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27/04/2014, 08:22COMUNICATI STAMPA

 

Nasce la nazionale dei tenores

Ne fanno parte anche Fonni e Oniferi

La divisa della nazionale (F. Nino Muggianu)

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Anche la Sardegna ha la sua nazionale di calcio, si chiama Nazionale dei Cantadores a Tenore ed è formata da componenti di vari gruppi del canto tradizionale sardo. L’idea è nata dalle Vecchie Glorie Su Vubalu di Dorgali, da Antonio Putzu del tenore Ulianesu e Davide Mureddu di Fonni.

Venerdì la presentazione ufficiale a Dorgali, nel corso di una conferenza stampa alla quale hanno preso parte oltre ai promotori, su Tenore Durgalesu, il sindaco di Dorgali Angelo Carta, il presidente della associazione il Rosmarino Matteo Patteri.

Nell’occasione è stata presentata l’originale divisa ufficiale, che avrà i “rivoltini” sui pantaloncini.

La Nazionale dei Cantadores a Tenore esordirà ufficialmente venerdì prossimo, 2 maggio alle 16 nel comunale Osolai di Dorgali, contro le Vecchie glorie locali, in occasione di una partita di beneficenza in favore dell’associazione Il Rosmarino. Dopo la partita, si terrà una esibizione di tutti gruppi che hanno aderito all’iniziativa.

Quesi i gruppi a tenore che hanno aderito al’iniziativa:

Tenore Durgalesu; Tenore Mamujadinu, Tenore Nunnale (Orune), Tenore Murales (Orgosolo), Tenore di Nugoro, Tenore Su Connottu (Fonni), su Cuncordu Fonnesu, Tenore Garteddesu, Cunsonu Santu Juvanne (Thiesi), Tenore Antoni Milia (Orosei), Tenore de Irgoli, Monte Bannittu (Bitti), Bortigali, Tenore Onieri e i gruppi di Oliena: Tenore Ulianesu, Tenore Santu Lussurgiu, Tenore Lanaitho, Tenore Santu Nasciu, Tenore Predu Mukera, Tenore Antoni Mereu, Tenore Musserrata e Tenore Santu Gioseppe.

 
Nino Muggianu

Wojtyła

Wojtyła

 
 

26 aprile 2014

  

Karol Wojtyła nasce il 18 maggio 1920 a Wadowice, cittadina della Polonia meridionale, dove risiede fino al 1938, quando si iscrive alla facoltà di filosofia dell’Università Jagellonica e si trasferisce a Cracovia. Nell’autunno 1940 lavora come operaio nelle cave di pietra e poi in una fabbrica chimica. Nell’ottobre 1942 entra nel seminario clandestino di Cracovia e il 1° novembre 1946 è ordinato sacerdote.

Il 4 luglio 1958 Pio XII lo nomina vescovo ausiliare di Cracovia. Riceve l’ordinazione episcopale il 28 settembre successivo. Come motto episcopale sceglie l’espressione mariana Totus tuus di san Luigi Maria Grignion de Montfort.

Prima come ausiliare e poi, dal 13 gennaio 1964, come arcivescovo di Cracovia, partecipa a tutte le sessioni del concilio Vaticano II. Il 26 giugno 1967 viene creato cardinale da Paolo VI.

Nel 1978 partecipa al conclave convocato dopo la morte di Montini e a quello successivo alla improvvisa scomparsa di Luciani. Nel pomeriggio del 16 ottobre, dopo otto scrutini, viene eletto Papa. È il primo Pontefice slavo della storia e il primo non italiano dopo quasi mezzo millennio, dal tempo cioè di Adriano VI (1522-1523).

Personalità poliedrica e carismatica, si impone subito per la grande capacità comunicativa e per lo stile pastorale fuori dagli schemi. La tempra e il vigore di un’età relativamente giovane gli consentono di intraprendere un’attività intensissima, scandita soprattutto dal moltiplicarsi delle visite e dei viaggi: complessivamente saranno ben 104 quelli internazionali e 146 quelli in Italia, con 129 Paesi toccati nei cinque continenti.

Sin dall’inizio lavora per dar voce alla cosiddetta Chiesa del silenzio. L’insistenza sui temi dei diritti dell’uomo e della libertà religiosa diventa così una costante del suo magistero. Tanto che oggi è largamente riconosciuto il contributo rilevante che la sua azione ha avuto nelle vicende che hanno determinato il crollo del muro di Berlino nel 1989 e il successivo sgretolamento dei regimi filosovietici. In questo contesto va probabilmente inserito il gravissimo episodio dell’attentato di cui è vittima il 13 maggio 1981 per mano del turco Ali Agca.

Accanto alla polemica anticomunista, si sviluppa anche una lettura critica del capitalismo, sottoposto a un’analisi serrata in tre delle sue quattordici encicliche: la Laborem exercens (1981), la Sollicitudo rei socialis (1987) e la Centesimus annus (1991). Assidua è inoltre la sua attività in favore della pace, che si intreccia alla ricerca del dialogo con le grandi religioni — in particolare con l’ebraismo e con l’islam — e al nuovo impulso impresso al cammino ecumenico.

Nel 1983 promulga il nuovo Codex iuris canonici e poi realizza una riforma della Curia romana con la costituzione apostolica Pastor bonusdel 1988. Favorisce inoltre la dimensione della collegialità episcopale nel governo della Chiesa, soprattutto attraverso la convocazione di quindici sinodi dei vescovi. Tra i numeri di un pontificato lunghissimo — per durata secondo solo a quello di Pio IX (1846-1878) — vanno annoverate anche le frequenti cerimonie di beatificazione e canonizzazione, nel corso delle quali vengono proclamati 1.338 beati e 482 santi.

Col passare degli anni l’attenzione del Pontefice si focalizza soprattutto sulla celebrazione del grande giubileo del 2000. L’avvenimento assume un significato altamente simbolico nel quadro della sua missione pastorale e si carica di una forte valenza penitenziale, espressa in modo emblematico nella giornata del perdono (12 marzo).

La chiusura del giubileo apre la fase conclusiva del pontificato, segnata soprattutto dal progressivo aggravamento delle condizioni di salute del Papa, che dopo una lunga e straziante agonia muore la sera del 2 aprile 2005.

A soli 26 giorni dalla scomparsa, Benedetto XVI concede la dispensa dai cinque anni di attesa prescritti consentendo l’inizio della causa di canonizzazione. E lo stesso Papa lo proclama beato il 1° maggio 2011.

Roncalli

Roncalli

 
 

26 aprile 2014

  

A Sotto il Monte, nel Bergamasco, Angelo Giuseppe Roncalli nasce il 25 novembre 1881. Trascorre l’infanzia nel paese natale, crescendo in una famiglia rurale di umili origini. Nel 1892 entra nel seminario di Bergamo, dove nel 1895 inizia a scrivere le «note spirituali» che faranno poi parte del Giornale dell’anima. Nel 1900 viene inviato a Roma, dove si laurea in teologia e, nel 1904, riceve l’ordinazione sacerdotale. Richiamato l’anno dopo a Bergamo dal vescovo Radini Tedeschi, ne diventa segretario e gli è al fianco fino al 1914, assimilandone la vivacità pastorale e lo spirito riformatore.

Dopo l’esperienza della guerra, diventa direttore spirituale del seminario maggiore. Quindi nel 1921 si trasferisce a Roma per assumere l’incarico di presidente del consiglio centrale dell’Opera della propagazione della fede.

Il 3 marzo 1925 Pio XI lo nomina visitatore apostolico in Bulgaria. Riceve l’ordinazione episcopale il 19 marzo successivo, scegliendo come motto Oboedentia et pax. Il 17 novembre 1934 diventa delegato apostolico in Turchia e Grecia, e il 23 amministratore apostolico del vicariato di Costantinopoli. Poi, il 23 dicembre 1944, viene trasferito in Francia, dove è nunzio apostolico per otto anni. A conclusione del suo mandato, il 12 gennaio 1953 Pio XII lo crea cardinale e tre giorni dopo lo nomina patriarca di Venezia.

Nel 1958, dopo la morte di Papa Pacelli, prende parte al conclave che si apre il 25 ottobre. Ormai settantasettenne, dopo undici scrutini, è eletto Papa nel pomeriggio del 28, con una scelta che viene interpretata nel segno della “transizione” al termine del lungo e impegnativo pontificato pacelliano.

Appena tre mesi dopo, il 25 gennaio 1959, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, annuncia a sorpresa l’intenzione di convocare «un concilio ecumenico per la Chiesa universale», manifestando anche la volontà di indire un Sinodo diocesano per Roma e di aggiornare il Codex iuris canonici. È una decisione inattesa e clamorosa, che suscita una vastissima eco nell’opinione pubblica e orienta in modo preminente tutto il suo pontificato. Da quel giorno infatti si dedica con determinazione alla realizzazione dell’assise, che dopo tre anni di preparazione si apre l’11 ottobre 1962 alla presenza di oltre duemila vescovi e numerosi osservatori di Chiese non cattoliche riuniti a San Pietro. Sarà lo stesso Pontefice a chiudere il primo periodo di lavori conciliari l’8 dicembre successivo, indicando la prospettiva del «lungo cammino» che ancora resta da percorrere e che porterà a termine il suo successore Paolo VI.

Se il concilio assorbe la gran parte delle sue energie, non vanno dimenticate le altre linee portanti di un pontificato che appare profondamente radicato nella dimensione pastorale ed episcopale del servizio papale. In cinque anni si moltiplicano le visite e gli incontri con i fedeli di Roma, si consolida l’internazionalizzazione del collegio cardinalizio e viene valorizzato sempre più il ruolo degli episcopati locali. La propensione al dialogo trova terreno fertile soprattutto nel campo ecumenico e in quello delle relazioni con le altre religioni. Al tempo stesso ha inizio quella politica di apertura volta a migliorare i rapporti tra Santa Sede e Paesi del blocco comunista, mentre cresce l’autorevolezza del Pontefice sulla scena internazionale, come dimostra, tra l’altro, l’azione pacificatrice durante la crisi dei missili a Cuba nel 1962. Alla pace Papa Roncalli dedica anche la sua ottava e ultima enciclica Pacem in terris, pubblicata nell’aprile 1963. Proprio in quei mesi le sue condizioni di salute si aggravano repentinamente a causa dell’avanzare del tumore diagnosticatogli nell’autunno precedente. Muore la sera del 3 giugno 1963. Il 18 novembre 1965, durante l’ultimo periodo del concilio, Papa Montini annuncia l’avvio della causa di beatificazione, insieme a quella del predecessore Pio XII. Viene proclamato beato da Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000.

 

 

Santa Zita (Cita)


Santa Zita (Cita)

Nome: Santa Zita (Cita)
Titolo: Vergine
Ricorrenza: 27 aprile

Nel linguaggio medievale, « zita » equivaleva a quella che, nei dialetti toscani, è ancora detta « cita » o « citta ». Voleva dire cioè « ragazza », e il diminutivo di quel termine esiste ancora nel vocabolario italiano: « zitella », cioè non maritata.
Santa Zita è dunque la santa ragazza, ed è l’unica Santa di questo nome che ancora viene ripetuto in Toscana, e specialmente in Lucchesia. Santa Zita, infatti, è la Santa di Lucca, e già Dante, per indicare i magistrati della città di Lucca, parlava degli « anziani di Santa Zita ».
Zita era nata vicino a Lucca, a Monsagrati, nel 1218, in una famiglia contadina. Non ebbe nessuna particolare istruzione, ma fin da bambina si dette una regola di condotta religiosa chiedendosi semplicemente: « Questo piace al Signore? Questo dispiace a Gesù? ». Con questa linea di condotta crebbe devota e utile, aiutando i genitori a vendere in città i prodotti dei loro campi. A 18 anni entrò a servizio, a Lucca, nella casa dei Fatinelli, anzi nel palazzo di quella famiglia, che era una delle più ricche della città.
Le tentazioni della città avrebbero potuto aver facile presa nell’anima della semplice campagnola, ma la linea di condotta impostasi dalla fanciulla, pur nella sua ingenuità, non consentiva né errori né distrazioni. « Questo piace a Gesù? E questo gli dispiace? ».
E piaceva a Gesù che ogni mattina, con il permesso della padrona, Zita si recasse in chiesa, mentre tutti gli altri ancora dormivano. E poi accudisse puntualmente, prima di tutti e meglio di tutti, alle pesanti incombenze casalinghe, alle quali si dedicavano le donne di quei tempi. Ma fu soprattutto la straordinaria generosità verso i poveri che costituì il più delicato profumo della santità della servetta. Ogni venerdì, ella, la più fidata tra le domestiche, aveva il compito di distribuire le elemosine ai poveri. E trovava sempre il modo di aggiungervi qualcosa di suo, risparmiato sul magro cibo, sullo scarso salario e sul modestissimo vestiario. Presto il padrone sospettò che Zita donasse ai poveri più di quanto egli aveva disposto. Era vero, ma quel di più non apparteneva a lui. Rappresentava il superfluo della sua serva incredibilmente sobria. Un giorno, incontrando Zita con il grembiule gonfio di alimenti, le chiese severamente che cosa portasse. « Fiori e fronde », rispose la ragazza. Disciolto il grembiule. ne caddero davvero fiori e fronde, miracolosi simboli della carità e della generosità, impersonata da Santa Zita. Sempre più amata, rispettata e venerata, visse nella casa dei Fatinelli fin verso i sessant’anni, considerandosi nient’altro che un’umile, obbediente e devota serva. Soltanto dopo la sua morte i cittadini di Lucca le tributarono onori come a una grande Santa, e gli stessi magistrati della città non disdegnarono di essere indicati come « gli anziani di Santa Zita », senza che facesse velo al loro orgoglio l’umile condizione della Santa servetta, delicato fiore della città gentile.

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Francesco Cilocco, un eroe dimenticato di Francesco Casula

FRANCESCO CILOCCO Un grande eroe e patriota sardo, sconosciuto e dimenticato.

 Est ora de l’amentare! 

di Francesco Casula 

Patriota ed eroe nazionale sardo (Cagliari 1769 –Sassari 1802).

Figlio di Michele e fratello di Antonio, poi implicato nella Rivolta di Palabanda. Notaio della Reale Udienza. Repubblicano convinto, pur avendo combattuto contro i rivoluzionari francesi nel 1793, per difendere Cagliari e la Sardegna dalla loro aggressione e tentativo di conquista.Fu seguace e amico di Giovanni Maria Angioy e, insieme a lui protagonista nelle lotte e nelle ribellioni antifeudali e nazionali dei Sardi contro il feudalesimo e il dominio tirannico e poliziesco dei Savoia.Nel novembre del 1795, col notaio Antonio Manca e con l’avvocato Giovanni Falchi, seguaci dell’Angioy, fu inviato dagli Stamenti nel Capo di Sopra, per la pubblicazione e diffusione, nei villaggi, del pregone viceregio del 23 ottobre che contraddice la circolare del governatore di Sassari Santuccio del 12 dello stesso mese, che ordinava di sospendere tutti gli ordini provenienti da Cagliari. Un vero e proprio tentativo “secessionista” del governatore stesso e dei baroni. che avevano la loro roccaforte proprio a Sassari.“L’invio dei tre commissari, secondo laStoria dei torbidi, ripresa dal Manno, è preceduta da una riunione a Cagliari alla quale prendono parte, oltre ai «capi cagliaritani della congiura» anche gli avvocati Mundula e Fadda di Sassari e altri «innovatori» sassaresi, in tale riunione si stabiliscono le linee d’azione per il futuro: mobilitazione dei villaggi del Logudoro, assedio di Sassari, arresto dei reazionari, loro traduzione a Cagliari”(1).Nonostante il viceré, venuto a conoscenza del piano, cerchi di dissuadere Cilocco dal pubblicare e diffondere il pregone, il Nostro non solo lo pubblica e lo diffonde ma diviene l’anima dei moti, insieme agli altri due commissari, Manca e Falchi, riuscendo a coinvolgere e mobilitare nella sua battaglia antifeudale non solo il popolo (contadini e villici in genere), particolarmente colpito dalla scarsità dei raccolti negli anni 1793-95, ma anche settori della piccola nobiltà e del clero: di qui la partecipazione alle lotte antifeudali di numerosi sacerdoti come i parroci Gavino Sechi Bologna (rettore di Florinas), Aragonez (rettore di Sennori), Francesco Sanna Corda (rettore di Torralba) e Francesco Muroni, (rettore di Semestene) che “conoscevano le miserie e talvolta subivano le stesse angherie dai baroni e dai loro ministri” (2).Annota inoltre lo storico Girolamo Sotgiu che “direttamente investiti dalla massa degli zappatori affamati, i proprietari coltivatori, che costituiscono l’altro cardine della società rurale, sollecitavano anch’essi la fine del sistema feudale. Anche i proprietari coltivatori erano notevolmente aumentati come aumentata era la produzione complessiva. Ma a questoaumento della produzione non aveva fatto riscontro un aumento del benessere, proprio per gli impedimenti posti dal sistema feudale”(3).Di qui la lotta antifeudale e antibaronale ma anche di liberazione nazionale . Racconta Francesco Sulis che “Il Ciloccco nel villaggio di Thiesi intesosi con Don Pietro Flores amico dell’Angioy, da un terrazzo della Casa Flores eccitò quelli popolani a insorgere contro i feudatari; e di subito essi tennero l’invito, ed a furia, con tutta sorta di stromenti percotendo le mura del palazzo feudale, lo rovinarono e l’adequarono al suolo”(4)A Osilo, Sedini e Nulvi, tre centri dell’Anglona i vassalli si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Mentre a IttiriUriThiesi,Pozzomaggiore e Bonorva e ad Ozieri e Uri i contadini s’impossessarono dei granai dei feudatari.Una lotta che assume però anche caratteri più squisitamente politici, prefigurando in qualche modo un nuovo ordine e una nuova organizzazione sociale, attraverso una trasformazione non violenta dell’assetto esistente. Sempre a Thiesi infatti, il 24 novembre davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta le ville di Thiesi, Bessude e Cheremule, del marchesato di Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara, con sindaci, consiglieri, prinzipales,capi famiglia, firmano il primo atto confederativo, cui seguirono nei mesi successivi altri patti d’alleanza. E con esso giurano di non riconoscere più alcun feudatario, ma anche di voler “ricorrere prontamente a chi spetta per essere redenti pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e ragionevole”(5).I cosiddetti “strumenti di unione” ovvero “patti” fra ville e paesi segnano un salto di qualità della lotta antifeudale, facendole assumere una cifra più squisitamente politica: le federazioni di comunità infatti assurgono al ruolo di soggetto primario, di protagonista fondamentale nell’evoluzione sociale dell’Isola. Esse si moltiplicano e si diffondono in tutto il Sassarese: dopo quelli del 24 novembre se ne stipula un altro a Thiesi il 17 marzo 1796 fra i rappresentanti di 32 paesi fra i quali Bonorva, Ittiri, Osilo, Sorso, Mores, Bessude, Banari, Santu Lussurgiu, Semestene e Rebeccu. “Il patto – scrive Vittoria Del Piano –  vincola le popolazioni a spendere fin l’ultima goccia di sangue, piuttosto che obbedire in avvenire ai loro baroni”(6).Lo sbocco di questo ampio movimento, autenticamente rivoluzionario e sociale, perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne, fu l’assedio di Sassari. A migliaia – 13 mila secondo le fonti ufficiali e secondo Francesco Sulis, un esercito di contadini armati, proveniente dal Logudoro ma anche dal Meilogu e da paesi più lontani, accorse a Sassari, stringendola d’assedio. Secondo invece lo storico Giuseppe Manno “Sommavano quegli armati a meglio di tremila, non numerando le donne che in copioso numero erano venute anch’esse a guerra, o per assistere i congiunti o per comunione d’odio ed eransi partiti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Thiesi, Mores, Sedilo, Ploaghe e altri luoghi posti in quelle circostanze”(7). Il numero di tremila è poco credibile: vista la massiccia e ubiquitaria mobilitazione soprattutto dei paesi del Logudoro e dell’Anglona ma anchedel Meilogu. del Goceano e non solo. Il Manno, storico conservatore e filosavoia, tende a minimizzare e sminuire l’ampiezza, l’organizzazione e laqualità di una lotta di migliaia e migliaia di contadini, uomini e donne, che dopo secoli di rassegnazione, usi a chinare il capo e a curvare la schiena, si ribellano, si armano per dire basta e per porre fine a un duro stato di servitù, di rapina e di sfruttamento inaudito.Il Manno non è dunque credibile. La sua, più che una Storia della Sardegna è infatti una Storia regia della Sardegna. E non è un caso che il magistrato sassarese Ignazio Esperson nei suoi Pensieri sulla Sardegna dal 1789 al 1848, definisca il Manno “l’antesignano della scuola delle penne partigiane e cortigianesche che vergognano le patrie storie”.A migliaia, comunque, al di là del numero, a piedi e a cavallo circondarono Sassari, pare al canto di Procurade ‘e moderare, Barones, sa tirannia di Francesco Ignazio Mannu. Così l’esercito dei contadini, guidato dal Cilocco  e da Gioachino Mundula, costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. Quindi, mentre il famigerato duca dell’Asinara, il conte d’Ittiri e alcuni feudatari, erano riusciti a scappare precipitosamente in tempo, prima dell’assedio, rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi, Cilocco e Mundula arrestarono il governatore don Antioco Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Vincenzo Della Torre, portandoli a Cagliari verso cui si dirigono  con 500 uomini armati.Gli Stamenti d’accordo col viceré, per porre rimedio alla piega, secondo loro pericolosa e “sovversiva” che avevano preso gli avvenimenti, inviarono loro incontro altri tre commissari, che li raggiunsero con un manipolo di guardie il 4 gennaio 1796 a Oristano, ed ingiunsero loro dì liberare gli ostaggi e rimandare ai villaggi d’origine i loro uomini, nel frattempo ridottisi di numero. Ad un primo rifiuto, due giorni dopo, a Sardara, i commissari viceregi risposero con un atto di forza. Cilocco, per paura di essere arrestato, consegna il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre ai tre inviati del vicerè : l’avvocato Ignazio Musso, l’abate Raffaele Ledà e Efisio Luigi Pintor Sirigu, ex democratico, uno dei protagonisti della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794, ma ormai “pentito” e da vero e proprio voltagabbana, rientrato, opportunisticamente, in cambio di onori, uffizi e privilegi, nell’alveo filo sabaudo.Era il segnale della svolta moderata che stava maturando negli Stamenti e che avrebbe di lì a poco provocato anche la caduta di Angioy: si concludeva infatti così quella che, a posteriori, sarebbe apparsa come la prova generale della sfortunata marcia di G. M. Angioy.“Non sembra – scrive Bruno Anatra – che il Cilocco facesse parte del gruppo che nel corso dello stesso anno, seguì Angioy nella sua missione a Sassari e nella successiva, rapidamente abortita, spedizione su Cagliari. È certo invece che, appena la repressione da strisciante si fece palese, anche il Cilocco prese la via dell’esilio e raggiunse il gruppo giacobino sardo a Parigi. Di qui, nella convinzione dell’imminenza di una azione francese in direzione della Sardegna, nella primavera del 1799, gran parte di essi si trasferivano in Corsica. Del gruppo faceva parte il Cilocco che nel gennaio 1801 risulta fosse ad Ajaccio” (8).E’ comunque certo che il 21 maggio del 1802 si trasferisce in Corsica, insieme a Mundula, Sanna Corda e altri. Con Sanna Corda in particolare  collabora per preparare il progetto di una insurrezione in Sardegna: che avrebbe dovuto contare questa volta  – dopo i tentativi sempre falliti di coinvolgere truppe francesi – esclusivamente sui Sardi ancora fedeli ad Angioy e comunque nemici giurati del feudalesimo e dei governanti piemontesi, per fondare una repubblica sarda indipendente.Negli ultimi mesi del 1799 c’era stata la rivolta, sanguinosamente repressa, di Thiesi e Santulussurgiu, segno agli occhi di Cilocco che lo spirito antifeudale nel Logudoro era ancora vivo. E dunque si poteva dare un corso diverso alla storia della Sardegna. Nonostante la monarchia sabauda con i suoi scherani, avesse “già raso al suolo più di un villaggio, inaugurato la forca itinerante, tagliato molte teste, ingalerato a piacimento innocenti e sospetti, seviziato donne e frustato bambini”(9).Essi inoltre contavano, per costituire una solida base di appoggio, sull’irriducibile banditismo dei, pastori galluresi. All’uopo presero contatto con un famigerato bandito e contrabbandiere, Pietro Mamia, e per suo tramite con i pastori del circondario di Aggius, prospiciente la sponda corsa. Fu una scelta imprudente e suicida:il Mamia farà il doppio gioco: interessato com’era più a ottenere la cancellazione dei suoi delitti da parte delle autorità galluresi che  alla proclamazione della repubblica sarda.Il progetto prevedeva lo sbarco in Gallura che  avrebbe dovuto provocare la sollevazione della Sardegna. Un primo tentativo nel maggio 1802 fallì. Ripetuto in giungo con un manipolo di uomini, prevedeva lo sbarco del Sanna Corda ai piedi della torre di Longonsardo (l’attuale Santa Teresa di Gallura) e del Cilocco presso la torre dell’Isola Rossa. La spedizione ebbe un esito tragico: il Sanna Corda che aveva espugnato la torre e alzato la bandiera della libertà, inviando alle autorità galluresi lettere in nome della repubblica francese, fu attaccato da un piccolo corpo di spedizione inviato da La Maddalena e cadde combattendo sotto le mura della torre (19 giugno). Cilocco, tradito da Mamia, cui si era affidato soprattutto per la conoscenza dei luoghi, fu narcotizzato (con un vino oppiato) o, comunque sorpreso nel sonno e consegnato ai soldati inviati da Sassari il 25 luglio del 1802.Secondo Giovanni Siotto Pintor invece, braccato per le campagne, con una taglia sul capo di 500 scudi, fu catturato da numerosi banditi, ecco cosa scrive in proposito “fu fermo da quattordici malandrini intesi a procacciarsi l’impunità, trascinato a d’orso d’asino insino a Sassari, flagellato orribilmente dal boia, afforcato”(10). L’eroe sardo, fu così umiliato (fu infatti messo, sanguinante e pesto, su un asino e fatto entrare prima a Tempio e poi a Sassari, – dopo aver attraversato molti altri paesi sempre sul dorso di un asino – fra la folla accorsa a vedere lo spettacolo e una ciurma di giovinastri prezzolati che fischiavano e gridavano), colpito da una frusta, di doppia suola intessuta con piombo, a tal punto che non può rimanere né in piedi né coricato ma carpone. Una fustigazione deprecata persino da uno storico conservatorecome il Manno che scrive ”alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice. Egli fu talmente aizzato da quei notabili andategli incontro, che il carnefice stesso ebbe a mostrarsene indispettito. Il barone maggiore soprannominato il Duca dell’Asinara, dal balcone del suo palazzo lanciava parole di crudele beffa contro l’infelice frustato…”La supplica che gli venga comminata la pena del carcere perpetuo o il perpetuo esilio è respinta da Placido Benedetto di Savoia, Conte di Moriana, (fratello del re di Sardegna Carlo Emanuele IV). Cedendo – scrive Carta Raspi – ai suoi istinti sbirreschi..Insieme all’altro fratello, Carlo Felice, vice re e re ottuso e famelico, (sarà soprannominato Carlo Feroce dal poeta e patriota piemontese Angelo Brofferio) l’infame Conte di Moriana ricorrerà  dopo il generoso tentativo del Cilocco e del Sanna Corda, a una repressione violenta e brutale nei confronti dei Sardi patrioti, anche vagamente sospettati di aver preso parte alla tentata insurrezione.Il Cilocco fu quindi condannato a morte l’11 agosto del 1802, e il 30 pur disfatto per le torture subite, recuperata la propria lucidità, con animo forte – scrive il Martini – saliva sulla forca.“Non gli fu neppure risparmiata la tortura della corda e delle tenaglie infuocate. Il corpo verrà bruciato e le ceneri saranno disperse al vento, la testa conficcata sul patibolo i beni confiscati” (11).“Questo supplizio – ricorda Fabritziu Dettori in una bella ricostruzione della figura dell’eroe sardo – gli fu inferto con così zelo che dalle spalle e dalla schiena gli aguzzini riuscivano a strappargli la pelle a «lische sanguinanti». Sollevato sul patibolo semi vivo, fu impiccato e, da morto, decapitato. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Ma la malvagità savoiarda, non sazia, sancì, in tributo alla causa antisarda, che la testa del Patriota sardo fosse rinchiusa dentro una gabbia di ferro ed esposta, a scopo intimidatorio, all’ingresso di «Postha Noba», mentre nelle altre «Porte» della città i lembi della sua carne completavano l’orrore. Il macabro monito rimase esposto per giorni e giorni…” (12).”Giustizia sabauda e spettacolo per la popolazione sassarese che assistè in bestiale gazzarra alla fustigazione e alla impiccagione”(13), commenta amaramente Raimondo Carta Raspi.Macabro ammonimento, aggiungo io, nei confronti dei Sardi, da parte dei più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti che la Sardegna abbia avuto nella sua storia, i Savoia.Cilocco aveva 33 anni. Un grande eroe e patriota sardo, sconosciuto e dimenticato, Est ora de l’amentare! 

Note bibliografiche

1. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 155.

2. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 846.

3. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Editori Laterza, Roma-Bari 1984, pagina 193.

4. Francesco Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Tip. Nazionale di G. Biancardi, Torino 1857, pagina 64.

5. Luigi Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, in AA.VV., La Sardegna del Risorgimento, Ed. Gallizzi, Sassari, 1962, pagine 123-124.

6. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 156.

7. Giuseppe Manno, Storia moderna della Sardegna-Dall’anno 1773 al 1799, a cura di Antonello Mattone, Ilisso edizioni, Nuoro 1998, pagina 294.

8. Bruno Anatra, Dizionario Biografico degli Italiani, Ed.Treccani,  Volume 25 (1981).

9. Eliseo Spiga, La sardità come utopia – Note di un cspiratore, Cuec, Cagliari 2006, pagina 105.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848,Casanova, Torino 1887, pagina 45.

11. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 159.

12. Fabritziu Dettori, Francesco Cilocco, un eroe dimenticato, in Sotziu Limba sarda, 10-5-2005.

13. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 847.