Archivi giornalieri: 8 settembre 2013

Limiti di reddito e pensioni di invalidità: decreto-legge

 

Nel decreto-legge (28 giugno 2013, n. 76) approvato ieri dal Governo (Interventi urgenti per la promozione dell’occupazione) c’è anche un articolo che porrà fine (se convertito) alla diatriba sui limiti reddituali da conteggiare ai fini della concessione della pensione agli invalidi civili.

Come si ricorderà nella Circolare INPS 149/2012 era previsto un grave elemento di novità che riguardava i soli invalidi civili al 100% titolari di pensione di invalidità. Fino ad allora il limite reddituale considerato era quello relativo ai redditi strettamente personali. Dal 2013 sarebbe stato considerato anche quello del coniuge.

Quella decisione amministrativa di INPS non si basava su alcun dettato normativo, ma su una Sentenza Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) n. 4677/2011 La conseguenza immediata della Circolare sarebbe stata che gli invalidi totali titolari, assieme al coniuge di un reddito lordo annuo superiore a 16.127,30 euro, avrebbero perso il diritto alla pensione (275,87 euro al mese).

In seguito alle opportune reazioni delle associazioni e di una presa di posizione del Ministero del Lavoro, con il Messaggio della Direzione Generale INPS n. 717 del 14 gennaio 2013, INPS ha sospeso l’applicazione di quella disposizione amministrativa. Ma successivamente la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, Sentenza n. 7320 del 22 marzo 2013) aveva ribadito il parere precedente: il reddito è quello dell’interessato e del coniuge, facendo sorgere nuovi timori

Da più parti era stato richiesto l’intervento legislativo e alla Camera era stata deposita nel frattempo una proposta di legge (atti della Camera n. 538, prima firmataria On. Margherita Miotto) finalizzata a fornire una interpretazione autentica favorevole alle persone con disabilità.

 

Ora, il testo di quella proposta viene ripreso dal Governo che lo inserisce del Decreto legge approvato ieri (e in attesa di pubblicazione).

Finalmente, all’articolo 9 si precisa espressamente che «Il limite di reddito per il diritto alla pensione di inabilità in favore dei mutilati e degli invalidi civili, di cui all’articolo 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118, è calcolato con riferimento al reddito agli effetti dell’IRPEF con esclusione del reddito percepito da altri componenti del nucleo familiare di cui il soggetto interessato fa parte».

Se ne attende ora la probabile conversione in legge dopo la discussione in Parlamento.

 

26 giugno 2013

 

Aggiornamento:  Il decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76, cui si riferisce questo articolo, è stato convertito dalla Legge 9 agosto 2013, n. 99. L’articolo 10 al comma 5 afferma: «Il limite di reddito per il diritto alla pensione di inabilità in favore dei mutilati e degli invalidi civili, di cui all’articolo 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118, è calcolato con riferimento al reddito agli effetti dell’IRPEF con esclusione del reddito percepito da altri componenti del nucleo familiare di cui il soggetto interessato fa parte».

Pertanto il reddito di riferimento per la concessione della pensione degli invalidi civili totali non è quello coniugale, ma quello personale.

 

22 agosto 2013

 

Carlo Giacobini

Direttore resposabile di HandyLex.org

Corte Costituzionale: congedi anche ai parenti e affini di terzo grado

 

La Corte Costituzionale con Sentenza 18 luglio 2013, n. 203 è intervenuta nuovamente sulla materia dei congedi retribuiti (fino ai due anni) concessi ai lavoratori che assistono un familiare con grave disabilità (in possesso di verbale di handicap grave ex art. 3 comma 3 della Legge 104/1992).

Per comprendere la portata e l’impatto della Sentenza è necessario ripercorrere la storia normativa.

I congedi retribuiti biennali sono stati inizialmente introdotti dalla Legge 388/2000 (articolo 80, comma 2, poi ripreso dall’articolo 42, comma 5 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151) che ha integrato le disposizioni previste dalla Legge 53/2000 introducendo l’opportunità, per i genitori di persone con handicap grave, di usufruire di due anni di congedo retribuito. Medesima opportunità veniva offerta ai lavoratori conviventi con il fratello o sorella con handicap grave a condizione che entrambi i genitori fossero “scomparsi”.
Successivamente, la Corte Costituzionale ha riconosciuto varie eccezioni di legittimità costituzionale che hanno ampliato la platea degli aventi diritto (al coniuge, ai figli conviventi).

Ma è stato il Decreto Legislativo del 18 luglio 2011, n. 119 a rivedere profondamente la disciplina dei congedi retribuiti di ventiquattro mesi, in particolare per quanto riguarda gli aventi diritto e le modalità di accesso all’agevolazione. 

Le premesse

Il Decreto Legislativo 119/2011, pur confermando i beneficiari potenziali (coniuge, genitori, figli, fratelli e sorelle) previsti dalla normativa e dalla giurisprudenza precedente, ha fissato condizioni diverse di priorità nell’accesso ai congedi.

L’ordine di priorità è: coniuge, genitori, figli, fratelli e sorelle. Rimane ferma la condizione dell’assenza di ricovero con le eccezioni previste dalla legge.

Il primo beneficiario è, quindi, il coniuge convivente con la persona gravemente disabile.

In caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, ha diritto a fruire del congedo il padre o la madre anche adottivi (anche se non conviventi con il figlio). Da far rilevare che non viene previsto alcun limite di età di chi dovrebbe assistere il disabile.

In caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti del «padre e della madre» (nel testo è usata la formula congiuntiva “e”, non quella disgiuntiva “o”), anche adottivi, ha diritto a fruire del congedo uno dei figli conviventi.

Se anche i figli conviventi sono deceduti, mancanti o invalidi, il beneficio passa ad uno dei fratelli o delle sorelle conviventi.

Nella sostanza i congedi non possono essere concessi ai figli nel caso in cui il genitore con handicap grave sia sposato e la moglie dello stesso sia presente non invalida.

 

La questione di legittimità costituzionale

La normativa vigente, tuttavia, non include fra i possibili beneficiari lavoratori (nemmeno se conviventi e nemmeno nel caso siano gli unici in grado di assistere la persona con disabilità) che abbiano una parentela o un affinità diversa da quelle contemplate (figli, genitori, fratelli e sorelle, oltre al coniuge).

Su tale esclusione è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale oggetto della Sentenza 203/2013. Il procedimento era stato sollevato originariamente per il caso di un nipote (affine di terzo grado in via collaterale) convivente con la persona con disabilità, unico in grado di prestare assistenza.

A sollevare la questione di legittimità costituzionale, in modo compiuto e articolato, è il Tribunale Amministrativo Regionale di Reggio Calabria, richiamando vari articoli della Costituzione.

Secondo il TAR calabrese l’esclusione del nipote convivente del disabile dal novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo, in mancanza di altre persone idonee ad occuparsi dello stesso, contrasterebbe, in primo luogo, con l’art. 32 Cost., “poiché la tutela del diritto alla salute va intesa, una volta che siano insorte malattie, come predisposizione degli strumenti necessari per rendere possibili le relative cure e l’assistenza più opportuna”.

Altra violazione vi sarebbe dell’art. 2 della Costituzione, in quanto esso, nel richiedere il rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà, implica la conseguente messa a disposizione di misure che consentano l’adempimento dei medesimi. Violerebbe anche l’art. 29 Cost., “poiché l’assistenza rappresenta anche una forma di tutela della famiglia e i soggetti ammessi a fruire del congedo sono tutti in rapporto di parentela con la persona affetta da patologie.”

Altra interessante contestazione: la violazione dell’art. 118, quarto comma, Cost., inteso come espressione del principio di sussidiarietà orizzontale. Una lettura combinata degli artt. 29 e 118, quarto comma, Cost. indurrebbe, infatti, a valorizzare la famiglia anche come «strumento di attuazione di interessi generali, quali il benessere della persona e l’assistenza sociale».

Secondo il TAR l’attuale formulazione dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, “fissando in modo rigoroso e restrittivo i soggetti lavoratori che possono fruire del congedo straordinario, frustrerebbe quella prospettiva sussidiaria e dinamica nella quale, a parere del giudice a quo, si è andata inserendo a pieno titolo anche la famiglia.”

Inoltre appaiono violati anche gli articoli 4 e 35 Cost., poiché il congiunto del disabile, per poter garantire cure ed assistenza, è costretto a rinunciare alla propria attività lavorativa o a ridurne il numero di ore, o a sceglierne una diversa, maggiormente compatibile con detta finalità.

Infine, il TAR rileva anche la violazione dell’art. 3 Cost., poiché «di fronte ad una posizione sostanzialmente identica di un congiunto convivente rispetto a quella degli altri soggetti già previsti dalla norma e ad una pari esigenza di tutela della salute psico-fisica della persona affetta da handicap grave e di promozione della sua integrazione nella famiglia, la mancata inclusione di ulteriori ipotesi appare ingiustamente discriminatoria».

Le motivazioni della Corte

La Corte accoglie, in larga misura, le questioni sollevate dal TAR, aggiungendo alcune considerazioni che vale la pena di richiamare soprattutto per la sua portata culturale.

Afferma la Corte: “il congedo straordinario di cui si discute, benché fosse originariamente concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave e sia tuttora inserito in un testo normativo dedicato alla tutela e al sostegno della maternità e della paternità (come recita il titolo del d.lgs. n. 151 del 2001), ha assunto una portata più ampia. La progressiva estensione del complesso dei soggetti aventi titolo a richiedere il congedo, operata soprattutto da questa Corte, ne ha dilatato l’ambito di applicazione oltre i rapporti genitoriali, per ricomprendere anche le relazioni tra figli e genitori disabili, e ancora, in altra direzione, i rapporti tra coniugi o tra fratelli.”

Prosegue: “al fine di adeguare le misure di assistenza alle emergenti situazioni di bisogno e alla crescente richiesta di cura che origina, tra l’altro, dai cambiamenti demografici in atto, questa Corte ha ritenuto che il legislatore avesse illegittimamente trascurato quelle situazioni di disabilità che si possono verificare in dipendenza di eventi successivi alla nascita o in esito a malattie di natura progressiva o, ancora, a causa del naturale decorso del tempo. Anche per tali situazioni, come nel caso di figli portatori di handicap, vale il principio che la cura della persona disabile in ambito familiare è in ogni caso preferibile e, ciò che più rileva, più rispondente ai principi costituzionali, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio dell’assistito (sentenza n. 158 del 2007).”

E infine: “nella sua formulazione attuale, dunque, il congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, fruibile per l’assistenza delle persone portatrici di handicap grave, costituisce uno strumento di politica socio-assistenziale, basato sia sul riconoscimento della cura prestata dai congiunti sia sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale e intergenerazionale, di cui la famiglia costituisce esperienza primaria, in attuazione degli artt. 2, 3, 29, 32 e 118, quarto comma, Cost.”

Conseguentemente la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto, e alle condizioni ivi stabilite, il parente o l’affine entro il terzo grado convivente, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla disposizione impugnata, idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave.

Ricadute pratiche

Sotto il profilo pratico tale Sentenza genera la seguente nuova situazione rispetto agli aventi diritto al congedo retribuito:

Il primo beneficiario è il coniuge convivente con la persona gravemente disabile.

In caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, ha diritto a fruire del congedo il padre o la madre anche adottivi (anche se non conviventi con il figlio).

In caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti del padre e anche della madre ha diritto a fruire del congedo uno dei figli conviventi.

Se anche i figli conviventi sono deceduti, mancanti o invalidi, il beneficio passa ad uno dei fratelli o delle sorelle conviventi.

In caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti anche dei fratelli o delle sorelle, il diritto al congedo passa a parenti e affini, comunque conviventi, fino al terzo grado.

Nella sostanza parenti e affini fino al terzo grado possono fruire dei congedi solo se gli altri parenti più prossimi (figli, genitori, fratelli) o il coniuge sono mancanti, deceduti o anch’essi invalidi.

 

19 luglio 2013

 

Consulta

 

Carlo Giacobini
Direttore Responsabile di HandyLex.org

Provvidenze agli stranieri con invalidità civili: nuove indicazioni INPS

Su questo sito abbiamo più volte segnalato le Sentenze e le Ordinanze della Corte Costituzionale in materia di concessione delle provvidenze assistenziali agli extracomunitari. Pur essendo la prima Sentenza datata 2008 (29 luglio 2008, n. 306), solo ora INPS (Messaggio 13983 del 4 settembre 2013) ricorda quanto statuito ripetutamente dalla Corte Costituzionale. Le provvidenze economiche per invalidità civile (pensione, assegno, indennità di frequenza, indennità di accompagnamento) devono essere concesse “a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti, anche se privi di permesso di soggiorno CE di lungo periodo, alla sola condizione che siano titolari del requisito del permesso di soggiorno di almeno un anno.”

Ma ricostruiamo i fatti che partono da lontano.

La Legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) all’articolo 39 prevedeva una sostanziale equiparazione degli stranieri con permesso di soggiorno superiore ad un anno (e dei minori iscritti nella loro carta di soggiorno) con i cittadini italiani per quanto riguarda la fruizione delle prestazioni anche economiche. Questo significava, ad esempio, che per l’accesso alle provvidenze economiche concesse agli invalidi civili, ai sordomuti, ai ciechi civili e agli indigenti non era più un requisito essenziale la cittadinanza italiana o di un Paese della Unione Europea (in questo caso è necessaria la residenza in Italia).

La Legge 40/1998 fu successivamente regolamentata dal Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (ampiamente modificato dalla successiva Legge 189/2002).

Nel frattempo, però, la Legge 388 del 23 dicembre 2000 (articolo 80, comma 19), ha introdotto una notevole restrizione alla concessione delle provvidenze economiche agli invalidi civili extracomunitari: dopo l’entrata in vigore di quella disposizione i cittadini stranieri, pur mantenendo il diritto all’accertamento delle minorazioni civili, non possono godere delle relative prestazioni economiche se non sono il possesso della carta di soggiorno che viene rilasciata allo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno cinque anni, titolare di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi, il quale dimostri di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari.

 

Nel 2007, i Decreti legislativi 8 gennaio 2007, n. 3 e 6 febbraio 2007, n. 30, anche in forza di specifiche direttive dell’Unione, hanno ridefinito i criteri e le modalità di rilascio del permesso di soggiorno e del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Quest’ultimo documento sostituisce la precedente “carta di soggiorno”.

Dopo l’entrata in vigore di quel decreto, quindi, per la concessione delle provvidenze economiche agli invalidi civili extracomunitari viene richiesta la titolarità del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo che prevede il possesso di alcuni specifici requisiti:

1) essere in possesso di un permesso di soggiorno (non per lungo periodo) da almeno 5 anni.

2) dimostrare di avere un reddito annuale pari almeno all’importo dell’assegno sociale; se si chiede un permesso per un nucleo o si chiede una ricongiunzione, l’importo minimo viene raddoppiato (3-4 componenti, incluso il richiedente) o triplicato (5 più componenti, incluso il richiedente).

Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, può quindi essere negato, anche se si è residenti in Italia, con regolari permessi, da più di cinque anni, nel caso non raggiungano determinati limiti reddituali. Ed è su tale aspetto che, per due volte, la Corte Costituzionale ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale delle norme (e cioè del già citato articolo 80, comma 19 della Legge 388 del 23 dicembre 2000 e di tutte le normative che ne discendono).

 

Nell’ordine la Corte Costituzionale ha ribadito che le provvidenze vanno concesse agli stranieri, anche se privi di permesso di soggiorno CE di lungo periodo, alla sola condizione che siano titolari del requisito del permesso di soggiorno di almeno un anno. Tale concetto è stato ribadito negli anni per tutte le provvidenze economiche:

 

  • indennità di accompagnamento: (Sentenze n. 306/2008 e n. 40/2013)

  • pensione di invalidità agli invalidi civili totali: (Sentenze n. 11/2009 e n. 40/2013)

  • assegno mensile agli invalidi civili parziali: (Sentenza n. 187/2010)

  • indennità di frequenza: (Sentenza n. 329/2011)

Nonostante questo omogeneo assieme di Sentenze, in questi anni INPS ha di molto rallentato l’applicazione di quanto statuito dalla Consulta, tanto da generare una mole significativa di contenziosi.

Il Messaggio INPS 13983 del 4 settembre 2013, con notevole ritardo, fornisce finalmente indicazioni operative agli uffici periferici preposti all’erogazione.

Assume al contempo una posizione di salvaguardia rispetto al contenzioso pregresso, in particolare verso chi ha citato in giudizio l’Istituto.

Il Messaggio precisa infatti: “Le pronunce della Corte non potranno trovare applicazione nelle ipotesi di situazioni ormai consolidate per effetto di sentenze passate in giudicato. Pertanto, eventuali domande di riesame potranno essere accolte, nei limiti della prescrizione decennale, e in assenza di giudicato.”

Ciò significa che chi ha fatto causa all’INPS e l’ha “persa”, non potrà richiedere il riesame della propria posizione e la relativa concessione delle provvidenze economiche (retroattiva, cioè dal momento della domanda). In questi casi lo straniero dovrà comunque richiedere un nuovo accertamento dello stato invalidante e l’eventuale provvidenza economica decorrerà dal primo giorno del mese successivo alla data della domanda.

Il Messaggio lascia intendere che potranno invece essere riesaminati le posizioni di coloro i quali si sono visti rigettare la domanda di concessione e non abbiano presentato ricorso o nel caso che questo ricorso non sia ancora giunto a termine.

 

Per tutti i nuovi casi sarà sufficiente il permesso di soggiorno di almeno un anno e l’iscrizione all’anagrafe del Comune di residenza, oltre al riconoscimento dello stato di invalidità civile rilasciato con le modalità vigenti.

 

6 settembre 2013

 

Precedenti articoli su questo argomento:

 

Carlo Giacobini

Direttore responsabile di HandyLex.org