 0761/493226
e-mail: orte.impiego@provincia.vt.it
sito: http://www.provincia.vt.it/lavoro/default.asp

Centro per l’Impiego Tarquinia 
Indirizzo: Via Domenico Emanuelli
Città: Tarquinia
cap: 01016
tel: 0766/842182
fax: 0766/848686
e-mail: centroimpiego.tarquinia@provincia.vt.it
sito: http://www.provincia.vt.it/lavoro/default.asp

Centro per l’Impiego Tarquinia,ufficio di Canino 
Indirizzo: Via Cristoforo Colombo, 32/34
Città: Canino
cap: 01011
tel: 0761/437125
fax: 0761/439657
e-mail: canino.impiego@provincia.vt.it
sito: http://www.provincia.vt.it/lavoro/default.asp

Centro per l’Impiego Viterbo 
Indirizzo: Via Cardarelli, 58
Città: Viterbo
cap: 01100
tel: 0761/353252 – 353267
fax: 0761/271279
e-mail: centroimpiego.vt@provincia.vt.it
sito: http://www.provincia.vt.it/lavoro/default.asp

Centro per l’Impiego Viterbo,ufficio di Acquapendente 
Indirizzo: P.zza G. Fabrizio , 17
Città: Acquapendente
cap: 01021
tel: 0763/711230
fax: 0763/731567
e-mail: acquapendente.lavoro@provincia.vt.it
sito: http://www.provincia.vt.it/lavoro/default.asp

Centro per l’Impiego Viterbo,ufficio di Bolsena 
Indirizzo: Via del Castello
Città: Bolsena
cap: 01023
tel: 0761/797120
fax: 0761 797120
e-mail: bolsena.impiego@provincia.vt.it
sito: http://www.provincia.vt.it/lavoro/default.asp

LATINA E PROVINCIA

Centro per l’Impiego di Aprilia 
Indirizzo: Via Ugo La Malfa (c/o centro comm. il Tulipano)
Città: Aprilia
cap: 04011
tel: 06/92855556
fax: 06/92062112
e-mail: ciaprilia@libero.it
sito: latinalavoro.it

Centro per l’Impiego di Cisterna di Latina 
Indirizzo: Via G. Falcone, 4
Città: Cisterna di Latina
cap: 04012
tel: 06/9699046
fax: 06/96873027
e-mail: cicisterna@libero.it
sito: latinalavoro.it

Centro per l’Impiego di Fondi 
Indirizzo: Via A.Marzano, 15
Città: Fondi
cap: 04022
telefono: 0771/504780
fax: 0771/515913
e-mail: cifondi@libero.it
sito: latinalavoro.it

Centro per l’Impiego di Formia 
Indirizzo: Via Olivastro Spaventola
Città: Formia
cap: 04023
tel: 0771/771116
fax: 0771/324451
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Dati aggiornati 13 dicembre 2011

Osservatore Romano

Il terreno della santità

 

· Papa Francesco all’«Eco di Bergamo» per la canonizzazione di Giovanni XXIII ·

25 aprile 2014

  

La santità di Angelo Giuseppe Roncalli germoglia da «un terreno fatto di profonda fede vissuta nel quotidiano, di famiglie povere ma unite dall’amore del Signore, di comunità capaci di condivisione nella semplicità». Lo scrive Papa Francesco in un messaggio pubblicato su «L’Eco di Bergamo» di venerdì 25 aprile in occasione della canonizzazione di Giovanni XXIII.

Cari amici bergamaschi,

avvicinandosi il giorno della canonizzazione del beato Giovanni XXIII, ho sentito il desiderio di inviare questo saluto al vostro Vescovo Francesco, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici della Diocesi di Bergamo, ma anche a coloro che non appartengono alla Chiesa e all’intera comunità civile bergamasca.

Roncalli (al centro) con un gruppo di sacerdoti in una foto scattata a Bergamo nel 1920

So quanto bene volete a Papa Giovanni, e quanto lui ne voleva alla sua terra. Dal giorno della sua elezione al Pontificato, il nome di Bergamo e di Sotto il Monte sono diventati familiari in tutto il mondo e ancora oggi, a più di cinquant’anni di distanza, essi sono associati al suo volto sorridente e alla sua tenerezza di padre.

Vi invito a ringraziare il Signore per il grande dono che la sua santità è stata per la Chiesa universale, e vi incoraggio a custodire la memoria del terreno nel quale essa è germinata: un terreno fatto di profonda fede vissuta nel quotidiano, di famiglie povere ma unite dall’amore del Signore, di comunità capaci di condivisione nella semplicità.

Certo, da allora il mondo è cambiato, e nuove sono anche le sfide per la missione della comunità cristiana. Tuttavia, quell’eredità può ispirare ancora oggi una Chiesa chiamata a vivere la dolce e confortante gioia di evangelizzare, ad essere compagna del cammino di ogni uomo, “fontana del villaggio” alla quale tutti possono attingere l’acqua fresca del Vangelo. Il rinnovamento voluto dal Concilio Ecumenico Vaticano II ha aperto la strada, ed è una gioia speciale che la canonizzazione di Papa Roncalli avvenga assieme a quella del beato Giovanni Paolo II, che tale rinnovamento ha portato avanti nel suo lungo pontificato.

Sono certo che anche la società civile potrà sempre trovare ispirazione dalla vita del Papa bergamasco e dall’ambiente che lo ha generato, ricercando modalità nuove ed adatte ai tempi per edificare una convivenza basata sui valori perenni della fraternità e della solidarietà.

Cari fratelli e sorelle, affido questo mio messaggio all’«Eco di Bergamo», di cui il giovane sacerdote Don Angelo Roncalli fu apprezzato collaboratore. Quando poi il ministero lo portò lontano, egli ricevette sempre dalle pagine dell’«Eco» la voce e il richiamo della sua terra. Vi chiedo di pregare per me, mentre assicuro il mio ricordo e la preghiera per tutti voi, in particolare per i sofferenti, per gli ammalati — ricordando l’Ospedale cittadino che avete voluto dedicare a Papa Giovanni — e per il Seminario diocesano, tanto caro al suo cuore. A tutti invio, nell’imminenza delle feste pasquali, la Benedizione Apostolica.