Archivi giornalieri: 22 maggio 2013

Don Gallo

E’ morto don Andrea Gallo, il prete degli ultimi

22 maggio 2013

 

 Don-Gallo.jpg
Si è spento a Genova il parrocco fondatore della Comunità di San Benedetto al porto, da sempre impegnato nell’aiuto ai più deboli e ai poveri. Era nato nel 1928 e si era scontrato spesso con le gerarchie ecclesiastiche
Genova è in lutto per la scomparsa di don Andrea Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto al porto, ‘prete di strada’ da sempre al fianco degli emarginati, degli ‘ultimi’, morto mercoledì 22 maggio. Un prete controcorrente , che non esitò a sostenere Marco Doria sindaco e a definire Berlusconi “malato”, il sacerdote genovese è stato  protagonista di tante battaglie per gli ultimi e gli emarginati, che  talvolta lo hanno portato anche a vivere dei conflitti con la stessa  istituzione ecclesiastica. Ed è stata proprio la sua lotta in prima  linea contro i diritti negati, il suo essere in strada al fianco di disoccupati, immigrati, prostitute, il suo impegno a favore dei gay, a fare di quel “prete che si è scoperto uomo”, come si legge sul sito della sua comunità, un riferimento importante per i movimenti antagonisti e la sinistra radicale e un grande amico di un altro genovese che seppe cantare gli ultimi, Fabrizio De André.

Negli anni ’50 è in Brasile
– Nato a Genova il 18 luglio del 1928, Gallo inizia il noviziato nel 1948 con i salesiani, a Varazze, proseguendo poi a Roma il liceo e gli studi filosofici. Nel 1953 chiede di partire per le missioni e viene mandato in Brasile, ma la dittatura lo costringe a tornare in Italia l’anno successivo. Prosegue gli studi ad Ivrea e viene ordinato sacerdote il 1 luglio 1959.

Contrasti con il cardinale Siri – Nominato cappellano alla nave scuola della Garaventa, riformatorio per minori, cerca di introdurre un metodo educativo basato sulla fiducia e sulla libertà, lontano dalla repressione fino ad allora persequita. Tre anni dopo viene rimosso dall’incarico. Nel 1964 don Andrea lascia la congregazione, chiedendo di entrare nella diocesi genovese. Viene nominato vice parroco alla chiesa del Carmine, nel centro storico di Genova, dove rimane fino al 1970, anno in cui viene trasferito per ordine del Cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo della città. Da molti il trasferimento viene vissuto non come un semplice avvicendamento tra parroci: la sua predicazione avrebbe irrato una parte di fedeli e preoccupava i teologi della Curia, a cominciare dallo stesso Cardinale perché, si dice, i suoi contenuti ‘non sono religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti’.

La fondazione della comunità di San Benedetto
– Don Gallo obbedisce ma l’allontanamento materialmente dalla parrocchia non significa per lui abbandonare il proprio impegno: i suoi ultimi incontri con la popolazione, scesa in piazza per esprimergli solidarietà, sono una decisa riaffermazione di fedeltà ai suoi ideali ed alla sua battaglia per dare voce ai più poveri e agli emarginati. Qualche tempo dopo viene accolto dal parroco di S. Benedetto, Don Federico Rebora, e insieme ad un piccolo gruppo, nel 1975 avvia l’attività della Comunitàdi S. Benedetto al Porto. L’associazione Comunità San Benedetto al Porto verrà costituita con atto notarile il 2 marzo del 1983.


Vicino al movimento No Tav
– . Scrittore, teologo, cantante (ha preso parte all’ultimo disco dei Cisco, ex Modena City Ramblers), sostenitore dei diritti degli omosessuali e dei transgender, promotore della liceità delle droghe leggere (nel 2006 fuma uno spinello in Comune a Genova), don Andrea era sostanzialmente anarchico, scomodo per la Chiesa, leader spirituale e politico di giovani e meno giovani. Si schiera con i giovani durante il G8 e con il movimento No Tav. Alla morte di Hugo Chavez celebra per lui una messa. Nell’ultimo tweet, alcuni giorni fa, scrive: “Sogno una chiesa non separata dagli altri, che non sia sempre pronta a condannare, ma sia solidale, compagna”.

Canne al vento di Grazia Deledda – Capitolo undicesimo

cannealv.gif

Capitolo undicesimo

Un giorno in autunno Efix andò in casa di don Predu.

C’erano solo le serve, una grassa e anziana che si dava le arie imponenti della sorella del Rettore, l’altra giovane e lesta benché afflitta dalle febbri di malaria; ed egli dovette attendere nella stanza terrena, divagandosi a guardare nel vasto cortile i graticoli di canna coperti di fichi verdi e neri, d’una violetta e di pomidoro spaccati velati di sale. Tutta la casa spirava pace e benessere: sui muri chiari tremolava l’ombra dei palmizi e tra il fogliame dorato dei melagrani le frutta rosse spaccate mostravano i grani perlati come denti di bambino. Efix pensava alla casa desolata delle sue povere padrone, a Noemi che vi si consumava dentro come un fiore al buio…

«Come sei dimagrito», gli disse la serva anziana, che filava seduta presso la porta, «hai le febbri?»

«Mi rosicchiano le ossa, mi scarnificano, sia per l’amor di Dio», egli sospirò, guardandosi le mani nere tremanti.

«Le tue padrone stanno bene? Non si vedono più neppure in chiesa.»

«Neppure in chiesa vanno, dopo la disgrazia.»

«E don Giacinto non torna?»

«Non torna. Ha un posto a Nuoro.»

«Sì, il mio padrone l’ha veduto, ultimamente. Ma pare non sia un posto molto di lusso.»

«Basta vivere, Stefana!», ammonì Efix, senza sollevare la testa. «Basta vivere senza peccare.»

«Questo è difficile, anima mia! Come guadare il fiume senza bagnarsi?»

«Passando sul ponte», disse l’altra serva dal cortile curva a sbucciare un mucchio di mandorle; poi domandò: «E Grixenda, allora? Anche lei porta il lutto e non esce più».

Efix non rispose.

«E don Predu, adesso, viene da voi?»

«Io non lo so: io sono sempre laggiù, al poderetto.»

Le donne ardevano di curiosità, perché da qualche tempo il padrone mandava regali alle cugine e pur beffandosi di loro non permetteva che altri ne parlasse male in sua presenza; ma Efix non era disposto alle confidenze. Don Predu l’aveva mandato a chiamare, ed egli, ed egli era lì per attenderlo non per chiacchierare. La febbre e la debolezza gli davano un ronzìo alle orecchie; sentiva come il mormorare del fiume nella notte e voci lontane, e aveva dentro la testa tutto un mondo suo ov’egli viveva distaccato dal mondo reale.

Non gl’importava più nulla di Giacinto, né di Grixenda e neppure, quasi, delle padrone; tutto gli sembrava lontano, sempre più lontano, come se egli si fosse imbarcato e dal mare grigio e torbido vedesse dileguarsi la terra all’orizzonte.

Ma ecco don Predu che rientra: è meno grasso di prima, come vuotatosi alquanto. La catena d’oro pende un poco sullo stomaco ansante.

Efix s’alzò e non voleva più rimettersi a sedere.

«Bisogna che vada», disse accennando fuori, come uno che ha da camminare, da andare lontano.

«Tanti affari hai? O vai a qualche festa?»

L’ironia di don Predu non lo pungeva più; tuttavia l’accenno alla festa lo scosse.

«Sì, voglio andare alla festa di San Cosimo e San Damiano.»

«Ebbene, andrai! Suppongo che non parti subito. Siedi: ho da farti una domanda. Stefana, vino!»

Efix però respinse il bicchiere con un gesto di orrore. Mai più bere, mai più vizi. Da due mesi digiunava e talvolta quando aveva sete non beveva per penitenza. Sedette rassegnato tornando a guardarsi le mani; e don Predu, mentre vigilava verso il cortile perché le serve non origliassero, gli domandò a mezza voce:

«Dimmi come vanno gli affari delle mie cugine».

Efix sollevò, riabbassò tosto gli occhi; un rossore fosco gli colorì il viso che pareva arso scarnificato con la sola pelle aderente al teschio.

«Le mie padrone non hanno più confidenza in me e non mi dicono più tutti i loro affari. È giusto. A che dirmeli? Io sono il servo.»

«Corfu ‘e mazza a conca, pagarti però non ti pagano! Di quest’affare almeno dovrebbero intrattenerti. Quanto ti devono?»

«Non parliamone, don Predu mio! Non mi mortifichi.»

«Ti mortifichi pure, babbeo! Ebbene senti. Anch’io vado qualche volta da quelle donne ma non è possibile cavar loro nulla di corpo. Ester, forse, parlerebbe; ma c’è Noemi dura come una suola. La prima sera, quando accadde la disgrazia di Ruth e io passavo là per caso, solo quella sera si confidò. Sfido, perdio, era l’ora della disperazione. Ma dopo ritornò ostile: quando vado là mi accoglie bene, ma di tanto in tanto mi guarda torva, come sia io la causa dei loro malanni. E se Ester apre la bocca per parlare, ella la fissa così terribile che le toglie la parola di bocca.»

«Così con me», disse Efix. «Preciso così.»

E provò quasi un senso di sollievo, perché il ricordo degli occhi di Noemi lo perseguitava peggio che il suo rimorso antico.

«Adesso, ascoltami. Visto che da loro non si può ricavare niente, ho interrogato Kallina. Ma anche lei, malanno l’impicchi, tace. Sa fare i suoi affari, quella dannata: finge di credere che Ester ha veramente firmata la cambiale di Giacinto e solo dice che vuole il fatto suo. So che tu ed Ester siete andati da lei per cercare di aggiustare le cose e che Kallina ha rinnovato per tre mesi la cambiale gonfia delle spese di protesto e di interessi più forti, e ha preso ipoteca sul poderetto e sulla casa, fune che la strangoli; sì, va bene; ma e adesso, in ottobre, come farete?»

«Non lo so: non mi dicono nulla.»

«So che Ester gira in cerca di denari: ha un bel girare; le cadranno gli ultimi denti e non avrà trovato. So che sarebbe disposta anche a vendere, ma non a me.»

Efix guardava le sue dita e taceva; ma don Predu, irritato per questa indifferenza, gli batté le mani sulle ginocchia.

«Che pensi, santo di legno? Ohè, di’?»

«Ebbene, le dirò la verità. Io spero che Giacinto riesca a pagare.»

Allora don Predu si riversò ridendo sulla sedia, col petto gonfio, i denti scintillanti fra le labbra carnose. Anche le sue dita intrecciate alla catena d’oro sul petto parvero ridere.

Efix lo guardava spaurito, con gli occhi pieni di una angoscia da bestia ferita.

«Ma se quello muore di fame! L’ho veduto l’altro giorno. Sembrava un pezzente, con le scarpe rotte. S’ha venduto anche la bicicletta, non ti dico altro!»

«No, dica! Ha rubato?»

«Rubato? Sei pazzo? Adesso lo calunni anche, quel fiorellino, quell’angelo dipinto. E cosa ruba? Non è buono neanche a quello.»

«E… cosa dice? Tornerà?»

«Se gli passa un’idea simile in mente gli rompo i garetti» disse don Predu, oscurandosi in viso. Ed Efix ebbe a un tratto l’impressione che finalmente le sue disgraziate padrone avessero trovato un appoggio, un difensore più valido di lui. Ah, sia lodato Dio: Egli non abbandona le sue creature. Allora le sue antiche speranze rifiorirono all’improvviso; che don Predu sposasse Noemi, che la casa delle sue padrone risorgesse dalle sue rovine. Ma la sua gioia si spense subito, d’un tratto, come s’era accesa, e di nuovo egli si trovò nel suo deserto, nel suo mare, nel suo viaggio misterioso e terribile verso il castigo divino. Tutte le grandezze della terra, anche se toccavano a lui, anche se egli diventava re, anche se avesse la potenza di render felici tutti gli uomini del mondo, non bastavano a cancellare il suo delitto, a liberarlo dall’inferno. Come rallegrarsi dunque? E tornò a guardarsi le mani per nasconder l’idea fissa ferma nelle sue pupille. Don Predu riprese:

«Giacinto non tornerà e tanto meno pagherà, te lo garantisco io. Ma ricordati quello che ti dissi mille volte; il poderetto lo voglio io. Pago tutto, io: così vi resta la casa. Cerca tu di convincerle, quelle teste di legno. Io ti tengo al mio servizio».

«Perché non parla vossignoria con loro? A me non danno ascolto.»

«E a me sì, forse? Ho tentato, di parlarne, ma come col muro. Tu devi convincerle, tu», disse l’uomo con forza, battendogli di nuovo la mano sul ginocchio. «Se è vero che vuoi il loro bene l’unico scampo è questo. Tu devi, è il tuo dovere di aprir loro le pupille, se loro son cieche. Devi, intendi, o no? Hai il verme nelle orecchie?»

Infatti Efix aveva preso una fisionomia chiusa, da sordo. Devi?

Minacciava, don Predu? Sapeva qualche cosa, don Predu? A lui non importava nulla, non aveva paura che dell’inferno: tuttavia pensava che forse don Predu aveva ragione.

«Come devo fare?»

«Devi mostrarti uomo, una volta tanto. Devi dir loro che se non vogliono pagarti in denari ti paghino almeno in riconoscenza. Se il poderetto va in mani di un altro padrone tu vieni cacciato via come un cane. Allora, sì, così Dio mi assista, andrai alle feste, coi mendicanti, però!»

Efix trasalì: era quello il suo sogno di penitenza. Si alzò e disse:

«Farò di tutto. Ma l’unica cosa…».

«L’unica cosa?», domandò l’uomo afferrandogli la manica. «E siedi, diavolo, e bevi. L’unica cosa?»

Efix si lasciò ricadere sulla sedia; tremava e sudava e gli pareva di svenire.

«Sarebbe che vossignoria sposasse donna Noemi.»

E don Predu si gonfiò nuovamente di riso. Rideva, ma teneva fermo Efix, quasi per impedirgli di andarsene.

«Come sei divertente, diavolo! Ti tengo con me tutta la vita, così mi svaghi quando sono di malumore! Ti faccio sposare Stefana. È un po’ grassa per te, forse, ma non è pericolosa, perché i trent’anni li ha passati da un pezzo…»

«Stefana, Stefana», gridò, sempre tenendolo fermo e volgendo il viso ridente verso la porta, «senti, c’è qui un pretendente.»

La donna s’affacciò, nera, col ventre gonfio, il seno gonfio e il viso severo come quello d’una dama. Efix la guardò un attimo, supplichevole.

«Don Predu ha voglia di ridere.»

«Brutto segno, quando egli ha voglia di ridere: altri devono piangere», disse la donna, sfidando lo sguardo del padrone: e dietro di lei sorrideva, pallida enigmatica, con la lunga bocca serrata e come fermata da due fossette, Pacciana l’altra serva.

«Io ti dico che tu sposerai Efix, Stefana. Adesso dici di no, ma poi dirai di sì. Che c’è da ridere?»

«Il riso sardonico!», imprecò dietro Pacciana, a voce bassa. E urtò Stefana per incitarla a rispondere male al padrone. Ma la donna era troppo dignitosa per proseguire nello scherzo; e non aprì bocca finché il padrone ed Efix non uscirono assieme.

Allora le due serve cominciarono a parlar male delle cugine del padrone.

«Quando vado là, col regalo entro il cestino, mi accolgono come se vada a chieder loro l’elemosina. E invece la porto loro, io! Non vedi che viso da affamato ha Efix? Da vent’anni non lo pagano e adesso non gli danno neppure da mangiare. Eppure, hai sentito il nostro padrone come s’inalbera quando gli si accenna alle sue cugine?»

«I tempi cambiano: anche i puledri invecchiano», sentenziò Stefana; ma entrambe sentivano qualche cosa di nuovo, di grave, pendere sul loro destino di serve senza padrona.

Intanto don Predu accompagnava Efix, su, su, per la straducola lavata dalle ultime piogge.

L’erba rimaneva lungo i muri delle case deserte. Un silenzio dolce profondo avvolgeva tutte le cose; nuvole gialle si affacciavano stupite sul Monte umido, e dall’alto del paese, davanti al portone delle dame, si vedeva la pianura coperta di giunchi dorati, e il fiume verde fra isole di sabbia bianca. Il silenzio era tale che s’udivano le donne a sbattere i panni laggiù, sotto il pino solitario della riva. La vecchia Pottoi ferma sulla sua soglia guardava, con una mano appoggiata al muro e l’altra sopra gli occhi: sembrava decrepita, piccola, con i gioielli ancora più vistosi e lugubri sul suo corpo ischeletrito.

«Che fate?», salutò don Predu.

«Aspetto Grixenda mia ch’è andata al fiume. Io non volevo, a dire il vero, perché il ragazzo, il nipote di vossignoria, glielo ha proibito, e se viene a saperlo si offende; ma Grixenda mia fa sempre di sua testa.»

«Che, vi ha scritto, Giacinto?»

«A chi? Scritto? Mai, ha scritto: non si sa nulla, di lui, ma deve tornare certo, perché l’ha promesso.»

«Già, tornano anche i morti, dite voi!»

Ma la vecchia si volse ad Efix che stava lì a testa bassa e fissava il selciato.

«Non lo ha detto a te che la sposa? Dillo su, l’ha detto o no?»

Efix la guardò un attimo, come aveva guardato Stefana, e non rispose.

«Quello che mi dispiace è il rancore delle dame», disse la vecchia, guardando di nuovo laggiù. «A noi ci scacciano, e solo Zuannantoni può qualche volta entrare nella loro casa più chiusa del Castello ai tempi dei Baroni: hanno perdonato a Kallina, peste la secchi, e a noi no. Nostra Signora del Rimedio le aiuti. Ma quando il ragazzo tornerà tutto andrà bene: lo disse anche donna Noemi.»

I due uomini s’allontanarono; ma la vecchia richiamò indietro don Predu e gli disse sottovoce:

«Non potrebbe farmi un favore? Dire lei a Grixenda che non vada al fiume? Non è dignitoso per lei, che deve sposare un signore».

Don Predu aprì le grosse labbra per ridere e dire una delle sue solite insolenze; ma abbassò gli occhi sulla vecchia tremante, guardò la collana e gli orecchini che oscillavano, e anche lui si toccò la catena d’oro e s’oscurò in viso come quella sera quando aveva veduto la spalla del nipote tremare.

Raggiunse Efix e si fermarono davanti al portone chiuso delle dame. Le ortiche crescevano sui gradini. Don Predu ricordava ogni volta Noemi lì ferma ad attendere, nell’ombra.

«Bene, allora restiamo intesi? Tu devi fare come ti dico io, intendi?»

«Inteso ho. Farò di tutto», disse Efix.

Picchiò, ma nessuno apriva. E don Predu stava lì, a toccarsi la catena e a guardare giù verso il fiume quasi anche lui aspettasse qualcuno.

«Oh che son morte anche loro?»

«Donna Ester sarà in chiesa e donna Noemi forse sarà coricata.»

«Perché, sta male?»

«Mah! Da qualche tempo, ogni volta che torno la trovo coricata. Ha mal di testa.»

«Oh, oh, bisognerebbe farla uscire, prendere un po’ d’aria.»

«Questo penso anch’io; ma dove?»

Don Predu guardava laggiù, verso il fiume: il suo viso sembrava diverso, sembrava quasi bello, triste e distratto come quello del nipote.

«Eh, dico, si può andare in qualche posto; a Badde Saliche, anche, il mio podere verso il mare; c’è ancora un po’ d’uva bianca…»

Il viso di Efix s’illuminò; ed egli volle dire qualcosa, ma dentro si sentiva aprire il portone, e don Predu si allontanò senza voltarsi, cercando di nascondersi lungo il muro.


 

[Capitolo decimo][Indice][Capitolo dodicesimo]

A Seulo un Convegno sul “Dux Barbaricinorum”

La Barbagia sulle tracce di Ospitone

di Francesco Casulaimages.jpg

Ospitone, chi era costui? Per rispondere a questo interrogativo il “Gruppo Ospitone” de Seulo ha organizzato per il 25 maggio prossimo un apposito Convegno nel paese capitale dell’omonima Barbagia. A parlarne saranno – oltre a chi scrive questa nota –  Anna Teresa Dessì, studiosa di storia sarda e il professor Genziano Murgia, seulese, già docente di Storia nelle scuole superiori e da anni impegnato nella riscoperta, nello studio e nella valorizzazione della storia e delle tradizioni popolari del suo paese. Conosciamo Ospitone ospitone.jpgda un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno 200px-Pope_Gregory_I.jpgdel maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in «Storia di Roma antica» parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo  la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?  Se fosse stata “vinta e dominata per sempre” che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto  e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus)? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 20-5-2013

 

Istat

Istat, 53% disoccupati aspetta da oltre 1 anno

Tra il 2008 e il 2012 i disoccupati sono aumentati di oltre un milione di unità, da 1,69 a 2,74 milioni, ma è cresciuta soprattutto la disoccupazione di lunga durata, ovvero le persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi (+675.000 unità) che ormai rappresentano il 53% del totale (44,4% la media Ue). E’ quanto emerge dal Rapporto annuale Istat. L’Istituto segnala che la durata media della ricerca di lavoro si è portata a 21 mesi nel 2012 con differenze forti tra territori (15 mesi nel Nord e 27 mesi nel Mezzogiorno) e soprattutto per fasce di età con la durata media dell’attesa per le persone in cerca di prima occupazione di 30 mesi. 

La crescita della disoccupazione si è accompagnata a una marcata riduzione dell’area dell’inattività con più giovani e soprattutto più donne che partecipano al mercato ma anche con meno adulti che vanno in pensione.    Il numero di persone potenzialmente impiegabili nel processo produttivo si avvicina ai 6 milioni di individui se ai disoccupati si sommano le forze di lavoro potenziali. Si tratta di 3 milioni e 86 mila individui che si dichiarano disposti a lavorare anche se non cercano oppure sono alla ricerca di lavoro ma non immediatamente disponibili e per questo inclusi tra gli inattivi.

All’aumento della disoccupazione è corrisposta la riduzione dell’inattività. La crescita della disoccupazione è dovuta in sei casi su dieci ai lavoratori che hanno perso il posto di lavoro e ne cercano uno nuovo. 

Sicurezza sul lavoro

Sicurezza sul lavoro, cresce il rischio reati

Le sanzioni in materia di sicurezza sul lavoro sono abbastanza gravi ed onerose comportando l’arresto o l’ammenda. Finora erano applicate soprattutto ai datori di lavoro con più di dieci dipendenti, ma il rischio di incorrere in queste sanzioni dal 1° giugno sarà molto più elevato anche per quelli fino a dieci, allorché la corretta e puntuale effettuazione della Valutazione die rischi sarà vagliata attraverso una nuova procedura standardizzata e non più oggetto di autocertificazione.

Dal 1° giugno dunque il mancato adempimento all’obbligo sarà soggetto al sistema sanzionatorio di cui all’art. 55 del Testo Unico, con l’applicazione dell’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 e 6.400 euro. Si applica invece la sola pena dellp0arresto da quattro a otto mesi  se il datore di lavoro svolge attività ad alto rischio o che espongano i lavoratori a rischi biologici da atmosfere esplosive, cancerogeni mutageni, attività di manutenzione, rimozione, smaltimento e bonifica amianto, per le attività edili che comportino la presenza di più imprese ….

dal Sole24ore

Giustizia

Dossier giustizia: 5milioni le pendenze civili, 7 anni per un processo

Nel 2010 si contavano quasi 5 milioni di procedimenti civili pendenti di primo grado e oltre 500 mila in secondo grado; nel penale le pendenze erano 4,4 milioni in primo grado e oltre 200mila in secondo. E’ quanto emerge sulla base delle cifre del ministero della Giustizia esaminate nel dossier “Dati statistici relativi all’amministrazione della giustizia in Italia”, a cura del Servizio studi del Senato.

Dal confronto anno per anno emerge che dal 2005 (4,5 milioni di pendenze) al 2010 (4,9 milioni) l’andamento per il primo grado nel civile è rimasto pressoché’ stabile, con una punta di 5,3 milioni nel 2009. Più forte l’incremento nel secondo grado passato in 5 anni da 349mila a 512mila pendenze. Lo stesso vale per il penale, con il confronto che parte nel 2007, quando le pendenze di primo grado erano 4,4 milioni, mentre quelle di secondo grado 160mila contro le 224mila del 2010.

Quanto ai tempi dei procedimenti, nel civile la durata media nel 2011 è stata di 470 giorni in tribunale, 1.060 giorni in appello e oltre 36 mesi in Cassazione, il che porta a superare la soglia dei 7 anni per la sentenza definitiva. Nel penale la durata media è stata di 342 giorni in tribunale, 947 in Corte d’appello, oltre sette mesi in Cassazione.

Il dossier a cura del Servizio studi del Senato, elabora e mette a confronto una grande quantità di dati tratti da diverse fonti, tra cui Istat, Ministero della Giustizia, Csm, Cassazione; e mette in evidenza in particolare tre “importanti aree di criticità”: l’arretrato accumulatosi nel tempo che “non diminuisce adeguatamente” e le cui “dimensioni complessive sono rimaste sostanzialmente immutate”; la giustizia di pace che a causa della “progressiva riduzione del personale giudicante a partire dal 2003, registra un tendenziale peggioramento, con aumenti delle pendenze e dei tempi procedimentali”; e infine la “situazione dei giudizi di impugnazione davanti alle corti di appello e davanti alla Corte di cassazione – sia nel civile, sia nel penale – dove l’incremento delle pendenze non si è mai arrestato e sta progressivamente raggiungendo livelli sempre più rilevanti, con una durata media dei tempi procedimentali pervenuta a livelli insostenibili e in continuo aumento”.

Una situazione di “gravità”, quest’ultima, che “vede un incremento delle pendenze che, nel civile, è sostanzialmente ininterrotto nell’arco di un trentennio e che, nel penale, presenta il lieve vantaggio di registrare un andamento analogo ‘solo’ nell’arco dell’ultimo ventennio”, riferisce il dossier.

Fondi Pensioni

Fondi pensione aprono a rischio, investimenti liberi. Nuovo decreto entro luglio o parte procedura infrazione Ue

Liberi di investire fino a diventare soggetti attivi sul modello dei grandi fondi pensione Usa, che, come nel caso del fondo Veba dei metalmeccanici, riescono a mettere sotto scacco un colosso come Fiat-Chrysler.

E’ la nuova vita dei fondi pensione italiani, caratterizzati oggi da rendimenti fino ad oltre il 35% su base annua per i fondi aperti e fino al 14% per i fondi negoziali. Entrambe le categorie presto potranno allargare i propri investimenti al “private equity”, ai fondi immobiliari e di debito, alle infrastrutture e alle energie rinnovabili, grazie a un nuovo decreto ministeriale previsto entro luglio, che elimina le attuali restrizioni. E in assenza delle nuove regole sui fondi il danno non si limita al mantenimento dello status quo, in quanto l’Italia rischia una procedura di infrazione da parte dell’Ue, l’ennesima.

”E’ in arrivo tra giugno e luglio il nuovo decreto 703 che, rispetto a quello in vigore dal 1998, compie un salto di qualità, passando da un ordinamento di tipo carcerario, che vieta una serie di investimenti ai fondi pensione, ad un ordinamento liberale, che consente di investire in tutto ciò che non viene proibito”, spiega il presidente di Assoprevidenza. 

In pratica saranno possibili investimenti in derivati, fondi alternativi o speculativi (hedge funds), fondi immobiliari e fondi armonizzati, aprendo la strada a ”nuove possibilità di investimento per far crescere il patrimonio dei fondi”. Ma il nuovo decreto è anche una necessità per l’intero paese, dato che  ”il prossimo 22 luglio entrerà in vigore la normativa europea sulla libera circolazione dei fondi alternativi, che attualmente vengono vietati ai fondi pensione dal Dm 703”. Quindi, in assenza del nuovo decreto sui fondi pensione, ”l’Italia rischia una procedura di infrazione”, mentre il segretario confederale della Uil Domenico Proietti in una nota ha chiesto al governo ”un nuovo impegno volto a favorire l’ulteriore sviluppo della nostra previdenza complementare, rilanciando le adesioni ai Fondi e diffondendo la cultura previdenziale nel Paese”.

ansa

Pensioni

Allarme Strasburgo su tagli alle pensioni …

Diversificare i regimi pensionistici, tra sistema pubblico, pensioni complementari derivanti da accordi collettivi e risparmio privato. E’ questo l’invito lanciato dal Parlamento Ue approvando la relazione su un’agenda per pensioni adeguate, sostenibili e sicure.

La crisi economica sommata all’invecchiamento della popolazione, ha mostrato, sottolinea il testo, la vulnerabilità dei sistemi pensionistici complementari e di quelli pubblici. Per questo gli eurodeputati invitano gli Stati membri a diversificare i regimi, salvaguardando però, sottolineano, le pensioni pubbliche che assicurano almeno un ”livello di vita dignitoso”.

In questo quadro, Strasburgo deplora i forti tagli operati alle pensioni nei Paesi più colpiti dalla crisi per cui molti pensionati si trovano ora in una situazione di povertà o a rischio povertà. Sempre nel contesto della crisi, il Parlamento considera cruciale, per il finanziamento di pensioni a livelli adeguati, aumentare il tasso di occupazione, ”eliminando” regimi di prepensionamento o consentendo di lavorare oltre l’età legale del pensionamento. La risoluzione sottolinea inoltre la necessità per le persone che lavorano all’estero di mantenere i diritti pensionistici.

ARAN

 

Camusso

Camusso, se non si mettono risorse non si riparte

”Noi abbiamo più o meno nel nostro Paese un quarto del sistema produttivo a rischio. Se non si mettono risorse non si può ripartire e anche la nostra domanda di creazione di lavoro rischia di avere più difficoltà di fronte ad un’azienda chiusa anziché in una azienda in
cassa integrazione” – detto Susanna Camusso, segretario generale Cgil, parlando a Lecce – ”bisogna ricominciare a parlare di obiettivo di piena occupazione perché senza questo non c’è nessun modello di sviluppo credibile”.  

”E’ da tempo – ha detto Camusso – che il nostro Paese sta accumulando uno scarto rispetto ai giovani e alle loro prospettive e questa è esattamente – ha continuato – la ragione per cui noi continuiamo a dire che la priorità si chiama lavoro, costruzione di lavoro, perché il lavoro che c’è non permette ai giovani di avere dinanzi a loro una prospettiva e
quindi tutte le risposte che si trovano devono essere dedicate a questo e non continuare a finanziare chi più ha ma costruire reddito per le famiglie, posti di lavoro per i tanti esclusi che sono i giovani e soprattutto per le giovani donne e le donne in genere”.