Archivi giornalieri: 1 maggio 2023

Cinema

Cinema. Casula: ecco i film che hanno raccontato il Novecento

 
Poliedrico, sfaccettato, multiforme. Inafferrabile con le parole, destinate a coglierne solo frammenti, incapaci di ingabbiarlo in una definizione univoca. È il secolo delle antinomie, il Novecento. E perfino questa enunciazione non è che un rimando alle sue molteplici chiavi interpretative. Ci si può concentrare sulle guerre feroci – con un bilancio al ribasso di cento milioni di morti – che l’hanno dilaniato, sui totalitarismi e i troppi genocidi. O, per contro, si può sottolineare come, nel corso del suo svolgimento, si siano create le condizioni materiali e ideali per inedite potenzialità di benessere e libertà. Come sintetizzare una simile complessità senza mutilarla? Aiutandosi con la macchina da presa è la proposta contenuta nel saggio Insegnare il Novecento. Chiavi di lettura e casi studio con percorsi di storia e cinema di Carlo Felice Casula, appena pubblicato dall’Editoriale Anicia (pagine 336, pagine 22,00). Il cinema, con la sua potenza evocativa, è uno strumento imprescindibile per narrare questo momento così intenso della storia umana. «È l’occhio sul e del Novecento: finestra su ciò che è accaduto ma anche specchio delle sue tensioni. Un film consente una sorta di “doppio tuffo nel passato”: lo spettatore si immerge nella storia raccontata ma anche in quella di quanti – perché è una colossale opera collettiva – la raccontano, nella prospettiva culturale loro e del loro tempo. Lo straordinario Bronte. Cronaca di un massacro di Florestano Vancini narra certo il Risorgimento. Ma anche il post Sessantotto, periodo in cui è stato realizzato, e potrebbe essere incluso in un ciclo di proiezioni sulla “contestazione”, a fianco di Fragole e sangue». Partendo da questa convinzione, Casula, storico dell’Università di Roma Tre, propone un percorso per immagini – in movimento – per trasmettere la memoria del secolo appena trascorso. Un atto «necessario e doveroso per avere conoscenza e coscienza del tempo presente e anche per poter acquisire una matura e consapevole educazione alla cittadinanza planetaria, democratica e solidale», scrive. Professore, quasi cent’anni fa David Wark Griffith, uno dei padri fondatori del cinema, aveva vaticinato la sostituzione dei libri di storia con i film. Questo non si è avverato. I giovanissimi, però, conoscono molti fatti del passato più perché li hanno visti al cinema o alla tv che per averli studiati. «È segno della potenza descrittivo-evocativa del cinema, in grado di toccare anche la parte emotiva dell’essere umano. Attraverso il film la conoscenza della storia avviene in modo quasi naturale: il pubblico interiorizza i fatti ma anche le varie interpretazioni di questi in modo inconsapevole e, per questo, più efficace». È meglio il film di un documentario per raccontare la storia? «La distinzione è più terminologica che sostanziale. Il film è sempre un documento per comprendere il periodo storico in cui è stato girato. E il documentario non è mai indipendente da quest’ultimo. Entrambi hanno una natura duplice: sono oggetto di indagine storica – in quanto prodotto di un’epoca e delle sue contraddizioni – e soggetto di trasmissione di conoscenza storica». Perché il cinema è così rilevante per narrare proprio il Novecento? «Per la complessità di questo secolo. Breve, secondo la fortunata definizione di Eric Hobsbawn, che lo fa iniziare nel primo dopoguerra e terminare con il crollo del Muro di Berlino. Eppure straordinariamente intenso. Prendiamo uno fra i più stridenti paradossi novecenteschi, quello fra guerra e pace. Il secolo appena trascorso ha assistito a due conflitti mondiali oltre a una pluralità di guerre diverse per tipo e gradi di ferocia. Eppure, al contempo, ha visto affermarsi l’idea di pace, non più utopia ma sensibilità diffusa, fondamento costituzionale e progetto concreto di un’organizzazione internazionale: prima la Società delle Nazioni, poi l’Onu. Lo stesso vale per l’antinomia tra libertà – sostanziata nel progressivo riconoscimento dei diritti umani, inclusi quelli sociali – e oppressione, fino all’estremo del totalitarismo». Se dovesse raccontare queste antinomie attraverso il cinema, quali film sceglierebbe? «Posto che un solo film non può racchiudere il Novecento in tutta la sua complessità, vi sono alcuni titoli in grado di penetrare le pieghe del secolo con particolare profondità. Penso a Tempi moderni di Charlie Chaplin e Metropolis di Fritz Lang. Alcune pellicole, inoltre, sono straordinarie “lezioni di storia” su alcuni grandi fatti che hanno segnato il secolo. Come La grande illusione di Jean Renoir, sulla Prima guerra mondiale, o Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl sul nazismo. Come raccontare in modo più efficace la Rivoluzione d’ottobre in Russia di Ejzenštejn in Ottobre? O rendere l’incubo di un’apocalisse nucleare meglio di Stanley Kubrick in Il dottor Stranamore? Ci sono, poi, dei film che, pur concentrandosi su un tema specifico, sono cartine di tornasole delle grandi inquietudini novecentesche. Ad esempio, Bread and Roses di Ken Loach, in cui il racconto del sogno-incubo americano dell’indocumentada Maya affronta anche la questione della precarietà del lavoro, della migrazione, della lotta per la propria dignità e i propri diritti. Tutti nodi centrali degli ultimi decenni del secolo. Guardando fuori dagli Usa o dall’Europa, bisogna ricordare Le biciclette di Pechino di Wang Xiaoshuai, Invictus di Clint Eastwood, Vai e vivrai di Radu Mihaileanu, City of God di Fernando Meirelles. Il filo rosso che unisce questi titoli è l’aprire una finestra sui nuovi protagonisti della contemporaneità, dalla Cina al Brasile, mostrandoci la complessità della storia in cui siamo immersi. Nello straordinario Train de vie, sempre di Mihaileanu, infine, la Shoah viene presentata in chiave poeticosurreale. Il gruppo di ebrei in fuga dalla Romania e capaci di inscenare una finta deportazione è, però, una metafora straordinaria degli incubi che hanno marchiato il Novecento. Ma anche delle speranze di questo secolo e del nuovo millennio».
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San Giuseppe

 

San Giuseppe


Nome: San Giuseppe
Titolo: Lavoratore
Ricorrenza: 1 maggio
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Nel Vangelo S. Giuseppe viene chiamato fabbro. Quando i Nazaretani udirono Gesù insegnare nella loro sinagoga, dissero di lui: « Non è Egli il figlio del legnaiuolo? ». E altra volta con stupore e disprezzo: « Non è costui il falegname? ».

Nessun dubbio quindi che S. Giuseppe non fosse un operaio vero, un lavoratore, un uomo di fatica. Si ritiene che sia stato falegname, e all’occasione anche fabbro, carpentiere, carradore. Maneggiava la pialla, la scure, la sega, il martello. Così tutti i giorni, dal mattino alla sera, per tutta la vita, faticando, sudando, consumando le forze.

Una delle raffigurazioni più frequenti del Santo Patriarca è quella in cui viene ritratto al banco con la pialla in mano e la sega accanto.

Uomo giusto, sapeva che il lavoro è legge per tutti. Non si ribellò, non si lamentò del suo mestiere, nè della fatica. Lavorò con assiduità, non di malavoglia, eseguendo bene, disimpegnando onestamente gli obblighi e i contratti.

Amò il lavoro. Nella sua umiltà non badò a tutte quelle ragioni che potevano parer buone e che avrebbero potuto indurlo a non occuparsi in cose materiali: l’essere discendente del grande Re Davide, l’essere sposo della Madre di Dio, il Padre putativo del Verbo Incarnato e la di lui guida. L’umiltà gli insegnò a conciliare la sua dignità con l’esercizio di un mestiere molto ordinario e faticoso.

Non si rammaricava di lasciare le sante conversazioni e la preghiera assieme a Gesù e Maria, che tanto consolavano ed elevavano il suo cuore, per attendere per lunghe ore ai lavori dell’officina.

Non ebbe mai la preoccupazione che gli mancasse il necessario. Non ebbe l’ansia e l’assillo di chi non ha fede in quella Provvidenza che sfama i passeri. Perciò, da uomo giusto, osservava esattamente il riposo settimanale del sabato prescritto da Dio agli Ebrei. Lasciava l’officina quando i doveri delle celebrazioni religiose glielo imponevano, o quando speciali voleri di Dio lo ispiravano a intraprendere dei viaggi.

S. Giuseppe non cercò nel lavoro il mezzo di soddisfare la cupidigia di guadagno o di ricchezza. Non fu un operaio incontentabile, pur essendo previdente. Non volle essere ricco, e non invidiò i ricchi. Sapeva essere sempre contento. Da uomo di fede trasformò la fatica quotidiana in un grande mezzo di elevazione, di merito, di esercizio di virtù.

Nutrire e crescere il Fanciullo Divino che si preparava a essere la vittima per la redenzione del mondo: questo era il motivo che rendeva sante e sommamente meritorie le fatiche di S. Giuseppe.

« Chi lo crederebbe? Un uomo acquista col sudore della sua fronte vestiario, nutrimento e sostentamento per il suo Dio! Mani consacrate, destinate a mantenere una vita così bella, quanto è glorioso il vostro ministero, e quanto mi sembra degna degli angeli la vostra sorte! Sudori veramente preziosi! » (Huguet). Col canto nel cuore e la preghiera sulle labbra, S. Giuseppe fu il più fortunato di tutti i lavoratori.

PRATICA. Stimiamo il lavoro. Lavoriamo con onestà, con diligenza, con pazienza, di buona voglia. Amiamo il lavoro. Santifichiamolo e rendiamolo meritorio vivendo abitualmente in grazia e offrendolo ogni giorno al Signore.

PREGHIERA. O Dio, Creatore delle cose, che hai stabilito la legge del lavoro al genere umano, concedici propizio che, sull’esempio e col patrocinio di S. Giuseppe, facciamo bene le opere che ci comandi e raggiungiamo il premio che prometti.

MARTIROLOGIO ROMANI. Solennità di san Giuseppe Lavoratore, Sposo della beata Vergine Maria, Confessore, Patrono dei lavoratori.