Come cambia il regolamento della camera I correttivi

Come cambia il regolamento della camera I correttivi

In ritardo rispetto a palazzo Madama, anche Montecitorio approva una prima riforma del proprio regolamento. Le modifiche sono limitate alla revisione delle soglie numeriche.

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Nella seduta dello scorso 30 novembre, la camera dei deputati ha approvato una parziale riforma del proprio regolamento. Tale modifica costituiva uno di quei cosiddetti “correttivi” resisi necessari a seguito della riduzione del numero dei parlamentari al fine di assicurare il corretto funzionamento dell’aula e dei suoi vari organi interni.

Al senato le modifiche sono giunte a compimento prima dell’inizio della nuova legislatura. Operazione che, com’è evidente, non è riuscita a Montecitorio. Il ritardo è in parte attribuibile al fatto che una revisione delle norme interne fosse meno impellente alla camera rispetto all’altro ramo del parlamento. Il taglio del numero dei deputati infatti parrebbe essere meno impattante sui lavori rispetto a quello dei senatori, rimasti in poco più di 200.

Il fatto che la nuova camera abbia dovuto riformare il proprio regolamento “in corsa” ha però avuto delle conseguenze. Come vedremo infatti gli elementi modificati sono pochissimi, anche rispetto a quanto fatto dal senato. E si limitano a rivedere i quorum e le soglie numeriche. Tali correttivi inoltre entreranno in vigore a partire dal 2023.

Altre riforme invece saranno operative solo a partire dalla prossima legislatura. I gruppi, le giunte, le commissioni e gli altri organi della camera infatti si sono già costituiti e si è scelto di non modificarne la composizione. 

L’iter dei correttivi

I correttivi consistono in una serie di riforme ulteriori rispetto alla legge costituzionale 1/2020 volte ad armonizzare le norme riguardanti il parlamento alla luce della riduzione del numero dei suoi componenti.

Nello specifico, quelli individuati nella precedente legislatura erano: 

  • l’abbassamento a 18 anni della soglia d’età per il voto a palazzo Madama;
  • il superamento della base regionale per l’elezione del senato;
  • la riduzione da 3 a 2 delegati regionali per l’elezione del presidente della repubblica;
  • la revisione dei regolamenti di camera e senato.

La prima riforma dell’elenco è l’unica a essere stata completata interamente, grazie all’approvazione della legge costituzionale 1/2021. Il secondo e il terzo punto invece erano inizialmente ricompresi in una proposta di revisione costituzionale che vedeva come primo firmatario Federico Fornaro, all’epoca appartenente a Liberi e uguali e oggi deputato del Partito democratico.

Durante la discussione in aula tuttavia la parte relativa ai delegati regionali è stata stralciata. Nonostante questo la proposta di legge è stata approvata solo dalla camera ma non ha mai ricevuto l’ok del senato. L’iter di questa riforma deve quindi ricominciare da capo. Attualmente tra l’altro una proposta di revisione costituzionale in questo senso non è presente tra le molte già depositate dai componenti del nuovo parlamento.

44 le proposte di revisione costituzionale già depositate dall’inizione della XIX legislatura. Nessuna fa riferimento alla base regionale del senato. 

Per quanto riguarda le modifiche ai regolamenti invece, come già detto, l’aula di Montecitorio si è vista costretta ad apportare delle modifiche “in corsa”, cioè a legislatura già iniziata. Anche per questo motivo i cambiamenti introdotti hanno una portata molto limitata. 

Ciò è dovuto al fatto che i componenti della nuova giunta per il regolamento hanno voluto approvare le revisioni più urgenti nel più breve tempo possibile. Nella seduta dello scorso 15 novembre il presidente Lorenzo Fontana infatti ha specificato che le riforme al regolamento in discussione sono riferibili a un cosiddetto “primo binario” contenente solo le modifiche essenziali. Queste si limitano a degli aggiustamenti numerici conseguenti alla riduzione del numero dei deputati. Per queste modifiche è stato ripreso sostanzialmente il lavoro fatto nella legislatura precedente. Gli interventi sul regolamento della camera però sembrerebbero non essersi conclusi.

1 su 4 i correttivi richiesti per cui l’iter è già stato completato. 

Si prevede infatti anche di iniziare a lavorare su un “secondo binario” di riforme più sostanziali. Tale filone di lavori tuttavia – si legge sempre dai resoconti delle sedute della giunta – avrà tempi più lunghi. Motivo per cui si è scelto di operare in due momenti diversi. Il presidente Fontana però ha manifestato l’intenzione di dare rapida attuazione anche a questa seconda fase. A questo fine ha incaricato i deputati Federico Fornaro (Pd) e Igor Iezzi (Lega) di avviare una ricognizione delle modifiche ritenute necessarie.

Le modifiche al regolamento della camera

Che i lavori legati alla revisione del regolamento di Montecitorio siano ancora molto parziali lo si evince anche analizzando più nel dettaglio la portata delle modifiche introdotte rispetto al lavoro fatto al senato. A palazzo Madama infatti gli articoli modificati, aggiunti o soppressi sono stati 57 e i commi 88. A Montecitorio invece gli articoli oggetto di revisione sono stati 24 (quindi meno della metà) e i commi 31.

Come già anticipato, i cambiamenti apportati vanno a modificare solo le soglie numeriche in quei casi in cui nel regolamento erano indicati numeri puntuali. Non cambia niente invece per quanto riguarda soglie di carattere formale. Quei casi cioè in cui non è specificato un numero esatto ma si fa riferimento a quote variabili come ad esempio la “maggioranza dei presenti”.

Le deliberazioni dell’Assemblea e delle Commissioni in sede legislativa non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti. Per le deliberazioni delle Commissioni in sede diversa da quella legislativa è sufficiente la presenza di un quarto dei loro componenti.

Tra le modifiche più rilevanti troviamo la riduzione del numero minimo di aderenti per formare un gruppo autonomo che passa da 20 deputati a 14. È interessante notare che camera e senato in questo caso hanno fatto due scelte diverse. A palazzo Madama infatti sono 6 i senatori richiesti per formare un gruppo. Un numero che corrisponde a circa il 2,9% dei componenti l’aula, considerando anche i senatori a vita. A Montecitorio invece la percentuale sale al 3,5%.

La riforma del regolamento ha abbassato di conseguenza anche la soglia minima di aderenti per la formazione di componenti interne al gruppo misto che passa da 10 a 7 deputati. Scende poi da 30 a 20 il numero di componenti della giunta per le elezioni e da 21 a 15 quello della giunta per le autorizzazioni a procedere.

Il nuovo regolamento prevede poi l’abbassamento di altre soglie numeriche. Ad esempio scende da 10 a 7 il numero di deputati che possono presentare la questione pregiudiziale (la richiesta cioè che un dato argomento non venga discusso) o la questione sospensiva (il rinvio della discussione al raggiungimento di determinati traguardi), anche quando la discussione è già iniziata.

Le modifiche al regolamento della camera abbassano solamente le soglie numeriche previste.

Scende poi da 20 a 14 il numero di deputati che possono richiedere la verifica del numero legale in assemblea (passaggio che in alcuni momenti può diventare politicamente rilevante) e da 4 a 3 in commissione. Diminuisce infine da 10 a 7 anche il numero di deputati richiesto affinché sia dichiarata l’urgenza di un progetto di legge e si passi così a un iter di discussione semplificato.

Un ultimo elemento interessante da notare riguarda il fatto che le modifiche introdotte non entreranno in vigore da subito.

6 su 31 i commi la cui modifica entrerà in vigore solamente dalla prossima legislatura. 

Le variazioni relative alle soglie per la costituzione di nuovi gruppi o di componenti del gruppo misto infatti entreranno in vigore solamente a partire dalla XX legislatura. Stesso destino anche per la modifica del numero dei componenti della giunta per le elezioni e di quella per le autorizzazioni. Le altre modifiche invece saranno operative a partire dal 2023. 

Questioni ancora aperte

Come detto, la necessità di apportare modifiche al regolamento nel più breve tempo possibile ha lasciato insolute molte questioni. Tra queste, ad esempio, la possibilità di introdurre interventi volti a scoraggiare il fenomeno dei cambi di gruppo. Accorgimenti presenti invece nel nuovo regolamento del senato.

Ancora tutta da definire poi la questione degli organi bicamerali dove – secondo alcuni – senza una revisione dei regolamenti i gruppi meno consistenti della camera rischiano di essere sottorappresentati.

Un altro tema concerne la composizione delle Commissioni bicamerali rispetto al quale [Alessandro Colucci, Ndr] paventa il rischio che le forze politiche di minore consistenza numerica, quale quella cui appartiene, in ragione della più ristretta composizione del Senato e del conseguente maggior peso dei Gruppi di quel ramo del Parlamento, possano essere rappresentate in seno agli organismi bicamerali solo da senatori e mai da deputati.

Altra questione non affrontata riguarda l’eventuale riduzione dei componenti l’ufficio di presidenza, con riferimento in particolare alla figura dei segretari. Dato che la riduzione del numero dei deputati non comporta automaticamente una diminuzione del carico di lavoro per queste figure, sono emersi dubbi infatti sull’opportunità di rivederne il numero. 

Peraltro, l’assemblea di Montecitorio non ha potuto presentare emendamenti alla proposta di modifica del regolamento. Era consentito solamente formulare principi e criteri direttivi. Una scelta giustificata dal fatto che la giunta per il regolamento aveva approvato all’unanimità le proposte di modifica del “primo binario”.

Alcune osservazioni al testo tuttavia sono state presentate in particolare dal gruppo dell’Alleanza Verdi-Sinistra. Formazione che, essendosi costituita solo il 27 ottobre, non ha propri rappresentanti all’interno della giunta.

La riforma del regolamento non affronta temi come quello del trasformismo o degli organi biacamerali.

Tra le proposte avanzate vi erano una ulteriore riduzione del numero di deputati necessari per costituire un gruppo autonomo (12 anziché 14) e l’estensione delle prerogative dei capigruppo. Tali osservazioni non sono state accolte dalla giunta, anche perché i suoi componenti hanno assicurato che potranno eventualmente essere riprese, con il secondo binario. Anche alla luce di questa indicazione, il gruppo di Avs le ha ritirate.

C’è da dire però che nonostante le buone intenzioni manifestate, alla luce delle difficoltà riscontrate nella scorsa legislatura per trovare un accordo anche solo su un testo base, il percorso per arrivare a una revisione sostanziale del regolamento di Montecitorio potrebbe essere lungo e non privo di ostacoli.

Foto: Comunicazione camera

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L’astensionismo e il partito del non voto Mappe del potere

L’astensionismo e il partito del non voto Mappe del potere

Dopo le ultime elezioni parlamentari è emersa con ancora più evidenza la questione dell’astensionismo. Sono sempre di più infatti gli elettori che non si recano alle urne e il partito del non voto è ormai stabilmente il “primo partito” d’Italia.

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Il tema dell’astensionismo interessa da anni il dibattito pubblico, in particolare nelle fasi elettorali. D’altronde la continua crescita del numero di persone che si astengono dal voto costituisce comprensibilmente un elemento di preoccupazione rispetto al grado di legittimità del sistema rappresentativo. I risultati elettorali infatti mostrano come la coalizione che ha ricevuto più voti e che otterrà la maggioranza parlamentare ha raccolto il consenso di poco più di 1 elettore su 4. È stato invece il “partito del non voto” l’opzione più comune in questa tornata elettorale, rappresentando la scelta di quasi il 40% del corpo elettorale.

Diritto o dovere

La costituzione italiana definisce l’esercizio del voto come un “dovere civico”. Un’espressione questa su cui si è molto dibattuto ma che senza dubbio esprime l’auspicio, da parte dei costituenti, che l’intero corpo elettorale partecipi al processo democratico.

Il voto e` personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

Già questa espressione d’altronde rappresenta una formula di mediazione tra chi, in assemblea costituente, riteneva che il voto dovesse essere obbligatorio e chi invece lo vedeva come un diritto che i cittadini possono liberamente decidere di esercitare o meno.

La costituzione dunque non disciplina di per sé un obbligo giuridico pur non escludendo, almeno esplicitamente, che la legge possa declinarlo come tale.

L’annosa questione del Voto come “dovere civico”.

E in effetti la prima formulazione del testo unico delle leggi per l’elezione della camera dei deputati (Dpr 361/1957) definiva esplicitamente l’esercizi del voto come un obbligo, prevedendo anche delle sanzioni, anche se di natura assolutamente modesta.

Ex art. 4 – L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il paese.
Ex art. 115 – L’elettore, che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco del comune nelle cui liste elettorali è iscritto

Tali sanzioni peraltro furono molto raramente applicate e nel 1993, con la riforma del testo unico, l’articolo 115 che stabiliva le sanzioni per il mancato esercizio del voto fu abrogato, mentre l’articolo 4 fu riformulato. Nel nuovo testo non si parlava più di un dovere, ma di un diritto che dev’essere promosso dalla repubblica.

Il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla repubblica.

Nel 2005 poi è intervenuta su questo dibattito la stessa corte costituzionale. Nella sentenza la consulta ha quindi definito la scelta di non partecipare come una forma di esercizio del diritto di voto. A parere della corte tuttavia a tale scelta non può essere interpretata come la manifestazione di una volontà politica, dovendogli piuttosto attribuire esclusivamente un significato socio-politico.

[…] il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico.

Il calo dell’affluenza

A partire dalle elezioni del 1979 l’affluenza alle consultazioni parlamentari ha subito un progressivo e quasi continuo calo che l’ha portata dal 93,4% del 1976 al 63,8% del 2022.

63,8% l’affluenza alle elezioni parlamentari 2022 (camera).

Dalla fine degli anni ’80 infatti solo in due occasioni si è registrata una momentanea ripresa dell’affluenza: prima nel 1987, con una crescita di appena 0,8 punti percentuali rispetto al 1983, e poi nel 2006 con una crescita di oltre 2 punti rispetto al 2001.

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DA SAPERE

La percentuale di affluenza alle elezioni per il rinnovo della camera dei deputati è calcolata facendo il rapporto tra il numero di elettori, ovvero i cittadini aventi diritto al voto, e i votanti, ovvero gli elettori che hanno effettivamente esercitato il loro diritto al voto. Questo indipendentemente dal fatto che abbiano espresso il loro voto a favore di una lista, che il loro voto sia stato considerato nullo per le più varie ragioni o che abbiano votato scheda bianca. A partire dai dati delle elezioni 2006 sono considerati solo gli elettori che hanno votato in Italia (e quindi non la circoscrizione estero) a esclusione di quelli della Valle d’Aosta. Al momento della pubblicazione i dati relativi al 2022 per quanto definitivi nella sostanza non sono ancora stati del tutto ufficializzati e potrebbero subire leggere variazioni.

FONTE: elaborazione openpolis su dati ministero dell’interno
(ultimo aggiornamento: venerdì 30 Settembre 2022)

 

Ma se in oltre 30 anni l’affluenza è calata di 10 punti, passando da oltre il 90% fino a valori comunque superiori all’80%, nel successivo quindicennio il calo dell’affluenza ha subito una drastica accelerazione. Tra il 2008 e il 2022 infatti la quota di elettori che si sono recati alle urne si è ridotta di quasi 17 punti percentuali.

Il partito del non voto

Ma se di grande importanza è la percentuale degli astenuti (ovvero chi non si è recato alle urne), altrettanto interessanti sono anche i numeri assoluti di quello che può essere definito come il partito del non voto, inteso come la somma degli astenuti e di chi ha votato scheda bianca (nel conteggio non sono invece incluse le schede nulle).

In particolare è utile mettere a confronto il numero di elettori che hanno scelto il non voto con quelli che invece hanno optato per una delle liste più votate alle elezioni.

Fino al 1987 il numero di elettori che hanno scelto il non voto si è posto costantemente al di sotto dei due principali partiti che si sono presentati alle elezioni, ovvero la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano.

A partire dal 2013 quello del non voto è costantemente il “primo partito” d’Italia.

Nel 1992, per la prima volta, il partito del non voto ha invece superato il secondo partito con più voti alle elezioni, in quell’occasione il Partito democratico della sinistra (Pds). Alle elezioni successive invece le prime due liste e il partito del non voto hanno raggiunto cifre molto simili: 8,1 milioni di voti Forza Italia, 7,8 il Pds e 8 il partito del non voto. Alle elezioni del 1996 poi il partito del non voto ha raccolto per la prima volta più preferenze di tutti, anche se negli anni successivi è tornato al pari o al di sotto almeno del primo partito. È a partire dal 2013 infine che il non voto rappresenta la scelta più comune tra gli elettori, almeno rispetto alle singole liste.

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DA SAPERE

Per partito del non voto si intende la somma tra il numero di elettori che non si sono recati alle urne e le schede bianche. Non sono invece inclusi in questo insieme i voti considerati nulli per ragioni diverse. A partire dai dati delle elezioni 2006 sono considerati solo gli elettori che hanno votato in Italia (e quindi non la circoscrizione estero) a esclusione di quelli della Valle d’Aosta. Al momento della pubblicazione i dati relativi al 2022 per quanto definitivi nella sostanza non sono ancora stati del tutto ufficializzati e potrebbero subire leggere variazioni.

FONTE: elaborazione openpolis su dati ministero dell’interno
(ultimo aggiornamento: venerdì 30 Settembre 2022)

 

Confrontare il partito del non voto con i risultati ottenuti dalle singole liste ci dice molto del rapporto tra elettori e formazioni politiche. Allo stesso tempo però è evidente che i risultati ottenuti dalle prime due liste dipendono in maniera determinante dal grado di frammentazione del sistema politico oltre che dall’eventuale inclusione nella legge elettorale della possibilità di fare coalizioni.

Tuttavia i risultati delle ultime politiche confermano quella del non voto come la scelta ampiamente più comune tra gli elettori, anche considerando le coalizioni nel loro insieme.

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DA SAPERE

Per il “Partito del non voto” sono indicati il numero di elettori che non hanno votato e il numero di schede bianche. Per la coalizione di centro-destra i voti ottenuti dalle liste di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati. Per la coalizione di centro-sinistra quelli ottenuti dalle liste di Partito democratico, Alleanza Verdi e Sinistra, +Europa e Impegno civico. Separatamente sono poi indicati i voti ottenuti dalle due liste nazionali non coalizzate che sono entrate in parlamento ovvero il Movimento 5 stelle e Azione-Italia viva. Sono considerati solo gli elettori che hanno votato in Italia (e quindi non la circoscrizione estero) a esclusione della Valle d’Aosta. Al momento della pubblicazione i dati relativi al 2022 per quanto definitivi nella sostanza non sono ancora stati del tutto ufficializzati e potrebbero subire leggere variazioni.

FONTE: elaborazione openpolis su dati ministero dell’interno
(ultimo aggiornamento: venerdì 30 Settembre 2022)

 
+39,5% gli elettori che hanno scelto di non esprimersi rispetto a quelli che hanno votato liste di centro-destra.

In questi termini infatti il partito del non voto ha coinvolto oltre 17 milioni di elettori. Ben oltre i 12,3 del centro-destra che complessivamente rappresentano il 26,7% dell’elettorato.

Disinteresse o forma di protesta

Nella scelta di non esprimere preferenza per alcuna lista cambia ovviamente il modo in cui si intende esprimere la propria decisione. Tra coloro che non si sono recati al voto infatti è impossibile distinguere tra coloro che non hanno votato per protesta non sentendosi rappresentati dai partiti e tra coloro che non hanno votato per disinteresse.

Diverso invece è il caso delle schede bianche, le quali possono essere interpretate, con un certo margine di sicurezza, come l’espressione di un voto di protesta nei confronti del sistema politico, o comunque un non riconoscimento nell’offerta politica esistente. È probabile poi che anche una quota di schede annullate risponda a questa stessa motivazione, tuttavia in questo caso è impossibile distinguere questa situazione dall’annullamento per errore materiale.

Considerando dunque le schede bianche come l’espressione più esplicita di un dissenso politico nei confronti dei partiti è interessante notare come l’andamento di queste abbia seguito negli anni un trend diverso sia rispetto all’affluenza sia rispetto a quello che abbiamo definito partito del non voto.

Infatti se da un lato è vero che il numero di schede bianche è cominciato a crescere già dalle seconde elezioni repubblicane, questa crescita ha seguito un andamento molto più incostante rispetto all’astensioneraggiungendo poi il suo apice nel 2001Dalle elezioni politiche del 2006 in poi, al contrario, il numero di schede bianche ha subito un tracollo drastico, passando da quasi 1,7 milioni nel 2001 (3,4% del corpo elettorale) a poco più di 400mila nel 2006 (0,9%). Tale cifra è poi rimasta abbastanza costante negli anni successivi e nel 2022 si è collocata intorno a 492mila, ovvero l’1,1% del corpo elettorale e il 2,9% di quello che abbiamo definito partito del non voto.

Un dato decisamente basso, in particolare se si considera che la quota di schede bianche rispetto al partito del non voto, nel 1968 sfiorava il 20%. Più in generale tra l’inizio degli anni ’50 e la fine degli anni ’80 questa percentuale è rimasta costantemente sopra il 17%, in una fase in cui l’affluenza alle urne era ancora molto forte.

Secondo autorevoli interpretazioni prima l’impennata e poi il calo del numero di schede bianche andrebbe letto alla luce di particolari caratteristiche del sistema elettorale in vigore tra il 1993 e il 2005, ovvero il cosiddetto mattarellumTuttavia anche escludendo questo periodo si osserva un calo delle schede bianche che passa da quasi 900mila nel 1992 a poco più di 400mila nel 2006. Valore dal quale non si è discostato di molto negli anni successivi.

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Come cambia il regolamento della camera I correttiviultima modifica: 2022-12-31T18:18:09+01:00da vitegabry
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