Archivi giornalieri: 25 maggio 2013

Camminate in mezzo al gregge

Il Papa ai vescovi italiani: camminate in mezzo al gregge, attenti a rialzare e a infondere speranza

2013-05-24 Radio Vaticana

Essere pastori vuol dire “camminare in mezzo e dietro al gregge” chinandosi su quanti il Signore ci ha affidato, attenti a rialzare e a infondere speranza: è quanto ha affermato ieri pomeriggio Papa Francesco, nella Basilica di San Pietro, durante la Professione di Fede dell’Episcopato italiano. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 
La nostra libertà – ha detto il Pontefice rivolgendosi ai vescovi italiani – è insidiata “da mille condizionamenti interni ed esterni, che spesso suscitano smarrimento, frustrazione, persino incredulità”:
“Non sono certamente questi i sentimenti e gli atteggiamenti che il Signore intende suscitare; piuttosto, di essi approfitta il Nemico, il Diavolo, per isolare nell’amarezza, nella lamentela e nello scoraggiamento. Gesù, buon Pastore, non umilia né abbandona al rimorso: in Lui parla la tenerezza del Padre, che consola e rilancia; fa passare dalla disgregazione della vergogna – perchè la vergogna davvero ci disgrega – al tessuto della fiducia; ridona coraggio, riaffida responsabilità, consegna alla missione”.
La mancata vigilanza rende tiepido il Pastore:
“Lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell’organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora, come l’Apostolo Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda”.

Essere pastori – ha aggiunto il Papa – significa “credere ogni giorno nella grazia e nella forza che viene dal Signore nonostante la nostra debolezza”…
“E assumere fino in fondo la responsabilità di camminare innanzi al gregge, sciolti da pesi che intralciano la sana celerità apostolica, e senza tentennamenti nella guida, per rendere riconoscibile la nostra voce sia da quanti hanno abbracciato la fede, sia da coloro che ancora “non sono di questo ovile” (Gv 10,16): siamo chiamati a far nostro il sogno di Dio, la cui casa non conosce esclusione di persone o di popoli, come annunciava profeticamente Isaia”.
Essere pastori “vuol dire anche disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge”:
“Capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza. Dalla condivisione con gli umili la nostra fede esce sempre rafforzata: mettiamo da parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato alla nostra sollecitudine. Fra questi, un posto particolare riserviamolo ai nostri sacerdoti: soprattutto per loro, il nostro cuore, la nostra mano e la nostra porta restino aperte in ogni circostanza”.
La misura del servizio ecclesiale – ha detto il Santo Padre – si esprime “nella disponibilità all’obbedienza, all’abbassamento e alla donazione totale”:
“Del resto, la conseguenza dell’amare il Signore è dare tutto – proprio tutto, fino alla stessa vita – per Lui: questo è ciò che deve distinguere il nostro ministero pastorale… Non siamo espressione di una struttura o di una necessità organizzativa: anche con il servizio della nostra autorità siamo chiamati a essere segno della presenza e dell’azione del Signore risorto, a edificare, quindi, la comunità nella carità fraterna”. 
Papa Francesco ha infine elevato una preghiera a Maria, Nostra Signora:
“Madre del silenzio, che custodisce il mistero di Dio, liberaci dall’idolatria del presente, a cui si condanna chi dimentica. Purifica gli occhi dei Pastori con il collirio della memoria: torneremo alla freschezza delle origini, per una Chiesa orante e penitente. Madre della bellezza, che fiorisce dalla fedeltà al lavoro quotidiano, destaci dal torpore della pigrizia, della meschinità e del disfattismo. Rivesti i Pastori di quella compassione che unifica e integra: scopriremo la gioia di una Chiesa serva, umile e fraterna. Madre della tenerezza, che avvolge di pazienza e di misericordia, aiutaci a bruciare tristezze, impazienze e rigidità di chi non conosce appartenenza. Intercedi presso tuo Figlio perché siano agili le nostre mani, i nostri piedi e i nostri cuori: edificheremo la Chiesa con la verità nella carità. E saremo il Popolo di Dio, pellegrinante verso il Regno. Amen”.

Prima dell’omelia di Papa Francesco, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, aveva rivolto un indirizzo di saluto al Santo Padre, ricordando come il cammino delle diocesi sia scandito dall’annuncio del Vangelo e dalla testimonianza della carità:
“Tale cammino ci vede impegnati, come pastori delle Chiese che vivono in Italia, nell’accoglienza dell’amore di Dio e nella promozione della dignità di ogni essere umano: ne è segno l’attenzione operosa e quotidiana con cui le nostre parrocchie aprono le porte a quanti sono provati dal perdurare della crisi economica. Ci anima la sollecitudine di aiutare tutti, credenti e non credenti, a ritrovare fiducia nella vita, consapevoli che proprio dal Vangelo discende la proposta di una vita buona, di una vita riuscita, piena”.

Parole alle quali Papa Francesco ha risposto esortando i vescovi italiani a proseguire lungo questo cammino:
“Voi avete tanti compiti. Primo, la Chiesa in Italia, il dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche. È un compito vostro! E non è facile. Andate avanti con fratellanza, e la Conferenza Episcopale vada avanti con questo dialogo che ho detto in principio: con le istituzioni culturali, sociali, politiche. E’ cosa vostra. Avanti!”.

Don Puglisi

Don Puglisi proclamato Beato, martire della fede e della carità educativa

2013-05-25 Radio Vaticana
Don Pino Puglisi e’ stato proclamato beato. Circa 80mila le persone presenti oggi alla Messa presieduta all Foro Italico Umberto I di Palermo dall’arcivescovo della diocesi palermitana, il cardinale Paolo Romeo. A rappresentante del Papa è stato il cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo emerito di Palermo, che il 15 settembre 1999 diede avvio al suo processo di Beatificazione, e che oggi ha letto la lettera apostolica per la proclamazione della Beatificazione.
“La beatificazione di padre Pino Puglisi – afferma il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone in un messaggio – e’ un momento di festa e di testimonianza per la Chiesa che e’ a Palermo, in Sicilia e nell’Italia intera”. “L’esempio e l’intercessione di don Puglisi – prosegue il messaggio –
sacerdote esemplare, martire della fede e della carita’ educativa, in particolare verso i giovani, continui a suscitare nella comunita’ ecclesiale e civile risposte generose e coerenti alla chiamata di Cristo e al tal fine invoco da Signore abbondanti grazie celesti”.
“Più guardiamo il volto di don Pino Puglisi, svelato solennemente durante il rito di beatificazione, più sentiamo che il suo sorriso ci unisce tutti – ha detto nell’omelia il cardinale Romeo -. Sorride ancora don Pino. La Chiesa riconosce nella sua vita, sigillata dal martirio in odium fidei, un modello di imitare”. “La mano mafiosa che, quel 15 settembre del 1993, lo ha barbaramente assassinato – ha detto – ha liberato la vera vita di questo chicco di grano, che nella ferialità della sua opera di evangelizzazione, moriva ogni giorno per portare frutto. Quella mano assassina ha amplificato oltre lo spazio e il tempo la sua delicata voce sacerdotale, e lo ha donato martire non solo a Brancaccio ma al mondo intero”.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio in cui esprime la sua personale vicinanza “alla figura di un sacerdote il cui martirio costituisce una grande testimonianza di fede cristiana, di profonda generosità e di altissimo coraggio civile. L’orrore suscitato in tutto il paese dal barbaro assassinio di Don Puglisi – prosegue Napolitano – rimarrà nella memoria di tutti noi e la sua intensa e feconda esperienza pastorale, svolta sempre nelle realtà più difficili della Sicilia, continua a rappresentare un esempio per tutti coloro che non intendono piegarsi alle prevaricazioni della criminalità mafiosa”. 
Don Giuseppe, o meglio padre Pino Puglisi, è stato un sacerdote diocesano noto per il suo impegno di contrasto alla criminalità organizzata, in particolare occupandosi della formazione di bambini e ragazzi di strada per i quali fondò il “Centro Padre Nostro”. Morì, ucciso dalla mafia, il 15 settembre del 1993, giorno del suo 56.esimo compleanno. Il decreto di Beatificazione di padre Puglisi per martirio “in odio alla fede” è stato promulgato da Papa Benedetto XVI il 28 giugno 2012.

Funerali Don Gallo

Funerali di don Andrea Gallo. Il card. Bagnasco: ha aperto il cuore ai feriti nel corpo e nell’anima

2013-05-25 Radio Vaticana
Sono stati celebrati stamattina nella parrocchia di Nostra Signora del Carmine i funerali di don Andrea Gallo, spentosi il 22 maggio scorso all’età di 85 anni. Ha presieduto il rito l’arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, che nell’omelia ha ripercorso la vita del sacerdote scomparso e quando “nel 1964 bussò alla porta del cardinale Siri che don Andrea ha sempre considerato padre e benefattore”. Da Genova,Dino Frambati: 
Il presidente della Conferenza episcopale italiana ha detto nell’omelia che “sguardo e cuore di don Gallo erano portati per ascoltare coloro che portavano ferite nel corpo e nell’anima. Come missione ha cercato di lenire le loro sofferenze con l’olio della consolazione e il vino della fiducia, per dare una speranza guardando al domani”, come il samaritano nel Vangelo. Il porporato ha poi rievocato l’opera svolta nella comunità di San Benedetto: “apriva la porta a chi bussava e cercava calore. La comunità divenne sempre più abbraccio fecondo di chi appariva ai margini, forse senza nome. Sapeva che la sua era risposta a coloro sono percossi dalla vita, ma con la voglia di cercare o solo di attendere un sorriso o una carezza. Sapeva che era la sua risposta e non pretendeva che fosse di tutti, perché la fantasia del bene è grande ed è percorsa con generoso sacrificio da molti’. Bagnasco ha infine rievocato l’incontro con don Gallo negli ultimi giorni della malattia, trovandolo “ felice e grato”. Ed una preghiera detta assieme. Omelia interrotta due volte da fischi ed urla e forse anche per questo ridotta rispetto al testo originale; contestazione apparsa limitata ma rumorosa e disapprovata dalla segretaria di don Gallo salita sull’altare invitando ad ascolto e rispetto come, ha detto, don Andrea ne aveva per il suo vescovo. Don Luigi Ciotti, concelebrante, per ricordare don Gallo ha scelto le parole di Papa Francesco che ha detto “no ai cristiani da salotto” ed ha aggiunto: “ha dato nome a chi non lo aveva ed ha sempre dato un’opportunità a tutte le persone”. All’esterno della chiesa un commosso ricordo del sacerdote è stato fatto dal sindaco di Genova, Marco Doria. Oggi pomeriggio tumulazione al cimitero di Campoligure, piccolo centro dell’entroterra genovese accanto a madre, padre, fratello e altri parenti, come aveva chiesto don Gallo.

Canne al vento di Grazia Deledda – Capitolo dodicesimo


Capitolo dodicesimo1329167729.gif

Con grande meraviglia di Efix donna Ester accondiscese alle proposte del cugino. Così il poderetto fu venduto e la cambiale pagata. Ma avvenne una cosa che destò le chiacchiere di tutto il paesetto. Efix, pur continuando a stare al servizio di donna Ester e di donna Noemi, ottenne di coltivare a mezzadria il poderetto; così portava in casa delle sue padrone la porzione di frutti che gli spettava. Infine, dicevano le donne maliziose, da servo era salito al grado di parente, anzi di protettore delle dame Pintor.

Ciò che più sorprendeva era l’accondiscendenza di don Predu; ma da qualche tempo sembrava un altro; s’era persino dimagrito e una voce strana correva, che egli fosse «toccato a libro», vale a dire ammaliato per virtù di una fattucchieria eseguita coi libri santi.

Chi aveva interesse a far questo?

Non si sapeva: queste cose non si sanno mai chiare e precise, e se si sapessero non sarebbero più grandi e misteriose: il fatto era che don Predu dimagriva, non parlava più tanto insolentemente del prossimo e infine commetteva la sciocchezza di comperare un podere senza valore, e col podere il servo e a questo lasciava tutta la sua libertà.

Stefana e Pacciana dicevano:

«È un’elemosina ch’egli vuol fare alle sue disgraziate cugine».

Ma fra loro due, in confidenza, poiché don Predu continuava a mandare regali e regali alle dame Pintor, ammettevano che egli, sì, sembrava stregato, e parlavano di Efix sottovoce: tutto è possibile nel mondo, ed Efix amava le sue padrone fino al punto di rendersi capace di far per loro qualche sortilegio. Il suo andirivieni con don Predu destava soprattutto i sospetti delle serve: Stefana guardò se sotto la soglia ci fosse qualche oggetto magico nascosto, e Pacciana trovò un giorno una spilla nera nel letto del padrone… Fatti straordinari dovevano succedere.

Durante l’inverno le dame Pintor stettero sempre in casa e non parlarono mai di andare alla Festa del Rimedio, ma a misura che le giornate si allungavano e l’erba cresceva nell’antico cimitero, anche donna Ester pareva presa da un senso di stanchezza, da una malattia di languore come quella che tutti gli anni a primavera rendeva pallida Noemi: non andava quasi più in chiesa, si trascinava qua e là per la casa, si sedeva ogni tanto, con le mani abbandonate sulle cosce, dicendo che le facevano male i piedi. Nella casa la miseria non era più grave degli anni scorsi, poiché Efix provvedeva alle cose più necessarie, ma l’aria stessa pareva impregnata di tristezza.

In quaresima le due sorelle andarono a confessarsi. Era un bel mattino limpido, sonoro; s’udivano grida di bambini e tintinnii di greggi giù fra i giuncheti della pianura, e la voce del fiume, grossa, sempre più grossa, che pareva minacciasse, ma per scherzo. Sul cielo tutto turchino non una nuvoletta, e l’aria così trasparente che sulle rocce del Castello si vedevano scintillare le pietre e una finestra vuota delle rovine affacciarsi piena d’azzurro fra l’edera che l’inghirlandava.

Prete Paskale era dentro il suo confessionale, e non intendeva uscirne, sebbene Natòlia l’aspettasse in sagrestia col caffè e i biscotti in un cofanetto.

Vedendo arrivare le due nuove penitenti, la serva fece un atto disperato, e pensò che era bene andare a far riscaldare il caffè dalla sua amica Grixenda. Eccola dunque col cofanetto sul capo, uscire dietro l’abside, e scendere il viottolo, fra le macchie di rovo scintillanti di rugiada.

Attraverso la porta aperta della vecchia Pottoi si vedeva Grixenda china sulla fiamma del focolare a far bollire il caffè per la nonna ch’era a letto malata.

«Ti secchi ogni giorno di più», disse Natòlia entrando.

Grixenda infatti era magra e pallida; acerba ancora, ma come inaridita; certe mosse del collo scarno e del viso giallastro ricordavano quelle della nonna. Solo gli occhi brillavano grandi e chiari, pieni di una luce melanconica e insieme perfida, come l’acqua delle paludi giù fra i giuncheti della pianura.

«Il caffè mi si raffredda: adesso poi son venute le tue zie, e diventerà di ghiaccio», disse Natòlia, traendo la caffettiera dal cofanetto. «Così me ne bevo un po’ anch’io.»

«Le mie zie! Che sian fustigate! E tu con loro! Se vuoteranno tutto il sacco dei loro peccati, certo troverai il tuo padrone morto di sincope dentro il confessionale…»

«Che lingua! Si vede che t’ha morsicato la vipera. Prendi un biscotto, eccolo, te l’offro come un fiore per raddolcirti il cuore…»

Ma Grixenda aveva davvero il cuore attossicato e non accettava scherzi.

«Se sei venuta per pungermi ti sbagli, Natòlia: spine tu non ne hai, perché sei l’euforbia, non la rosa. Io non ho dolori, non ho dispiaceri: son forte come il pino in riva al fiume. E verrà un giorno che tu mi manderai un’ambasciata per chiedermi di diventar mia serva.»

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«Chi devi sposare? Il barone del castello?»

«Sposerò un vivo, non un morto, i morti ti si attacchino ai fianchi!»

«Mi pare sii stata tu a stregare don Predu.»

«Se lo voglio, sposo anche don Predu», disse Grixenda sollevando fieramente il viso tragico infantile, «ma ho altri pensieri in mente, io!»

Natòlia la guardava e ne sentiva pietà: le sembrava un po’ fuori di sé, l’infelice, e non insisté quindi nel tormentarla. Prese un altro biscotto e andò a offrirlo a zia Pottoi nel suo buco. Una striscia di luce pioveva dal tetto della stanzetta terrena, illuminando il letto ove la vecchia giaceva vestita e con la collana e con gli orecchini, stecchita e immobile come un cadavere abbigliato per la sepoltura.

Credendola addormentata Natòlia le sfiorò la mano che scottava; ma la vecchia l’attirò a sé dicendole sottovoce:

«Senti, Natòlia, mi farai un piacere: va’ da Efix Maronzu e digli che devo parlargli: ma che non lo sappia Grixenda: va’, piccola tortora, va’!».

«E dove lo trovo io, Efix? Sarà in paese?»

«Egli vien su dal poderetto: lo vedo venir su», disse la vecchia, mettendosi un dito sulle labbra, perché Grixenda entrava col caffè.

«Vedi, Natòlia; s’è voluta alzare stamattina, e ha la febbre alta. Nonna, nonna, tornate sotto le coperte.»

«Tornerò, tornerò: tutti torniamo sotto la coperta», disse la vecchia, e Natòlia se ne andò con un peso sul cuore.

Cosa strana, ripassando davanti alla casa delle dame vide proprio Efix salire su dalla strada solitaria: andava curvo sotto la bisaccia, così curvo che pareva cercasse qualcosa per terra.

«La vecchia deve morire e vede già», pensò Natòlia.

Egli la guardò coi suoi occhi indifferenti come quelli di un animale, e non disse se sarebbe o no andato dalla vecchia: saputo che le sue padrone stavano a confessarsi si tolse la bisaccia, la depose sul gradino e sedette aspettando: le ortiche gli punsero le mani.

La serva allora tornò in chiesa, e guardò se poteva dire alle dame che il servo era giunto, – così avrebbero lasciato libero il prete; ma da una parte del confessionale stava donna Ester di cui si vedeva il lembo dello scialle venir fuori come un’ala nera, e dall’altra stava già donna Noemi, col dorso che ondulava lievemente, a tratti, sotto la stoffa nera opaca, e un piede lungo e nervoso fuori dalla sottana sollevata.

Le altre penitenti pregavano, di qua e di là nella chiesa, accovacciate sul pavimento verdastro: un silenzio profondo, una luce azzurrina, un odore di erba inondavano la Basilica umida e triste come una grotta; la Maddalena affacciata alla sua cornice pareva intenta alle voci della primavera che venivano con l’aria fragrante, e Noemi sentiva anche lei, fin là dentro, fin contro la grata che esalava un odor di ruggine e di alito umano, un tremito di vita, un desiderio di morte, un’angoscia di passione, uno struggimento di umiliazione, tutti gli affanni, i rimpianti, il rancore e l’ansito della peccatrice d’amore.

Rientrando videro Efix rialzarsi a fatica appoggiando la mano allo scalino. Allora Noemi, calda ancora di pietà e d’amore di Dio, s’accorse per la prima volta che il servo si era mal ridotto, vecchio, grigio, con le vesti divenutegli larghe, e tese la mano come per aiutarlo a sollevarsi. Ma egli era già su e non badava all’atto di lei.

E quando furono dentro e donna Ester domandò notizie del poderetto come fosse ancora suo, egli rispose alzando le spalle con rozzezza insolita e andò a lavarsi al pozzo.

Aprile rallegrava anche il triste cortile, le rondini sporgevano la testina nera dai nidi della loggia guardando le compagne che volavano basse come inseguendo la loro ombra sull’erba fitta dell’antico cimitero.

«Efix, mi pare che non stai troppo bene. Tu dovresti prenderti qualche cosa, o riposarti qualche giorno», disse Noemi.

«Ah, sì, donna Noemi? Se penso invece di camminare!»

«Ti dico che stai male: non scherzare. Che hai?»

Egli la guardava con occhi vivi, lucidi, ed era tale la sua gioia improvvisa che le rughe intorno agli occhi parevano raggi.

«Invecchio», disse, battendosi le mani una sull’altra; e d’improvviso la sua gioia se n’andò, com’era venuta.

Egli era tornato in paese perché don Predu aveva mandato a chiamarlo: altrimenti non si sarebbe più mosso dal poderetto. Che poteva la pietà di donna Noemi contro il suo male? Non faceva che aumentarglielo.

Andò dunque dal nuovo padrone e lo trovò arrampicato su una scala a piuoli a potar la vite sotto la rete dei rami del melograno ricamata di foglioline d’oro.

Anche là le rondini s’incrociavano rapide, ma più alte, sullo sfondo latteo del cielo: entro casa si sentivano le donne pulire le stanze e mettere tutto in ordine per la Pasqua, e una grande pace regnava intorno.

Efix non dimenticò più quei momenti. Era partito dal poderetto con la certezza che qualche cosa di straordinario doveva succedere; ma guardando in su ai piedi della scala gli pareva che don Predu fosse anche lui triste, quasi malato, ed esitasse a scendere, con la falciuola scintillante in una mano e nell’altra il tralcio di vite dalla cui estremità violacea stillavano come da un dito tagliato gocce di sangue.

«Aspetta che finisco: o hai fretta d’andartene?», disse don Predu, ma subito si riprese, parve ricordarsi, e scese pesantemente, lasciando che Efix tirasse in là la scala.

«Ecco», cominciò, quando furono nella stanza terrena piena di sole e d’ombra di rondini, «ecco, io ti devo dire una cosa…», ed esitava guardandosi le unghie, «ecco, io voglio sposare Noemi.»

Efix cominciò a tremare così forte che la mano, sul tavolo, pareva saltasse. Allora don Predu si mise a ridere del suo riso goffo e cattivo d’altri tempi.

«Non la vorrai sposare tu, credo! Ti serbo Stefana, lo sai!»

Efix taceva: taceva e lo guardava, e i suoi occhi erano così pieni di passione, di terrore, di gioia, che don Predu si fece serio. Ma tentava ancora di scherzare.

«Perché ti turbi tanto? Speri che io ti paghi quello che ti devono? No, sai: tu ti aggiusti con Ester; io non ho che vederci. Eppoi c’è una cosa…»

Si raschiò con l’unghia una macchia del corpetto, guardandoci su attentamente.

«Mi vorrà, poi?»

«Ah! Che dice!», balbettò Efix.

«Non esser tanto sicuro! Oh, adesso parliamo sul serio. Ho pensato bene prima di decidermi: lo faccio, credi pure, più per dovere che per capriccio. Che aspetto? Dove vado? Alla mia età una donna molto giovane non mi conviene. Ma questo non importa: insomma ho deciso. Ebbene, non te lo nego: Noemi è bella e mi piace, m’è sempre piaciuta, a dirti la verità. Mah! Che vuoi! La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca. Mah, lasciami stare» aggiunse, battendosi le mani sulle ginocchia e poi alzandosi e poi rimettendosi a sedere. «Quello che adesso importa è di sapere se Noemi accetta. Io farò la domanda come si conviene; le manderò prete Paskale, o il dottore o chi vuole; ma non voglio prendermi un rifiuto, eh, così Dio mi assista, questo no, perbacco! Tu intendi, Efix?»

Efix intendeva benissimo, e accennava di sì, di sì, col capo, con gli occhi scintillanti.

«Devo parlar io, con donna Noemi?»

Don Predu gli batté una mano sulle ginocchia.

«Bravo! È questo. E prima è, meglio è, Efix! Queste cose non bisogna lasciarle inacidire. Le dirai: “Chi si deve mandare per la domanda ufficiale? Prete Paskale, o la sorella, o chi?”. Se lei dice di non mandare nessuno, tanto meglio, in fede di cristiano, tanto meglio! Eppoi le cose le faremo presto e senza chiasso: non siamo più due ragazzetti. Che ne pensi? Io ho quarantotto anni a settembre, e lei sarà sui trentacinque, che ne dici? Tu sai la sua età precisa? Oh, poi le dirai che non si dia pensiero di nulla: la casa è pronta, le serve ci sono; pettegole, sì, ma ci sono, e pagate bene. La biancheria c’è, tutto c’è. Le provviste non mancano, eh, così Dio la conservi! Basta, di queste cose poi parleremo con Ester. Solo mi dispiace… Ebbene, te lo posso dire: che Ruth sia morta così… Forse anche lei sarebbe stata contenta…»

Efix s’alzò. Sentiva qualche cosa pungerlo in tutta la persona, e aveva bisogno di andare, di affrettare il destino.

«Ebbene, aspetta un altro po’, diavolo! Ti darò da bere: un po’ di acquavite? O anice? Stefana, ira di Dio, c’è il tuo pretendente, Stefana!»

S’udivano le donne sbattere i mobili con furore. Finalmente la serva anziana apparve, con un tovagliolo sul capo e un altro in mano, seria e imponente, tuttavia, con gli occhi pieni di rassegnazione ai voleri del padrone. Aprì l’armadio, versò l’anice e guardò Efix con un vago senso di terrore, ma anche per scrutare se egli prendeva sul serio gli scherzi del padrone: ma Efix era così umile e sbigottito ch’ella tornò su e disse alla compagna giovine:

«S’egli ha fatto la stregoneria l’ha fatta bene. La fortuna cade come una saetta su quella gente: pulisci bene, che sarà fatica risparmiata per le nozze».

«Tue con Efix?», disse Pacciana. «Per don Predu bisogna prima aspettare che donna Noemi lo accetti!»

Ma Stefana fece le fiche, tanto queste parole le sembravano assurde.

Quando fu nella strada dopo che don Predu lo ebbe accompagnato fino al portone come un amico, Efix si guardò attorno e sospirò.

Tutto era mutato; il mondo si allargava come la valle dopo l’uragano quando la nebbia sale su e scompare: il Castello sul cielo azzurro, le rovine su cui l’erba tremava piena di perle, la pianura laggiù con le macchie rugginose dei giuncheti, tutto aveva una dolcezza di ricordi infantili, di cose perdute da lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si rimpiangono più.

Tutto è dolce, buono, caro: ecco i rovi della Basilica, circondati dai fili dei ragni verdi e violetti di rugiada, ecco la muraglia grigia, il portone corroso, l’antico cimitero coi fiori bianchi delle ossa in mezzo all’avena e alle ortiche, ecco il viottolo e la siepe con le farfalline lilla e le coccinelle rosse che sembrano fiorellini e bacche: tutto è fresco, innocente e bello come quando siamo bambini e siamo scappati di casa a correre per il mondo meraviglioso.

La Basilica era aperta, in quei giorni di quaresima, ed Efix andò a inginocchiarsi al suo posto, sotto il pulpito.

La Maddalena guardava, lieta anche lei, come una dama spagnola ospite dei Baroni affacciata a un balcone del Castello. Sentiva la primavera anche lei, era felice benché fossero i giorni della passione di Nostro Signore. Qualche ricco feudatario doveva averla domandata in sposa, ed ella sorrideva ai passanti, dal suo balcone, e sorrideva anche ad Efix inginocchiato sotto il pulpito.

«Signore, Vi ringrazio, Signore, prendetevi adesso l’anima mia; io sono felice d’aver sofferto, d’aver peccato, perché esperimento la vostra Misericordia divina, il vostro perdono, l’aiuto vostro, la vostra infinita grandezza. Prendetevi l’anima mia, come l’uccello prende il chicco del grano. Signore, disperdetemi ai quattro venti, io vi loderò perché avete esaudito il mio cuore…»

Eppure nell’alzarsi a fatica, con le ginocchia indolenzite, provò un senso di pena, come se l’ombra di una nuvola passasse nella chiesa velando il viso della Maddalena.

Anche il viso di donna Noemi, curva a cucire nel cortile, era velato d’ombra.

Efix colse una viola del pensiero dall’orlo del pozzo e andò a offrirgliela. Ella sollevò gli occhi meravigliati e non prese il fiore.

«Indovina chi glielo manda? Lo prenda.»

«Tu l’hai colto e tu tientelo.»

«No, davvero, lo prenda, donna Noemi.»

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Sedette davanti a lei, per terra, a gambe in croce come uno schiavo, prendendosi i piedi colle mani: non sapeva come cominciare, ma sapeva già che la padrona indovinava. Infatti Noemi aveva lasciato cadere la viola in una valletta bianca della tela; le batteva il cuore; sì, indovinava.

«Donna Ester dov’è?», disse Efix curvandosi sui suoi piedi. «Come sarà contenta, quando saprà! Don Predu mi aveva fatto tornare in paese per questo…»

«Ma che cosa dici, disgraziato?»

«No, non mi chiami disgraziato! Sono contento come se morissi in grazia di Dio in questo momento e vedessi il cielo aperto. Sono stato in chiesa, prima di tornar qui, a ringraziare il Signore. In coscienza mia, è così…»

«Ma perché, Efix?», ella disse con voce vaga, pungendo con l’ago la viola. «Io non ti capisco.»

Egli sollevò gli occhi: la vide pallida, con le labbra tremanti, con le palpebre livide come quelle di una morta. È la gioia, certo, che la fa sbiancare così; ed egli prova un tremito, un desiderio d’inginocchiarsi davanti a lei e dirle: sì, sì, è una grande gioia, donna Noemi, piangiamo assieme.

«Lei accetta, donna Noemi, padrona mia? È contenta, vero? Devo dirgli che venga?»

Ella fece violenza a se stessa; si morsicò le labbra, riaprì gli occhi e il sangue tornò a colorirle il viso, ma lievemente, appena intorno alle palpebre e sulle labbra. Guardò Efix ed egli rivide gli occhi di lei come nei giorni terribili, pieni di rancore e di superbia. L’ombra ridiscese su lui.

«Non si offenda se gliene parlo io per il primo, donna Noemi! Sono un povero servo, sì, ma sono chiuso come una lettera. Se lei accetta, don Predu manderà il prete a far la domanda, o chi vuol lei…»

Noemi buttò giù la viola ferita e si rimise a cucire. Pareva tranquilla.

«Se Predu ha voglia di ridere, rida pure; non m’importa nulla.»

«Donna Noemi!»

«Sì, sì! Non dico che non faccia sul serio, sì. Allora non saresti lì. Ma adesso fa’ il piacere, alzati e vattene.»

«Donna Noemi?»

«Ebbene, che hai adesso? Levati, non star lì inginocchiato, con le mani giunte! Sei stupido!»

«Ma donna Noemi, che ha? Rifiuta?»

«Rifiuto.»

«Rifiuta? Ma perché, donna Noemi mia?»

«Perché? Ma te lo sei dimenticato? Sono vecchia, Efix, e le vecchie non scherzano volentieri. Non parlarmene più.»

«Questo solo mi dice?»

«Questo solo ti dico.»

Tacquero. Ella cuciva: egli aveva sollevato le ginocchia e si stringeva in mezzo le mani giunte. Gli pareva di sognare, ma non capiva. Finalmente alzò gli occhi e si guardò attorno. No, non sognava, tutto era vero; il cortile era pieno di sole e d’ombra: qualche filo di legno cadeva dal balcone come cadono le foglie dei pini in autunno; e al di là del muro si vedeva il Monte bianco come di zucchero, e tutto era soave e tenero come al mattino quando egli era uscito dalla casa di don Predu. Gli pareva di sentire ancora le donne a sbattere i mobili; ma erano colpi sulla sua persona; sì, qualche cosa lo percoteva, sulla schiena, sulle spalle, sulle scapole e sui gomiti e sui ginocchi e sulle nocche delle dita. E donna Noemi era lì, pallida, che cuciva, cuciva, che gli pungeva l’anima col suo ago: e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere. Le loro ombre correvano sul terreno come foglie spinte dal vento: ed egli ricordò la pena provata nell’alzarsi di sotto il pulpito e l’ombra sul viso della Maddalena. Sospirò profondamente. Capiva. Era il castigo di Dio che gravava su lui.

Allora, piano piano, cominciò a parlare, afferrando il lembo della gonna di Noemi, e non capiva bene ciò che diceva, ma doveva essere un discorso poco convincente perché la donna continuava a cucire e non rispondeva, di nuovo calma con un sorriso ambiguo alle labbra.

Solo dopo ch’egli parve aver detto tutto, tutte le miserie passate, tutti gli splendori da venire, ella parlò, ma piano, sollevando appena gli occhi quasi parlasse con gli occhi soltanto.

«Ma non prenderti tanto pensiero, Efix, non immischiarti oltre nei fatti nostri. E poi lo sai: abbiamo vissuto finora; non siamo state bene, finora? Che ci è mancato? E tireremo avanti, con l’aiuto di Dio: il pane non mancherà. In casa di Predu c’è troppa roba e non saprei neppure custodirla.»

Efix meditava, disperato. Che fare, se non ricorrere a qualche menzogna?

Riprese a palparle la veste.

«Eppoi devo dirle cose gravi, donna Noemi mia. Non volevo, ma lei, con la sua ostinazione, mi costringe. Don Predu è tanto preso che se lei non lo vuole morrà. Sì, è come stregato, non dorme più. Lei non sa cosa sia l’amore, donna Noemi mia; fa morire. È poca coscienza far morire un uomo…»

Allora Noemi rise e i suoi denti intatti luccicarono sino in fondo come quelli d’una fanciulla follemente allegra. Quel riso fece tanto male a Efix, lo irritò, lo rese maligno e bugiardo.

«Eppoi un’altra cosa più grave ancora, donna Noemi! Sì, mi costringe a dirgliela. Don Giacinto minaccia di tornarsene qui… Intende?»

Ella smise di cucire, si drizzò sulla vita, si piegò indietro col viso per respirare meglio: le sue mani abbrancarono la tela.

Ed Efix balzò su spaventato, credendo ch’ella stesse per svenire.

Ma fu un attimo. Ella tornò a guardarlo coi suoi occhi cattivi e disse calma:

«Anche se torna non c’è più nulla da perdere. E non abbiamo bisogno di nessuno per difenderci».

Egli raccolse di terra la viola e andò a sedersi sulla scala, come la notte dopo la morte di donna Ruth. Non si domandava più perché Noemi rifiutava la vita: gli sembrava di capire. Era il castigo di Dio su lui: il castigo che gravava su tutta la casa. Ed egli era il verme dentro il frutto, era il tarlo che rodeva il destino della famiglia. Appunto come il tarlo egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso, roso, adesso si meravigliava se tutto s’era sgretolato intorno a lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco sosteneva la viola livida ch’egli teneva fra le dita. Dio non abbandonerebbe le disgraziate donne. Andato via lui, donna Noemi, forse offesa dalla stessa maniera dell’ambasciata, si piegherebbe. Dopo tutto, due donne sole non possono vivere.

Bisognava andare. Come aveva fatto, a non capirlo ancora? Gli sembrò che una voce lo chiamasse: e una voce lo chiamò davvero, al di là del muro, dal silenzio della strada.

S’alzò e s’avviò: poi tornò indietro per riprendere la bisaccia attaccata al piuolo sotto la loggia. Il piuolo, fisso lì da secoli, si staccò e balzò fra i ciottoli del cortile come un grosso dito nero. Egli trasalì. Sì, bisognava andarsene: anche il piuolo si staccava per non sostener più la bisaccia.

E con sorpresa di Noemi, che aveva seguito con la coda dell’occhio tutti i movimenti di lui, egli non riattaccò il piuolo, e s’avviò.

«Efix? Te ne vai?»

Egli si fermò, a testa bassa.

«Non aspetti Ester? Torni per Pasqua?»

Egli accennò di no.

«Efix, ti sei offeso? Ti ho detto qualche cosa di male?»

«Nulla di male, padrona mia. Solo che devo andare: è ora.»

«E allora va’ in buon’ora.»

Egli pensò un momento: gli parve di dimenticare qualche cosa, come quando si sta per intraprendere un viaggio e ci si domanda se si è provvisti di tutto.

«Donna Noemi, comanda nulla?»

«Nulla. Solo mi pare che tu stia male: sei malato? Sta’ qui, chiameremo il dottore: ti tremano le gambe.»

«Devo andare.»

«Efix ascolta: non averti a male di quanto t’ho detto. È così, non posso, credi. Lo so che ti fa dispiacere, ma non posso. Non dir nulla a Ester. E va’, se vuoi andare. Ma se ti senti male torna; ricordati che questa è casa tua.»

Egli s’accomodò sulle spalle la bisaccia e uscì. Sugli scalini del portone scosse i piedi uno dopo l’altro per non portar via neppure la polvere della casa che abbandonava.


 

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