Pacem in terris

dalla guerra giusta alla pacem in terris

di Carlo Felice Casula

L’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII costituisce il punto d’arrivo di una lunga e intensa riflessione della Chiesa Cattolica sui temi della guerra e della pace nel Novecento. Le conquiste della rivoluzione industriale, piegate alle esigenze militari, hanno modificano nel profondo la realtà della guerra, destinata a diventare parte integrante e avanzata della modernità. È d’obbligo partire dal magistero di Leone XIII, il grande pontefice, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte, che con la «madre di tutte le encicliche sociali», la Rerum Novarum del 1891, con coraggio e determinazione, avvia il dialogo della Chiesa con la modernità, a partire dalla questione più drammatica ed emblematica, quella sociale. In diversi suoi interventi egli avanza forti perplessità sul semplice possesso d’armi, prima ancora del loro uso. Traspare in fondo l’idea di una positiva , interiorizzata, non semplice aspirazione d’idealisti, ma programma di governo desiderabile e praticabile, che implica la costruzione di un ordinamento sociale e politico percepito dai più come giusto. Giacomo Della Chiesa eletto papa il 3 settembre del 1914 col nome di Benedetto XV, nella sua prima enciclica, parla di «gigantesche carneficine» a proposito della Grande Guerra in corso, che, il 1° agosto del 1917, nella Nota ai capi dei popoli belligeranti , viene definita «inutile strage». Tale definizione indispettisce governi e autorità militari, ma, per la sua essenzialità ed immediatezza, non trova consenso e riscontro nell’esperienza quotidiana di milioni di donne e d’uomini travolti dagli sconvolgimenti bellici. Il pontificato di Achille Ratti-Pio XI (febbraio 1922-marzo 1939) si dipana per intero nella risi tra le due guerre mondiali. La sua condanna della guerra diventa sempre più coerente e coraggiosa, nel tempo, come nel caso della Guerra d’Etiopia, in altre parole, dell’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia. Il cardinale Eugenio Pacelli, eletto Papa nel marzo del 1939, nella Seconda Guerra Mondiale opera attraverso la diplomazia vaticana per circoscrivere il conflitto, enuncia le condizioni e i principi ispiratori di un possibile ritorno alla pace che non assumesse le connotazioni vendicative del Trattato di Versailles, impegna la Santa Sede, con l’ostilità aperta dei Nazisti, nel difficile compito di «difendere i vinti e tutelare i deboli». I limiti della posizione di Pio XII sono evidenti: nella guerra totale in cui non solo opera la sconvolgente potenza distruttrice delle nuove armi messe in campo, ma anche il ricorso sistematico alle rappresaglie contro le inermi popolazioni civili, per la Santa Sede, così come per altre organizzazioni umanitarie, come la Croce Rossa, è difficile ottenere il rispetto dello Ius in bello anche da parte di coloro che combattono una Good War (guerra giusta), per usare un’espressione dello storico inglese Alan John P. Taylor. Emblematica conclusione della guerra è, non a caso, Hiroshima, uno dei tre terribili «deliri dell’homo faber » del secolo appena concluso, assieme ad Auschwitz e all’eterogenesi dei fini del comunismo, rappresentata dai gulag sovietici. Nel dopoguerra nel nuovo contesto del mondo bipolare e della guerra fredda, la corsa agli armamenti, sia tradizionali sia atomici, diviene inarrestabile, garantisce la deterrenza e l’equilibrio del terrore. Pio XII stesso parla di «coesistenza nel timore». Contemporaneamente, però, la Carta costitutiva delle Nazioni Unite e gran parte delle costituzioni postbelliche, compresa la nostra all’articolo undici, bandiscono solennemente e rigorosamente la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Nel diritto internazionale, dopo lo ius ad bellum e lo ius in bello, si comincia a codificare lo ius contra bellum, in tal senso, si muovono diffusi e vasti movimenti per la pace, di diversa ispirazione ideale, ma convergenti nella consapevolezza che l’umanità ha ormai conseguito con la bomba atomica, per la prima volta nella storia, il potere terrificante di autodistruggersi. Giovanni XXIII, sfruttando anche la sua grande popolarità, subito dopo la convocazione del Concilio Vaticano II, contribuisce, con «un vibrante appello alla pace», lanciato dalla Radio Vaticana, a disinnescare lo scoppio della cosiddetta crisi dei missili precipitata, nell’ottobre del 1962. Nel contesto del pur contraddittorio nuovo clima di dialogo e apertura tra gli Stati Uniti di Kennedy e l’Unione Sovietica di Chru˜cëv, l’ultraottantenne pontefice riprende e rilancia il tema della pace, come motivo centrale del magistero della Chiesa, mater et magistra, esperta in umanità, tesa più che a emettere condanne o a ribadire posizioni assertive, ad ascoltare e a dialogare fuori e dentro la comunità ecclesiale, operando sempre la distinzione tra errore e erranti, con tutti gli uomini di buona volontà. L’enciclica Pacem in terris pubblicata l’11 aprile del 1963, rivolta, last but not least, anche a loro, suscita sconcerto in alcuni ambienti curiali e trova, invece, una straordinaria accoglienza nella comunità ecclesiale, in grande fermento per il Concilio Vaticano Secondo in corso, e anche fuori di essa, compreso il mondo comunista. Nella traduzione in italiano pubblicata da L’ Osservatore Romano si può cogliere qualche addolcimento-stravolgimento del testo latino, per esempio al par. n. 67: «riesce quasi impossibile pensare nell’era atomica che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia», nella versione ufficiale originaria si riscontra la ben più concisa e categorica espressione «alienum a ratione». La Pacem in Terris costituisce, indubbiamente il punto più alto del suo magistero. Nonostante i ripetuti rinvii nelle citazioni a Pio XII, rappresenta, anche per l’abbandono del tradizionale metodo deduttivo a favore di quello induttivo, un’indubbia coraggiosa discontinuità. Questo concerne innanzi tutto la teoria della guerra giusta (jus ad bellum) ancora prevalente nella Chiesa di Pio XII. I concreti sanguinosi svolgimenti delle guerre moderne, non solo le due guerre totali del Novecento, ma anche le innumerevoli guerre locali, con tutta evidenza, dimostrano come queste sottili e astratte condizioni non siano mai state rispettate. In Giovanni XXIII, con la Pacem in Terris, l’abbandono della teoria della guerra giusta non comporta la semplice rassegnazione nei confronti della violenza e dell’ingiustizia. La pace non è più l’assenza di guerra: certamente si affida all’«ottimismo della Provvidenza», ma implica anche il superamento dei rapporti di dominio tra gli uomini e tra gli Stati, leggendo i segni dei tempi individua gli interlocutori privilegiati in tre nuovi soggetti interessati a uscire da una specifica condizione di soggezione e subalternità e a costruire un futuro pacifico e solidale: i lavoratori, i paesi del Terzo Mondo e le donne. La pace è, poi, il ritorno coerente al messaggio biblico: i colori della pace oggi così presenti nelle piazze e nei balconi di tante case, che si vorrebbe non fare entrare più nelle Chiese, perché simbolo politico, non sono proprio quelli dell’arco sulle nubi , dopo il diluvio universale, di cui parla la Bibbia? «L’arco sarà sulle nubi/ e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna/ tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne/ che è sulla terra»(Genesi 9, 12-17).

10 April 2003pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 31) nella sezione “Religioni

Pacem in terrisultima modifica: 2014-04-26T10:43:53+02:00da vitegabry
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