Archivi giornalieri: 10 febbraio 2024

“Sardegna, Ebrei e «razza italiana»”

 

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“Sardegna, Ebrei e «razza italiana»”
di Emilio Lussu
Pubblico la parte più interessante di un articolo di Lussu sugli Ebrei, il fascismo e la Sardegna.
Chissà cosa ne penserebbe oggi il capitano dei rossomori sugli ebrei ieri brutalmente vittime vittime e oggi altrettanto brutalmente carnefici.
Notare una curiosità: a un certo punto gli “scappa”, quasi dal sen fuggita, la locuzione di “Una Repubblica sarda indipendente”. Per la verità anche in un’altra occasione utilizzò questa espressione, nell’opera “Diplomazia clandestina”. Noi invece sappiamo che Lussu è un federalista convinto non un indipendentista.
L’articolo è corposamente intriso dell’ironia lussiana, o meglio, come lui stesso riconoscerà, “Di quell’ironia che è sarda. E’ sarda atavicamente…”.
Giustizia e Libertà, 21 ottobre 1938
Le Journal des Débats pubblica, tra il serio ed il faceto, uno scritto in cui si attribuisce a Mussolini il proposito di relegare in Sardegna tutti gli ebrei italiani. Con i tempi che corrono, queste cose vanno prese sempre sul serio. Come sardo, nato in Sardegna e rappresentante di sardi, io mi considero direttamente interessato […] .
Così stando le cose, è troppo giusto che gli ebrei italiani vengano a finire in Sardegna: essi sono i nostri più prossimi congiunti. Per conto nostro, noi non sentiamo che pura gioia. Essi saranno accolti da fratelli. La famiglia semitica uscirà rafforzata da questa nuova fusione. Semitici con semitici, ariani con ariani.
Mussolini va lodato per tale iniziativa. Anche perché rivela, verso noi sardi, un mutato atteggiamento.
Nel 1930, davanti a un giornalista e uomo politico francese che gli aveva fatto visita, pronunziò parole e propositi ostili contro l’isola fascisticamente malfida, e affermò che avrebbe distrutto la nostra razza, colonizzandoci con migliaia di famiglie importate da altre regioni d’Italia. Egli mantenne la parola e popolò le bonifiche sarde di migliaia di romagnoli e di emiliani.
Ma, a difesa della razza sarda, vigilavano impavide le zanzare, di pura razza semitica. L’immigrazione ariana è stata devastata dalla malaria e ora non ne rimane in piedi che qualche raro esemplare superstite.
Con gli ebrei, sarà un’altra questione. Essi saranno i benvenuti per noi e per le zanzare fedeli, le quali saranno, con loro, miti e discrete come lo sono con noi.
Sardi ed ebrei c’intenderemo in un attimo. Come ci eravamo intesi con gli ebrei che l’imperatore Tiberio aveva relegato nell’isola e che Filippo II di Spagna scacciò in massa. Quello fu un gran lutto per noi.
Ben vengano ora, aumentati di numero. Che razza magnifica uscirà dall’incrocio dei due rami!
Per quanto federalista e autonomista, io sono per la fusione dei sardi e degli ebrei. In Sardegna, niente patti federali. I matrimoni misti si faranno spontanei e la Sardegna sarà messa in comune. E quando saremo ben cementati, chiederemo che ci sia concesso il diritto di disporre della nostra sorte. L’Europa non vorrà negare a noi quanto è stato accordato ai Sudeti. Una Repubblica Sarda indipendente sarà la consacrazione di questo nuovo stato di fatto. Il presidente, almeno il primo, mi pare giusto debba essere un sardo, ma il vice-presidente dovrà essere un ebreo. Modigliani può contare sul nostro appoggio che gli sarà dato lealmente. Penso che dovremmo respingere la garanzia delle grandi potenze mediterranee e svilupparci e difenderci da noi stessi. Se gli ebrei d’Europa e d’America vorranno accordarci la decima parte di quanto hanno speso in Palestina, è certo che la Sardegna diventerà, in cinquant’anni, una delle regioni più ricche e deliziose del mondo, la cui cultura non avrà riscontro che in poche nazioni avanzate.
Ciò non toglie che i nostri rapporti non possano essere buoni, inizialmente, anche con l’Italia ariana; ma, da pari a pari. Vi sarà uno scambio di prodotti, e noi potremo, data la ricchezza delle nostre saline, rifornire l’Italia ariana, specie di sale, che ne ha tanto bisogno.
Naturalmente, non accoglieremo tutti gli ebrei italiani. Ve ne sono parecchi che, per noi, valgono gli ariani autentici. Il prof. Del Vecchio [2], per esempio, noi non lo vogliamo. E vi saranno parecchi ariani di razza italica che noi terremo a fare semitici onorari. Problemi tutti che risolveremo presto e facilmente.
V’è la questione del re-imperatore che, come si sa, ha fatto la sua fortuna come re di Sardegna. Si ha l’impressione che il decalogo razzistico sia stato compilato anche per lui. Non esiste infatti nessuna famiglia, in Italia, meno italiana della famiglia reale: essa non appartiene più alla razza italica pura. Di origine gallica, i matrimoni misti l’hanno corrotta a tal punto che il sangue straniero vi è in predominio palese. E il principe ereditario, figlio di una montenegrina, è sposato con una belga-tedesca; una principessa con un tedesco, e un’altra con uno slavo-bulgaro. Ariani ma non italiani. La futura repubblica sarda sarà magnanima anche col re di Sardegna. Lo accolse l’isola, fuggiasco dall’invasione giacobina, lo accoglierà ancora una volta, profugo dal dominio ariano-italico. L’isola dell’Asinara gli sarà concessa in usufrutto fino all’ultimo dei suoi discendenti. E potrà tenervi corte, liberamente, a suo piacere.
Colpisce invece che, per restare alla stessa fase storica, sia pressoché assente nella nostra memoria collettiva la deportazione di qualcosa come 50.000 sardi, a seguito della spedizione di Tiberio Sempronio Gracco nel 237 a.C. o, secondo altri, a seguito di quella del nipote omonimo nel 175 a.C. Sono i “sardi venales”, sardi di poco valore economico, perché per la loro quantità fecero crollare il prezzo degli schiavi.
Perché in effetti la rimozione di quella lontana deportazione di 50.000 sardi fa compagnia all’oblio pressoché totale della deportazione di circa 290 sardi, tra politici ed ebrei, e di circa 12.000 internati militari sardi nei lager nazisti. E si trattava nella stragrande maggioranza di giovani. Una enormità di gente nostra allora e oggi. Fino a pochi anni fa, questa realtà restava totalmente sconosciuta ai più e, nel migliore e raro dei casi, il nome di una via in qualche nostro paese serbava il ricordo ormai smemorizzato.

Deputati

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BELLUCCI Maria Teresa
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BENZONI Fabrizio
BERGAMINI Davide
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BONETTI Elena
BONIFAZI Francesco
BORDONALI Simona
BORRELLI Francesco Emilio
BOSCHI Maria Elena
BOSSI Umberto
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BRUNO Raffaele
BRUZZONE Francesco
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CAFIERO DE RAHO Federico
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CALOVINI Giangiacomo
CANDIANI Stefano
CANGIANO Gerolamo
CANNATA Giovanni Luca
CANNIZZARO Francesco
CANTONE Luciano
CAPARVI Virginio
CAPPELLACCI Ugo
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CARAMANNA Gianluca
CARAMIELLO Alessandro
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CAROPPO Andrea
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CASO Antonio
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CASU Andrea
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CATTOI Vanessa
CAVANDOLI Laura
CAVO Ilaria
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CIANI Paolo
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COLOSIMO Chiara
COLUCCI Alessandro
COLUCCI Alfonso
COMAROLI Silvana Andreina
COMBA Fabrizio
CONGEDO Saverio
CONTE Giuseppe
COPPO Marcello
CORTELAZZO Piergiorgio
COSTA Enrico
COSTA Sergio
CRIPPA Andrea
CUPERLO Gianni
CURTI Augusto
D’ALESSIO Antonio
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DALLA CHIESA Rita
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D’ATTIS Mauro
DE BERTOLDI Andrea
DE CORATO Riccardo
DEIDDA Salvatore
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DELMASTRO DELLE VEDOVE Andrea
DE LUCA Piero
DE MARIA Andrea
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DI GIUSEPPE Andrea
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EVI Eleonora
FARAONE Davide
FASCINA Marta Antonia
FASSINO Piero
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FERRANTE Tullio
FERRARI Sara
FERRO Wanda
FILINI Francesco
FITTO Raffaele
FONTANA Ilaria
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FORMENTINI Paolo
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FRATOIANNI Nicola
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FRIJIA Maria Grazia
FURFARO Marco
FURGIUELE Domenico
GADDA Maria Chiara
GALLO Francesco
GARDINI Elisabetta
GATTA Giandiego
GAVA Vannia
GEBHARD Renate
GEMMATO Marcello
GHIO Valentina
GHIRRA Francesca
GIACCONE Andrea
GIACHETTI Roberto
GIAGONI Dario
GIANASSI Federico
GIGLIO VIGNA Alessandro
GIORDANO Antonio
GIORGETTI Giancarlo
GIORGIANNI Carmen Letizia
GIOVINE Silvio
GIRELLI Gian Antonio
GIULIANO Carla
GNASSI Andrea
GRAZIANO Stefano
GRIBAUDO Chiara
GRIMALDI Marco
GRIPPO Valentina
GRUPPIONI Naike
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GUERINI Lorenzo
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IARIA Antonino
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MAIORANO Giovanni
MALAGOLA Lorenzo
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MARATTIN Luigi
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OSNATO Marco
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PAGANO Ubaldo
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ROSSI Andrea
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SILVESTRI Rachele
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STEFANI Alberto
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TAJANI Antonio
TASSINARI Rosaria
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TRANCASSINI Paolo
TRAVERSI Roberto
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VOLPI Andrea
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ZANELLA Luana
ZARATTI Filiberto
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ZINGARETTI Nicola
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ZUCCONI Riccardo
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SICILIA 1
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VENETO 2
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Estero – AMERICA MERIDIONALE
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PARTITO DEMOCRATICO – ITALIA DEMOCRATICA E PROGRESSISTA
MISTO

Cos’è l’energia idroelettrica

Cos’è l’energia idroelettrica

Si tratta della principale fonte di energia rinnovabile, in Italia come nel resto del mondo. Genera energia dal movimento dell’acqua bloccandone il flusso tramite barriere e per questo può avere impatto ambientale.

Definizione

Gli impianti idroelettrici sfruttano l’energia generata dal movimento di masse d’acqua, solitamente grazie all’utilizzo di barriere, come per esempio le dighe. All’interno della centrale si trova poi una turbina idraulica che viene azionata dal flusso d’acqua stesso e che, roteando, funge da alternatore, trasformando l’energia cinetica in elettricità.

Come rileva il gestore servizi energetici (Gse), l’idroelettrico è la principale fonte di energia rinnovabile in Italia: nel 2021 ha infatti raggiunto il 39% della produzione complessiva. Lo stesso vale anche a livello globale: per produzione di elettricità, evidenzia l’agenzia internazionale dell’energia (Iea), l’idroelettrico da solo vale più di tutte le altre fonti rinnovabili insieme.

Con ogni probabilità rimarrà la principale fonte di energia rinnovabile almeno fino al 2030 e pertanto ne è riconosciuto il ruolo significativo all’interno della transizione energetica. Ciononostante l’Iea afferma che nel medio termine sarà superata da altre tecnologie come quella fotovoltaica e quella eolica, caratterizzate da tassi di crescita più elevati. Attualmente, tre quarti dell’elettricità prodotta con questa modalità provengono dalla Cina. Anche India, Europa e Stati Uniti sono produttori importanti.

Dati

Terna, la società operatrice delle reti di trasmissione dell’energia elettrica, fornisce dati sulla produzione di energia idroelettrica in Italia. All’ultimo aggiornamento, gli impianti nel nostro paese sono quasi 5mila e la maggior parte di trova nel nord del paese. Infatti l’idroelettrico ha capacità maggiori in territori caratterizzati da forti dislivelli, perché questi favoriscono il movimento dell’acqua. Dei 4.852 impianti presenti in Italia, quasi 4mila sono localizzati al nord. Mentre appena 572 si trovano al centro e 334 al sud.

81,3% degli impianti idroelettrici si trova nel nord (2023).

Il Piemonte è primo per numero di impianti idroelettrici: 1.087, pari a oltre un quinto del totale. Seguono Trentino Alto Adige e Lombardia con rispettivamente 890 e 748 strutture. Mentre al primo posto per potenza installata si trova la Lombardia (più di 5mila megawatt), seguita da Trentino e Piemonte, con valori oltre i 3mila Mw.

Dal 2007 a oggi la produzione di energia idroelettrica in Italia ha subito delle oscillazioni ma nel complesso l’andamento non ha registrato un miglioramento evidente, a differenza di altre fonti come il fotovoltaico. In proporzione rispetto alle altre fonti il suo contributo è diminuito. Come mette in luce il Gse, il periodo compreso tra 2007 e 2021 è stato caratterizzato dall’installazione di impianti principalmente di piccole dimensioni.

Analisi

Secondo l’Iea, il sistema idroelettrico ha un potenziale immenso, ma complessivamente si tratta di una modalità di produzione energetica che sta subendo un progressivo rallentamento. Il settore riceve sempre meno investimenti e di conseguenza è caratterizzato da una crescita molto lenta. L’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sottolinea inoltre che i cambiamenti climatici, in particolare con il progressivo calo delle precipitazioni e lo scioglimento dei ghiacciai, ne stanno mettendo sempre più a rischio l’efficienza.

Un altro aspetto problematico del sistema idroelettrico è il suo potenziale effetto negativo sugli ecosistemi acquatici, dovuta all’interruzione della continuità del flusso.

Qualsiasi alterazione fisica dei corpi idrici incide sui normali processi idrologici e interrompe la continuità ecologica dei sistemi di acqua dolce, sia longitudinalmente sia lateralmente, ad esempio scollegando i fiumi dalle loro pianure alluvionali e zone umide circostanti, o creando un effetto di stagnazione intorno alla centrale.

La perturbazione dei processi idromorfologici causata dalla costruzione di barriere lungo il corso può alterare le condizioni dell’ecosistema incidendo sul suo funzionamento. Le dighe possono impedire anche la migrazione delle specie, determinando la frammentazione, l’isolamento e la definitiva scomparsa in particolare di alcune popolazioni acqua dolce. Le quali sono già, secondo il Living planet index, le specie più a rischio.

Inoltre le centrali possono perturbare le dinamiche di sedimentazione, causando un accumulo di sedimenti per via della ridotta capacità di trasporto. Altri potenziali effetti negativi sono le variazioni dello stato chimico e della temperatura dell’acqua, il ferimento o intrappolamento di animali e l’alterazione dei cicli di vita di alcune specie. Potenzialmente questo tipo di impianto può quindi causare una perdita di biodiversità,. Soprattutto nel caso delle centrali più piccole, che possono raggiungere ecosistemi remoti e quindi ancora più unici e vulnerabili.

La transizione energetica, come hanno sottolineato 150 ong europee, dovrebbe andare di pari passo con la tutela dell’ambiente e della biodiversità.

25mila km di fiumi da liberare dalle barriere entro il 2030, secondo la strategia europea per la biodiversità.

Alla luce di queste considerazioni, che permettono di vedere il potenziale dell’idroelettrico ma anche i suoi limiti da un punto di vista ambientale, è importante che la sua crescita sia supportata dall’ammodernamento degli impianti e dalla tutela degli ecosistemi più fragili, come per esempio le zone protette.

 

Cos’è la legge annuale per il mercato e la concorrenza

Cos’è la legge annuale per il mercato e la concorrenza

È una delle riforme previste dal Pnrr. Ha lo scopo di rimuovere le barriere normative alla concorrenza, promuovere l’apertura dei mercati ai piccoli imprenditori e tutelare i consumatori.

Definizione

La legge annuale per il mercato e la concorrenza ha lo scopo di rimuovere le barriere normative per facilitare l’apertura dei mercati ai piccoli imprenditori e tutelare i consumatori. I contenuti della legge sono definiti anche sulla base di analisi – svolte a livello europeo, di autorità amministrative indipendenti nazionali, di associazioni di categoria e altri soggetti istituzionali – che mirano a capire quali siano i settori su cui è necessario intervenire con delle riforme per eliminare gli ostacoli alla libera iniziativa imprenditoriale.

Sul piano nazionale, la concorrenza è materia di competenza dello stato, come disposto dall’articolo 117 della costituzione. Questo, come altri ambiti, deve essere gestito entro i limiti posti dall’ordinamento comunitario. I pilastri principali sono definiti negli articoli che vanno dal 101 al 109 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfeu). Su queste premesse, si poggia la legge 99/2009 che tra le altre cose introduce la redazione di questa norma annuale.

Il disegno di legge sulla concorrenza è di iniziativa governativa. Deve essere approvato in consiglio dei ministri entro sessanta giorni dalla data di trasmissione della relazione annuale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm). La proposta è presentata dal ministro per le imprese e il made in Italy che tiene conto delle osservazioni dell’Agcm e della conferenza unificata.

La legge annuale sulla concorrenza rientra tra le riforme del Pnrr.

Anche se una legge di questo tipo dovrebbe essere pubblicata una volta all’anno, nel periodo compreso tra il 2009 e il 2021 ciò è avvenuto una sola volta, nel 2017. È anche per questo motivo che tali norme sono state inserite tra le riforme da realizzare attraverso il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Questa è stata un’esplicita condizione posta dalle istituzioni europee ai fini dell’approvazione del piano italiano.

La prima legge pubblicata al fine di adempiere agli obiettivi del Pnrr è entrata in vigore il 27 agosto del 2022 e fa riferimento al 2021. La seconda il 31 dicembre del 2023 con riferimento al 2022.

Dati

La legge annuale per il mercato e la concorrenza 2022, la più recente, si compone di 22 articoli suddivisi in 6 capi. Sono molti gli ambiti di intervento. Tra questi, alcuni dei più rilevanti riguardano il settore degli autotrasporti, modifiche al codice del consumo, misure per l’attuazione del regolamento Ue 2022/1925 relativo al mercato dei prodotti digitali, il diritto d’autore e il rinvio di scadenze in merito alle autorizzazioni paesaggistiche.

L’entrata in vigore della legge era una delle scadenze relative al Pnrr che il nostro paese avrebbe dovuto completare entro la fine del 2023. Nello specifico l’obiettivo era quello di adottare il piano di sviluppo della rete per l’energia elettrica e promuovere la diffusione di contatori elettrici intelligenti di seconda generazione. Obiettivi che sono stati conseguiti attraverso gli articoli 1 e 2 della legge.

Non tutte le disposizioni sono immediatamente applicabili. In alcuni casi è necessario il ricorso ai decreti attuativi. Atti di secondo livello (principalmente decreti ministeriali) che servono a definire più nel dettaglio le disposizioni contenute nella legge. Anche l’entrata in vigore di questi provvedimenti coincide con delle scadenze a cui il nostro paese deve adempiere nell’ambito del Pnrr. In base alle informazioni messe a disposizione dall’ufficio per il programma di governo, alla data del 16 gennaio 2024, nessuno dei decreti attuativi richiesti dalla legge per la concorrenza 2022 risulta ancora pubblicato.

i decreti attuativi richiesti per la piena implementazione della legge per la concorrenza 2022. 

Per quanto riguarda la legge 2021 invece le attuazioni richieste erano 8, di cui 2 mancano tuttora all’appello.

Analisi

Per quanto il Pnrr abbia contribuito perlomeno a far rispettare l’obbligo di pubblicare una legge sulla concorrenza ogni anno, le criticità irrisolte su questo fronte sono ancora molte. Le due leggi entrate in vigore nel 2022 e nel 2023 infatti non hanno affrontato alcuni degli argomenti più divisivi agli occhi dell’opinione pubblica nazionale.

Per quanto riguarda la prima delle due norme ad esempio si è scelto, anche a seguito di proteste non sempre pacifiche, di non affrontare il tema della disciplina del trasporto pubblico non di linea (taxi, noleggio con conducente e forme simili).

Un altro tema certamente problematico è quello legato alle concessioni balneari. Criticità per cui è tuttora in corso una procedura di infrazione a carico del nostro paese. Da questo punto di vista la legge per la concorrenza del 2021 attribuiva al governo la delega per intervenire sul tema con uno o più decreti legislativi. Questo sarebbe dovuto accadere entro 6 mesi dall’entrata in vigore della legge ma non è avvenuto.

I ritardi nell’attuazione di procedure competitive efficaci per l’assegnazione di concessioni marittime, lacustri e fluviali per attività turistico ricreative, così come la limitata redditività di tali contratti di concessione per le autorità pubbliche, rimangono fonte di preoccupazione.

Una criticità simile è emersa anche relativamente alla legge 2022 per quanto riguarda le concessioni di suolo pubblico per le attività commerciali. L’aspetto critico riguarda l’articolo 11 che dispone la proroga di alcune concessioni in scadenza. Le proroghe in questione – che arrivano anche a 12 anni – peraltro hanno portato a un richiamo formale da parte del presidente della repubblica.

In una lettera inviata a governo e parlamento infatti il capo dello stato ha evidenziato come tale periodo sia estremamente lungo. Incompatibile con la giurisprudenza nazionale ed europea in materia. Inoltre l’inquilino del Quirinale ha anche evidenziato come i criteri individuati per il rilascio di nuove concessioni appaiano restrittivi della concorrenza in entrata. Così favorendo, in contrasto con le regole europee, i concessionari uscenti. Per questo il capo dello stato ha auspicato che governo e parlamento tornino a legiferare sul tema in tempi rapidi.

Non esistono informazioni sui risultati ottenuti con la legge per la concorrenza 2021.

Un altro aspetto da rilevare riguarda il fatto che, in base all’articolo 47 comma 4 della citata legge 99/2009, il governo dovrebbe allegare al Ddl per la concorrenza una relazione di accompagnamento che evidenzi, tra le altre cose, lo stato di attuazione degli interventi previsti nelle precedenti leggi. Indicando gli effetti che ne sono derivati per i cittadini, le imprese e la pubblica amministrazione. Di questo documento però non si trova traccia per quanto riguarda la legge 214/2023. Né nel testo pubblicato in gazzetta ufficiale né tantomeno nei documenti prodotti durante la discussione in parlamento. In base a quanto riportato dal comitato per la legislazione del senato, il governo ha fornito l’analisi tecnico-normativa e la relazione sull’analisi di impatto della regolamentazione. Non è chiaro però se in questi documenti si fa riferimento anche ai risultati già raggiunti. Anche perché non sono consultabili.

Aspetti critici come questo riguardano l’intero piano nazionale di ripresa e resilienza. Senza documenti di questo tipo infatti sarà impossibile valutare l’impatto del piano sul nostro paese e capire se gli ambiziosi obiettivi che si puntava a raggiungere saranno effettivamente conseguiti.

 

In aumento le risposte del governo alle interrogazioni del parlamento Governo e parlamento

In aumento le risposte del governo alle interrogazioni del parlamento Governo e parlamento

L’attuale esecutivo fa registrare il dato più alto delle ultime legislature per quanto riguarda la risposte agli atti di sindacato ispettivo sottoposti dal parlamento. Il numero delle istanze presentate però è ancora modesto rispetto al passato.

 

Il governo è legato a un rapporto fiduciario con il parlamento, senza il quale non potrebbe andare avanti nella propria azione. Per questo i componenti dell’esecutivo sono tenuti a rendere conto del proprio operato di fronte alle camere.

Deputati e senatori possono quindi sottoporre agli esponenti del governo i cosiddetti atti di sindacato ispettivo come interrogazioni e interpellanze. Anche se questi atti non hanno un valore normativo, ne hanno uno di natura politica: consentono ai parlamentari di portare all’attenzione del governo, ma anche dell’opinione pubblica, fatti ritenuti importanti, potendo chiedere conto all’esecutivo delle sue azioni in merito.

Negli ultimi anni i governi non sono mai stati particolarmente puntuali nel fornire le risposte richieste. Soprattutto quando parliamo di atti che non prevedono una risposta immediata. Da questo punto di vista possiamo osservare che l’attuale esecutivo presenta la percentuale di risposta più alta considerando le ultime 3 legislature.

37% la percentuale di atti ispettivi del parlamento a cui il governo Meloni ha fornito una risposta. 

Tale dato peraltro risulta in aumento di oltre 3 punti percentuali rispetto al nostro ultimo aggiornamento sul tema. Un incremento rilevante, anche se va segnalato che questa percentuale di risposta resta comunque inferiore alla metà del totale. Inoltre il numero di atti ispettivi presentati in questa legislatura è ancora limitato, un dato fisiologico considerando che ci troviamo ancora nella sua prima parte. Sarà interessante capire quindi se il governo Meloni manterrà questo livello di risposta nel corso del tempo.

Il governo Meloni a confronto con gli esecutivi precedenti

L’attuale esecutivo risulta quindi al primo posto, nel confronto con quelli delle ultime 3 legislature, se si considera la percentuale di risposta agli atti di sindacato ispettivo presentati dal parlamento (37%). Seguono i governi Renzi (33,2%) e Conte I (33%).

Bisogna però tenere presente che gli atti ispettivi presentanti dall’inizio della XIX legislatura fino al 31 ottobre 2023, data dell’ultimo aggiornamento disponibile, è ancora limitato. Al governo Meloni infatti sono stati sottoposti per il momento 4.096 atti ispettivi, che è il numero più basso in assoluto nel periodo considerato. Il dato più alto è quello relativo al governo Renzi (20.853) che però è anche quello rimasto in carica per più tempo (33 mesi). Al secondo posto c’è invece il governo Draghi (8.710 atti ispettivi sottoposti in 20 mesi).

La rilevanza delle interrogazioni a risposta scritta

Gli atti di sindacato ispettivo possono avere diversa natura. Alcuni prevedono una risposta immediata altri invece no. In questa seconda categoria rientrano le interrogazioni a risposta scritta. È proprio su questa tipologia che è interessante focalizzare l’attenzione. Questo perché è di gran lunga l’atto ispettivo a cui i parlamentari fanno più ricorso e allo stesso tempo quello a cui i governi fanno più fatica a rispondere.

I governi rispondono raramente alle interrogazioni a risposta non immediata.

Questa dinamica può avere diverse spiegazioni. Innanzitutto con tale strumento non c’è un limite massimo di questioni che un parlamentare può sottoporre al governo e non ci sono tempi contingentati. Al contrario di quello che avviene invece ad esempio per i cosiddetti question time in cui l’esecutivo risponde immediatamente ma a pochi quesiti. Il tasso di risposta in questi casi risulta essere sempre superiore al 90%.

Sottoponendo al governo atti non urgenti quindi, in teoria, potrebbero esserci maggiori possibilità per i singoli parlamentari di ottenere una risposta su temi di loro interesse, anche se magari più avanti nel tempo. Il rovescio della medaglia però è che il grande numero di atti presentati fa sì che l’esecutivo non riesca replicare a tutti. Anzi, solitamente il tasso di risposta in questi casi risulta essere molto basso.

Nelle ultime 3 legislature, sono stati presentati in totale 63.306 atti di sindacato ispettivo. Più della metà di questi sono interrogazioni a risposta scritta (31.934). Le interrogazioni a risposta non immediata in commissione rappresentano il secondo tipo di atto ispettivo più utilizzato e rappresenta circa il 24% del totale (15.174). Al terzo posto si trovano invece le interrogazioni a risposta immediata in commissione (5.918 pari al 9,4% del totale).

Focalizzando la nostra attenzione sulle interrogazioni scritte possiamo osservare che anche in questo caso il governo Meloni si trova al primo posto come tasso di risposta, anche se la percentuale scende notevolmente.

18,4% il tasso di risposta del governo Meloni alle interrogazioni scritte.

Le risposte fornite in questo caso sono 314 a fronte di 1.709 interrogazioni presentate. Al secondo posto come tasso di risposta troviamo il governo Renzi (18%) che però ha dato riscontro a 1.924 interrogazioni (su 10.686 totali). Al terzo c’è invece il governo Conte II con il 17,1% (768 risposte fornite a fronte di 4.486 atti di sindacato ispettivo presentati).

Le risposte dei ministri del governo Meloni nel dettaglio

La capacità (e la volontà) di un governo di rispondere alle interrogazioni scritte è quindi uno dei dati più interessanti da analizzare. Osservando il comportamento dei vari esponenti del governo Meloni possiamo notare che il ministro con il tasso di risposta più alto è quello della giustizia Carlo Nordio con il 76,8%. Segue il ministro degli affari esteri Antonio Tajani (58,5%). Questi due esponenti sono gli unici che presentano un tasso di risposta superiore al 50%. Al terzo posto infatti troviamo il ministro per la protezione civile Nello Musumeci con il 32%.

Da notare che ci sono ben 7 ministri che non hanno risposto nemmeno a una interrogazione scritta. Tra questi anche esponenti di ministeri di primo piano, come quello dell’economia guidato da Giancarlo Giorgetti e quello della salute al cui vertice c’è Orazio Schillaci.

Anche il ministero delle infrastrutture guidato dal vicepresidente del consiglio Matteo Salvini presenta un tasso di risposta particolarmente basso.

0,68% il tasso di risposta alle interrogazioni scritte del ministero per le infrastrutture e i trasporti guidato da Salvini.

Comunicazioni e informative

Le risposte agli atti di sindacato ispettivo non sono le uniche occasioni in cui il governo riferisce al parlamento sul proprio operato. Negli ultimi anni infatti ci siamo abituati a vedere sempre più spesso esponenti dell’esecutivo presentarsi alle camere per rendere comunicazioni e informative. Si tratta di altri atti dovuti da parte del governo che si svolgono in particolari occasioni, come ad esempio alla vigilia dei vertici europei.

Parliamo però di un numero estremamente limitato di interventi rispetto a tutti gli atti di sindacato ispettivo presentati dal parlamento. Dal suo insediamento a palazzo Chigi, il governo Meloni ha reso alle camere in totale 50 tra comunicazioni e informative. In valori assoluti, solo i governi Renzi (93) e Conte II (87) sono andati più spesso in parlamento. C’è da dire però che l’esecutivo Renzi è rimasto in carica per un periodo più che doppio (33 mesi) rispetto all’attuale (14). Mentre il secondo esecutivo di Giuseppe Conte è stato quello che ha affrontato le fasi più concitate dell’emergenza pandemica.

Considerando le dichiarazioni rese in media ogni mese, in modo da poter fare un confronto omogeneo, il governo Meloni si conferma al terzo posto con una media di 3,6. Hanno fatto di più il già citato esecutivo Conte II (5,1) e il governo Letta (4,8).

Foto: governo – licenza