Archivi giornalieri: 12 dicembre 2022

Cos’è il principio “non arrecare danno significativo”

Cos’è il principio “non arrecare danno significativo”

Nessuna misura inclusa nei Pnrr europei deve arrecare danni significativi (do no significant harm, Dnsh) all’ambiente o al clima.

Definizione

Tutti gli interventi proposti dai piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr) dei paesi Ue devono rispettare la regola del “non arrecare danno significativo” (do no significant harm, Dnsh). Ogni misura per essere in agenda deve quindi essere priva di rischi dannosi per l’ambiente e il clima.

Questo principio è stato definito a partire dalla tassonomia per la finanza sostenibile. Un sistema di classificazione ideato dal comitato economico e sociale europeo, che definisce quali attività sono ecosostenibili.

Il Dnsh si basa su 6 criteri per valutare l’impatto ambientale di una misura:

  • mitigazione dei cambiamenti climatici. Nessun intervento deve causare significative emissioni di gas serra;
  • adattamento ai cambiamenti climatici. Una misura non deve impattare negativamente sul clima attuale e futuro, né su persone, beni, natura o l’attività stessa;
  • uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine. Un’attività economica non deve danneggiare mari, fiumi, laghi o qualsiasi altro bacino o corso d’acqua. Dal livello superficiale a quello sotterraneo, il potenziale ecologico deve essere tutelato;
  • transizione verso l’economia circolare, riduzione e riciclo dei rifiuti. Un intervento non deve causare l’aumento dell’utilizzo di risorse naturali, né della produzione di rifiuti destinati a incenerimento o smaltimento. Non deve essere inefficiente nel ricorso a materiali recuperati o riciclati;
  • prevenzione e riduzione dell’inquinamento. Una misura non deve determinare un aumento delle emissioni di inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel suolo;
  • protezione e ripristino della biodiversità e della salute degli eco-sistemi. Nessun intervento Pnrr deve mettere a rischio la conservazione degli ecosistemi, degli habitat e delle specie.

Ogni misura viene quindi valutata in base ai possibili effetti sui singoli obiettivi e associata di conseguenza a 4 scenari:

  • impatto nullo o trascurabile,
  • sostegno del 100% all’obiettivo, in base ai parametri indicati nel regolamento Ue 2021/241,
  • contributo sostanziale,
  • la misura richiede una valutazione Dnsh complessiva.

Se l’intervento rientra in uno dei primi 3 punti, la verifica segue un approccio semplificato. Se invece viene associato all’ultimo scenario, il controllo consiste in un’analisi approfondita. Questo avviene per investimenti e riforme nei settori di energia, trasporti o rifiuti, che hanno un rischio maggiore di incidere sugli obiettivi ambientali.

In ogni caso questa verifica non è esterna, ma sono i paesi stessi a dover effettuare e condividere le autovalutazioni di ogni misura, sulla base dei parametri e delle indicazioni fornite dalla commissione europea.

Inoltre, al di là della verifica a priori, il principio Dnsh deve essere rispettato lungo tutta la fase di realizzazione concreta dell’intervento. Dunque anche i soggetti attuatori, perlopiù amministrazioni locali, devono assicurarsi che l’investimento o la riforma in questione non arrechi danni significativi all’ambiente. Dall’inizio alla fine della sua messa a terra.

Per aiutare i soggetti attuatori in questo senso, viene periodicamente aggiornata e resa disponibile una guida operativa per il rispetto del principio Dnsh. Questo documento fornisce innanzitutto una mappatura, che associa ogni misura alle attività economiche necessarie per realizzarla. Poi per ciascun settore di intervento – dalla costruzione di nuovi edifici all’acquisto di servizi informatici – si trova una scheda tecnica contenente informazioni operative e normative necessarie al rispetto dei vincoli Dnsh. E delle check list sintetiche con gli stessi contenuti.

Analisi

Il principio “non arrecare danno significativo” è del tutto in linea con l’agenda decennale dell’Unione europea di contrasto al cambiamento climatico e alla crisi ambientale. Tuttavia il Dnsh, così come altri strumenti e accordi messi in atto negli anni a livello comunitario, racchiude in sé alcune criticità che potrebbero minarne l’efficacia.

Innanzitutto è bene ribadire che la verifica sulle misure del Pnrr non viene svolta dall’esterno, dalla commissione europea, ma attraverso autovalutazioni. Sono quindi gli stessi paesi a effettuare i controlli e a presentarne i risultati a Bruxelles.

Inoltre, sappiamo che la regola Dnsh vale per tutte le fasi di attuazione dei progetti. E che la commissione si dovrebbe occupare di verificarne il rispetto. Tuttavia, a oggi non sono ancora state definite le modalità in cui questo dovrebbe avvenire. Sicuramente però, affinché questi controlli abbiano luogo, gli enti attuatori devono raccogliere informazioni e documentare ogni passaggio della realizzazione dei progetti. Facendo ricorso alla guida operativa e in particolare alle checklist, che indicano i controlli da effettuare lungo tutte le fasi della messa a terra di un’opera.

Ma quanto è verosimile che i soggetti attuatori si occupino di queste verifiche? Come abbiamo raccontato in diverse occasionigli enti locali hanno difficoltà amministrative e burocratiche nella gestione e nel monitoraggio dei progetti Pnrr. Una situazione spesso dovuta a mancanza di personale e di esperti; e talmente diffusa che a oggi ancora non è disponibile alcun tipo di dato sull’avanzamento dei progetti. In questo quadro risulta quindi difficile pensare che tali circostanze non costituiscano un ostacolo anche per la verifica sul rispetto del principio Dnsh.

In sintesi, la regola “non arrecare danno significativo” è sicuramente valida, ma il suo rispetto potrebbe essere reso difficile. Sia dalla mancanza a oggi di meccanismi di verifica esterni, sia dalle scarse possibilità di monitoraggio da parte delle amministrazioni locali.

 

Oggi su “In Terris” Strage di Piazza Fontana: un indubbio tornante nella storia dell’Italia repubblicana

di Carlo Felice Casula
Dicembre 12, 2022
Venerdì 12 dicembre del 1969, a Milano, nel primo pomeriggio di una giornata fredda e piovosa, nella sede di Piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura, deflagrò un potente ordigno nel salone centrale, affollato di imprenditori, coltivatori e allevatori venuti in città per operazioni bancarie nel giorno di mercato. Un grande boato, schegge di vetro che colpiscono i presenti terrorizzati e un cratere nel pavimento di quasi due metri. 14 persone sono uccise sul colpo, altre due, ferite gravemente morirono dopo alcune settimane, mentre una terza, morrà un anno dopo per le lesioni subite nell’attentato. A questi vanno aggiunti quasi 100 feriti. A provocare la tremenda esplosione – si scoprirà quasi immediatamente – sono stati 7 chilogrammi di gelignite compressi in una scatola metallica e la gelignite è molto più potente della dinamite.
Nella stessa giornata, nel centro di Milano, fu trovato un ordigno inesploso nella filiale della Banca Commerciale Italiana di Piazza della Scala e, nel cuore della capitale, scoppiarono tre bombe: una all’Altare della Patria e la seconda sui gradini del Museo del Risorgimento, collocato anch’esso nel complesso del Vittoriano; la terza nel seminterrato della Banca del lavoro in Via Veneto. Il bilancio, in questo caso non fu drammatico: lievi danni e 14 feriti.
Mirco Dondi, nel libro 12 dicembre 1969, pubblicato dall’editore Laterza nel 2018, ha ricostruito i drammatici eventi di quella giornata con uno sguardo incrociato sulle vittime, gli esecutori, i servizi segreti e i politici.
Inizialmente furono indicati come autori dell’attentato il mite ferroviere Giuseppe Pinelli, già staffetta partigiana e lo sprovveduto ballerino Pietro Valpreda, entrambi iscritti a un circolo anarchico di Milano. Premerono in tal senso sia il questore di Milano sia il ministro degli interni Franco Restivo, mentre il ministro del lavoro Carlo Donat Cattin inutilmente criticò “la tendenza di ricercare tra gli anarcoidi, tralasciando la destra”.
Guido Crainz, nella sua Storia della repubblica (Donzelli 2016), documenta come, all’indomani della strage, si effettuarono 310 perquisizioni domiciliari di “elementi di sinistra”, e solo 57 di “elementi di destra”. Furono il frutto d’indagini superficiali e frettolose, ma anche di depistaggi inseriti in un meccanismo costruito ad arte, amplificato dall’informazione da gran parte della stampa e dalla televisione di Stato, che mirava, consciamente o inconsciamente a diffondere un clima di paura e incertezza, a mantenere la sinistra comunista sempre fuori dal governo del paese (è la famosa conventio ad excludendum) e a criminalizzare l’estrema sinistra, legittimando una deriva autoritaria dello Stato.
Valpreda resterà in carcere fino al 1972, mentre Pinelli, tre giorni dopo il fermo, muore, cadendo dal quarto piano della questura in una pausa degli interrogatori condotti dal commissario Luigi Calabresi. Questi, a sua volta, accusato ingiustamente di esserne stato responsabile, è ucciso in un attentato, il 7 maggio del 1972, del quale sono stati accusati Ovidio Bompressi e Leonardo Marino come esecutori e Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, tutti di Lotta Continua, come mandanti. Pinelli e Calabresi sono, in fondo, entrambi vittime anch’essi dell’attentato di Piazza Fontana.
Le indagini, grazie anche alle pressioni della pubblica opinione democratica, si indirizzarono su ambienti dell’eversione neofascista, in particolare sul gruppo padovano di Franco Freda e Giovanni Ventura, nonché sul giornalista Guido Giannettini, sul libro paga dei servizi segreti italiani. I processi si protrarranno per quasi 40 anni, svolgendosi a Roma, poi a Milano, a Catanzaro e, infine, a Milano, dove la Corte d’Assise condanna all’ergastolo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, stabilendo in maniera definitiva la responsabilità della destra estrema nella strage.
Anche la durata di questi processi sono una conferma del fatto che l’attentato della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana costituisce un indubbio tornante nella storia dell’Italia repubblicana. Apre, infatti, una fase nuova, con molti misteri insoluti, ponendo fine – è stato scritto – alla “età dell’innocenza”, nella quale la violenza terroristica diventa strumento di progetti oscuri di eversione della convivenza pacifica e delle istituzioni democratiche.
Costituisce il primo terribile segnale della strategia della tensione. L’espressione strategy of tension apparve per la prima volta sull’«Observer» del 14 dicembre nell’articolo degli inviati in Italia proprio per dei reportages sulla strage di Piazza Fontana.
È significativo che lo storico, già citato, Marco Dondi che insegna nell’università di Bologna, la città dove l’attentato alla stazione ferroviaria del 2 agosto 1980, provocò 85 vittime e oltre 200 feriti, abbia dato il titolo, L’eco del boato a una sua storia della strategia della tensione, pubblicata sempre da Laterza.
Pier Paolo Pasolini, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, in un articolo giustamente famoso, Che cos’è questo golpe? pubblicato su “Il Corriere della Sera”, il 14 novembre del 1974, denunciava il coinvolgimento di apparati dello Stato e di settori delle forze armate e di polizia e, ancor più dei servizi segreti italiani e americani, nelle stragi compiute dai neofascisti, da Piazza Fontana alla bomba del treno Italicus del 4 agosto 1974. Amaramente, però, precisava: “Io so ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto quello che succede, di conoscere tutto ciò che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.
Agostino Giovagnoli, che insegna proprio a Milano, nel suo libro, La Repubblica degli Italiani 1946-2016 (Laterza 2016), sulla base delle più mature acquisizioni storiografiche, ha proposto sulla strage di Piazza Fontana una ricca riflessione che merita di essere citata: “Nel dicembre del 1969, la strage di Piazza Fontana segnò l’inizio della strategia della tensione, ispirata dall’obbiettivo di determinare un forte spostamento si consensi verso i partito fautori dell’ordine o a favore di nuove forme istituzionali, gettando discredito non solo verso i comunisti ma anche verso le correnti riformistiche della coalizione di centro sinistra. Nei primi anni Settanta venne realizzata una serie drammatica di azioni terroristiche, dall’attentato di Piazza della Loggia a quello del treno Italicus, la cui matrice neofascista non apparve immediatamente evidente, anche pe l’opera di depistaggio realizzata da apparati dello Stato. La strategia della tensione poté inoltre contare su una rete di complicità internazionali, favorite dai servizi segreti di vari paesi occidentali. Negli stessi anni, la preoccupazione per la crescita del ruolo del Pci in Italia fu manifestata esplicitamente da governi di paesi alleati tra cui quello americano. Tutto ciò contribuì a spostare verso destra la politica italiana, con le elezioni anticipate e il governo centrista Andreotti-Malagodi del 1972. Nel tempo però la strategia della tensione venne condannata con crescente determinazione dalla classe dirigente e dall’opinione pubblica, coagulate da una rinnovata mobilitazione antifascista”.