Archivi giornalieri: 16 maggio 2023

Le aziende sanitarie e i commissariamenti nel 2023 Mappe del potere

Le aziende sanitarie e i commissariamenti nel 2023 Mappe del potere

Tra 2020 e 2022 il numero di aziende ospedaliere o sanitarie commissariate si è dimezzato. Nel 2023 però questo dato è tornato a crescere arrivando ai livelli di 3 anni prima. Molti commissariamenti però dovrebbero concludersi a breve e ci si aspetta che il dato torni a diminuire.

 

La crescita dei commissariamenti

Le aziende sanitarie (Asl) e ospedaliere (Ao) sono le strutture amministrative del sistema sanitario più prossime al cittadino. Si tratta dunque di organizzazioni molto importanti il cui vertice tuttavia risulta in vari casi commissariato.

Tra 2020 e 2021 questo fenomeno si era molto ridimensionato. Così se nel corso del primo anno di emergenza pandemica le aziende ospedaliere o sanitarie commissariate sono state più di 40, a metà del 2021 questo numero si era dimezzato.

Il dato è poi rimasto stabile fino alla fine del 2022. Con il nuovo anno però è tornato a crescere sfiorando i valori di 3 anni prima.

39 le aziende ospedaliere o sanitarie commissariate in Italia a maggio 2023.

La geografia dei commissariamenti

Attualmente sono 8 le regioni in cui almeno un’azienda sanitaria ha una gestione commissariale. Come vedremo, le ragioni dei commissariamenti possono essere molto diverse legate a dinamiche strettamente aziendali, piuttosto che a scelte politiche regionali o anche nazionali.

Per questo in diversi territori i commissariamenti riguardano solo una minoranza delle aziende sanitarie. È il caso della Lombardia (5,7%) e del Piemonte (11,1%).

Valori un po’ più alti ma comunque riferiti a episodi isolati si trovano invece in Liguria (16,7%), Emilia-Romagna (16,7%) e Lazio (20%).

Cifre decisamente più alte invece risultano nelle Marche (83,3%), in Sicilia (88,2%) e Calabria (100%). Su 39 commissariamenti complessivi infatti 29 si concentrano in queste regioni.

3/4 delle aziende ospedaliere o sanitarie commissariate si trovano nelle Marche, in Sicilia e in Calabria.

Prosegue il commissariamento della sanità calabrese

Il caso più grave ma anche più noto è quello della Calabria.

In Calabria sono ancora commissariate tutte le aziende sanitarie.

Qui infatti, da ormai diversi anni, tutte le aziende sanitarie sono commissariate. In questo caso dunque non si tratta di una novità ma di un dato tristemente stabile.

Solo la scorsa settimana peraltro, un nuovo decreto (Dl 51/2023) ha esteso fino a tutto il 2023 il commissariamento dell’intero comparto regionale. E non è la prima proroga disposta dal governo Meloni. Già a novembre 2022 il nuovo esecutivo aveva emanato un decreto (Dl 169/2022) che prorogava il decreto Calabria di ulteriori 6 mesi. Una norma quest’ultima con cui il secondo governo Conte aveva già prolungato una forma rafforzata di commissariamento della sanità regionale avviata dal decreto salva Calabria (primo governo Conte).

È utile precisare che il commissariamento di tutte le aziende sanitarie e ospedaliere è un aspetto da tenere distinto dal commissariamento della sanità regionale. Attualmente infatti oltre alla Calabria risulta commissariata anche la regione Molise. Qui però l’unica azienda sanitaria presente è amministrata tramite una gestione ordinaria.

Per diversi anni in effetti anche in Calabria si era proceduto in questo modo. Questo fino al 2020 quando il secondo governo Conte ha stabilito che i vertici aziendali dovessero essere tutti commissari straordinari nominati dal commissario ad acta della regione. Da questo punto di vista la nuova norma si limita a stabilire che il commissario ad acta, ossia il presidente della regione Occhiuto, debba confermare i commissari straordinari in carica entro 2 mesi dall’approvazione del decreto. Pena la loro decadenza.

Almeno non sono più in corso commissariamenti per infiltrazioni della criminalità organizzata.

Quantomeno una buona notizia c’è. Dal 2022 le aziende sanitarie calabresi sono tutte commissariate per le ragioni che abbiamo visto e non, come in passato, anche per infiltrazioni della criminalità organizzata. Quella infatti, come abbiamo raccontato in precedenti approfondimenti, è una diversa e più grave forma di commissariamento.

Commissariamenti e ritardi in Sicilia

In Sicilia invece sono commissariate tutte le aziende sanitarie provinciali (9) ma almeno 2 delle 8 aziende ospedaliere hanno ancora al proprio vertice un direttore generale.

15 su 17 le aziende ospedaliere o sanitarie commissariate in Sicilia.

A differenza della Calabria però qui le ragioni dei commissariamenti sono differenti e, almeno in parte, varie. In 6 strutture infatti i commissari sono stati nominati con provvedimenti specifici tra il 2020 e il 2022. Fino a inizio anno invece le altre aziende risultavano avere una gestione ordinaria.

In ben 9 di queste, la nomina del direttore generale era avvenuta a metà aprile 2019 per decreto del presidente della regione Nello Musumeci.

L’incarico aveva durata triennale e dunque sarebbe dovuto andare in scadenza a primavera del 2022. Con un provvedimento ad hoc (Dgr 296/2022) la giunta Musumeci, ormai in scadenza, ha però prorogato gli incarichi in essere fino alla fine del 2022.

I mesi tra l’entrata in carica della nuova giunta guidata da Renato Schifani (a settembre 2022) fino alla fine dell’anno però non sembrano essere stati sufficienti al nuovo esecutivo per procedere con le nuove nomine. Infatti l’avviso pubblico per la selezione dei nuovi direttori generali è stato pubblicato il 29 dicembre, nonostante i direttori in carica andassero in scadenza il 31 dicembre.

Non essendoci il tempo materiale per l’espletamento della selezione pubblica, l’assessore regionale alla sanità ha proposto in giunta di procedere con un commissariamento temporaneo. Fino alla nomina dei nuovi direttori infatti, quelli precedentemente in carica sono stati nominati commissari (Dpr 53/2022). Si tratta insomma di una situazione che dovrebbe essere provvisoria. Tuttavia si evidenzia come i vertici aziendali di 9 strutture sanitarie siano arrivati alla fine naturale del loro mandato da ormai oltre un anno e ancora non risulta siano stati nominati i successori.

La riorganizzazione della sanità nelle Marche

Ancora diversa è la situazione nelle Marche. Qui al momento sono commissariate le 5 aziende sanitarie, mentre l’unica azienda ospedaliera ha un vertice aziendale nominato in via ordinaria.

D’altronde l’azienda ospedaliera è anche l’unico tra gli enti sanitari regionali a essere rimasto operativo dopo la riforma del sistema sanitario regionale (Lr 19/2022). In precedenza infatti la struttura sanitaria era suddivisa in tre enti: l’azienda ospedaliero universitaria di Ancona (tuttora attiva), l’azienda ospedaliera ospedali riuniti Marche nord e l’azienda sanitaria unica regionale (Asur Marche).

Nelle Marche sono state create 5 nuove aziende sanitarie che per la prima fase avranno una gestione straordinaria.

La riforma ha avuto origine nella campagna elettorale del 2020 che ha portato il centro destra al governo regionale con Francesco Acquaroli (Fratelli d’Italia). Buona parte del dibattito è stato giocato proprio sul tema sanitario e sulla promessa di andare verso un modello di sanità diffusa. Proprio per questo la nuova legge ha eliminato sia l’azienda ospedaliera ospedali riuniti Marche Nord che l’azienda unica regionale, creando al loro posto 5 aziende sanitarie territoriali.

La creazione di nuovi enti è un processo complesso che richiede tempo. Per guidare questa transizione la giunta regionale ha deciso di nominare dei commissari straordinari nelle 5 le nuove strutture. La designazione dei direttori generali che dovranno riportare le aziende sanitarie a una gestione ordinaria comunque dovrebbe avvenire entro la fine del mese (Dgr 519/2023).

I dati presentati sono il risultato di un’analisi basata sul monitoraggio dei siti delle Asl e delle Ao. Le informazioni dunque sono quelle presenti sui siti istituzionali. Tuttavia, in alcuni casi, i siti potrebbero non essere aggiornati, non risultare attivi o presentare informazioni disomogenee in pagine differenti.

Foto: Miguel Ausejo (Unsplash)

 

Apertura cancello nel muro di recinzione: quando è possibile

Apertura cancello nel muro di recinzione: quando è possibile

Non sempre è possibile l’apertura di un cancello pedonale nel muro di recinzione che separava il giardino di un condomino dal cortile.
riferimenti normativi: art 1102 c.c.
precedenti giurisprudenziali: Trib. Bari, Sentenza del 09/07/2015
Volume per approfondire: Manuale operativo del condominio

Corte d’Appello di Roma –sez. III civ.- sentenza n. 2384 del 31-03-2023

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1. La vicenda

Un condomino, proprietario dell’appartamento al piano terra di un caseggiato, richiedeva ai condomini di poter aprire un varco nel muro che separava il suo giardino dal cortile condominiale per installare un cancello. L’assemblea, però, con apposita delibera, esprimeva parere contrario all’apertura di detto cancello. Il condomino conveniva in giudizio il condominio perché venisse accertato e dichiarato il diritto ad aprire, a sue esclusive spese, nel muro di recinzione che separava il proprio giardino dal cortile condominiale, un cancello pedonale largo circa cm.80 sulla sinistra della vasca presente nel cortile. Il Tribunale dava ragione all’attore. Lo stesso giudice, quindi, accertava e dichiarava, ex art. 1102 c.c., il diritto dell’attore di aprire nel muro di recinzione il detto cancello pedonale, con divieto di alterare e/o modificare l’aiuola rialzata e la vasca ornamentale così come posizionati nel vialetto condominiale; in ogni caso annullava la delibera condominiale che aveva espresso parere contrario all’apertura del cancello pedonale per violazione dell’art. 1102 c.c.
Il condomino proponeva appello chiedendo la riforma della sentenza gravata poiché il Tribunale pur avendo autorizzato l’apertura del cancello pedonale, non aveva disposto l’arretramento dell’aiuola rialzata, posizionata sul lato sinistro del cortile condominiale, rendendosi così, di fatto, impossibile il passaggio.
Si costituiva il condominio chiedendo il rigetto dell’appello principale e la riforma della sentenza di primo grado e formulando appello incidentale in merito alla concessa autorizzazione all’apertura di un varco di passaggio nel cortile condominiale per alterazione del decoro architettonico.

3. La soluzione

La Corte di Appello ha dato torto al condomino. La Corte ha osservato che l’apertura di un varco d’accesso nell’area condominiale, può essere autorizzato a patto che non alteri la destinazione delle parti comuni, non impedisca ad altri di farne pari uso, ex art. 1102 c.c., e rispetti il decoro architettonico e la stabilità del fabbricato. Gli stessi giudici di secondo grado hanno perciò accolto l’appello incidentale, ritenendo impossibile la realizzazione del varco d’accesso senza l’arretramento di circa un metro della aiuola condominiale, con conseguente alterazione del decoro architettonico. La Corte ha condannato la parte appellante principale, risultata soccombente, al pagamento delle spese del doppio grado a favore della parte appellata condominio, appellante incidentale.

4. Le riflessioni conclusive

Nel caso esaminato, non è stato ritenuto realizzabile il varco d’accesso senza l’arretramento di circa un metro della aiuola condominiale e vasca ornamentale del cortile. Tali modifiche, se realizzate, avrebbero senz’altro alterato il decoro architettonico dell’edificio. Come è noto però, in base all’art. 1102 c.c., ciascun condomino può trarre dalla cosa comune un’utilità maggiore e più intensa di quella che ne venga tratta dagli altri comproprietari, a condizione che ciò non comprometta il diritto al pari uso da parte dei medesimi e si rispettino ulteriori due parametri: la salvaguardia della stabilità e della sicurezza dell’edificio, l’assenza di alterazioni del decoro architettonico. Le modificazioni di un bene condominiale per iniziativa del singolo condomino sono lecite nelle sole ipotesi in cui esse, oltre a non comprometterne la stabilità, la sicurezza ed il decoro architettonico, ed a non alterare la destinazione del bene, non siano lesive dei diritti degli altri condomini relativi al godimento sia delle parti comuni interessate alla modificazione, sia delle parti di loro proprietà. Più in particolare, il condomino, nel caso in cui il cortile comune sia munito di recinzione che lo separi dalla sua proprietà esclusiva, può, ad esempio, apportare a tale recinzione, pur essa condominiale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modifiche che gli consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini e, quindi, procedere anche all’apertura di un varco di accesso dal cortile condominiale alla sua proprietà esclusiva, purché tale varco non impedisca agli altri condomini di continuare ad utilizzare il cortile, come in precedenza (Cass. civ., sez. II, 05/01/2000, n. 42). Costituisce però innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio.
La relativa valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi di motivazione (Cass. civ., Sez. II, 11/05/2011, n. 10350).

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Soft spam e base giuridica marketing: pronuncia Cassazione

Soft spam e base giuridica marketing: pronuncia Cassazione

Con un’importante e recente sentenza, la n. 7555 del 15 marzo 2023, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione si è pronunciata sul cosiddetto “soft spam” (pratica di marketing molto utilizzata sul mercato, per cui la base giuridica del trattamento dei dati non è, come di consueto, il consenso dell’interessato, ma il legittimo interesse del Titolare, in un’interpretazione a volte un po’ troppo estensiva dell’art. 130 del codice privacy).
In questo articolo, i cyberavvocati Luisa Di Giacomo e Marina Mirabella approfondiscono il tema del soft spam e commentano il principio di diritto sancito dalla Cassazione, secondo cui “Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 130, comma 4, va interpretato nel senso che non è necessario il consenso dell’interessato se il titolare del trattamento utilizza, ai fini della a vendita diretta di propri prodotti o servizi le coordinate di posta elettronica fornite dal medesimo nel contesto della vendita, sempre che si tratti di servizi analoghi a quelli oggetto della vendita e l’interessato, adeguatamente informato, non rifiuti tale uso, inizialmente o in occasione di successive comunicazioni.
Deve essere richiesto il consenso, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 130, comma 1 e 2, nell’ipotesi in cui l’interessato abbia solamente effettuato la registrazione sul sito web, abbia concluso un contratto di prova o comunque abbia concluso un contratto a titolo gratuito con il titolare del trattamento”.

Volume per approfondire: I ricorsi al Garante della privacy -I diritti, i doveri e le sanzioni

1. I fatti di causa: il provvedimento 276/2015 del Garante privacy

La vicenda nasce in epoca pre-GDPR, quanto il Garante per la Protezione dei dati personali, con il provvedimento n. 276 del 7 maggio 2015 ha sanzionato per 20.000 euro una società, titolare di un sito web, che offriva il servizio di comparazione di preventivi, per avere trattato dati personali a scopo di marketing acquisendo un consenso obbligatorio e indistinto rispetto alla pluralità di finalità del trattamento indicate nell’informativa resa agli interessati, in violazione di quanto disposto dall´art. 23 del Codice Privacy (il d. lgs. 196/2003).
In particolare, il titolare del trattamento aveva trattato, senza consenso, i dati personali di un cliente, che si era registrato sul sito internet della società, solo per “provarlo”, senza stipulare alcun contratto di vendita di un bene o di un servizio.
Per la raccolta di dati personali, effettuata tramite un form di contatto, infatti, la società aveva reso un’informativa ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, recante la finalità ulteriore del trattamento di mailing marketing con la precisazione della natura facoltativa del conferimento dei dati per detta finalità. A fronte di questa informativa, tuttavia, la manifestazione del consenso derivante dalle procedure di registrazione, oltre ad essere obbligatoria, era indistinta rispetto alla pluralità di finalità del trattamento indicate: consenso in sostanza “estorto” agli interessati, mancante di tutte le caratteristiche che (allora come ora) sono invece obbligatorie per la sua legittimità e dunque integrante un illecito trattamento, in violazione del  principio di “libertà” del consenso previsto dall’art. 23, comma 3 del Codice.
 

2. L’ opposizione alla sanzione amministrativa

Avverso l’ordinanza ingiunzione emessa dal Garante per la protezione dei dati personali, la società ha proposto opposizione innanzi all’autorità giudiziaria, opposizione che ha visto il Tribunale del tutto allineato con il Garante.
Il Tribunale, infatti, non ha ritenuto applicabile l’art. 130 del codice privacy (che appunto disciplina il marketing basato sul legittimo interesse del titolare, cui la società aveva fatto riferimento nelle proprie difese), e la società ha presentato ricorso per la cassazione della sentenza del Tribunale.
Il ricorso in Cassazione si è basato su un unico motivo, ovvero l’errata interpretazione dell’art. 130 del d. lgs. 196/2003.
Secondo il Tribunale, infatti, sussisterebbe un obbligo di acquisizione del consenso al trattamento dei dati per finalità commerciali, ogniqualvolta si utilizzi un sistema automatizzato per l’invio delle comunicazioni di marketing, mentre secondo la società ricorrente l’art. 130, comma 4, derogherebbe al sistema del preventivo consenso dell’interessato (c.d. “opt in”), nell’ipotesi in cui sia “i clienti a pagamento” che i “clienti non paganti” abbiano di fatto concluso un contratto con la società. La citata norma, nel prevedere che non sia necessario il consenso al trattamento dei dati se il titolare del trattamento utilizzasse le coordinate di posta elettronica fornite dall’interessato nel contesto della vendita di un prodotto o di un servizio, sarebbe applicabile, a parere della s.r.l., anche ai clienti che avevano effettuato la registrazione per provare il servizio, senza però concludere alcun contratto.
La società ricorrente ha poi evidenziato come il trattamento fosse avvenuto «nell’ambito del soddisfacimento di una richiesta di utenti che si erano registrati sul sito ed avevano richiesto di usufruire del servizio di comparazione dei preventivi, oppure di utenti interessati all’instaurazione del rapporto contrattuale, al quale erano state inviate e-mail volte a commercializzare il prodotto.
La deroga prevista dal D.lgs. n. 196 del 2003, art. 130, si estenderebbe, quindi, secondo la prospettiva della ricorrente «a tutti i soggetti che, a titolo gratuito o oneroso, siano destinatari del servizio offerto, sempre che le e-mail mandate all’indirizzo fornito in sede di registrazione riguardi prodotti analoghi a quelli già offerti ai clienti.
In particolare, la società ha evidenziato come la stessa per il trattamento dei dati abbia
–          fornito un’adeguata informativa sia nella comunicazione iniziale sia in quelle successive, al fine di renderlo edotto circa la possibilità di opporsi in ogni momento alla ricezione delle comunicazioni;
–          utilizzato esclusivamente le coordinate di posta elettronica dell’interessato, fornite nell’ambito di un precedente rapporto contrattuale tra titolare e interessato – da inquadrarsi nel “contratto di prova del servizio” – e con finalità di vendita di beni o servizi analoghi a quelli del precedente rapporto contrattuale.

3. La decisione della Corte: il rigetto del ricorso

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la decisione del Garante e del Tribunale.
L’art. 130 del Codice Privacy, infatti, disciplina le cd. comunicazioni indesiderate prevedendo in generale, al comma 1, che “l’uso di sistemi automatizzati di chiamata o di comunicazione di chiamata senza l’intervento di un operatore per l’invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale è consentito con il consenso del contraente o utente”.
La norma, quindi, richiede il consenso «non solo per l’invio di materiale o per la vendita diretta, ma anche e più semplicemente per l’invio di generiche “comunicazioni commerciali”» sostiene la Corte.
Ma «ove il consenso sia richiesto per successive attività commerciali o promozionali si è già in presenza di una “comunicazione commerciale”».
Inoltre, l’art. 130, specifica, al comma 2, che “la disposizione (..) si applica anche alle comunicazioni elettroniche, effettuate per le finalità ivi indicate, mediante posta elettronica, telefax, messaggi del tipo Mms (Multimedia Messaging Service) o Sms (Short Message Service) o di altro tipo”.
La disciplina nazionale – ricorda la Suprema Corte – costituisce attuazione della Direttiva “e-privacy” 2002/58/CE, la cui finalità è quella di evitare l’utilizzo surrettizio di mezzi rivolti all’attività di marketing nonostante la mancanza di consensi esplicitamente, e anteriormente, non rilasciati dai soggetti interessati. I punti 40 e 41 del Considerando della Direttiva evidenziano la necessità di tutelare gli abbonati da interferenze nella loro vita privata mediante comunicazioni indesiderate a scopo di commercializzazione diretta, in particolare mediante dispositivi automatici di chiamata, telefax o posta elettronica, compresi i messaggi SMS.
Il Codice Privacy riproduce fedelmente l’art. 13 della Direttiva secondo la quale “l’uso di sistemi automatizzati di chiamata senza intervento di un operatore (dispositivi automatici di chiamata), del telefax o della posta elettronica a fini di commercializzazione diretta è consentito soltanto nei confronti degli abbonati che abbiano espresso preliminarmente il loro consenso”.
Chiarito questo la Cassazione ha sottolineato come la giurisprudenza stessa abbia chiarito nei suoi precedenti arresti che ogni consenso in questa materia è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento a un trattamento chiaramente individuato.
L’ art. 130, comma 1, pone quindi una regola di ordine generale, in ragione della quale «il previo consenso del contraente o utente (c.d. “opt in”) risulta indispensabile per l’invio da parte del titolare di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale mediante l’uso di sistemi automatizzati».
Il comma 4 individua un’eccezione rispetto alla regola generale e riguarda l’ipotesi in cui il titolare del trattamento abbia ottenuto gli indirizzi di posta elettronica nel contesto della vendita di un prodotto. In tal caso, potrebbe utilizzare queste coordinate a scopi di commercializzazione diretta di propri analoghi prodotti o servizi, qualora il cliente non abbia rifiutato inizialmente tale uso (c.d. “opt out”) e a condizione che, al momento della raccolta degli indirizzi di posta elettronica, agli interessati sia offerta in modo chiaro e distinto e in ogni messaggio la possibilità di opporsi, gratuitamente e in maniera agevole.
Dal dato testuale, secondo la Corte, è emerso come la tesi della ricorrente sia fallace: l’utilizzo dei dati personali per la commercializzazione dei prodotti non richiede il consenso dell’interessato solo se acquisito “nel contesto della vendita di un prodotto o di un servizio”, escludendo tutte le altre ipotesi in cui l’acquisizione dei dati personali avvenga in modo e per finalità diverse.
Il termine “vendita” richiede che tra il titolare del trattamento ed il destinatario delle comunicazioni si sia stabilito un rapporto contrattuale a titolo oneroso nel corso del quale il compratore ha espresso il consenso alla ricezione del materiale pubblicitario.
La norma, infatti, richiede che l’invio di materiale pubblicitario riguardi servizi analoghi a quelli oggetto della vendita e non comunicazioni di altra natura: non è consentito, quindi, inviare, ad esempio comunicazioni commerciali di beni elettronici laddove la vendita abbia avuto ad oggetto capi di abbigliamento, sottolinea la Corte.
Deve poi essere prevista la possibilità di opporsi, gratuitamente e in maniera agevole, all’uso degli indirizzi di posta elettronica (c.d. “opt out”) e questo al fine di tutelare l’interessato.
Il Tribunale, quindi, secondo la Suprema Corte, ha fatto corretta applicazione della norma citata in quanto:
1)       in primo luogo, il form di raccolta dati era privo del consenso prestato per il trattamento di mailing marketing, in contrasto con il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 23, comma 3, che prevede l’obbligo di prestare il consenso per un trattamento chiaramente individuato;
2)      Inoltre, le coordinate di posta elettronica fornite dall’interessato non si inserivano in un contesto di vendita del servizio ma riguardavano clienti che avevano effettuato la prova del servizio, senza concludere alcun contratto con la ricorrente.
Ne è conseguito che, correttamente, il Tribunale ha ravvisato un obbligo di acquisizione del consenso al trattamento dei dati per finalità commerciali ogniqualvolta si utilizzi un sistema automatizzato per l’invio delle comunicazioni di marketing.
La deroga prevista dal comma 4 dell’art. 130 del Codice Privacy, nel prevedere che non sia necessario il consenso al trattamento dei dati se il titolare del trattamento utilizza le coordinate di posta elettronica fornite dall’interessato nel contesto della vendita di un prodotto o di un servizio, non può essere quindi applicata ai clienti che avevano effettuato la registrazione per provare il servizio, senza concludere alcun contratto.
Al contrario si applica solo ai “clienti paganti“, ovvero i clienti che abbiano concluso un contratto di vendita e, in tale contesto abbiano autorizzato la società all’utilizzo delle coordinate di posta elettronica ai fini della vendita diretta mentre, come detto, non rientrano in tale regime derogatorio i “clienti non paganti”, ovvero coloro che si siano solamente registrati o abbiano effettuato una prova del servizio.
L’interesse al servizio manifestato registrandosi sul sito non estende la deroga prevista dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 130, che rimane circoscritta solamente nell’ipotesi in cui vi sia stato un rapporto contrattuale di vendita del bene o del servizio e, in tale occasione, sia stato espresso il consenso all’invio di mailing marketing.
Di conseguenza, in assenza del consenso regolarmente acquisito “a monte”, il fatto che le comunicazioni inviate contenessero “a valle” l’informazione relativa alla possibilità di disattivazione del servizio, non rileva.

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Giunto alla seconda edizione, il volume affronta la disciplina relativa alla tutela dei diritti del titolare dei dati personali, alla luce delle recenti pronunce del Garante della privacy, nonché delle esigenze che nel tempo sono maturate e continuano a maturare, specialmente in ragione dell’utilizzo sempre maggiore della rete. L’opera si completa con una parte di formulario, disponibile online, contenente gli schemi degli atti da redigere per approntare la tutela dei diritti dinanzi all’Autorità competente. Un approfondimento è dedicato alle sanzioni del Garante, che stanno trovando in queste settimane le prime applicazioni, a seguito dell’entrata in vigore della nuova normativa. Michele Iaselli Avvocato, funzionario del Ministero della Difesa, docente a contratto di informatica giuridica all’Università di Cassino e collaboratore della cattedra di informatica giuridica alla LUISS ed alla Federico II, nonché Presidente dell’Associazione Nazionale per la Difesa della Privacy (ANDIP). Relatore in numerosi convegni, ha pubblicato diverse monografie e contribuito ad opere collettanee in materia di privacy, informatica giuridica e diritto dell’informatica con le principali case editrici.

 

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Separazione e divorzio: la prima sentenza che applica la riforma Cartabia

Separazione e divorzio: la prima sentenza che applica la riforma Cartabia

L’obiettivo della riforma Cartabia in materia di famiglia è l’accelerazione dei tempi della giustizia civile, anche in materia di separazione e divorzio.
Secondo gli addetti ai lavori siamo di fronte a una riforma epocale.
Si avrà un unico rito per ogni procedimento in materia di famiglia.
In relazione alla separazione e al divorzio, potrà essere redatta una domanda in contemporanea e un “piano genitoriale” utile al giudice per modulare visite e collocamento dei figli minorenni.
Sono alcune delle principali modifiche contenute nella Riforma Cartabia in materia di famiglia, che entreranno in vigore a fine febbraio, prima rispetto ai tempi stimati, che parlavano di fine giugno, e verranno applicate alle relative cause a partire dall’1 marzo, in vista dell’introduzione, nell’ottobre 2024, del Tribunale della famiglia, istituito “ad hoc” per questo genere di procedimenti.
Le norme sono tra quelle contenute nella legge delega sul processo civile del precedente Governo, della quale, lo scorso ottobre, è stato approvato il decreto legislativo di attuazione.
La legge di Bilancio successivamente disposto l’anticipazione dell’entrata in vigore della maggior parte delle disposizioni previste dalla riforma, la quale architettura ruota intorno agli impegni assunti con l’Europa nel Pnrr.
L’obiettivo è arrivare a ridurre del 40% i tempi della giustizia civile.
Per approfondire l’argomento, consigliamo i volumi: Come cambia il Diritto di Famiglia dopo la Riforma Cartabia e Codice della Famiglia e dei Minori 2023 e legislazione speciale

1. In che cosa consisterà il rito unico

Un unico rito, con il quale si supera la frammentazione vigente sino adesso, applicabile ai procedimenti relativi a famiglie e minorenni di competenza del Tribunale ordinario, del Tribunale per i minorenni e del Giudice Tutelare, esclusi i procedimenti per le dichiarazioni di adottabilità, quelli sulle adozioni di minorenni e quelli di competenza delle sezioni specializzate sull’immigrazione.

2. La domanda di separazione e divorzio in contemporanea 

Con le norme che entreranno in vigore, si potrà proporre in contemporanea la domanda di separazione giudiziale e di divorzio contenzioso, oppure, le stesse potranno essere riunite in un unico procedimento.
In relazione alla procedibilità della domanda di divorzio è richiesto un doppio requisito, vale a dire, il passaggio in giudicato della sentenza parziale di separazione e la cessazione ininterrotta della convivenza
Con l’eliminazione dell’Udienza Presidenziale, la causa non dovrà più avere due fasi, la prima comparizione davanti al Presidente e, successivamente davanti al Giudice Istruttore.
I procedimenti di separazione e divorzio contenziosi verranno caratterizzati da determinati atti introduttivi che conterranno l’allegazione completa dei fatti e dei mezzi di prova.
Nel ricorso dovranno essere contenuti documenti e mezzi di prova, la chiara e sintetica esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali viene fondato il ricorso.

4. Il prevalere dell’interesse dei minorenni

La Riforma rafforza la centralità dell’interesse prevalente del minorenne come da tempo sancito  da parte della giurisprudenza in materia.
Il metodo di competenza territoriale prevalente sulle cause di famiglia è quello della residenza abituale del minorenne, che corrisponde al luogo nel quale di fatto si trova il centro della sua vita.
In mancanza di figli minorenni la competenza spetta al Tribunale del luogo di residenza del convenuto.
La stessa Riforma prevede la presentazione, davanti al Giudice, di un piano genitoriale che contenga gli impegni e le attività quotidiane dei minorenni, relative alla scuola, al percorso educativo, alle eventuali attività extrascolastiche, alle frequentazioni  di parenti e amici.
Un piano che possa essere per il Magistrato la base dalla quale partire nel decidere su affidocollocamento diritto di visita.  

5. Il Tribunale della famiglia

La Riforma istituisce il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie.
Tribunali circondariali e, come organo centrale, un Tribunale distrettuale.
I Tribunali per i minorenni non verranno soppressi, ma trasformati in queste altre articolazioni, con la finalità di valorizzare le loro specializzazioni.
Questa parte della riforma entrerà in vigore nell’ottobre 2024.  

6. La Riforma e i suoi caratteri epocali

Una Riforma epocale del diritto di famiglia, con altre norme che di sicuro dovranno essere le benvenute.
L’impatto che avrà si dovrà misurare in relazione anche ai mezzi e alle risorse nella disponibilità degli uffici e, soprattutto alla formazione, anche congiunta, degli operatori del settore.
Lo ha rilevato, come riporta l’Agenzia di Stampa Agi, parlando della Riforma Cartabial’avvocato Daniela Giraudo, che coordina la Commissione Interna al Consiglio Nazionale Forense dedicata al diritto di famiglia, materia della quale, si è occupata in modo prevalente, in 30 anni di carriera e, in particolare, delle norme contenute nella legge delega sul processo civile e nel decreto di attuazione varato lo scorso autunno. 
L’avvocato ha dichiarato:
Abbiamo detto fin dall’inizio che l’introduzione di un rito unico per tutte le cause che riguardano la famiglia è il benvenuto, una cosa positiva soprattutto per il cittadino che si rivolge alla giustizia. Certo, l’anticipazione dei tempi ha un po’ spiazzato gli avvocati, ci troviamo di fronte a un cambiamento complessivo, non ad aggiustamenti quali quelli che avevamo visto in passato che mette al centro delle novità anche il cosiddetto “piano genitoriale”, una “fotografia utile” con l’obiettivo di “offrire al magistrato un quadro completo della situazione, mettendo al centro, in assoluto, l’interesse prevalente del minorenne
La scansione del processo può portare a procedimenti più veloci, anche se una riforma di qualunque tipo deve fare i conti con i mezzi e le risorse disponibili.
Il nodo centrale della formazione in futuro non può che essere il passaggio a una formazione congiunta di tutti gli operatori, da magistrati e avvocati, a psicologi e assistenti sociali.
Per dare alle famiglie una struttura davvero performante ciascun operatore deve conoscere le difficoltà che può incontrare l’altro nel proprio lavoro”.

7. A Milano la prima sentenza in linea con la Riforma

Il Tribunale di Milano ha applicato per la prima volta la Riforma Cartabia con una sentenza depositata il 9 maggio scorso, pronunciando la separazione consensuale tra due coniugi che, attraverso lo stesso ricorso, hanno chiesto che venisse pronunciato anche il divorzio.
La legge prevede ancora che tra la separazione consensuale e il divorzio debbano passare almeno sei mesi e, in relazione a questo, il Tribunale, dopo avere provveduto a pronunciare la separazione, ha chiesto ai coniugi di comunicare, tra sei mesi la loro volontà a non riconciliarsi, in modo che lo stessopossa pronunciare il divorzio senza che sia necessario un altro ricorso.
L’applicazione delle regole stabilite dalla Riforma Cartabia in materia di separazione divorzio, permetterà ai coniugi di risparmiare in modo notevole, potendo depositare in Tribunale un unico ricorso anziché due, come si doveva fare in precedenza.
Si avrà anche un risparmio da parte dei Tribunali in relazione a risorse ed energie, dovendo gestire un unico fascicolo, e si avrà anche un più importante effetto, legato a un argomento oggetto di dibattiti da diverso tempo, vale a dire, quello della validità dei patti in vista del divorzio.
Prima che si arrivasse alla Riforma Cartabia, la Suprema Corte di Cassazione affermava la nullità degli accordi stipulati tra i coniugi per disciplinare il loro divorzio futuro, vale a dire, gli accordi stipulati prima del ricorso per divorzio depositato in Tribunale.
Questa giurisprudenza non era rivolta esclusivamente ai patti prematrimoniali, conosciuti in molti altri Stati, e in particolare negli Stati Uniti, ma veniva applicata anche agli accordi raggiunti con la separazione in vista del divorzio, da pronunciarsi dopo sei mesi.
Un orientamento restrittivo che impediva ai coniugi di raggiungere, al momento della loro separazione, un accordo vincolante anche dopo il futuro divorzio.
Con la recente sentenza, il Tribunale di Milano, grazie alle norme entrate in vigore l’1 marzo scorso, ha risolto la questione.
Attraverso il ricorso unico per separazione e divorzio, i coniugi potranno formalizzare il loro accordo sia per il periodo della separazione, sia per quello successivo al divorzio.
Il Tribunale ha evidenziato che uno dei coniugi, durante i sei mesi che devono passare prima che venga pronunciato il divorzio, potrà comunicare di non essere più disponibile all’accettazione delle condizioni concordate in precedenza, se dovesse avvenire qualcosa che possa rendere iniquo l’accordo accettato al momento della separazione in vista del divorzio.
Questo renderà molto più facile raggiungere gli accordi per la soluzione del conflitto coniugale al momento della separazione, con effetto di deflazione sul contenzioso che grava sui Tribunali italiani e sulle famiglie, modificando alcuni aspetti del diritto di famiglia.

Tribunale di Milano -sez. IX civ.- sentenza n. 11972 del 28-04-2023

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Sant’ Ubaldo di Gubbio

 

Sant’ Ubaldo di Gubbio


Nome: Sant’ Ubaldo di Gubbio
Titolo: Vescovo
Ricorrenza: 16 maggio
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Ubaldo nacque a Gubbio intorno al 1085. Orfano di entrambi i genitori, venne educato da uno zio molto religioso, il quale tuttavia ostacolò il suo progetto, manifestato quando aveva quindici anni, di ritirarsi a vita solitaria; gli consentì, però, di associarsi ai canonici di San Secondo.

Ordinato nel 1114 sacerdote dal vescovo Giovanni, Ubaldo intraprese r opera di riforma della chiesa ritirandosi, come già aveva fatto san Pier Damiani, nel monastero di Fonte Avellana. A Gubbio fece ritorno nel 1129 per reggere come vescovo la diocesi su preciso ordine dello stesso papa Onorio II.

Gubbio era allora una città piuttosto inquieta, divisa da feroci discordie che contrapponevano fazione a fazione, casato a casato. E sulle strade cittadine spesso correva il sangue. 11 vescovo Ubaldo si offrì a fare da paciere e un giorno mise a repentaglio la propria vita nel tentativo di sedare una delle tante violente sommosse. Si era gettato tra i contendenti supplicandoli di desistere, ma era stato travolto. Solo quando gli eugubini si accorsero d’averlo lasciato malconcio sul terreno, posero fine alla rissa, preoccupati della sorte del loro vescovo e pentiti della loro insensatezza. Da quel giorno gli animi si calmarono. Ubaldo, amato dal popolo perché era sempre pronto a difenderlo dall’arroganza dei potenti, resse la città per oltre trent’anni, salvandola dalla distruzione minacciata da Federico Barbarossa.

Come papa Leone aveva fatto con Attila, il vescovo Ubaldo andò incontro all’imperatore, armato solo della forza della fede e del prestigio della sua dignità episcopale. Barbaross, colpito da tanto coraggio, mutò proposito e risparmiò la città.

Ubaldo morì il 16 maggio 1160. Trent’anni dopo sull’onda della sincera venerazione tributata degli eugubini al loro santo vescovo eletto anche a patrono della città. Ubaldo venne incluso nell’albo dei santi.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Gubbio in Umbria, sant’Ubaldo, vescovo, che si adoperò per il rinnovamento della vita comunitaria del clero.