Archivi giornalieri: 13 maggio 2023

 

CRONACA

L’incontro Francesco-Zelensky: la corsa solitaria (anche in Vaticano) del Papa per la mediazione e la pace. Senza escludere la Russia

L’incontro Francesco-Zelensky: la corsa solitaria (anche in Vaticano) del Papa per la mediazione e la pace. Senza escludere la Russia

L’ultima volta che si sono guardati negli occhi era l’8 febbraio 2020. Da quel momento, per entrambi, lo scenario è profondamente cambiato. L’incontro di oggi, 13 maggio, alle 16, in Vaticano, nell’auletta dell’Aula Paolo VI, tra Papa Francesco e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, è destinato a entrare nella storia. Da quando la Russia del presidente Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, Bergoglio ha messo in cima all’agenda del suo pontificato la pace nel Paese che ha sempre definito “martoriato”. Il giorno dopo l’inizio del conflitto, con un gesto senza precedenti, Francesco si recò a sorpresa all’Ambasciata russa presso la Santa Sede, chiedendo un colloquio con Putin che per ben tre volte, il 25 novembre 2013, il 10 giugno 2015 e il 4 luglio 2019, era stato ricevuto da lui in udienza privata nei sacri palazzi. Non è sicuramente un caso che Zelensky torna in Vaticano 48 ore dopo l’udienza papale di congedo dell’ambasciatore russo presso la Santa Sede, Alexander Avdeev.

 

 
 

Se con il Cremlino i contatti, soprattutto nei primi mesi di guerra, sono stati quasi del tutto assenti, con i leader ucraini la comunicazione, sia con Francesco che con la Santa Sede, è sempre stata molto intensa. Fin da subito, il Papa ha percorso due strade parallele: una diplomatica, con l’offerta della mediazione del Vaticano per la fine del conflitto, e una umanitaria, con l’invio di due cardinali in Ucraina, Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, e Konrad Krajewski, prefetto del Dicastero per il servizio della carità, per portare aiuti concreti. Nonostante questo impegno, Bergoglio è stato accusato, anche in modo molto diretto e violento, da autorevoli esponenti cattolici ucraini di essersi speso poco e in modo inefficace per la fine del conflitto. Accuse ingiuste che hanno fatto soffrire molto il Papa che, proprio per questo motivo, ha voluto riunire tutti i suoi appelli per la pace in Ucraina e consegnarli ai capi di Stato e di governo che ha ricevuto in udienza privata in questi mesi.

Un dono che ha voluto fare, recentemente, il 27 aprile 2023, anche al primo ministro ucraino, Denys Shmyhal. Consegnandoglielo, Francesco ha spiegato: “Questo è stato scritto prima della lettera”. A cosa si riferiva il Papa? Bergoglio indicava la missiva da lui inviata al popolo ucraino a nove mesi dallo scoppio della guerra, il 25 novembre 2022. Un modo per chiarire che, già prima di quella lettera, chiesta con insistenza dai leader ucraini e redatta in Segreteria di Stato, il Papa aveva rivolto quasi quotidianamente i suoi appelli alla comunità internazionale per porre fine al conflitto. Ma non solo. Francesco ha sempre offerto all’Ucraina e alla Russia la mediazione sua personale e della Santa Sede per un trattato di pace. Un’offerta che è stata ribadita recentemente dal Pontefice proprio pochi giorni dopo l’udienza con il premier ucraino: “Anche adesso è in corso una missione, ma ancora non è pubblica, vediamo… Quando sarà pubblica ne parlerò”.

Sia Kiev che Mosca si erano subito affrettate a dichiarare di non essere a conoscenza di una missione di pace della Santa Sede. A chi era diretto il messaggio del Papa? Francesco aveva un unico destinatario in mente: la Segreteria di Stato vaticana a cui il Papa, subito dopo quelle parole pubbliche, chiese di intensificare i canali tenuti sempre aperti con i due Paesi in guerra. Bergoglio, infatti, ha ribadito ai suoi collaboratori che la Chiesa deve seguire i tempi del Vangelo, non quelli della politica o della diplomazia. Ciò perché, da quanto si era notato a Casa Santa Marta, la residenza del Papa, l’azione diplomatica vaticana aveva avuto una battuta d’arresto, causata dalla mancanza di risposte credibili alla reiterata offerta di mediazione della Santa Sede. Francesco non ha accettato la resa diplomatica, ma è sceso nuovamente in campo per mediare direttamente.

Bergoglio ha uno schema ben chiaro. Lo aveva messo in atto in Terra Santa, nel 2014, rivolgendo un invito ai presidenti palestinese e israeliano, Abu Mazen e Shimon Peres: “Offro la mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro di preghiera”. L’incontro si tenne pochi giorni dopo, ma senza portare i frutti sperati. Diverso, invece, era stato il risultato con i leader del Sud Sudan ricevuti insieme a Casa Santa Marta nel 2019. Francesco si chinò a baciare i loro piedi e ha recentemente suggellato la pace con il viaggio ecumenico nel Paese del febbraio scorso. Proprio per questo motivo, il Papa ha sempre ribadito la volontà di andare sia a Kiev che a Mosca, nello stesso viaggio, senza mai separare queste due mete. Anche questa impostazione non gli ha risparmiato dure critiche sia all’interno delle gerarchie ecclesiastiche che all’esterno. Ma è una direttiva che Bergoglio non ha alcuna intenzione di abbandonare. Lo ha dimostrato anche recentemente, tornando a rivolgere il suo pensiero “al vicino martoriato popolo ucraino e al popolo russo”.

Quello del Papa è un messaggio chiaro rivolto sia a Kiev che a Mosca perché abbiano a cuore “il desiderio di costruire la pace, di dare alle giovani generazioni un futuro di speranza, non di guerra; un avvenire pieno di culle, non di tombe; un mondo di fratelli, non di muri”. Francesco, infatti, è ben consapevole che, per essere un mediatore credibile, deve cercare di tenere aperti entrambi i canali. In molti gli hanno ripetutamente chiesto di scomunicare Putin, il che sarebbe significato abortire il ruolo di mediatore, ma anche far scoppiare una guerra religiosa tra la Chiesa di Roma e il Patriarcato di Mosca. Conflitto, quest’ultimo, che non è deflagrato unicamente per l’opera di mediazione di Francesco, a dispetto delle gravissime affermazioni del Patriarca di Mosca, Kirill, che il Papa ha più volte definito “chierichetto di Putin” perché ha sempre benedetto la guerra in Ucraina.

Con Kirill il Pontefice fu subito abbastanza duro, soprattutto quando gli lesse una lunga lista di giustificazioni dell’invasione russa: “Fratello, – lo bloccò immediatamente Francesco – la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù”. Kirill non è stato abile a smarcarsi da Putin, nonostante le indicazioni del Papa che lo avrebbe voluto come sponda per trattare la pace con il Cremlino. Ma, recentemente, anche il Patriarcato di Mosca ha compreso quanto sia indispensabile l’opera di mediazione di Bergoglio. Due giorni dopo l’udienza con il premier ucraino, il 29 aprile 2023, il Papa ha incontrato Hilarion, dal giugno 2022 metropolita ortodosso russo di Budapest e dell’Ungheria, ma precedentemente presidente del Dipartimento degli affari esterni del Patriarcato di Mosca. Con lui Bergoglio ha avuto un colloquio di venti minuti definito “cordiale” dal Vaticano. “Non solo abbiamo parlato di Cappuccetto Rosso”, ha spiegato il Papa con una battuta a chi gli chiedeva i temi del faccia a faccia, precisando “che a tutti interessa la strada della pace”. Lo stesso Hilarion, da sempre molto distante dalle posizioni guerrafondaie di Kirill, ha sottolineato che “l’incontro era di natura personale tra due vecchi amici”.

La Santa Sede, già in precedenza, ha mediato con successo con il Cremlino per lo scambio di alcuni prigionieri. Ora, questo stesso schema è stato riproposto per far tornare a casa i bambini portati con la forza in Russia. Richiesta rivolta direttamente dal premier ucraino al Papa che l’ha subito accolta. È evidente, però, che questo non basta e il primo a esserne profondamente consapevole è proprio Bergoglio che vuole ottenere rapidamente il cessate il fuoco e poi far svolgere in Vaticano le trattative di pace. In questa operazione, Francesco è consapevole di essere solo, senza un supporto concreto della comunità internazionale alla quale più volte si è appellato, parlando privatamente anche con numerosi capi di Stato e di governo. Bergoglio è sereno e fiducioso che la svolta sia finalmente alle porte. Ed è sicuro che il Vaticano sarà il protagonista.

Francesco non è un equilibrista della diplomazia, un abile affabulatore, ma è un pastore molto concreto. Per questo motivo, è consapevole che la partita non si gioca nella Segreteria di Stato, ma a Casa Santa Marta. E che l’unico regista vaticano è lui. Non ci sono ambasciatori papali, così come non ci sono consiglieri. Da più di dieci anni ormai, in Vaticano c’è una diplomazia diretta che gestisce anche la comunicazione. Il Papa sta dettando anche i tempi di tutte le azioni che sta compiendo, lungamente ponderate, a dispetto di quello che si può banalmente credere, e rese pubbliche nel momento ritenuto più opportuno. Un’azione, la sua, che ancora una volta ha registrato la distanza paradossale tra Casa Santa Marta e la Segreteria di Stato. Ma l’obiettivo, a dispetto di quello di cui molti internamente sono convinti, non è intestarsi la mediazione, bensì raggiungere unicamente la pace perché, ha spiegato il Papa, “con la guerra siamo tutti sconfitti! Anche coloro che non vi hanno preso parte e che, nell’indifferenza vigliacca, sono rimasti a guardare questo orrore senza intervenire per portare la pace”.

Non esistono più le leggi ordinarie Governo e parlamento

Non esistono più le leggi ordinarie Governo e parlamento

Dall’inizio della legislatura sono state approvate solamente 5 leggi ordinarie sulle 24 totali. L’ennesima conferma di come anche il potere legislativo sia sempre più in mano all’esecutivo che legifera a colpi di decreto.

 

Dal suo insediamento il governo Meloni ha dovuto far fronte a diverse situazioni di crisi. Dall’aumento del costo dell’energia e delle materie prime alle diverse emergenze che si sono consumate negli ultimi mesi, come la frana di Ischia e il naufragio di Cutro.

Per questo motivo, come abbiamo avuto modo di raccontare, l’attuale governo ha fatto un massiccio ricorso ai decreti legge. Sia per fronteggiare queste emergenze ma anche per dare attuazione al proprio programma. Se da un lato il ricorso alla decretazione d’urgenza può apparire giustificato, almeno nei casi citati, dall’altro questo pone un tema che non deve essere sottovalutato. E cioè la progressiva scomparsa delle leggi ordinarie.

5 su 24 le leggi ordinarie approvate dall’inizio della legislatura.

Nel confronto con gli esecutivi precedenti infatti, se si escludono le ratifiche di trattati internazionali, quello attualmente in carica presenta la percentuale più bassa di norme ordinarie approvate sul totale di quelle entrate in vigore (17,4%). Un dato ancora più rilevante se si considera che solo 4 norme approvate dall’inizio della legislatura sono di iniziativa parlamentare. Una di queste peraltro porta la firma della presidente del consiglio Giorgia Meloni.

Tale dinamica conferma ancora una volta le difficoltà del parlamento nel dettare l’agenda che, anche dal punto di vista legislativo, è sempre più saldamente in mano al governo.

La produzione normativa di governo e parlamento

Gli esecutivi svolgono quindi un ruolo sempre più centrale anche nel processo legislativo. Da un lato infatti, com’è normale che sia, hanno un potere di impulso verso i componenti della propria maggioranza nell’individuare quelle norme che devono assumere la priorità nel processo di approvazione parlamentare. Dall’altro sempre più spesso esponenti del governo sono anche autori delle proposte di legge che poi le camere sono chiamate ad approvare.

Con la pandemia l’accentramento del potere legislativo nelle mani del governo si è consolidato.

Tale dinamica peraltro, come vedremo meglio tra poco, si è ulteriormente consolidata dopo l’esplosione della pandemia. Da questo punto di vista quindi, è molto interessante valutare la capacità con cui gli esecutivi riescono a incidere sulla produzione normativa del parlamento. Sono passati ormai più di 6 mesi dall’inizio della legislatura. Non si può più parlare quindi di una coalizione di governo ancora in fase di rodaggio. Tuttavia dato che gli esecutivi delle ultime legislature hanno sempre avuto durate diverse, l’unico modo per operare un confronto omogeneo è il dato medio di leggi approvate al mese.

Da questo punto di vista un primo dato interessante riguarda il fatto che l’attuale esecutivo presenta il dato più basso in termini di produzione normativa nel confronto con i governi delle ultime 4 legislature. Dal novembre 2022 ai primi giorni di maggio 2023 infatti le leggi entrate definitivamente in vigore sono state 24, per una media di 4 al mese. Il secondo esecutivo meno performante da questo punto di vista è il Conte I con una media di 4,6 nuove norme al mese.

Al primo posto troviamo invece il governo Renzi (7,91) seguito dagli esecutivi Draghi (7,3) e Monti (7,12).

La tipologia di leggi approvate

Oltre al dato della produzione normativa, che evidenzia comunque un primo aspetto da non trascurare, un altro tema particolarmente rilevante riguarda la tipologia di leggi approvate. Come abbiamo anticipato, l’attuale esecutivo ha privilegiato ampiamente il ricorso ai decreti legge rispetto alle norme di natura ordinaria. Il cui numero, tra quelle approvate nel corso dell’attuale legislatura, è particolarmente esiguo.

Escludendo in questo caso dal conteggio le ratifiche di trattati internazionali, parliamo in totale di 4 norme ordinarie. A cui si deve aggiungere la legge di bilancio che però per la sua natura particolare gode di una classificazione propria.

Se si considerano i governi delle ultime 4 legislature possiamo osservare che, anche in questo caso, il dato dell’attuale esecutivo è il più basso in assoluto. Le norme ordinarie infatti rappresentano solamente il 17,4% di quelle approvate finora. Dall’altro lato, come già detto, il governo Meloni in questi primi mesi ha fatto un frequentissimo ricorso ai decreti legge per introdurre nuove misure. Con il 78,3% di leggi di conversione sul totale di quelle approvate l’esecutivo Meloni presenta il valore più alto in questo caso.

I governi legiferano sempre di più a colpi di decreto.

La progressiva riduzione del numero di leggi ordinarie approvate rispetto alla conversione dei decreti rappresenta un elemento di criticità che non deve essere sottovalutato. Anche tale dinamica infatti contribuisce in maniera sempre più incisiva all’erosione delle prerogative del parlamento. I decreti legge infatti, come noto, devono essere convertiti in legge dalle camere entro 60 giorni. Ciò significa che nella maggior parte dei casi deputati e senatori non hanno la possibilità di entrare realmente nel merito dei provvedimenti. Limitandosi quindi a ratificare quanto già deciso a palazzo Chigi. A ciò si aggiunge il fatto che la proliferazione dei decreti di fatto satura l’agenda delle camere. Che non avranno molto tempo quindi per dedicarsi ad altro.

Anche in passato il ricorso ai decreti legge era stato massiccio tuttavia c’era stato maggiore spazio per l’approvazione di norme ordinarie. Da questo punto di vista è interessante notare che in 3 casi abbiamo un dato di leggi ordinarie approvate superiore al 50%. Si tratta dei governi Gentiloni (74,2%), Renzi (56,3%) e Monti (52,4%).

È interessante notare che, fatta eccezione per il governo Letta, gli esecutivi con la quota più bassa di norme ordinarie approvate sono quelli insediatisi durante o dopo il Covid (Conte II, Draghi e Meloni). Una ulteriore conferma di come la dinamica dell’accentramento del potere legislativo nelle mani dell’esecutivo si sia consolidata negli ultimi anni.

Di cosa trattano le leggi ordinarie approvate

Finora abbiamo visto come nell’attuale sistema politico il ricorso al percorso ordinario per l’approvazione delle leggi sia sempre meno frequente. Il ruolo marginale delle leggi di natura ordinaria però non emerge soltanto a livello quantitativo, ma anche per le questioni di cui tali norme si occupano nello specifico.

Le misure principali del governo non passano per le leggi ordinarie.

Se analizziamo le leggi ordinarie approvate dal novembre 2022, possiamo osservare che in 2 casi ci troviamo di fronte all’istituzione di commissioni parlamentari d’inchiesta. Si tratta della commissione antimafia e di quella relativa al femminicidio e alla violenza di genere

A queste si aggiungono poi la ratifica di un protocollo internazionale per la lotta al doping e l’approvazione di una legge delega per la riforma delle politiche in materia di terza età. L’ultima legge approvata in ordine di tempo è quella relativa alle disposizioni in materia di equo compenso delle prestazioni professionali. Salvo quest’ultimo caso, possiamo osservare come la portata di queste norme sia abbastanza limitata, trattandosi di misure per istituire organi interni al parlamento (le commissioni) o comunque senza un impatto immediato sulla vita del paese. Quest’ultima legge peraltro, seppur classificata come di iniziativa parlamentare, porta la firma della presidente del consiglio Giorgia Meloni (eletta alla camera dei deputati).

Legato a questo aspetto, un altro elemento da rilevare riguarda la norma sulle politiche della terza età. Anche in questo caso la capacità di incidere delle camere è molto limitata. Trattandosi di una delega infatti con tale norma il parlamento restituisce il potere di regolare il settore al governo. Quest’ultimo ha poi tempo fino al 31 gennaio 2024 per produrre uno o più decreti legislativi.

A questo si deve aggiungere che tale proposta di legge è stata presentata dal governo. In questo caso quindi il ruolo del parlamento è particolarmente marginale. Tenendo conto di questo ulteriore elemento possiamo osservare come siano solo 3 le leggi di iniziativa parlamentare approvate dall’inizio della legislatura (4 se si considera anche quella che vede Meloni come prima firmataria). Mentre tutte le altre sono appannaggio dell’esecutivo.

12,5%  le leggi di iniziativa parlamentare approvate nel corso della XIX legislatura. 

Un altro dato che pone il governo Meloni all’ultimo posto nel confronto tra gli esecutivi che si sono succeduti dal 2008 ad oggi. Una ulteriore conferma della posizione di subalternità delle camere. 

Foto: Comunicazione camera

 

Gli alimenti trainano la spinta inflazionistica in Europa Europa

Gli alimenti trainano la spinta inflazionistica in Europa Europa

Nell’area euro, l’inflazione è in calo rispetto ai mesi precedenti. Il rincaro dei prezzi è principalmente dovuto al settore alimentare, dopo un calo di quello dell’energia.

 

Si continua a parlare di caro vita in Europa. Perdura infatti l’inflazione, ovvero l’aumento generalizzato dei prezzi che riduce il potere d’acquisto dei cittadini, nonostante le previsioni mostrino dei dati in calo.

Secondo la commissione europeasono stati numerosi gli sviluppi positivi per l’economia dell’Unione, come ad esempio per quanto riguarda la diversificazione delle fonti energetiche e un calo del prezzo del gas. Ciò nonostante, l’inflazione ha ancora una spinta sui consumi di famiglie e imprese.

Cos’è l’inflazione

Ci si riferisce con questo termine all’aumento generale dei prezzi di beni e servizi che vengono consumati da una famiglia media nel corso di un anno.

L’inflazione è un rincaro dei prezzi di ampia portata che non riguarda esclusivamente una voce di spesa. Questo aumento riduce il valore della moneta nel tempo, dal momento che con la stessa quantità di denaro si possono acquistare meno beni e servizi. Vai a “Che cos’è l’inflazione”

L’aumento dei prezzi può essere legato a una serie di fattori sia interni che esterni all’economia del paese, come per esempio l’aumento dei costi di produzione, tensioni a livello geopolitico o eventi particolari che possono portare a una riduzione della disponibilità di determinati prodotti e causare uno squilibrio tra domanda e offerta.

Ci sono però ulteriori elementi importanti da considerare quando si parla di inflazione. Innanzitutto, il livello dei salari, che determina la possibilità di acquistare beni e servizi. Ma anche l’entità dell’aumento dei prezzi in particolari ambiti del paniere, che potrebbero star trainando i rincari.

Ogni mese, Eurostat mette a disposizione le stime sull’inflazione. I dati definitivi più recenti fanno riferimento al periodo di marzo 2023. Il tasso tendenziale, ovvero quello su base annua, si attesta per l’Europa a 8,3%.

6,9% il tasso di inflazione su base annua nell’area euro a marzo 2023.

I paesi che registrano i tassi maggiori sono l’Ungheria (25,6%), la Lettonia (17,2%) e la Repubblica Ceca (16,5%). Al contrario, si riportano valori minori nei Paesi Bassi (4,5%), in Spagna (3,1%) e in Lussemburgo (2,9%). In Italia si assesta all’8,1%, un valore leggermente inferiore rispetto alla media misurata in Europa ma maggiore di circa un punto percentuale rispetto a quella dell’area euro.

Ancora non si registrano dei valori negativi, significa quindi che rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, i prezzi sono comunque incrementati. Risultano comunque in calo da ottobre 2022 per l’area euro e per i quattro paesi più popolosi dell’Europa. Il picco maggiore era stato raggiunto proprio in quel mese dall’Italia (12,6%). L’andamento più regolare è quello della Francia mentre in Spagna il valore maggiore è stato raggiunto a luglio 2022 (10,7%).

Nell’area euro, i beni energetici hanno avuto un peso importante in termini di inflazione su base annua. Si riportano ad esempio i due picchi registrati a giugno 2022 (41,9%) e ottobre 2022 (41,3%). Si registra poi un calo della differenza dei livelli di prezzi fino al raggiungimento di un valore negativo a marzo 2023 (-0,9%). I rincari sono trainati principalmente dagli alimenti (15,5%) mentre i beni industriali non energetici e i servizi risultano avere degli andamenti di crescita piuttosto stabili.

Situazione simile anche per l’Italia. L’inflazione per i beni energetici è in calo rispetto ai mesi precedenti, passando dal 71,7% di ottobre 2022 al 10,7% di marzo 2023, un valore che rimane ancora alto rispetto alla media dell’area euro. Per quel che riguarda invece gli alimenti, la differenza su base annua si assesta al 12% (circa tre punti percentuali in meno rispetto all’area euro). Stabili gli altri prodotti industriali (5,9%) e i servizi (4,9%).

Foto: nrd – licenza

 

Quanta energia elettrica si consuma in Italia Ambiente

Quanta energia elettrica si consuma in Italia Ambiente

L’andamento di produzione, richiesta e consumo di energia elettrica è cambiato significativamente negli ultimi due anni, soprattutto a causa della pandemia. Ricostruiamo la situazione grazie ai dati pubblicati da Terna, rilevando anche le differenze a livello regionale.

 

L’energia ha un ruolo fondamentale nel cambiamento climatico. È infatti praticamente impossibile produrla, trasportarla o consumarla senza inquinare l’atmosfera o le acque o produrre rifiuti, come evidenzia la European environmental agency (Eea). Pertanto è importante, oltre a promuovere parallelamente metodi di produzione che utilizzino fonti di tipo rinnovabile, anche agire direttamente sui consumi, per ridurli.

All’interno del segmento energetico, ci sono tre componenti principali: elettricità, trasporti e riscaldamento. Ciascuno può essere supportato tramite un mix energetico di risorse rinnovabili ed estrattive. Vai a “Come funzionano la produzione e il consumo di energia”

Nel corso del periodo pandemico i consumi, così come anche la produzione e la richiesta di energia, hanno subito importanti variazioni. Durante il lockdown infatti molte attività associate a un elevato consumo energetico sono state temporaneamente sospese. Mentre nel 2021 c’è stata una ripresa che ha segnato un marcato incremento della richiesta e dei consumi. Grazie ai dati recentemente forniti da Terna possiamo ricostruire l’andamento, negli ultimi anni, del settore dell’energia elettrica.

Richiesta e produzione di energia elettrica in Italia

Con produzione si intende il processo di estrazione della risorsa e della sua trasformazione in un prodotto utilizzabile – due fasi che non necessariamente avvengono nello stesso stato. Con richiesta invece si intende il fabbisogno registrato.

Nel 2021 la richiesta di energia elettrica è stata pari a circa 320 migliaia di gigawattora (Gwh), registrando un aumento del 6,2% rispetto all’anno precedente, quando si era attestata sui 301mila Gwh circa.

Rispetto al 2020, periodo segnato dal lockdown, nel 2021 sono infatti riprese tutte le attività che erano state precedentemente sospese e questo ha provocato un aumento sia nella richiesta che, conseguentemente, nella produzione. Tuttavia rispetto all’anno precedente lo scarto tra le due è aumentato.

Sia la produzione che la richiesta di energia elettrica hanno avuto un andamento oscillante nell’ultimo ventennio. La richiesta è sempre maggiore rispetto alla produzione, ma la distanza tra le due è stata più o meno pronunciata di anno in anno. Nel 2021 lo scarto è stato di quasi 31mila Gwh (contro i 20,6mila del 2020). La produzione lorda a livello nazionale ha quindi coperto circa il 90% della richiesta. Una quota che però scende leggermente se consideriamo il dato al netto dei consumi dei servizi ausiliari e dei pompaggi.

86,6% della richiesta di elettricità è coperta dalla produzione nazionale, nel 2021.

Importante è sottolineare che si tratta soltanto di una delle tre componenti del settore energetico, il quale è composto da elettricità, trasporti e riscaldamento. Nel complesso l’Italia è ancora soggetta a una forte dipendenza energetica. A coprire il resto del fabbisogno italiano di elettricità (13,4%) sono state le importazioni dall’estero.

Quanta elettricità si consuma nelle regioni italiane

Nel complesso in Italia sono stati consumati, nel 2021, quasi 301mila Gwh di energia elettrica (300,9 miliardi di kilowattora). Con un aumento del 6% rispetto al 2020, che ha riguardato soprattutto il settore industriale (+8,2%).

Il settore industriale registra i consumi più elevati.

A registrare i consumi più elevati è il settore industriale, che costituisce il 45% del totale. Seguono i servizi con circa il 30% e il settore domestico (22%). Ultima l’agricoltura con il 2%. L’industria è anche il settore che ha registrato il maggior incremento dei consumi tra 2020 e 2021: +8,2%. Al secondo posto agricoltura e servizi, entrambe con un aumento pari al 6,4%. Mentre il settore domestico è ultimo in questo senso con appena l’1,3%, probabilmente per via del fatto che durante il lockdown le persone hanno dovuto trascorrere più tempo in casa ma che, allo stesso tempo, l’inverno del 2020 è stato particolarmente mite.

5.095 kwh pro capite il consumo medio di elettricità in Italia nel 2021.

Rispetto al 2011 il dato è rimasto sostanzialmente invariato, con un calo dello 0,1%. I consumi risultano più elevati al nord e nel centro della penisola (rispettivamente 6.341 e 4.453 kwh) e più bassi al sud (3.756).

Più contenute invece le differenze macroregionali se consideriamo esclusivamente i consumi domestici. In questo caso il consumo medio si attesta su 1.135 kwh per abitante, -0,2% rispetto al 2011. Si rileva un lieve aumento dei consumi al sud (+0,3%) e un calo al nord (-0,3%) e soprattutto al centro (-0,7%).

Il Friuli Venezia Giulia è la regione con i consumi pro capite più elevati (8.556 kwh), seguita dalla Valle d’Aosta (7.608) e da altre regioni settentrionali. Ultima invece la Calabria con meno di 3mila Gwh per abitante. Sotto questo aspetto le differenze da regione a regione sono molto pronunciate.

Per quanto riguarda invece i consumi legati specificamente all’ambito domestico, come accennato, si attenuano fortemente. La prima regione da questo punto di vista è la Sardegna (con 1.475 khw per abitante), seguita da Valle d’Aosta (1.264) e Sicilia (1.240). Ultime Molise e Basilicata con meno di mille Khw per persona.

Foto: Rodion Kutsaiev – licenza

 

Lo sport in Abruzzo, tra nuovi impianti e dubbi nei piccoli comuni Abruzzo Openpolis

Lo sport in Abruzzo, tra nuovi impianti e dubbi nei piccoli comuni Abruzzo Openpolis

Nel periodo pandemico quasi 9mila abruzzesi hanno smesso di praticare attività sportiva, importante per il benessere psico-fisico e collante sociale per le comunità. Il Pnrr cerca di porre rimedio attraverso investimenti consistenti, ma non senza criticità.

 

Oltre a contribuire al benessere individuale fisico e psico-motorio, lo sport è un collante sociale fondamentale per le comunità. Soprattutto nelle aree più periferiche del paese, dove produce un impatto positivo sulla socialità, l’inclusione e l’aggregazione.

La pandemia ha segnato uno spartiacque per la pratica sportiva, in Italia come in Abruzzo. Negli anni segnati dal Covid-19, infatti, quasi 9mila abruzzesi hanno rinunciato a fare sport, con ricadute negative sia sul benessere collettivo che sulla salute individuale. Lo stop reso necessario dal contenimento dei contagi ha ridotto la pratica sportiva durante la pandemia, specialmente tra i più giovani. Nello stesso periodo si è assistito alla scomparsa di numerose realtà territoriali.

Per queste ragioni il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e il piano nazionale complementare (Pnc) prevedono investimenti in questo ambito, nelle grandi città come nei piccoli comuni. Si tratta di cifre consistenti che, come vedremo, non nascondono alcune criticità.

76 milioni € i fondi del Pnrr e del Pnc per lo sport destinati all’Abruzzo.

Lo sport prima e dopo la pandemia

Per l’attività sportiva il periodo pandemico è stato critico. Nel 2021, infatti, l’Istat contava circa 20 milioni di sedentari in Italia.

Questa dinamica ha colpito soprattutto i minori. Prima della pandemia infatti, tra giovani e giovanissimi era più frequente svolgere attività sportiva in impianti al chiuso, in contesti strutturati e con sport di contatto.

Con la pandemia i giovani sono stati più penalizzati nell’attività sportiva.

Negli anni dell’emergenza per gli adulti è stato più semplice reindirizzarsi verso attività individuali o comunque che non prevedevano il contatto fisico e da svolgere preferibilmente all’aperto e in contesti non strutturati. Tanto che in questa fascia di popolazione il numero di praticanti è addirittura aumentatoMolti giovani invece non hanno ripreso a praticare sport nemmeno dopo la fine delle fase più critica dell’emergenza.

Basti pensare che se nel 2019 i bambini e le bambine tra 6 e 10 anni che non praticavano sport erano il 18,5% del totale, questa percentuale è salita al 24,9% nel 2021. Si è verificata la stessa dinamica nei pre-adolescenti (11-14 anni), con aumento dei giovani sedentari di quasi 6 punti percentuali (dal 15,7% al 21,3% in due anni).

È ragionevole pensare che si sia innescata una spirale negativa, con la chiusura delle molte associazioni sportive meno strutturate ad affrontare il momento di crisi. Ciò ha spesso lasciato sguarniti i territori di presidi sociali fondamentali, soprattutto nelle aree spopolate o nelle zone periferiche dei grandi centri urbani.

Tale dinamica non ha risparmiato nemmeno l’Abruzzo. Secondo i dati del Coni infatti ben 14 associazioni sportive dilettantistiche abruzzesi sono scomparse tra il 2019 e il 2020. Ma ancora più impressionante è la riduzione del numero di praticanti.

-8.844 gli atleti praticanti di discipline affiliate a federazioni sportive nazionali o discipline sportive associate tra il 2019 e il 2020 in Abruzzo.

“I vantaggi della pratica sportiva nei piccoli paesi sono innegabili, anche il semplice giocare a bocce la domenica è fondamentale per la comunità”, afferma a Abruzzo Openpolis Paolo Eusani, da 11 anni sindaco di Prata d’Ansidonia, comune montano di 400 abitanti a una trentina di chilometri da L’Aquila.

A Prata da anni è attiva una squadra di calcio, il Peltuinum, una delle poche sopravvissute in zona: “Tenere in piedi un’associazione sportiva da queste parti è difficilissimo – dice il sindaco – per i costi dell’attività, la gestione degli impianti e la mancanza di giovani. Ma tra tutte le difficoltà continuiamo a sostenere lo sport in paese”.

Cosa prevede il Pnrr per lo sport

Senza considerare gli interventi sulle palestre scolastiche, il piano nazionale stanzia 700 milioni di euro per interventi su impianti sportivi, affidati al dipartimento per lo sport della presidenza del consiglio dei ministri. Nel Pnrr, infatti, c’è una misura che punta a incrementare l’inclusione sociale con la realizzazione o la rigenerazione di impianti sportivi che favoriscano anche il recupero di aree urbane.

I fondi per lo sport vanno in larga misura ai comuni capoluogo.

La metà dei 700 milioni per lo sport nel Pnrr riguarda la realizzazione di nuovi impianti. Altri 188 milioni di euro saranno impiegati per la rigenerazione di impianti già esistenti. Infine, 162 milioni sono stati destinati alle federazioni sportive nazionali per impianti di loro interesse.

Un primo elemento critico nel riparto delle risorse riguarda la priorità data ai centri più popolosi del paese.

Al fine di conseguire il miglior risultato per il Paese e valorizzare quanto più possibile l’utilità degli interventi realizzabili nell’ambito del PNRR […] Sono stati quindi definiti i criteri per la selezione dei soggetti ammissibili sulla base della popolazione residente, definendo così i requisiti e gli importi massimi degli interventi finanziabili in relazione alla dimensione demografica di appartenenza degli enti.

Appare quantomeno singolare l’aver escluso i piccoli comuni dall’accesso a questi fondi. Enti che sorgono magari nelle aree interne o comunque in zone deprivate. Come se in questi territori non ci fosse la necessità di intervenire.

Lo scorso marzo, con l’ultimo avviso pubblicato si è cercato di porre rimedio a questa criticità, considerando che risultavano ancora da assegnare circa 30 milioni di euro. Il governo ha quindi disposto il finanziamento di una nuova linea di intervento inizialmente non prevista: la cosiddetta “terza linea“.

Lo scorso marzo il governo ha destinato fondi residuali ai piccoli comuni del sud.

L’avviso è finalizzato alla creazione di parchi e percorsi attrezzati (playground). In questo caso i potenziali beneficiari sono stati individuati in una platea di oltre 2mila comuni del mezzogiorno con popolazione non superiore ai 10mila abitanti. Anche molti piccoli comuni abruzzesi quindi sono riusciti ad avere accesso a queste risorse.

Questi fondi sono di fatto distribuiti “a pioggia” sui comuni, con un obbligo di spesa per l’acquisto di determinate tipologie di attrezzature sportive. Per esempio, ai comuni con meno di mille abitanti spetta una somma di 21mila euro: “Noi impiegheremo questi importi per l’area verde a margine dell’impianto sportivo che stiamo riqualificando, potendo fortunatamente contare su altri 120mila euro di provenienza regionale e su ulteriori 350mila euro del fondo complementare al Pnrr, che ci serviranno per i parcheggi e l’efficientamento energetico delle strutture dentro e intorno agli impianti. Ma i paesi che non hanno preso altri fondi per lo sport come faranno?”, si chiede Eusani.

I fondi a pioggia per i piccoli comuni non convincono Eusani: “Campi da padel ovunque”

L’impiego a pioggia non convince il sindaco di Prata d’Ansidonia, analogamente ad altri amministratori della zona: “Utilizzando una metafora ardita, potremmo dire che sorgeranno campi di padel ovunque”, afferma con ironia.

Il rischio insomma è che poco più di 20mila euro per comune, vincolati peraltro all’acquisto di materiale specifico anche in assenza di una progettazione più ampia, facciano fiorire ovunque piccole strutture che non verranno utilizzate da cittadini di aree in via di spopolamento: “A mio avviso sarebbe stato più utile realizzare impianti seri e moderni a servizio di bacini di popolazione più ampi. Per esempio, noi ci troviamo su un altopiano, all’interno del quale si potrebbe realizzare un’infrastruttura a servizio di almeno una decina di comuni dove ci troviamo, anziché erogare fondi a pioggia per attrezzature che, in caso di poco utilizzo e senza manutenzione, potrebbero fare una brutta fine”.

I principali interventi in Abruzzo

Delineato questo quadro, possiamo affermare che all’Abruzzo sono andati in totale circa 18 milioni di euro di fondi Pnrr. Cifra che lo pone al 14esimo posto nel confronto con le altre regioni italiane. A queste risorse si deve aggiungere poi circa 1 milione e mezzo di fondi in co-finanziamento.

Delle risorse destinate all’Abruzzo, 10,3 milioni sono stati stanziati per nuovi impianti, 3,5 milioni per rigenerazione di strutture già esistenti e 5,6 milioni rientrano nella “terza linea”. In quest’ultimo caso parliamo di 218 interventi.

I fondi Pnc per la ricostruzione

Altri interventi in tema di sport per quanto riguarda l’Abruzzo saranno finanziati anche con una parte delle risorse stanziate appositamente per la ricostruzione nell’ambito del fondo complementare.

All’interno di questa misura infatti è presente una sotto-voce dedicata specificamente al finanziamento di interventi su percorsi, cammini e impianti sportivi. In questo ambito, i progetti selezionati in Abruzzo sono in totale 111 per un valore complessivo di circa 56,6 milioni. Tenendo in considerazione anche queste risorse possiamo concludere che i fondi destinati alla regione per lo sport superino complessivamente i 76 milioni di euro.

In alcuni casi i fondi (specie nel caso di cammini e sentieri) coprono il territorio di più comuni. In queste circostanze risulta impossibile ripartire le risorse tra i diversi territori. Fatta salva questa eccezione, possiamo osservare che i comuni che ricevono più fondi a favore dello sport sono tre dei quattro capoluoghi: L’Aquila (14,2 milioni di euro), Teramo (circa 5) e Pescara (3,8). Tra i comuni non capoluogo, a ricevere più fondi è Montesilvano (2,5 milioni). Seguono Montorio al Vomano (2,3 milioni) e Popoli (1,86 milioni).

A livello di singoli interventi sono ben 17 quelli dal valore di almeno 1 milione di euro. Il più consistente riguarda il comune di Pescara. Qui saranno investiti 3 milioni per la realizzazione di un impianto sportivo polivalente in via Di Girolamo. A Montesilvano invece i 2,5 milioni assegnati serviranno per la realizzazione di un centro polifunzionale per lo sport e l’aggregazione giovanile.

Il terzo intervento più consistente riguarda il comune di Teramo. Qui infatti sarà realizzato un investimento da 2,2 milioni per la riqualificazione delle piscine comunali e dell’impianto sportivo in via Acquaviva. In questo caso però il comune contribuirà all’intervento con 1,2 milioni di euro. 

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Foto: lavori in corso al campetto di Gagliano Aterno (L’Aquila)

 

Continuità e cambiamenti nei ministeri della difesa, degli esteri e dell’interno Mappe del potere

Continuità e cambiamenti nei ministeri della difesa, degli esteri e dell’interno Mappe del potere

I vertici dei ministeri degli esteri, della difesa e dell’interno non sono sottoposti a spoils system. Questo non vuol dire che siano inamovibili, anzi. Allo stesso tempo però spesso godono di un potere di resistenza non indifferente.

 

I ministeri non sottoposti a spoils system

A ogni cambio di governo il nuovo esecutivo può sostituire alcuni importantissimi dirigenti grazie a un meccanismo noto come spoils system. Una pratica politica del tutto legittima e regolamentata di cui abbiamo parlato in due distinti approfondimenti concentrandoci prima sulla presidenza del consiglio e poi sui ministeri.

Lo spoils system non si applica a tutti i ministeri. Vai a “Che cos’è e come funziona lo spoils system”

Ma non tutti i cambiamenti di alti funzionari pubblici sono configurabili come spoils system. Queste norme ad esempio non si applicano ai vertici dei ministeri della difesa, degli esteri (segretari generali) e dell’interno (capi dipartimento). In queste strutture i dirigenti provengono necessariamente dalla rispettiva carriera (prefettizia, diplomatica o militare) e i loro incarichi operano in regime di diritto pubblico. Questo non vuol dire, è bene chiarirlo, che si tratti di funzionari sostanzialmente inamovibili, anzi.

Da sempre […] vige un regime di precarietà degli incarichi per i capi delle ambasciate, delle prefetture, e delle grandi unità militari: possono essere in qualunque momento sollevati dall’incarico e messi a disposizione per decisione dell’autorità politica.

Tale precarietà non deve lasciare intendere comunque che sia prassi per un nuovo ministro, sostituire tutta o buona parte della dirigenza di questi dicasteri. In effetti sembra piuttosto vero il contrario.

Sostituire alti gradi militari, prefetti o ambasciatori non è un’operazione priva di costi politici per un ministro.

Parliamo infatti dei funzionari più importanti delle rispettive carriere e sostituirli non è una scelta che un ministro può prendere alla leggera. Si può dire dunque che in qualche modo i prefetti, i diplomatici e i militari che ricoprono i ruoli più importanti si avvalgano di una sorta di potere di resistenza che un ministro deve decidere di forzare se vuole effettivamente sostituirli.

Per questo, dopo aver visto come i ministri hanno gestito i passaggi relativi allo spoils system, analizziamo ora alcune delle principali novità tra le fila di diplomatici, militari e prefetti.

Continuità e cambiamenti al Viminale

Quanto al ministero dell’interno dobbiamo innanzi tutto considerare che il nuovo ministro Matteo Piantedosi è a sua volta un prefetto. Dunque conosce molto bene le dinamiche politiche interne al Viminale.

1 su 5 i capi dipartimento del ministero dell’interno che sono stati cambiati dall’inizio del governo Meloni.

Dal momento del suo insediamento solo un capo dipartimento è stato sostituito. Ma forse non è un caso che si tratti del capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. In questa scelta sembra di poter leggere il tentativo di smarcarsi dalle politiche di Luciana Lamorgese. Infatti, nonostante anche l’ex ministra provenisse dalla carriera prefettizia, è stata oggetto di dure critiche negli scorsi anni da parte delle attuali forze di maggioranza.

Peraltro prima di essere destinata da Piantedosi alla prefettura di Firenze, Francesca Ferrandino era stata a capo del dipartimento libertà civili e immigrazione per un solo anno.

Al suo posto Piantedosi ha chiamato Valerio Valenti (già prefetto di Firenze) che, oltre ad aver assunto la guida del dipartimento è stato di recente nominato anche commissario delegato per l’emergenza immigrazione. Un ruolo che gli è stato conferito dal capo della protezione civile (quindi dalla presidenza del consiglio), che in qualche modo conferisce a Valenti un’autorità autonoma da quella di Piantedosi.

Da segnalare poi anche la nomina del nuovo capo di gabinetto Maria Teresa Sempreviva al posto del prefetto Bruno Frattasi. Che un ministro scelga i vertici dei propri uffici di diretta collaborazione è tutt’altro che insolito. E comunque per il ruolo è stata scelta una prefetta che era già ai vertici di questi uffici, ricoprendo il ruolo di capo del legislativo (che ora è stato assunto dal prefetto Paolo Formicola).

In ogni caso l’ultima volta Lamorgese aveva atteso circa un anno prima di rimuovere Piantedosi dal ruolo di capo di gabinetto assegnatogli dal ministro Salvini. E questo nonostante le differenze politiche tra i due fossero facilmente immaginabili. Inoltre, esattamente come era accaduto a Piantedosi, anche Bruno Frattasi è stato spostato dal ruolo di capo di gabinetto a quello di prefetto di Roma.

Insomma pare che per sostituire un prefetto di questo rilievo sia considerato opportuno attribuirgli un ruolo altrettanto importante. Come ad esempio la prefettura della capitale.

In ogni caso Frattasi non è rimasto molto in questa posizione visto che lo scorso marzo è stato nominato direttore dell’agenzia per la cybersicurezza nazionale. Trascorsi oltre 2 mesi però Piantedosi non ha ancora trovato un sostituto per questa posizione e il ruolo di prefetto di Roma resta ancora oggi vacante.

Eppure dei prefetti attualmente al vertice di un ufficio territoriale del governo già 27 hanno ricevuto la nomina proprio da Piantedosi. Molti di più però sono ancora i prefetti nominati da Lamorgese (69) mentre qualcuno è ancora in carica in virtù di una nomina di Salvini (6) o addirittura di Minniti (1).

Non si può certo dire dunque che Piantedosi abbia stravolto i vertici centrali e periferici del Viminale. Allo stesso tempo però quando si è trattato degli organi più politici (gli uffici di diretta collaborazione) o di quelli più esposti politicamente (il dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione) non ha esitato a compiere le proprie scelte. Decisioni bilanciate poi dall’assegnazione alla persona sostituita di incarichi adeguatamente prestigiosi.

La mobilità dei diplomatici

Guardando al ministero degli esteri la prima cosa da segnalare è la nomina, da parte del ministro Tajani, di un nuovo segretario generale. Parliamo dell’incarico in assoluto più importante di tutta la carriera diplomatica. E questo nonostante il segretario generale uscente, Ettore Francesco Sequi, fosse una figura di riconosciuta competenza e professionalità.

Anche in questo caso il nuovo segretario generale ha un passato come capo di gabinetto di un ministro.

L’ambasciatore scelto da Tajani è invece Riccardo Guariglia. Un funzionario di indubbia esperienza, anche se forse il suo curriculum non arriva ai livelli del suo predecessore. In comune con Sequi comunque c’è l’esperienza di capo di gabinetto, che Guariglia ha ricoperto con il ministro Moavero Milanesi nel contesto del primo governo Conte. Un ruolo a stretto contatto con la politica che dunque si conferma molto importante per gli sviluppi di carriera.

Tajani inoltre ha nominato anche 3 direttori generali: Nicola Verola all’Unione europea, Andrea Tiriticco all’ispettorato generale e Teresa Castaldo alla cooperazione allo sviluppo. Rispetto a quest’ultimo tema poi sono anche in corso le procedure per nominare il nuovo direttore generale dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Al momento però l’incarico non è stato ancora assegnato.

Quanto ai diplomatici al vertice delle sedi estere infine il ministro ha portato a termine alcune nomine ma senza particolare fretta. In effetti in consiglio dei ministri si è discusso di alcune nuove assegnazioni che tuttavia non risultano ancora ufficiali. Inoltre sono state adottate diverse proroghe temporanee. Sembra dunque che alla Farnesina si ritenga che il tempo non sia ancora maturo per un giro di nomine più sostanziale.

La stabilità dei vertici della difesa

Molto stabile si è dimostrata, almeno in questa fase, la gestione del comparto difesa. Per quanto concerne l’area tecnico amministrativa infatti, tra segretario generale e 4 direttori generali, solo uno di questi ultimi è stato nominato da Crosetto, e si è trattato di una conferma.

Quanto alle nomine del capo di stato maggiore della difesa, dell’esercito, dell’aeronautica, della marina e al comandante generale dei carabinieri sono tutte state decise dall’ex ministro Lorenzo Guerini.

L’unica altra nomina di vertice nel settore della difesa imputabile al ministro Guidio Crosetto è quella di Nicola Latorre a direttore generale dell’Agenzia industrie difesa. Questo incarico infatti non è riservato a un militare di alto grado e, trattandosi di un’agenzia pubblica, è uno di quelli sottoposti a spoils system. Nonostante questo il ministro ha deciso di confermare il direttore generale in carica, una scelta tutt’altro che scontata. Infatti Latorre oltre a non essere un militare è un ex parlamentare di area politica molto diversa da quella del ministro, ovvero il Partito democratico.

Certo nel corso di questi mesi il ministro Crosetto ha in realtà provveduto sia a diverse nomine che a molti aumenti di grado rispetto a figure comunque molto importanti nel comparto della difesa. In generale però sembra di poter dire che il governo in questo settore abbia adottato una linea di totale continuità. D’altronde con la fase politica internazionale che stiamo attraversando e una guerra in corso sul continente europeo, quello della difesa è oggi un settore assolutamente delicato.

Foto: Quirinale

 

Come procede il Pnrr sulle infrastrutture Infrastrutture

Come procede il Pnrr sulle infrastrutture Infrastrutture

Tra aumento dei costi e progetti ancora alle prime fasi, le infrastrutture costituiscono una delle maggiori sfide per il Pnrr. Abbiamo ricostruito il quadro attuale, grazie al rapporto della commissione ambiente.

 

Lo scorso 12 aprile la commissione ambiente della camera ha presentato il rapporto sullo stato di attuazione delle infrastrutture prioritarie previste dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e dal fondo complementare (Pnc). Si tratta di investimenti che spaziano dalle ferrovie ai sistemi di mobilità urbana, dalle autostrade agli interventi su porti e aeroporti.

Con il presente rapporto intermedio si analizzano gli interventi individuati come prioritari con gli Allegati ai DEF dal 2015 al 2022 e inseriti nella programmazione PNRR e PNC.

Il quadro che ne emerge è articolato. Per quanto riguarda la realizzazione dei lavori, nella maggior parte dei casi siamo ancora fermi alle prime fasi di progettazione e di gara. E a livello di distribuzione delle risorse, se a nord appare più omogenea, a sud si concentra in modo particolare in poche regioni.

In ogni caso questo rapporto rappresenta un’occasione unica finora di entrare più nel dettaglio degli investimenti infrastrutturali voluti da Pnrr e Pnc. E conoscerne ambiti di intervento, stato di avanzamento e localizzazione a livello regionale.

Il quadro delle risorse

Uno dei principali obiettivi e sfide del Pnrr e del Pnc è lo sviluppo delle infrastrutture sul territorio italiano. Dalla costruzione di nuove opere al rinnovamento di quelle già esistenti.

Tra gli svariati interventi previsti, il rapporto della camera prende in esame quelli relativi agli ambiti considerati prioritari. Si tratta di ferrovie, ciclovie, porti e interporti, sistemi urbani, strade e autostrade, aeroporti, infrastrutture idriche ed edilizia pubblica.

132,5 miliardi € il costo delle infrastrutture prioritarie Pnrr e Pnc.

In base ai dati aggiornati al 31 dicembre 2022, le risorse a disposizione per coprire questa spesa ammontano a circa 102,3 miliardi di euro, cioè 30 in meno rispetto al costo totale. Una cifra che non ricade solo sul piano di ripresa e resilienza e sul fondo complementare, ma che viene finanziata anche da altre fonti. Insieme a Pnrr e Pnc, contribuiscono a tale spesa il fondo di solidarietà comunale e il fondo per l’avvio delle opere indifferibili (54% della cifra totale). A cui si aggiungono altre risorse pubbliche non meglio specificate (42%) e a una minima parte di risorse private (3%).

Il costo è aumentato da maggio a dicembre.

Inoltre, va sottolineato che il costo di 132,5 miliardi di euro al 31 dicembre 2022 è il risultato di un aumento di ben 7,2 miliardi rispetto alla cifra stimata a maggio 2022, pari a 125,3 miliardi. Questa crescita è legata all’aumento dei costi dei materiali di costruzione, dei carburanti e dei prodotti energetici. Una tendenza che non sappiamo se sia destinata ad aggravarsi o ad arrestarsi nei prossimi mesi. Considerando anche le strette connessioni con la guerra in corso tra Russia e Ucraina.

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Lo stato di avanzamento delle opere

Come abbiamo anticipato il report condivide anche lo stato di realizzazione, aggiornato al 31 dicembre 2022, delle infrastrutture prioritarie volute dalle due agende.

Sono i primi dati disponibili sullo stato dei progetti.

Abbiamo denunciato più volte la mancanza, tra le altre, di informazioni sull’avanzamento dei progetti Pnrr e Pnc. La pubblicazione di questi dati quindi è sicuramente positiva. Tuttavia si riferiscono solo alle infrastrutture, si fermano al livello nazionale e di macro-aree e considerano le fasi di realizzazione che vanno dalla progettazione all’attivazione dei lavori. Senza dettagliare a che punto siano le opere in corso o quanto manchi al loro completamento.

Nonostante questi limiti si tratta comunque di informazioni utili a ricostruire almeno in parte, per ciascun settore delle infrastrutture, a che punto sono le opere previste. Dalla prima fase di progettazione fino all’avvio dei lavori, passando per le gare d’appalto, l’aggiudicazione dei progetti e la firma dei contratti.

I lavori sulle ferrovie si trovano allo stadio più avanzato, registrando la percentuale maggiore (26%) di opere in corso. Seguono ciclovie (11%), porti e interporti (10%), sistemi urbani (7%), strade e autostrade (1%). Mentre aeroporti, infrastrutture idriche ed edilizia pubblica sono ancora ferme a passaggi precedenti all’avvio dei progetti.

È evidente che per tutti gli ambiti, la maggior parte delle opere sono ancora nelle fasi di progettazione o di gara. Un elemento, almeno in parte, giustificato dal percorso del Pnrr che non è neanche a metà della sua realizzazione (il piano dovrà concludersi a fine 2026). Per il nostro paese infatti è con l’inizio del 2023 che ha preso il via più concretamente la fase di “messa a terra” dei progetti, con l’apertura dei cantieri e l’avvio dei lavori. Ovviamente con delle differenze tra i vari investimenti, a seconda delle scadenze previste dal cronoprogramma.

Infine gli stessi dati sono disponibili, oltre che per settore, anche per le due macro-aree che accorpano il centro e il nord del paese, da un lato, e il sud e le isole dall’altro.

14% delle infrastrutture prioritarie previste per il sud e le isole sono in corso.

Una quota che si alza al 36% nel centro-nord, suggerendo in questo senso una situazione di svantaggio del mezzogiorno rispetto al resto del paese.

Bandi e importi, i dati regionali

Le uniche informazioni condivise dal rapporto in merito alle regioni riguardano il numero di bandi pubblicati e gli importi messi a gara nel corso del 2022. Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre 2022 sono stati pubblicati complessivamente 142 bandi per le infrastrutture prioritarie del Pnrr e del Pnc. Di questi, 4 sono stati annullati e 13 sono andati deserti.

17,7 miliardi € l’importo totale messo a gara per le infrastrutture prioritarie, al 31 dicembre 2022.

Il 61% di queste risorse (10,8 miliardi) è relativo a opere da realizzare nel sud e nelle isole, il 38% nel nord e centro Italia e l’1% si riferisce a interventi che interessano allo stesso tempo più regioni. Questi dati, se confrontati con quelli visti nel paragrafo precedente, potrebbero suggerirci un quadro in cui il sud riceve più risorse, ma procede a rilento nella realizzazione delle opere. Con il 14% dei lavori in corso rispetto al 36% registrato nel centro-nord.

Tuttavia, osservando la situazione regione per regione spiccano gli ingenti importi destinati alla Sicilia soprattutto (6,8 miliardi di euro), ma anche alla Campania (2,7). A fronte di risorse molto più limitate per gli altri territori del sud. Questo potrebbe, almeno in parte, aver impattato sul calcolo della media.

Alle già citate Sicilia e Campania seguono per quantità di risorse regioni centrali e settentrionali, a testimonianza di quanto abbiamo appena sottolineato. In primis Lombardia e Liguria, che registrano il terzo importo più alto, pari a 1,3 miliardi.

In generale è evidente anche dalla mappa come nei territori del centro e del nord la distribuzione dei fondi sia più omogenea, al contrario del mezzogiorno. Basti pensare che due grandi regioni come la Puglia e la Calabria – non prive di gravi mancanze in termini infrastrutturali – ricevono all’incirca 200 milioni ciascuna.

La natura dei principali investimenti prioritari

Infine il report individua 47 investimenti prioritari che considera principali e, oltre all’ambito di intervento, ne descrive in sintesi il contenuto.

Quasi tutti i principali interventi riguardano la mobilità.

Molti riguardano i collegamenti ferroviari: dal miglioramento delle linee regionali allo sviluppo dell’alta velocità in Sicilia (Palermo-Messina-Catania), Campania e Calabria (Salerno-Reggio Calabria) e Lombardia e Veneto (Brescia-Verona-Padova). Altri investimenti sono quelli su strade e autostrade. Come la messa in sicurezza sismica di viadotti prioritari delle autostrade A24 e A25 in Abruzzo. O il progetto trasversale a molteplici regioni che prevede la fornitura e l’installazione di impianti di monitoraggio strutturale di ponti, viadotti e gallerie.

Come abbiamo visto nel primo grafico, un altro settore di intervento è quello legato ai sistemi urbani, cioè fondamentalmente il trasporto pubblico locale. È interessante notare su questo tema i diversi gradi di innovazione degli investimenti previsti, dovuti presumibilmente alla disparità territoriale di partenza nell’offerta del servizio. Per esempio, in Lombardia uno degli interventi sui sistemi urbani riguarda lo sviluppo di autobus elettrici tra i comuni di Bergamo, Dalmine e Verdellino. Mentre in Campania, sempre nello stesso ambito, è previsto il potenziamento e l’adeguamento normativo della linea vesuviana Castellammare-Sorrento. Una tendenza che da un lato possiamo considerare endemica, ma che dall’altro non favorisce un reale appianamento dei divari, specialmente tra il sud e il resto del paese.

i principali investimenti su porti e interporti voluti da Pnrr e Pnc.

Riguardano i porti di Ravenna, Civitavecchia, La Spezia, Genova, Catania, Trapani, Palermo, Augusta e Marina di Carrara. Anche in questo caso la natura degli interventi riflette le condizioni di partenza delle infrastrutture nei vari territori. Se infatti nei porti siciliani sono previsti interventi di adeguamento e messa in sicurezza, a La Spezia verrà creato un nuovo molo crociere e a Ravenna una stazione di cold ironing.

Infine, altri ambiti di intervento sono gli aeroporti e le infrastrutture idriche. Per i primi si prevede il miglioramento dei collegamenti con le città, come nel caso di Bergamo e di Brindisi. Per le seconde, i principali investimenti mirano all’adeguamento del sistema acquedottistico in alcune zone del Lazio e il completamento della diga di Cumbidanovu in Sardegna.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: Michael Roach – licenza

 

1. Come il Pnrr interverrà sulla sanità territoriale italiana

1. Come il Pnrr interverrà sulla sanità territoriale italiana

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Nelle difficoltà dei mesi di pandemia, è apparso in tutta evidenza quanto sia importante l’investimento sulla prevenzione e in particolare su una rete di assistenza e sanità capillare sul territorio.

Un’esigenza che il progressivo invecchiamento della popolazione, con il prevedibile incremento dell’incidenza delle malattie croniche, renderanno improrogabile nei prossimi anni. Si stima che nel 2050 gli italiani con almeno 65 anni saranno il 34,9% della popolazione, a fronte del 23,5% attuale.

Un incremento di ben 11 punti percentuali, ma che colpisce anche se letto in termini assoluti. Oggi sono poco meno di 14 milioni i residenti anziani nel nostro paese, rispetto a un totale di circa 60 milioni di abitanti. Nel 2050, pur con una popolazione complessiva molto ridotta – nello scenario di previsione mediano circa 54 milioni di persone – gli ultra 65enni potrebbero essere quasi 19 milioni.

L’investimento del Pnrr sulla sanità territoriale

Questo scenario, e l’esperienza ancora viva delle difficoltà nell’emergenza Coronavirus, hanno portato a destinare una parte dei fondi del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sul capitolo sanitario, e in particolare sulla rete territoriale di assistenza.

8,2% le risorse del Pnrr destinate al potenziamento del sistema sanitario.

La missione 6 del piano è infatti dedicata alla salute. Si tratta di 15,63 miliardi di euro divisi in due componenti. La prima, da 7 miliardi di euro, si concentra sul rafforzamento dell’assistenza sanitaria territoriale. In particolare sulle reti di prossimità, la telemedicina e la cura domiciliare. La seconda, 8,63 miliardi, prevede progetti di digitalizzazione e innovazione del sistema sanitario, insieme ad investimenti sulla ricerca.

La componente rivolta al rafforzamento della sanità territoriale si basa su una strategia in 2 tempi. Il primo, è l’approvazione di una riforma dell’intero sistema di assistenza, con l’obiettivo di riorganizzarlo, renderlo omogeneo in tutto il paese e stabilire così un nuovo assetto dell’offerta territoriale. Una scadenza prevista per la metà del 2022, attuata nel maggio dello scorso anno con l’approvazione del decreto ministeriale 77/2022.

 

Il secondo tempo dell’attuazione è il rafforzamento della rete presente sul territorio. Con la costituzione a livello locale dei presidi e delle strutture sanitarie previsti dalla riforma approvata.

La nuova sanità territoriale si basa su un insieme articolato di strutture.

A partire dalle case della comunità – luoghi di prossimità a cui i cittadini possono accedere per l’assistenza primaria – cui il Pnrr destina 2 miliardi di euro. Vi è poi l’istituzione degli ospedali di comunità – piccole strutture (20 posti letto ogni 100mila abitanti) per consentire un’accoglienza intermedia tra il ricovero a casa e quello in ospedale (1 miliardo di euro). I restanti 4 miliardi, sono rivolti all’investimento sulla telemedicina, in modo da rendere la casa del paziente un vero e proprio luogo di cura, e alla creazione delle centrali operative territoriali. Parliamo di oltre 600 presidi, uno per distretto sanitario, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, assicurando l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza-urgenza.

Case e ospedali di comunità: i nuovi capisaldi del sistema

In questo nuovo assetto, case e ospedali di comunità sono chiamati a rappresentare il primo presidio della sanità territoriale rivolta al paziente.

In particolare le prime, le case della comunità: un presidio fisico di facile individuazione al quale i cittadini possono accedere per i bisogni di assistenza sanitaria. Si distinguono tra hub (quelle principali che erogano servizi di assistenza primaria, attività specialistiche e di diagnostica di base) e spoke, che offrono unicamente servizi di assistenza primaria.

1.430 le case della comunità che si prevede di costituire con i fondi Pnrr.

In questi punti, facilmente accessibili sul territorio, il paziente potrà trovare servizi come gli ambulatori di medici di famiglia e pediatri di libera scelta. Ma l’obiettivo è soprattutto costruire un’unica sede fisica dove il cittadino possa essere assistito da un’equipe multidisciplinare, in grado di prenderlo in carico nei diversi bisogni.

Questo gruppo integrato di professionisti, in base a una valutazione trasversale di natura clinica, funzionale e sociale della persona, potrà definire un “progetto di assistenza
individuale integrata (Pai), contenente l’indicazione degli interventi modulati
secondo l’intensità del bisogno” (cfr. con legge di bilancio 2022dossier camera 2023). Sulla carta, una vera e propria rivoluzione in termini di integrazione dei servizi sociali, assistenziali e sanitari che operano sul territorio.

Il Pai individua altresì le responsabilità, i compiti e le modalità di svolgimento dell’attività degli operatori sanitari, sociali e assistenziali che intervengono nella presa in carico della persona, nonché l’apporto della famiglia e degli altri soggetti che collaborano alla sua realizzazione. La programmazione degli interventi e la presa in carico si avvalgono del raccordo informativo, anche telematico, con l’Inps.

Gli standard organizzativi delle case della comunità variano tra hub e spoke, e vanno distinti tra le previsioni obbligatorie (stabilite dall’allegato 2 del Dm 77/2022) e quelle facoltative (allegato 1 dello stesso decreto).

 

I servizi previsti nelle case della comunità

Livello di obbligatorietà Servizi offerti
Obbligatori per CdC hub e spoke – Servizi di cure primarie erogati attraverso équipe multiprofessionali;
– Punto unico di accesso;
– Servizio di assistenza domiciliare;
– Servizi di specialistica ambulatoriale per le patologie ad elevata prevalenza;
– Servizi infermieristici;
– Sistema integrato di prenotazione collegato al Cup aziendale;
– Integrazione con i servizi sociali;
– Partecipazione della comunità e valorizzazione della co-produzione;
– Collegamento con la casa della Comunità hub di riferimento;
– Presenza medica per la CdC hub: H24, 7/7 gg;
– Presenza medica per la CdC spoke: H12, 6/7 gg;
– Presenza infermieristica per la CdC hub: H12, 7/7 gg (fortemente raccomandato H24, 7/7 gg);
– Presenza infermieristica per la CdC spoke: H12, 6/7 gg.
Obbligatori solo per CdC hub – Servizi diagnostici di base;
– Continuità assistenziale;
– Punto prelievi.
Facoltativi nelle CdC hub e spoke – Attività consultoriali e attività rivolta ai minori;
– Interventi di salute pubblica (incluse le vaccinazioni per la fascia 0-18);
– Programmi di screening.
Raccomandati nelle CdC hub e spoke – Servizi per la salute mentale, le dipendenze patologiche e la neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza;
– Medicina dello sport.

 

elaborazione openpolis – Cittadinanzattiva su Dm 77/2022 e dossier camera

Il secondo presidio del nuovo sistema di sanità territoriale sono gli ospedali di comunità. Si tratta di strutture pensate per rispondere a una necessità che negli anni si è fatta pressante: avere un luogo intermedio tra le dimissioni al domicilio del paziente e il ricovero ospedaliero.

In base al decreto 77, questi presidi dovrebbero evitare ricoveri impropri e “favorire dimissioni protette in luoghi più idonei al prevalere di fabbisogni sociosanitari, di stabilizzazione clinica, di recupero funzionale e dell’autonomia e più prossimi al domicilio”.

400 gli ospedali di comunità da costruire entro il 2026. I progetti attuali ne prevedono oltre 430.

Si tratta di strutture operative 7 giorni su 7, con un assetto organizzativo di 20 posti letto ogni 100mila abitanti. Ciascun ospedale di comunità dotato di 20 posti dovrà prevedere una serie di dotazioni di tipo tecnologico-strutturale, ad esempio con locali per la riabilitazione, nonché standard minimi di personale. In primo luogo attraverso l’assistenza infermieristica, da garantire 7 giorni su 7, 24 ore su 24, con un numero di infermieri compreso tra 7 e 9, di cui 1 coordinatore. E poi 4-6 operatori sociosanitari, 1-2 unità di altro personale sanitario con funzioni riabilitative e un medico per 4,5 ore al giorno 6 giorni su 7.

Le criticità emerse finora

Il sistema così concepito dovrà accompagnare i bisogni di una popolazione in progressivo invecchiamento. Con tutte le necessità connesse: dalla presa in carico della non autosufficienza alla gestione delle malattie croniche.

Perciò è cruciale che il modello organizzativo stabilito dal Dm 77/2022 trovi un’applicazione omogenea sull’intero territorio nazionale. Questa è la vera sfida da qui al giugno 2026, scadenza europea per l’istituzione di case e ospedali di comunità.

Il senso del presente rapporto è proprio avviare un monitoraggio su questo aspetto, attraverso la collaborazione tra openpolis – fondazione indipendente e senza scopo di lucro che promuove l’accesso a dati e informazioni per l’analisi delle politiche pubbliche, come con il progetto OpenPNRR – e Cittadinanzattiva – organizzazione attiva nella tutela dei diritti dei cittadini, nella cura dei beni comuni e nel sostegno alle persone in condizioni di debolezza. 

Già oggi sono diversi i motivi che lasciano intravedere forti difficoltà nell’effettiva possibilità di ridurre i divari nell’accesso alle cure. Basta osservare il percorso di approvazione del decreto ministeriale 77/2022: approvato senza intesa in conferenza stato-regioni. Un accordo venuto meno proprio per il dissenso della maggiore regione del mezzogiorno, la Campania, preoccupata per la carenza di risorse necessarie al funzionamento a regime dei nuovi standard di assistenza territoriale.

Un punto critico che non sembra affatto infondato, stando alle analisi della Corte dei conti e dell’ufficio parlamentare di bilancio pubblicate negli ultimi mesi. Entrambi gli organi hanno mosso rilievi sul finanziamento a regime del nuovo sistema.

Complessivamente, il quadro delle risorse correnti utilizzabili appare soggetto a incertezza, soprattutto con riferimento agli anni successivi al periodo di programmazione del Pnrr. Questo è proprio il motivo che ha reso le Regioni diffidenti nei confronti del nuovo Regolamento sugli standard dell’assistenza territoriale.

Il rischio concreto è che l’incertezza sulle risorse, in combinato disposto con un regolamento organizzativo che distingue tra aspetti prescrittivi, da garantire obbligatoriamente, e altri solo facoltativi, conduca a divari molto estesi nell’attuazione del nuovo sistema. Un possibile indice di questa tendenza, come vedremo nel corso del rapporto, emerge nella diversa quota di case della comunità hub e spoke previste dalle diverse regioni. E anche nella distribuzione di questi presidi e degli ospedali di comunità tra città maggiori e territori periferici di una stessa regione.

Divari che peraltro si innesterebbero su disparità già in partenza molto ampie, aggravandole. Una ricognizione dell’ufficio studi della camera dei deputati nel 2021 aveva messo in evidenza come alcune regioni, come Toscana ed Emilia-Romagna, si fossero già mosse sulla strada intrapresa dal Dm 77/2022, avendo istituito negli anni una rete di case della salute propedeutica alla creazione di quelle di comunità. Mentre altre hanno adottato modelli organizzativi diversi e appaiono meno attrezzate per il processo di cambiamento che investirà il sistema sanitario nei prossimi anni.

Anche se non è scontato che tutte le Case della salute possano essere immediatamente trasformate in Case della Comunità, si evidenzia che alcune Regioni, come Emilia-Romagna e Toscana, avrebbero già più strutture di quanto indicato come traguardo dal PNRR, mentre altre non ne hanno affatto. Queste ultime non sono collocate esclusivamente nel Mezzogiorno.

La necessità di un monitoraggio puntuale

Di fronte al rischio di un’applicazione a macchia di leopardo dei nuovi standard di assistenza territoriale, un monitoraggio attento dell’impiego delle risorse del Pnrr appare quanto mai necessario. Un’attività che allo stato attuale delle informazioni non è affatto semplice. E che deve necessariamente essere effettuata opera per opera, come peraltro indicato dal ministero stesso in risposta ai rilievi della Corte dei conti.

(…) il livello di progettazione da raggiungere, affinché un progetto possa qualificarsi “idoneo”, è “strettamente connesso alla strategia di gara individuata dalla stazione appaltante per la realizzazione dell’opera pubblica”.

Da tale consapevolezza nasce la collaborazione tra openpolis e Cittadinanzattiva su questo report. Un lavoro che si è basato sulla raccolta dei dati sui singoli interventi dai contratti istituzionali di sviluppo stipulati dal ministero della salute e dalle singole regioni. Questi sono stati successivamente georeferenziati e arricchiti con ulteriori informazioni estratte da fonte Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali.

Una attività di analisi che abbiamo condensato in un rapporto nazionale e in 20 allegati con focus sugli interventi previsti, regione per regione.

Dall’istituzione di case della comunità a quella di ospedali di comunità, la cui localizzazione deve essere valutata anche in relazione alle aree interne presenti in ciascun territorio.

Monitorare tali aspetti è quanto mai cruciale per valutare lo stato del sistema sanitario, oggi e soprattutto nei prossimi anni.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati sugli interventi previsti per case della comunità e ospedali di comunità sono tratti dai contratti istituzionali di sviluppo (Cis) sottoscritti dalle regioni con il ministero della salute.

Foto: Nguyễn Hiệp (Unsplash) – Licenza