Archivi giornalieri: 15 dicembre 2022

GLI IDOLA FORI SULLA LINGUA SARDA

 di Francesco Casula
Sul Sardo sono presenti – e spesso vengono circuitati ad arte – una serie di pregiudizi e di luoghi comuni. Una sorta di Idola fori, per dirla con il forbito lessico del filosofo e politico inglese Francesco Bacone. Essi si sono creati e sedimentati nel tempo, frutto insieme dell’ignoranza e persino della malafede dei nemici della lingua sarda. Eccone alcuni: 1.Il sardo è un dialetto. Il pregiudizio e il luogo comune più diffuso è che il sardo sia un dialetto. Occorre rispondere e chiarire con nettezza che nessun linguista o intellettuale rigoroso e serio ritiene che il sardo sia un dialetto: dal massimo studioso Max Leopold Wagner (che scriverà una monumentale opera dal titolo inequivocabile: La lingua sarda. Storia, spirito e forma) a un intellettuale come Antonio Gramsci che in una lettera dal carcere del 26 marzo del 1927 alla sorella Teresina scriverà: “Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me,non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto ma una lingua a sé…” . Ma oggi è lo stesso Stato italiano a riconoscere al sardo lo status di lingua: nella Legge del 15 dicembre 1999, n.482 concernente “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” l’art.2 recita testualmente: “In attuazione dell’art. 6 della Costituzione e in armonia con in principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino , l’occitano e il sardo”. Il sardo è una lingua con proprie strutture sintattiche e grammaticali, espressioni foniche e semantiche, peculiari, autonome e distinte da tutte le altre lingue neolatine o romanze, ad iniziare dall’italiano. D’altronde basta leggere un qualsiasi manuale, non di linguistica ma di storia, basta andare a Marc Bloch, per esempio, per sapere che la lingua sarda è nata ben 300 prima della lingua di Dante: come si può pensare dunque che sia un dialetto italiano? Ciò premesso occorre anche aggiungere che la linguistica moderna, scientifica, non distingue né fa differenze tra ciò che comunemente si chiama lingua da ciò che si chiama dialetto e, a maggior ragione, non distingue tra lingua egemone e lingua subalterna. Ciò che rende differente ciò che noi chiamiamo lingua da quello che chiamiamo dialetto non è qualcosa di insito nel sistema linguistico ma l’uso e l’importanza sociale dello stesso. In altra parole fra lingua e dialetto non ci sono differenze culturali ma politiche e giuridiche. Per cui schematicamente potremmo affermare che la lingua è un dialetto che nella storia “vince” politicamente: così è stato per l’attico di Atene in Grecia; per il castigliano di Madrid in Spagna; per il francese che da “dialetto” di Parigi, in seguito alla supremazia della città, è stato adottato come idioma di tutto lo stato francese; per lo stesso italiano che da “dialetto” di Firenze, diviene idioma comune a tutta la penisola per il prestigio culturale degli scrittori fiorentini,e via via elencando. O pensiamo ai “dialetti” dei vari paesi africani e asiatici ecc., che una volta decolonizzati e ottenuta l’indipendenza, diventano “lingue”. Così il Kiswahili – ma è solo un esempio – considerato “dialetto” nel Kenya sotto il dominio inglese fino al 1964, è oggi la lingua ufficiale di questo paese africano. È cambiata qualcosa? Sì. Lo status politico e giuridico, non altro. Ed è proprio lo status politico, in buona sostanza, a distinguere una lingua da un dialetto. A questo proposito è quanto mai opportuno ricordare la famosa definizione di Max Weinreich: “Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”. 2. Il Sardo non è unitario. Un altro diffuso e ubiquitario pregiudizio e luogo comune attiene all’unità e unitarietà del Sardo. Non c’è un Sardo, si dice, ma molti Sardi. Si sostiene in genere che il Sardo consti di due fondamentali varianti: il logudorese e il campidanese. Si tratta di una mera semplificazione. In realtà esistono tante parlate quanto sono i paesi della Sardegna e, addirittura, in qualche città, parlate diverse da un Quartiere a un altro: come a Cagliari. Ma il fatto che esistano due (o meglio tante) parlate non mette minimamente in discussione l’esistenza di una lingua sarda sostanzialmente unitaria, in quanto la lingua, per la linguistica scientifica è considerata un sistema o un insieme di sistemi linguistici. Inoltre la struttura del campidanese e del logudorese è sostanzialmente identica: quando vi sono delle differenziazioni di tratta di differenziazioni o lessicali (dovuta alla diversa penetrazione delle lingue dei popoli dominatori, soprattutto spagnolo e italiano) o differenze fonetiche, di pronuncia. Cioè differenze minime. Peraltro presenti anche nei diversi paesi della stessa “zona linguistica”. Ma non differenze sostanziali a livello grammaticale o sintattico. Del resto, qualcuno può affermare che l’Italiano non sia una lingua unitaria perché viene parlata con una pronuncia che varia – e molto! – da regione a regione, da paese a paese, da città e città? Qualcuno può pensare che la lingua sarda non sia unitaria perché “adesso” in campidano risulta “immoi” e nel logudoro “como”? Che dire allora dell’italiano “unito” a fronte di adesso, ora, mo’ per indicare lo stesso termine? Il fatto che in sardo per indicare asino si utilizzino molti lessemi (ainu, molente/i, poleddu, burricu, bestiolu, burriolu, burragliu, chidolu, cocitu, unconchinu) non è forse segno di ricchezza lessicale piuttosto che di disunità del Sardo? Una lingua fatta di somme e di accumuli in virtù delle influenze plurime indotte dalla presenza nei secoli, di svariati popoli, ognuno dei quali ha influenzato e contaminato la lingua sarda? Ma poi, dopo essere stata riconosciuta anche giuridicamente e politicamente come lingua, chi impedisce al Sardo di assurgere al piano e al ruolo anche pratico, di lingua unificata? Così come è successo storicamente a molte lingue, antiche e moderne, nel mondo e in Europa, prima pluralizzate in molte parlate e dialetti e in seguito unificate? Negli ultimi 150 anni della nostra storia è successo nell’800 e nel primo ‘900, tanto per fare qualche esempio, al rumeno, all’ungherese, al finlandese, all’estone; e recentemente al catalano, le cui varietà (il barcellonese, il valenzano, il maiorchino per non parlare del rossiglionese, del leridano e dell’algherese) erano assai diverse fra loro e assai più numerose delle varietà del Sardo di oggi. Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna, uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano nascente. È un primo incoraggiante inizio: occorrerà proseguire in tale direzione. Si potrà ancora obiettare che tra logudorese e campidanese potrebbero esserci differenze poco sostanziali, ma come la mettiamo con il Catalano di Alghero, il Tabarchino di Carloforte e Calasetta, e lo stesso Gallurese e Sassarese? I linguisti rispondono a questa obiezione con chiarezza e scientificità: si tratta di Isole alloglotte. Ovvero di lingue e dialetti diversi dalla Lingua sarda, pur presenti nello stesso territorio sardo. Un fenomeno del resto presente in tutto il territorio italiano – e non solo – dove vi sono molte isole alloglotte in cui si parla: albanese, catalano, greco, sloveno e croato oltre che francese, franco-provenzale, friulano, ladino e occitano. Questo fenomeno ha radici storiche precise: per quanto attiene al catalano di Alghero è da ricondurre al fatto che nel 1354 Alghero fu conquistata dai catalani che cacciarono i Sardi e da quella data si parlò il catalano, appunto. Il Tabarchino parlato a Carloforte (Isola di San Pietro) e a Calasetta (Isola di Sant’Antioco) è ugualmente da ricondurre a motivazioni storiche: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in particolare dalla città di Pegli (a ovest di Genova, ora quartiere del comune capoluogo) intorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca (un’isoletta di fronte a Tunisi) assegnata dall’imperatore Carlo V alla famiglia Lomellini. Nel 1738 una parte della popolazione si trasferì nell’Isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di Tunisi. La popolazione rimasta fu fatta schiava, Carlo Emmanuele di Savoia, re di Sardegna, ne riscattò una parte portandola ad accrescere la comunità di Carloforte. Di qui il tabarchino. Diverso è invece il discorso che riguarda il sassarese, considerato dai linguisti un sardo-italiano e il gallurese ritenuto un corso-toscano. E da ricondurre ugualmente a motivazioni storiche. 3. Il sardo è una lingua “arcaica” inadatto a esprimere la “modernità” Il sardo secondo alcuni sarebbe rimasto “bloccato”, cioè ancorato alla tradizione agropastorale, perciò incapace di esprimere la cultura moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia alla medicina ecc. ecc. Intanto non è vero che il sardo sia completamente “bloccato”: termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale scientifico e sociale impetuoso negli ultimi decenni sono entrati nella lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha giustamente assimilati. Questo “scambio” è una cosa normalissima e avviene in tutte le lingue e tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più arretrate”, sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino. A rispondere, del resto, a chi parla di «blocco» e di incapacità di alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche: “La rimozione del «blocco» è pienamente possibile. Farò soltanto l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita, storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente rimosso il proprio «blocco» dialettale, ma che pur non possedendo ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato « una grande corrente di pensiero», eppure settant’anni fa il vietnamita era soltanto un « dialetto» o meglio un gruppo di dialetti”. Sullo stesso crinale si muove e risponde l’americano Joshua Aaron Fishman, il più grande studioso del bilinguismo a base etnica (è il caso della Sardegna) che scrive: “Qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, la lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”. Il problema se una lingua “arcaica” possa o no esprimere concetti moderni è dunque un falso problema. Ogni lingua può “parlare” e raccontare l’Universo. Anche quella della più sperduta tribù dell’Africa, immaginiamo una lingua neolatina come quella sarda. In più c’è da rilevare che in ogni lingua “egemone” o “ufficiale” o “media” (che chiameremo per la complessità della sua struttura, Macrolingua) si formano dei linguaggi “specifici”, i tecnoletti,che tendono sempre più a internazionalizzarsi, per mezzo di una terminologia che si esprime per parole “rigide”, per formule, in termini greco-latini o inglesi. I tecnoletti si caratterizzano per essere costituti da segni linguistici depurati da qualsiasi connotazione. I tecnoletti sono monosemici e referenziali, uniti da un legame biunivoco a un concetto ben determinato. Esso infatti deve significare una cosa ben precisa e non veicolare significati collaterali di nessun genere, ad esempio la linguistica moderna ha elaborato una serie di termini internazionali: struttura, funzione, significante, significato, diacronico, sincronico ecc: oppure li ha presi in prestito. In questi casi si possono operare dei traslati come è avvenuto dall’inglese all’italiano. Nessun problema quindi: il sardo può acquisire e prendere a prestito parole e modi di dire elaborati altrove. 4. Il sardo non lo parla più nessuno Forse è il luogo comune che ha meno basi nella realtà vera. Che ci documenta esattamente il contrario. I risultati scaturiti da una indagine voluta dalla Giunta Regionale e svolta dal Dipartimento universitario di Ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari non lasciano infatti dubbi in merito alle opinioni dei Sardi su sa Limba: il 68,4% degli abitanti dell’Isola dichiara di conoscere e parlare una qualche varietà della lingua sarda; una percentuale ancora più alta, il 78,6%, si dichiara d’accordo sull’insegnamento del Sardo a scuola; e addirittura l’81,9% vorrebbe che si insegnasse il Sardo insieme all’Italiano e a una lingua straniera. La percentuale dei sardi che conoscono e parlano sa Limba sale ancora all’85,5% se ci si riferisce agli abitanti dei paesi con meno di 4.000 abitanti. Questi dati parlano chiaro e sono ancora più eloquenti e significativi e in qualche modo persino miracolosi se si pensa che ancora oggi il Sardo di fatto è ancora una lingua “alla macchia”. Nonostante un risveglio e una serie di leggi (a livello europeo con la “Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie”; a livello regionale con la Legge n.26 del 15 ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e infine a livello nazional-statale italiano con la Legge n.482 del 15 dicembre 1999 riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in cui è presente la Lingua sarda: come abbiamo già visto e documentato). Certo, non più, come nel passato quando era «proibita»: pensiamo a quando nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. Proibita e addirittura «criminalizzata» non solo ai tempi dei tiranni sabaudi ma anche in tempi a noi più vicini. Ricordo che, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. E una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare” gli insegnanti. È una lingua “alla macchia” inoltre perché non è ancora insegnata organicamente nelle scuole e tanto meno è stato inserita nei curricula, non viene utilizzato nei media (TV-Radio-Internet-Giornali) tanto meno nella pubblicità o nella toponomastica. Pensiamo solo a come sarebbe – parlato e scritto – il sardo se solo godesse dei “diritti” di cui gode oggi la lingua italiana!
 
 
 
Francesco Casula
5. Il sardo ha prodotto “poco” È un altro luogo comune che non risponde a verità: in realtà, dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso – si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato e imbrigliato potesse correre? La lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano. Nonostante questo, tutta la storia sarda è stata contrassegnata dalla presenza di una letteratura in lingua sarda: da Antonio Cano e Sigismondo Arquer a Gerolamo Araolla, Antonio Maria da Esterzili e Gian Matteo Garipa. Per non parlare della poesia in limba nel ‘700-‘800, una poesia fra umorismo, satira e impegno politico: dal capolavoro anonimo di Sa scomunica de Predi Antiogu arrettori de Masuddas, apprezzato da Gramsci e da Wagner, a poeti come il cagliaritano Efisio Pintor Sirigu; da Francesco Ignazio Mannu, autore del monumentale Su patriotu sardu contra sos feudatarios, più noto come “Procudad’ ‘e moderare” a Padre Luca Cubeddu, a Diego Mele o a Peppino Mereu o a quello che è considerato forse il più grande poeta sardo del Novecento, Antioco Casula (Montanaru), elogiato dallo stesso Pier Paolo Pasolini. E ancora a Pedru Mura, Aquilino Cannas, Benvenuto Lobina, lo stesso Michelangelo Pira (con Sinnos), Antonio Cossu, Francesco Masala, tradotto in molte lingue europee, Faustino Onnis,. Per arrivare infine ai giorni nostri con romanzieri come Gianfranco Pintore, Antonimaria Pala e Giuseppe Corongiu, o poeti come Franco Carlini, Giovanni Piga, Eliano Cau, Nanni Falconi, Maddalena Frau e Paola Alcioni, Ai nostri giorni: ma soprattutto agli ultimi 30 anni in cui c’è stata l’esplosione della letteratura sarda, sia in poesia che in prosa. Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale in Sardigna, Condaghes, Cagliari 2008) ha censito i libri di narrativa in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni. Nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi. Il primo a rompere il ghiaccio della incomunicabilità fra la lingua sarda e il romanzo (quella con il racconto, soprattutto orale non c’è mai stata) è Larentu Pusceddu con S’àrvore de sos tzinesos. Il libro scatenò, quando uscì nel 1982, una lunga querelle letteraria che ebbe per alcuni il merito e per altri la colpa di portare alla ribalta la questione della lingua sarda. Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57. Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. “Si casi otanta titulos in binti annos, nos sunt partos cosa manna – scrive Antoni Arca – prus de chentu in nemmancu in sete annos, ite sunt? Fatzile: sa proa de l’acabbare de nàrrere chi sa narrativa in sardu galu no esistit. Una narrativa in sardu b’est, e como toccat a l’istudiare, sena pensare de àere giai in butzaca su modellu pro l’ispertare, ca, comente amus cunsideradu dae su 1980 a su 1999, in sardu sunt istados iscritos contos e romanzos chi tocant onni genere e onni edade, cun resurtados de onni manera, dae òperas feas a òperas bellas, passende pro unu livellu medianu de bona legibilidade” (Se quasi 80 titoli in 20 anni ci sono sembrati una gran cosa – scrive Antonio Arca – più di 100 in meno di sette anni, che cosa sono? Chiaro: la dimostrazione che occorre smetterla di dire che una narrativa in lingua sarda non esiste ancora. Una narrativa in sardo c’è e ora occorre studiarla, senza pensare di avere in tasca un modello da interpretare, perché come abbiamo analizzato per il periodo 1980-1999, in sardo sono stati scritti racconti e romanzi che attengono a ogni genere e a ogni età, con risultati diversi: con opere mediocri ma anche belle, e dunque complessivamente con un livello medio di buona qualità). Dal 2007 fino ad oggi 2020 c’è stata addirittura una vera e propria esplosione di letteratura (sia poesia che prosa) in lingua sarda. Per quanto attiene alla prosa, voglio ricordare in modo particolare due recenti romanzi che ritengo di grande valore e interesse: “Sa vida cuada” di Giovanni Piga e “S’Intelligentzia de Elias” di Giuseppe Corongiu; per quanto riguarda la poesia segnalo la bellissima silloge di Eliano Cau, “Ojos de amore”. 6. Il sardo non serve E’ l’unico luogo comune che ci sentiamo di condividere:la lingua sarda non serve nessuno. Nel senso che non è serva di nessuno. Caso mai serve solo per liberarci dall’oppressione coloniale linguistica e culturale impostaci dai dominatori del passato e del presente. Serve per liberarci dagli atavici complessi di vergogna e di inferiorità. Serve per restituirci l’orgoglio e la dignità di Sardi. Ma poi: è proprio vero che la Lingua sarda non possa essere anche uno strumento formidabile per creare lavoro e occupazione se adeguatamente valorizzata e diffusa: ad iniziare dall’insegnamento a scuola e dall’uso nei media come nella toponomastica e nella pubblicità?

Assegno unico e universale 2023

Assegno unico e universale 2023: stop alle domande di rinnovo, INPS liquiderà d’ufficio la prestazione a chi ha già beneficiato dell’assegno

Dal 1° marzo 2023 coloro che nel corso del periodo gennaio 2022 – febbraio 2023 abbiano presentato una domanda di Assegno unico e universale (AUU) per i figli a carico , accolta e in corso di validità, beneficeranno dell’erogazione d’ufficio della prestazione da parte dell’INPS, senza dover presentare una nuova domandaResta obbligatorio, invece, il rinnovo dell’ ISEE per poter usufruire dell’importo completo.

Il rinnovo automatico dell’Assegno unico è una misura di semplificazione per gli utenti, realizzata anche grazie ai fondi garantiti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dell’Italia (PNRR), che punta a valorizzare le banche dati dell’Istituto offrendo un servizio innovativo. I dati della domanda, infatti, saranno automaticamente prelevati dagli archivi dell’Istituto, che procederà a liquidare il beneficio in continuità.

I richiedenti dovranno tuttavia comunicare eventuali variazioni delle informazioni precedentemente inserite nella domanda di Assegno unico trasmessa all’INPS prima del 28 febbraio 2023 (ad esempio: nascita di figli, variazione/inserimento della condizione di disabilità, separazione, variazioni IBAN , maggiore età dei figli), integrando tempestivamente la domanda già trasmessa.

Per la quantificazione dell’Assegno unico permane, per tutti i beneficiari, l’obbligo di presentare la nuova DSU per il 2023, per rinnovare l’ ISEE . In assenza di una nuova DSU , correttamente attestata, l’importo dell’Assegno unico sarà calcolato a partire da marzo 2023 con riferimento agli importi minimi previsti.

Potranno invece presentare la domanda coloro che non hanno mai fruito dell’Assegno unico e quanti avevano prima del 28 febbraio 2023 trasmesso una domanda che non è stata accolta o che non è più attiva. Le domande possono essere presentate tramite:

Per quanto riguarda la decorrenza della prestazione si ricorda che – per le domande presentate entro il 30 giugno 2023 – l’Assegno unico è riconosciuto a decorrere dal mese di marzo del medesimo anno.

Si rimanda alla circolare INPS 15 dicembre 2022, n. 132 per ulteriori approfondimenti.

Borse di studio universitarie: pubblicato il bando 2020-2021

Borse di studio universitarie: pubblicato il bando 2020-2021

È stato pubblicato il bando di concorso per l’attribuzione di borse di studio per corsi universitari di laurea e corsi universitari di specializzazione post lauream, anno accademico 2020-2021.

Il bando è riservato ai figli di:

  • iscritti alla Gestione Unitaria delle prestazioni creditizie e sociali;
  • pensionati utenti della Gestione Dipendenti Pubblici;
  • iscritti alla Gestione Assistenza Magistrale;
  • iscritti al Fondo IPOST.

La domanda di partecipazione deve essere trasmessa online attraverso il servizio dedicato, accessibile anche dalla pagina Borse di studio per scuola di primo e secondo grado, università e ITS.

La procedura per l’acquisizione della domanda sarà attiva dalle 12 del 23 gennaio fino alle 12 del 20 febbraio 2023.

Osservatorio sul precariato: i dati di settembre 2022

Osservatorio sul precariato: i dati di settembre 2022

Sono stati pubblicati i dati di settembre 2022 dell’Osservatorio sul precariato.

Nei primi nove mesi dell’anno, le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati, extra agricoli, sono state 6.227.092, con un aumento del 17% rispetto allo stesso periodo del 2021 e una crescita di tutte le tipologie contrattuali. Nel dettaglio, sono state registrate 1.074.647 attivazioni per i contratti a tempo indeterminato, che hanno registrato la crescita più accentuata (+28%). Significativo è anche l’aumento delle diverse tipologie di contratti a termine: intermittenti, +25%; apprendistato, +17%; a tempo determinato, +16%; stagionali, +11%; somministrati, +9%.

Le trasformazioni da tempo determinato sono risultate 552.754, in fortissimo incremento rispetto allo stesso periodo del 2021 (+61%). Nello stesso periodo, le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo (87.338) risultano essere aumentate del 8% rispetto all’anno precedente.

Le cessazioni sono state 5.570.587, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+23%) per tutte le tipologie contrattuali: intermittenti, +46%; stagionali, +39%; a tempo determinato, +24%; apprendistato, +23%; a tempo indeterminato, +21%; in somministrazione, +20%.

FOCUS RAPPORTI IN SOMMINISTRAZIONE

Nel corso dei primi nove mesi del 2022, rispetto al corrispondente periodo del 2021, le assunzioni in somministrazione sono aumentate per entrambe le tipologie contrattuali: tempo indeterminato +69%, a termine +8%. Anche per le cessazioni si rileva un aumento per le due tipologie contrattuali, con andamento analogo alle assunzioni.

IL LAVORO OCCASIONALE

settembre 2022 i lavoratori impiegati con Contratti di Prestazione Occasionale (CPO) sono stati 14.729, valore allineato alla media dell’ultimo anno. L’importo medio mensile lordo della loro remunerazione effettiva risulta pari a 234 euro.

I lavoratori pagati con i titoli del Libretto Famiglia (LF) sono stati invece 11.840, in diminuzione del 7% rispetto a settembre 2021. L’importo medio mensile lordo della loro remunerazione effettiva risulta pari a 175 euro.

Corte di Cassazione: sentenza su reato di maltrattamenti

Corte di Cassazione: sentenza su reato di maltrattamenti

 
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Corte di Cassazione: sentenza su reato di maltrattamenti

 
 
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Il reato di maltrattamenti disciplinato all’articolo 572 del codice penale, per la sua configurazione  non richiede che vittima e carnefici siano sposati o convivano da lungo tempo, quello che rileva è la continuità del comportamento aggressivo e intimidatorio.

1. Il reato di maltrattamenti in famiglia

 
 

1. Il reato di maltrattamenti in famiglia

 

2. La decisione della Suprema Corte di Cassazione

 

Indice

 

1. Il reato di maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi è disciplinato dall’articolo 572 del codice penale.
In seguito alla riforma introdotta con la 1/10/ 2012 n. 172 questo articolo punisce con la reclusione da due a sei anni chi, fuori dei casi indicati nell’articolo 571 del codice penale, maltratta una persona della famiglia o convivente, oppure una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per motivi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Se dai maltrattamenti dovesse derivare una lesione personale grave si applica la reclusione da quattro a nove anni, dovesse derivare una lesione molto grave si applica la reclusione da sette a quindici anni, se dovesse derivare la morte si applica la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Si tratta di un reato abituale, per il quale l’autore deve compiere più comportamenti maltrattanti, e doloso, vale a dire che l’autore deve intenzionalmente maltrattare la vittima.
Nel caso nel quale la persona che subisce i maltrattamenti abbia meno di quattordici anni, la reclusione viene aumentata a discrezione dell’autorità giudiziaria.
L’articolo 572 del codice penale, rubricato “maltrattamenti contro familiari o conviventi” recita:
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti dei quali al presente articolo si considera persona offesa dal reato.
Il legislatore ha inteso tutelare l’integrità psicofisica di persone che fanno parte di contesti familiari o parafamiliari.
Il capo IV del titolo XI, che ha come oggetto i reati contro l’assistenza familiare, sono contraddistinti dal fatto che l’offesa ha origine nel gruppo familiare.
Più specificamente, viene salvaguardato il legame giuridico tra persone che appartengono alla stessa famiglia o a un vincolo ad essa assimilabile.
Si tratta di reato proprio perché può essere commesso esclusivamente da persone che hanno un particolare vincolo nei confronti del soggetto passivo.
La norma si fonda sulla centralità che assume lo stabile vincolo affettivo e umano da proteggere contro fenomeni di sopraffazione e può discendere, sia da un rapporto familiare, sia da un rapporto di autorità, che deriva dallo svolgimento di una professione, di un’arte oppure da rapporti di cura e di custodia.
In una simile fattispecie trova penale rilevanza la figura del mobbing, quel comportamento vessatorio e denigratorio che assurge il lavoratore come semplice prestatore di energie lavorative, con l’intenzione di indurlo a licenziarsi.
Il mobbing può rientrare nel concetto di maltrattamenti esclusivamente quando l’ambiente lavorativo abbia natura parafamiliare.
Il reato di maltrattamenti è un reato abituale, vale a dire, caratterizzato da comportamenti di per sé leciti, ma che assumono carattere illecito a causa del loro protrarsi.
I comportamenti possono essere commissivi oppure omissivi, se sussistano in capo al soggetto agente dei doveri di protezione.
Il dolo è generico, e consiste nella coscienza e volontà di infliggere una serie di sofferenze alla vittima.
Il reato in questione assorbe i reati di ingiuria, percosse e minacce, così come assorbe le lesioni personali lievi o molto lievi, quando colpose.
Se le lesioni sono volontarie, i due reati concorrono.
Allo stesso modo, non sono assorbite le lesioni gravi o molto gravi, e neanche la morte (se volontarie).
Se, al contrario, le lesioni gravi o molto gravi o la morte sono una conseguenza non voluta dal soggetto agente, si applicano le aggravanti delle quali al comma 2.

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2. La decisione della Suprema Corte di Cassazione

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 43986/2022 ha ribadito che per integrare il reato di maltrattamenti non rilava che il rapporto tra la vittima e il reo sia stato formalizzato in un matrimonio, come non ha rilievo la durata della convivenza, che può essere anche di breve durata. Quello che rileva è la continuità del comportamento aggressivo e minaccioso da parte del responsabile nei confronti della persona offesa.
La decisione chiude una vicenda che ha visto come protagonista un uomo, condannato in primo e secondo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia.
La stessa decisione è stata contestata da parte dell’imputato, secondo il quale perché si possa integrare il reato del quale all’articolo 572 del codice penale, si dovrebbe instaurare una convivenza more uxorio con la persona offesa allo scopo di avere l’unione familiare che la norma si pone la finalità di proteggere.
La Suprema Corte ha respinto il motivo perché nel caso specifico, in sede di merito, ai fini della condanna, è stata valorizzata la continuità dei comportamenti aggressivi e minacciose dell’imputato ai danni della persona offesa, nel periodo che va dall’agosto 2017 all’agosto del 2018, con un’unica sospensione di due mesi.
I fatti sono confermati anche dagli altri elementi di prova raccolti, come i referti medici, le testimonianze, le foto dei messaggi inviati dall’imputato e le dichiarazioni degli ufficiali di Polizia Giudiziaria.
L’ipotesi in questione rientra nel contesto trattato in precedenza dalla stessa Cassazione nella sentenza n. 17888/2021 che ha ritenuto integrato il reato di del quale all’articolo 572 del codice penale, non esclusivamente in relazione alle famiglie fondate sul matrimonio, ma anche ai rapporti sentimentali che si caratterizzano per una convivenza di breve durata.

Interoperabilità dei dati: che cos’è e come ci migliora la vita

Interoperabilità dei dati: che cos’è e come ci migliora la vita

 
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Interoperabilità dei dati: che cos’è e come ci migliora la vita

 
 
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Secondo una ricerca ISTAT ogni anno passiamo circa 16 giorni, ovvero quasi 400 ore, in coda ad uno sportello pubblico per ottenere qualche tipo di servizio: il rinnovo della patente, la carta di identità elettronica, un certificato medico, il cedolino della pensione. In pratica più tempo di quanto qualche manager particolarmente occupato trascorra in vacanza.
Peraltro, l’ISTAT potrebbe sbagliarsi per difetto, se penso a quante ore (e quanta salute) ho speso per avere il passaporto per mio figlio minorenne, quest’estate: un vero smacco alla tanto sbandierata digitalizzazione della pubblica amministrazione, considerato che la gestione delle persone in coda come me, le fortunate che erano riuscite a prenotare un appuntamento con l’innovativo sistema dell’agenda passaporto digitale (l’innovazione consiste nel collegarsi con SPID al sito della questura e poi effettuare complicati voti religiosi per trovare uno spazio libero nei diciotto mesi successivi) veniva effettuata da un apposito signore, pensionato delle forze di polizia, che a mano distribuiva numeri scritti a pennarello su un pezzo di cartone ritagliato.
Una qualità di servizio così scadente e così farraginosa ci fa dubitare sull’efficienza e sulla reale utilità della nostra macchina pubblica, ma c’è una cosa che più di ogni altra ogni volta mi stupisce: il fatto che ogni volta, per ogni servizio, il servizio pubblico mi debba chiedere chi sono, dove sono nata, dove risiedo: come se lo Stato non avesse già tutte queste informazioni, come se i miei dati non fossero già trattati da sempre, come se ci fosse bisogno, ogni volta, di chiarire che io sono io.
Perché è tutto così bizantino?
Perché non è ancora attiva, e chissà se mai lo sarà, questa magia che si chiama interoperabilità dei dati della pubblica amministrazione, una specie di miraggio nel deserto, un traguardo irraggiungibile, un sogno che se realizzato si tradurrebbe nella capacità di sistemi e organizzazioni di cooperare per perseguire obiettivi comuni e nel settore pubblico in particolare nella capacità delle amministrazioni di cooperare, scambiare informazioni e rendere più efficiente l’erogazione dei servizi pubblici senza soluzione di continuità attraverso i confini, i settori e le organizzazioni.
Una strada che a vederla così sembra non solo di estremo buon senso, ma anche di facile realizzazione: abbiamo i dati, a tonnellate, abbiamo la tecnologia, a bizzeffe, abbiamo la volontà, non si parla d’altro ormai da anni di questa (benedetta) digitalizzazione della PA, abbiamo i fondi, quelli del PNRR, che cosa ci manca?
Eppure.
Eppure, nonostante l’Europa, cioè l’Unione Europea, spinga da anni verso questa direzione (l’Interoperable Europe Act è la nuova proposta di legge europea che mira creare la struttura e gli strumenti per l’interoperabilità all’interno delle pubbliche amministrazioni a livello di Unione e rimuovere gli ostacoli giuridici, organizzativi, semantici e tecnici che si frappongono alla sua piena realizzazione) è sotto gli occhi di tutti che in Italia questo traguardo è ancora ben lungi dall’essere non solo raggiunto, ma addirittura raggiungibile.
Bisogna superare decenni di “abbiamo sempre fatto così”, di mentalità restia e resistente al cambiamento, bisogna raccogliere una enorme quantità di informazioni, modificare i processi e le procedure, adeguarsi a nuovi modelli e stipulare accordi tra le varie amministrazioni in modo da permettere uno scambio di dati allineato ed una cooperazione strutturata sul lungo periodo per fornire ai cittadini un servizio diverso e migliore, creando un nuovo livello di interazione tra cittadini e Pubblica Amministrazione.
I vantaggi sono piuttosto evidenti: risparmio di tempo per i cittadini e le imprese, alta qualità del servizio fornito per le PA, maggiore accessibilità, efficienza, nuove opportunità di business per pubblico e privato.
Si stima che a livello economico sarebbe possibile risparmiare tra 5,5 e 6,3 milioni di euro per i cittadini e tra 5,7 e 19,2 miliardi di euro per le imprese, mentre in termini di tempo si potrebbero risparmiare fino a 24 milioni di ore per i privati e fino a 30 miliardi per le imprese: se è vero che il tempo è denaro, parliamo di una somma davvero molto elevata.
In quali campi l’interoperabilità dei dati avrebbe maggiori applicazioni?
Innanzi tutto la sanità (basti pensare al fascicolo sanitario elettronico ed alle emergenze che abbiamo dovuto affrontare in tempo di pandemia, che dovrebbero averci insegnato qualcosa in tema di gestione dei dati) e le telecomunicazioni (con sistemi di dialogo delle reti satellitare), ma anche i servizi più vicini ai cittadini come la giustizia, gli affari interni, la fiscalità e catasto, trasporti e dogane, ambiente e agricoltura, welfare.
In tutti questi ambiti l’interoperabilità rappresenta una sfida che va di pari passo con la digitalizzazione e con la maggiore efficienza dei servizi della PA, che renderanno il nostro Paese maggiormente competitivo e dunque anche maggiormente aperto ad eventuali investimenti di capitali stranieri.
Una sfida che non possiamo permetterci di perdere.

I raduni illegali: nota delle Camere Penali Italiane e risposta del governo

I raduni illegali: nota delle Camere Penali Italiane e risposta del governo

 
PG
 
 

 

Il nuovo governo ha emanato il decreto legge n.162 del 31 ottobre 2022 che disciplina per la prima volta, tra l’altro, anche i raduni illegali. Tale provvedimento, anche se scaturisce da esigenze reali, appare eccessivamente generico e adottato frettolosamente. Di qui la reazione della Camera Penale cui è seguito un emendamento ad hoc del governo.

1. Il decreto legge n.162/2022 e la nota in data 20 novembre 2022 delle Camere Penali Italiane

 
 

1. Il decreto legge n.162/2022 e la nota in data 20 novembre 2022 delle Camere Penali Italiane

 

2. La risposta del governo

 

3. Conclusioni

 

Indice

1. Il decreto legge n.162/2022 e la nota in data 20 novembre 2022 delle Camere Penali Italiane

Il testo originario del decreto legge n.162/2022, all’articolo 5, inserisce nel corpo del codice penale, dopo l’articolo 434, l’art. 434-bis rubricato “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”, così modificando le norme relative all’invasione di terreni o edifici, pubblici o privati, con la previsione della reclusione da 3 a 6 anni e della multa da 1.000 a 10.000 euro, se il fatto è commesso da più di 50 persone allo scopo di organizzare un raduno dal quale possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica incolumità o la salute pubblica.
Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita. In ipotesi di condanna o applicazione della pena su richiesta delle parti, si prevede la confisca delle cose utilizzate per commettere il reato[1].
Tale nuovo reato ha destato immediatamente numerose polemiche e sono tre le principali contestazioni principali che vengono eccepite:
il delitto non parla espressamente di rave, con la conseguenza che potrebbero essere puniti anche i partecipanti di una manifestazione pacifica;
il reato di invasione di terreni o edifici già esisteva;
la pena è sproporzionata, col risultato aberrante di sanzionare molto più pesantemente chi organizza una festa rispetto a chi, ad esempio, si rende autore di una lesione personale.
In effetti la formulazione della norma non specifica in concreto le fattispecie concrete in cui viene commesso il reato. È per questo motivo che alcuni autori ritengono che il nuovo reato sia privo di “tassatività”, nel senso che non sono indicati dettagliatamente gli estremi del fatto penalmente rilevante, e cioè quando un raduno diventa pericoloso per l’ordine pubblico, l’incolumità o la salute pubblica.
La norma, tra l’altro, non chiarisce se l’organizzazione del raduno debba prevedere sin dall’inizio almeno 51 partecipanti (la legge parla di “un numero di persone superiore a 50”) per costituire reato oppure se tale soglia possa essere raggiunta anche progressivamente e integrare comunque l’illecito.
Un’altra censura al nuovo decreto riguarda l’esistenza di un delitto del tutto simile a quello appena introdotto e cioè quella invasione di terreni o di edifici di cui all’art. 633 c.p.
In effetti, questo reato presenta delle analogie a quello dei raduni illegali, sia perché punisce l’invasione di terreni o edifici, pubblici o privati, sia perché prevede pene più severequando il fatto è commesso da più persone (almeno sei).
Ma soprattutto potrebbero definirsi profili di illegittimità costituzionale per la nuova fattispecie. Infatti, nonostante nella premessa si afferma “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno dei raduni dai quali possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica incolumità o la salute pubblica”, in realtà tale straordinaria necessità o urgenza non sussiste. Infatti, il fenomeno dei raduni illegali, pur essendo ricorrente, non assume una rilevanza tale da richiedere l’adozione di un decreto legge, e quindi si pone in contrasto con l’art. 77, II comma, della Costituzione.
Anche il Presidente delle Camere Penali italiane, Giandomenico Caiazza, con nota del 20 novembre 2022, ha criticato la scelta del Governo di ricorrere alla decretazione d’urgenza per introdurre le nuove norme sui raduni illegali a forte rischio di illegittimità costituzionale, considerata anche l’eterogeneità del contenuto del provvedimento.[2]
Quel che desta maggiore allarme, ad avviso di Caiazza, è la redazione del provvedimento che sembra consentire in molti punti l’“esercizio di un potere interpretativo della norma pressoché illimitato ed incontrollabile”, praticamente un “foglio in bianco che ciascun giudice riempirà a proprio piacimento, secondo le proprie personali sensibilità culturali, giuridiche e politiche”.
È proprio il caso delle condotte dei rave party, che permetterebbero di punire qualunque forma di assembramento con più di 50 persone in terreni privati o aperti al pubblico senza autorizzazione del proprietario o dell’autorità pubblica.
La nozione di “pericolosità per l’ordine pubblico”, che dovrebbe connotare le condotte punibili, sarebbe del tutto inidonea a definire con certezza e previa conoscibilità, cosa sia pericoloso e cosa no. Inoltre, il presidente di UCPI sarebbe critico sulla scelta di inserire il nuovo reato nel catalogo di quelli per i quali il codice antimafia consente le misure di prevenzione e, quindi, ritiene che sarebbe “come usare un cannone per scacciare le mosche”.
Dovrebbe, poi, essere necessario in ogni caso, continua Caiazza, che fosse chiaro che il reato che si intende punire è il rave party e non qualunque forma di assembramento.

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2. La risposta del governo

Ma la risposta del Governo non si è fatta attendere ed è stato presentato in data 30 novembre 2022 un emendamento al decreto, che riscrive il testo e cambia anche il numero dell’articolo del Codice Penale. Le nuove disposizioni non riguarderanno, infatti, il 434 bis, ma il 633 bis c.p. Cambierebbe. Dunque. la fattispecie di reato, e verrebbero escluse dalla legge le parti più critiche del provvedimento, che si prestava a molteplici interpretazioni, e per questo aveva fatto discutere non solo i partiti dell’opposizione, ma anche quelli della stessa maggioranza.[3]
L’emendamento, presentato in commissione Giustizia al Senato, limita il reato a “chiunque organizza e promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento” quando “dall’invasione deriva un concreto pericolo” per la salute o l’incolumità pubblica a causa dell’inosservanza delle norme su droga, sicurezza e igiene.[4]
La norma viene ora trasferita più correttamente al titolo XIII, capo I, del codice penale tra i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose e alle persone. Inoltre, l’articolo diventa il numero 633 bis, pur mantenendo quasi la stessa rubrica “Invasione occupazione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.[5]
Il provvedimento ora dovrebbe circoscrivere il reato a “chiunque organizza e promuove” quella che viene definita la “invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati”, ma al solo fine di realizzare “un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento”. La sanzione verrebbe applicata se dall’invasione stessa “deriva un concreto pericolo” che riguarda la salute o l’incolumità pubblica, a causa dell’inosservanza delle norme sulla droga, la sicurezza e l’igiene.
In buona sostanza il reato diventa, con l’emendamento proposto, una fattispecie di delitto doloso di danno, specifico e più grave, di quello previsto dal citato art. 633 c.p.
La nuova fattispecie, che rientrerebbe nelle previsioni di cui al citato art. 633 sulla “Invasione di terreni o edifici” del Codice Penale, diventando il 633 bis, specificherebbe così il tipo di occupazione, riferendosi a situazioni ben precise, e risulterebbe collegato alla violazione delle norme che regolano gli eventi. E soprattutto escluderebbe le occupazioni realizzate dagli studenti e quelle che avvengono all’interno di manifestazioni pubbliche, che nella versione precedente potevano essere sanzionate.
Con l’emendamento, l’ipotesi di maggior rigore viene circoscritta solo per agli organizzatori e ai promotori dei raduni illegali. Per loro è prevista una pena con la reclusione dai 3 ai 6 anni, e rimarrebbe per questo possibile attivare le intercettazioni telefoniche nelle indagini sui presenti colpevoli. Nell’emendamento sono previste anche multe dai 1.000 ai 10 mila euro. E viene prevista sempre la confisca delle cose che “servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.
In questo modo il nuovo art. 633 bis risulta riferito a situazioni precise e viene collegato alla violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene negli eventi e a quelle sulle sostanze stupefacenti.
Anche i partecipanti continuano a essere punibili, ma solo in base all’articolo 633 del Codice Penale, che prevede la reclusione in carcere dai 2 ai 4 anni e una multa dai 206 ai 2.062 euro.
L’ipotesi di maggiore rigore viene quindi circoscritta agli organizzatori e promotori dei rave party; i partecipanti saranno, invece, sempre punibili, ma solo in base al menzionato articolo 633 c.p., che riguarda l’invasione di terreni o edifici. Il nuovo testo riformula anche la norma che già prevedeva la confisca obbligatoria, estendendo il provvedimento anche ai profitti dei rave party, per fungere da ulteriore deterrente ed è “sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

3. Conclusioni

In conclusione si ritiene che l’emendamento in questione riscrive il reato in modo da correggere le criticità più macroscopiche, ma a rimanere invariata, però, è la vocazione securitaria che ha guidato il governo a redigere la norma: pene molto severe, sequestri e intercettazioni.
Se il testo originario era stato ispirato dagli uffici legislativi del ministero dell’Interno, la nuova formulazione è frutto del lavoro del ministero della Giustizia e dunque è di diretta emanazione del guardasigilli, che ha parlato di «autocritica» e di necessarie correzioni.
Tuttavia, non vengono meno i profili di illegittimità costituzionale segnalati anche dal Presidente della Camera Penale. Il decreto-legge[6], infatti, è un atto normativo di carattere provvisorio avente forza di legge, adottato in casi straordinari di necessità e urgenza dal Governo ai sensi dell’art.77 della Carta costituzionale, e regolato ai sensi dell’art. 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400.[7]
E’ pur vero che il sindacato sulla necessità e l’urgenza[8] dell’atto è di natura prettamente politica; tuttavia è consolidata[9] la tradizione di una ricaduta giurisdizionale (con conseguente valutazione dell’atto, anche solo sotto il profilo formale)[10], per cui è accaduto che la Corte costituzionale[11] abbia dichiarato incostituzionale un comma di un decreto in materia di enti locali per mancanza dei requisiti di necessità e urgenza[12].
Il messaggio politico, quindi, è quello che i reati conseguenti a raduni o manifestazioni musicali, sebbene eventi non molto frequenti, sono da considerare gravissimi, tanto da giustificare una reazione molto forte dell’ordinamento ed essere sanzionati con pene rigorose, di certo più severe di quelli previste per altri reati con frequenza quotidiana e più rischiosi, che minano la sicurezza individuale e collettiva suscitando un forte allarme sociale (omicidi colposi, percosse, lesioni colpose, minacce, stalking, sequestri di persona, furti e così via).
Pertanto, si auspica, che nonostante la presentazione dell’emendamento, in sede di conversione del decreto, possano essere adottate ulteriori cautele necessarie volte a rendere il provvedimento meglio definito di quello proposto e, comunque, si confida che la Magistratura possa applicarlo con il consueto necessario equilibrio e nel rispetto dei principi costituzionali.

  1. [1]

    P. Gentilucci, Prevenzione e contrasto dei raduni illegali: profili di legittimità costituzionale, in Diritto.it del 7 novembre 2022.
    [2] S. Occhipinti, Il decreto su rave party e reati ostativi è illegittimo: la denuncia delle Camere Penali, in Altalex del 1° dicembre 2022.
    [3] Redazione, Decreto Rave, Governo spaccato fa marcia indietro: cosa cambia, in QuiFinanza del 30 novembre 2022.
    [4] Redazione, Decreto anti rave, il governo presenta un emendamento che circoscrive il reato, in Sole24 ore del 30 novembre 2022.
     [5] G. Panassidi, Decreto anti rave, l’emendamento riscrive la fattispecie di reato, in Molto comuni del 2 dicembre 2022
    [6]Decreto, in Treccani Portale (XML), su Treccani.it. URL.
    [7] S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, vol. IV DAH-DUU, p. 103.
    [8] C. Tintori, L’urgenza legislativa e la prassi dei decreti-legge. Aggiornamenti Sociali 48, no. 3, marzo 1997, pp. 223-231.
    [9] G. Sabini, La funzione legislativa e i decreti-legge. in Maglione & Strini, 1923.
    [10] Consulta OnLine – Sentenza Corte cost. n° 171/2007, su giurcost.org. 
    S Sentenza n° 171 del 2007. 
    [12] R. Romboli, Una sentenza «storica»: la dichiarazione di incostituzionalità di un decreto legge per evidente mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza, in Foro It., 2007, 1986 ss.

Dati digitali e Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND)

Dati digitali e Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND)

 
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Redazione12/12/22
 
 
 

 
 

Dati digitali e Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND)

 
 
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A cura di Antonio Maesano

Dati digitali come strumento di e-government per la pubblica amministrazione: l’introduzione della Piattaforma Digitale Nazionale Dati nell’ordinamento italiano.

1. E-government, dati e processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione: lo stato dell’arte

 
 

1. E-government, dati e processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione: lo stato dell’arte

 

2. Transizione digitale, PNRR e Piano Triennale per l’Informatica della Pubblica Amministrazione

 

3. Il principio di interoperabilità e la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND)

 

4. PNRR e PDND: stato di attuazione

 

5. Conclusioni

 
 

Indice

1. E-government, dati e processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione: lo stato dell’arte

Secondo la Comunicazione del 26 settembre 2003 della Commissione Europea, per e-government si deve intendere “l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, coniugato a modifiche organizzative ed all’acquisizione di nuove competenze al fine di migliorare i servizi pubblici ed i processi democratici e di rafforzare il sostegno alle politiche pubbliche”. E’ di tutta evidenza come il processo volto a rafforzare forme di e-government nell’ordinamento italiano sia da anni fortemente promosso, sebbene non con i risultati sperati. Per la realizzazione di forme di e-government è necessaria la preventiva realizzazione di un altro processo, quello di digitalizzazione. Volendo definire il processo di digitalizzazione risulta imprescindibile citare il testo giuridico per eccellenza in materia che è il CAD, codice dell’amministrazione digitale, adottato con il d.lgs. 82/2005, il cui art. 12 prevede che “Le pubbliche amministrazioni nell’organizzare  autonomamente  la propria attività  utilizzano le tecnologie dell’informazione e  della comunicazione per la realizzazione  degli  obiettivi  di  efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza,  semplificazione e partecipazione nel rispetto dei principi di uguaglianza  e  di  non discriminazione, nonché per l’effettivo riconoscimento  dei  diritti dei  cittadini  e  delle  imprese  di  cui  al  presente  Codice   in conformità  agli  obiettivi  indicati  nel   Piano   triennale   per l’informatica nella  pubblica  amministrazione  di  cui  all’articolo 14-bis, comma 2, lettera b)”.  Pertanto, è possibile definire la digitalizzazione come quel processo di adozione di strumenti ICT – Information and Comunication Technologies – che permettono alla p.a. di agire in conformità di una serie di principi, tanto costituzionali quanto di rilevanza costituzionale, che di fatto consentono la piena ed effettiva realizzazione dell’art. 97 della Costituzione.
Siffatto processo coinvolge non soltanto lo Stato e gli enti pubblici, ma la popolazione interamente intesa: infatti, affinché il processo di digitalizzazione possa sortire l’effetto sperato, non è sufficiente che  solo la pubblica amministrazione rafforzi l’uso delle tecnologie nella sua azione, ma è altresì necessario che anche il cittadino, nella duplice veste di fruitore del servizio e soggetto cooperante nell’attività amministrativa, sia capace di usare le tecnologie suddette. Purtroppo, su entrambi i fronti  l’Italia non si dimostra pronta, come evidenziano i dati DESI (Digital Economy and Society Index) relativi agli ultimi cinque anni.
Le ragioni dei dati appena menzionati sono sicuramente molteplici: è innegabile che una spinta  importante alla crescita in materia di informatizzazione e digitalizzazione generale sia stata data crisi pandemica, che ha portato ad un rafforzamento ed ad una maggiore diffusione del digitale in materia negoziale e di lavoro[1]. Tuttavia, lo stesso tasso di sviluppo non si registra dal punto di vista dell’azione amministrativa e dei pubblici servizi, in cui l’Italia fa fatica a crescere. Il problema in questione è stato oggetto di numerosi studi che hanno cercato di scoprire le cause che ne costituiscono la ragione più profonda. Da un lato la carenza di infrastrutture dal punto di vista tecnico comporta l’impossibilità concreta che la digitalizzazione diventi un fenomeno generalizzato e che possa avere un effetto di cambiamento sostanziale(Schneider E., 2020). Guardando il fenomeno dal lato opposto, la mancanza di abilità e conoscenze informatiche nella popolazione residente in Italia ha sempre condotto lo Stato Italiano a forme di ritrosia nell’adozione di modelli digital-only, consentendo così, attraverso doppi canali di azione o attraverso lo strumento della deroga, il proliferare di forme alternative di azione amministrativa. [2]
Va tuttavia rilevato che la problematica appena evidenziata si collega ad un’ulteriore questione, spesso non centrale nell’analisi degli studiosi in materia di digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche, che è quella della scarsa presenza di personale specialistico in informatica nella pubblica amministrazione. Infatti, se la mancanza di competenze informatiche nel pubblico impiego è ormai oggetto di ampi studi[3], ciò che risulta meno vagliato, ma che, ad opinione di chi scrive, importa un reale deficit per l’attuazione di una rivoluzione dei servizi digitali amministrativi, è la carenza di tecnici negli apparati burocratici degli enti statati. A partire dalla seconda metà del novecento, infatti, la pubblica amministrazione ha registrato un forte depauperamento delle aree tecniche, sempre più ridotte se non addirittura eliminate e sostituite attraverso il ricorso all’esternalizzazione dei servizi. Pertanto appare opportuno non solo formare il personale in forza all’amministrazione in senso digitale, ma creare all’interno delle singole pubbliche amministrazioni strutture idonee a progettare, ad eseguire e a gestire piattaforme e strumenti digitali.

2. Transizione digitale, PNRR e Piano Triennale per l’Informatica della Pubblica Amministrazione

Non potendo per ragioni di brevità fornire un’analisi approfondita del processo di digitalizzazione  della pubblica amministrazione in chiave storica, il presente contributo intende soffermarsi su un recentissimo strumento che, sebbene non si occupi univocamente della transizione digitale della pubblica amministrazione, fa di questa uno dei propri capisaldi: il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). E’ infatti attraverso il predetto piano che si è pervenuti ad uno stanziamento massiccio di risorse volto alla creazione e messa in opera della Piattaforma Digitale Nazionale Dati, ormai prevista da oltre un quinquennio e mai effettivamente realizzata. Il PNRR nasce per far fronte ad un’esigenza che prende le mosse dalla crisi pandemica: quest’ultima, infatti, è stata capace di colpire le economie di tutti i paesi europei e del resto del mondo, e, soprattutto l’economia italiana. Come è tristemente noto dalle cronache, l’Italia è stata danneggiata per prima e più duramente dalla crisi sanitaria anche in ragione del fatto che trattasi di un paese fragile dal punto di vista economico, sociale, lavorativo e ambientale. Per far fronte all’emergenza scatenata in grande parte dalla crisi pandemica in tutti gli stati europei, l’Unione Europea ha previsto il Next Generation EU (NGEU), un programma in chiave intergenerazionale che istituisce una serie di investimenti e di riforme in materia ambientale, economica, lavorativa e sociale. Per dare concreta forma ed attuazione alle previsioni del NGEU, l’Italia ha previsto un pacchetto di investimenti e di riforme che prende il nome di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Tra le sei missioni in cui si divide il Piano, spicca, sia in termini di centralità che di stanziamenti, quella della digitalizzazione che ha come destinatari una serie variegata di soggetti tra cui anche la pubblica amministrazione: è chiaro dunque, che l’Italia, cogliendo un’occasione che si potrebbe definire unica, abbia espresso la concreta volontà di realizzare una serie di riforme strutturali volte al superamento di quello stato di “soggezione digitale” che da sempre ha rivestito nel confronto agli altri stati dell’Unione Europea.
Per dare concreta attuazione alla programmazione europea in materia, è necessario che i Piani nazionali attuativi delle riforme previste dal NGEU prevedano che almeno il 20% delle risorse  sia destinato alla transizione digitale. I due assi principali attraverso cui procedere alla transizione digitale sono: la razionalizzazione della pubblica amministrazione e la sua digitalizzazione e lo sviluppo dei servizi pubblici digitali. Per raggiungere i predetti obiettivi l’Italia ha deciso di seguire due principi fondamentali,  quello del “cloud first” e del “once only”, entrambi applicabili, come si vedrà, alla Piattaforma Digitale Nazionale Dati.
Inserito tra i principi guida del Piano Triennale per l’Informatica della Pubblica Amministrazione 2020-22[4] e ancora prima nel Piano 2019-21, il principio del “cloud first” (cloud come prima opzione o cloud innanzitutto) è il principio in forza del quale  “le pubbliche amministrazioni, in fase di definizione di un nuovo progetto e di sviluppo di nuovi servizi, adottano primariamente il paradigma cloud, tenendo conto della necessità di prevenire il rischio di lock-in[5]”. In buona sostanza, la Pubblica Amministrazione nel suo agire deve effettuare una valutazione prioritaria sulla possibilità di erogare i propri servizi in modalità cloud, nelle varie forme IaaS, PaaS e SaaS[6], preferendo, ove possibile, quest’ultima[7]. Le ragioni della centralità del principio del “cloud first” vanno ritrovate nella volontà di modernizzazione della pubblica amministrazione italiana, di miglioramento della sicurezza e dell’affidabilità dei servizi IT.
Più risalente nel tempo risulta la previsione del principio del once only, di cui già si fa menzione nel Piano Triennale per l’Informatica della Pubblica Amministrazione 2017-19. In base all’esaminando principio “le Pubbliche amministrazioni devono evitare di chiedere ai cittadini e alle imprese informazioni già fornite. Sono poi le Pubbliche amministrazioni a condividere tali dati tra i propri uffici, in modo da non caricare cittadini e imprese di gravami aggiuntivi”. E’ di tutta evidenza, quindi, come il principio di once only risponda ad esigenze di semplificazione e razionalizzazione dell’attività amministrativa e sia volto al perseguimento dei principi di efficienza, efficacia ed economicità che devono insegnare l’operato della p.a. nel perseguimento del buon andamento e dell’imparzialità previsti dall’art. 97 della Costituzione.

 

3. Il principio di interoperabilità e la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND)

I due principi appena analizzati trovano perfetta rispondenza in uno degli strumenti che è ormai da anni presente nelle principali riforme in materia di digitalizzazione della p.a.: la Piattaforma Digitale Nazionale Dati. Prevista già dall’art. 50ter CAD, così come introdotto dal d.lgs. 217/2017, la Piattaforma risponde alla triplice esigenza di gestione in cloud dei big data e delle attività amministrative, di rispetto del principio del once only e infine garantisce la massima interoperabilità tra pubbliche amministrazioni, i cittadini e le imprese. L’obiettivo per cui si intende realizzare la PDND è apertamente esposto dal primo comma dell’art. 50ter, in forza del quale la Piattaforma è “finalizzata a favorire la conoscenza e l’utilizzo  del  patrimonio  informativo  detenuto,   per   finalità istituzionali, dai soggetti di cui all’articolo 2, comma  2,  nonché la condivisione  dei  dati  tra  i  soggetti  che  hanno  diritto  ad accedervi  ai  fini  dell’attuazione   dell’articolo   50   e   della semplificazione degli  adempimenti  amministrativi  dei  cittadini  e delle imprese,[…]”.
Concretamente la PDND si configura come un’infrastruttura che rende possibile tanto l’interoperabilità dei sistemi informativi quanto delle basi dati propri di p.a. e gestori di pubblici servizi. L’accesso al sistema è possibile attraverso l’accreditamento, l’identificazione e la gestione dei livelli di autorizzazione. Per un corretto funzionamento della Piattaforma, l’art. 50ter commi 2bis e 5 prevede un obbligo per i soggetti abilitati di rendere disponibili e accessibili le proprie basi dati, pena la responsabilità dei dirigenti competenti. La condivisione dei dati, fondamentale, dunque, per il proficuo funzionamento della PDND, avviene mediante interfacce di programmazione delle applicazioni (API)[8]. Quanto detto è quanto si evince relativamente al funzionamento della PDND così come positivizzata dall’art. 50ter CAD.: nonostante l’innegabile specializzazione tecnica della norma in esame –  specializzazione che, come già evidenziato, informa l’intero d.lgs. 82/2005 – è stato necessario prevedere un completamento operativo di questa attraverso il ricorso alle Linee Guida dell’AgiD [9].

4. PNRR e PDND: stato di attuazione

La realizzazione della Piattaforma Digitale Nazionale Dati, a fronte degli insuccessi registrati negli anni, è stata affidata, da ultimo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato dalla Commissione Europea il 22 aprile 2021. Questo destina ben 556 milioni alla realizzazione, affidandola, attraverso un’apposita convenzione, a PagoPA S.p.A.
Ciò che appare interessante, a più di un anno dall’operatività del PNRR, è lo stato di attuazione dell’intervento. Andando tuttavia a guardare alle prime previsioni programmatiche relative alla realizzazione della Piattaforma di interoperabilità dei dati, è il Piano Triennale per l’Informatica delle P.A. 2017-19 a prevedere il primo traguardo, ossia quello della realizzazione della PDND entro dicembre 2020. Inutile sottolineare come il risultato non sia stato neppure lontanamente raggiunto, allo stesso modo di quelli fissati dal successivo Piano Triennale, vale a dire il rilascio della piattaforma entro il 2020 e la pubblicazione dei primi report operativi già al primo trimestre del 2021. Possiamo quindi dire che, il PNRR parte già con un ingente ritardo accumulato dalle precedenti riforme.
Qual è, ad oggi, lo stato di realizzazione del PNRR con riferimento alla Piattaforma Digitale Nazionale Dati? I dati principali possono essere desunti dalle due relazioni del Governo al Parlamento sullo stato di attuazione del PNRR. Con riferimento allo stanziamento relativo ai dati e all’interoperabilità, prevede la Prima Relazione che entro la fine del 2021 dovrebbe prendere avvio la sperimentazione della Piattaforma Digitale Nazionale Dati che coinvolgerebbe le amministrazioni pilota, essendo state già pubblicate le Linee Guida dell’AgiD e essendo già operativa una forma rudimentale dell’infrastruttura[10].
Con riferimento a questo primo obiettivo, si registra il primo, e forse inevitabile, ritardo. La sperimentazione di cui si è detto, la cui durata è stata fissata in 90 giorni, ha preso avvio nei mesi di giugno- settembre 2022, coinvolgendo un serie limitata di enti pubblici suddivisi tra fruitori (es. Regione Emilia-Romagna, Comune di Torino, MIMS) e erogatori (es. AdE, INPS).
Di segno differente appaiono i dati esposti nella seconda Relazione del Governo al Parlamento sullo stato di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Al netto del raggiungimento degli obiettivi prefissati, che hanno permesso all’Italia di ottenere ulteriori rate da parte dell’Unione Europea per il finanziamento del PNRR, si legge che è stato realizzato nel periodo di riferimento un prototipo in uso già ad alcune amministrazioni per fini sperimentativi, che sono state approvate le linee guida per l’interoperabilità dei sistemi informativi e sono stati stipulati accordi con il CNR e l’ISTAT per la realizzazione di un catalogo nazionale dei dati. E’ evidente, dunque, che il processo che porterà all’operatività della PDND all’interno dell’ordinamento italiano stia procedendo, seppur con un certo ritardo, non interamente attribuibile al PNRR. Programmaticamente, poi, prevede la seconda Relazione, il rilascio della Piattaforma entro il mese di novembre 2022[11].
Conformemente a quanto previsto, è recentissima la notizia del rilascio della Piattaforma Digitale Nazionale Dati. Dal 21 ottobre 2022, in anticipo rispetto alle previsioni, è attiva la PDND: contestualmente il Governo ha previsto la pubblicazione di un primo avviso da 110 milioni di euro attraverso cui è data la possibilità a tutti i Comuni italiani di aderire alla Piattaforma ricevendo un voucher economico calcolato sulla base della grandezza degli stessi in termini di popolazione. Stupisce il coinvolgimento dell’amministrazioni comunali nel primo lancio della PDND, considerato che queste non erano previste in sede di progettazione: tuttavia la scelta, ad opinione di chi scrive, appare felice, tenuto conto che i Comuni sono tra le amministrazioni pubbliche quelle che detengono ed utilizzano un ingente quantitativo di dati, essendo a capo dei servizi di anagrafe. Non solo, trattasi anche delle amministrazioni maggiormente chiamate ad erogare beni e servizi pubblici, essendo legate al cittadino da un’innegabile prossimità che impone di rendere la maggior parte dei servizi alla luce del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118 della Costituzione[12].

5. Conclusioni

Essendo operativa da poco più di qualche giorno e avendo aderito all’avviso pubblicato un numero ridotto di Comuni, sarà necessario attendere le prime messe in opera per comprendere effettivamente il funzionamento della Piattaforma Digitale Nazionale Dati. Tuttavia, è possibile comunque analizzare i dati raccolti e fin qui riassunti in merito al processo di digitalizzazione della p.a. italiana nell’ottica della creazione di un e-goverment, che si realizza anche attraverso la creazione di sistemi di interoperabilità come la PDND. E’ infatti innegabile che negli ultimi due anni ci sia stato un grande processo di accelerazione in senso digitale da parte dell’Italia, reso possibile grazie al PNRR, che ha visto l’Italia protagonista in termini di quantità di risorse erogate. E’ altresì innegabile, però, che il progresso in tema di digitalizzazione ha inizio, seppur lentamente, qualche anno prima rispetto all’operatività del PNRR, come hanno dimostrato i dati DESI 2019.
Con riferimento alla PDND, è di tutta evidenza come il PNRR sia stato il vero e proprio punto di svolta per la realizzazione, che fino all’entrata in vigore di questo risultava essere in stand-by nonostante una previsione di legge risalente al 2017. Ci si auspica che l’accelerazione data alla realizzazione di questo importante progetto si trasformi in costanza, in modo tale che possano dirsi realizzati i principi del cloud first e del once only, il quale ultimo si stima che permetterà un risparmio di spesa di circa cinque miliardi all’anno per i paesi membri dell’UE[13]. Sono evidenti, poi, non solo i vantaggi in termini di spesa pubblica, ma anche i vantaggi per i cittadini, in termini di qualità dei servizi ricevuti da parte della pubblica amministrazione e per quest’ultima, in termini di efficienza, efficacia, sicurezza, trasparenza ed economicità della propria azione. A fronte, però, dei summenzionati vantaggi che l’implementazione e l’operatività della PDND porterà, non possono tacersi altrettanti dubbi emersi dallo studio dello strumento.
Il primo dubbio riguarda la concreta diffusione della Piattaforma tra le pubbliche amministrazioni: da sempre, infatti, si registra una certa ritrosia da parte delle amministrazioni pubbliche al cambiamento, specie se in senso digitale. Come evidenziato supra, le ragioni sono molteplici: dall’assenza o scarsa efficacia di metodi e forme di accompagnamento graduale, alla carenza di tecnici idonei a supportare gli apparati più strettamente amministrativi fino ad arrivare alle questioni relative all’età media dei dipendenti pubblici, particolarmente elevata e quindi poco incline al cambiamento informatico.  Chi scrive concorda, poi, con chi ritiene che una scarsa diffusione, al netto degli obblighi di legge, potrebbe essere dovuta al timore delle amministrazioni rispetto al periodo di adeguamento al nuovo sistema, che comporta ingenti costi sia in termini di formazione del personale che di output[14].
Ancora, non appare confortante il dato testuale dell’art. 50ter CAD nel momento in cui prescrive che siano le pubbliche amministrazioni, accreditate alla piattaforma, a sviluppare le interfacce per garantire il funzionamento della stessa. Infatti, la delega alle singole amministrazioni di un compito così altamente specialistico appare del tutto distopico, tenuto conto che, accanto ad enti pubblici che sarebbero capaci – attraverso il ricorso a specifici apparati tecnici interni – di realizzare quanto in parola, esistono una serie molto ampia di piccole amministrazioni assolutamente sfornite di risorse strumentali e umane idonee in questo senso[15].
Rimanendo in tema di risorse umane, suscita qualche perplessità anche il tipo di formazione che debba avere il soggetto adibito ad operare concretamente sulla Piattaforma, considerato che potrebbe trovarsi ad estrapolare dati a cui non è capace di dare la corretta interpretazione. Si pensi ad esempio ad una pubblica amministrazione che, all’atto di assunzione di un dipendente, estrapoli il casellario giudiziario di questi direttamente dalla Piattaforma.
Da ultimo, suscita qualche perplessità anche l’attuale impostazione di funzionamento della Piattaforma, reso parzialmente noto all’atto del rilascio. E’ previsto un passaggio autorizzativo che appare del tutto sovrabbondante: è stabilito, infatti, che al momento della necessità di un da to, l’ente fruitore debba, nella quasi totalità dei casi, mandarne richiesta all’ente erogatore, motivandone le finalità[16]. Soltanto qualora quest’ultimo ritenga le finalità opportune e legittime, permetterà l’accesso al dato con un atto autorizzativo. Il passaggio in esame appare del tutto superfluo e capace di rallentare pesantemente l’operato della pubblica amministrazione, andando contro alle stesse ragioni di economia operativa che spingono all’adozione della PDND. Si ritiene, pertanto, che sarebbe più opportuno rendere aprioristicamente disponibili i dati a tutte le p.a., eventualmente prevedendo strumenti di tracciabilità che rendano possibile risalire alle movimentazioni di accesso ai dati.

  1. [1]

    Canonico, P., Tomo, A., Hinna, A., Giusino, L., (Cur.) (2021) La digitalizzazione nella Pubblica Amministrazione, Egea.
    [2] A tal proposito si pensi a tutte le deroghe introdotte dal legislatore col fine specifico di permettere tanto alla pubblica amministrazione quanto ai cittadini e alle imprese di adeguarsi tecnicamente alle intervenute novità in materia digitale. Emblematico, in questo senso appare il caso relativo all’obbligo per i prestatori di  servizi  di  pagamento abilitati di utilizzare esclusivamente la piattaforma digitale prevista dall’art. 2 del d.lgs. 82/2005: l’obbligo, inizialmente previsto dalla normativa a decorrere dal 1 gennaio 2019, con una serie di aggiornamenti normativi, è stato fatto slittare fino al 28 febbraio 2021.
    [3] Banca d’Italia, (2022), L’informatizzazione nelle Amministrazioni Locali.
    [4] Sul tema si veda https://www.diritto.it/il-piano-triennale-per-linformatica-2020-2022-la-trasformazione-digitale-della-pubblica-amministrazione/ .
    [5] Piano Triennale per l’Informatica della Pubblica Amministrazione 2020- 22, p. 8.
    [6] IaaS, PaaS e SaaS sono le tre tipologie principali di cloud computing che si diversificano tra loro per il differente grado di gestione lasciato all’utente.
    [7] Già nel Piano Triennale per l’Informatica della Pubblica Amministrazione 2019-21 il principio del “cloud first” è stato declinato in senso “SaaS first” considerato che questa tipologia di cloud permette di ridurre il più possibile l’overhead tecnico e amministrativo delle p.a. dovuto alla gestione di servizi IT che richiedono competenze tecniche specialistiche che, come si è visto supra, non sono attualmente in possesso agli enti statali.
    [8] Le API (Application Program Interface) sono degli intermediari software che, agendo da ponte, permettono a due applicazioni di comunicare tra loro.
    [9] Linee Guida sull’infrastruttura tecnologica della Piattaforma Digitale Nazionale Dati per l’interoperabilità dei sistemi informativi e delle basi di dati” del 10.12.2021.
    [10] Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 23 dicembre 2021.
    [11] Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 5 ottobre 2022.
    [12] Sul tema della PDND e dell’Intelligenza artificiale nelle amministrazioni comunali si veda https://www.diritto.it/lintelligenza-artificiale-al-servizio-della-pubblica-amministrazione-2-0/ .
    [13] European Commission, (2017) EU-wide digital Once-Only Principle for citizens and businesses – Policy options and their impacts, Directorate-General of Communications Networks, Content & Technology.
    [14] Santulli, A., (2021),  Lo “Stato digitale” pubblico e privato nelle infrastrutture digitali nazionali strategiche, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, Giuffrè editore.
    [15] Si pensi, in tal senso, a piccoli Comuni o alle Istituzioni Scolastiche.
    [16] Il dato è stato reso noto al webinar sul funzionamento della PDND realizzato il 25 ottobre 2022 dall’ANCI in collaborazione con il Dipartimento per la trasformazione digitale della PDCM.

 

A cura di Antonio Maesano

Giustizia tributaria: servizio online di consultazione

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Dal 15 dicembre 2022 su Il Portale della Giustizia Tributaria è disponibile il servizio online di “Consultazione pubblica contenziosi tributari”. Per gli utenti del PTT è disponibile, nell’area riservata, la funzionalità per il download del fascicolo processuale, che consente di acquisire gli atti processuali sui dispositivi personali per la consultazione in modalità offline. Inoltre, udienza a distanza a regime obbligatoria, a decorrere dal 1° settembre 2023.

 

 
 

1. Il servizio di “consultazione pubblica contenziosi tributari”

 

2. Il servizio di download del fascicolo processuale

 

3. Udienze online dal 1° settembre 2023

 

Indice

1. Il servizio di “consultazione pubblica contenziosi tributari”

Dal 15 dicembre 2022 su Il Portale della Giustizia Tributaria è disponibile il servizio online di “Consultazione pubblica contenziosi tributari”, accessibile liberamente, per la ricerca delle informazioni anonimizzate e delle date di udienza dei contenziosi tributari instaurati presso le Corti di giustizia tributaria. È possibile accedere al servizio dalla “home page” del portale, tramite l’impiego dell’apposito link nell’intestazione o dal pulsante “Consultazione pubblica contenziosi tributari” presente nella sezione “Utilità”, rinvenibile anche nell’analoga voce del menu “Servizi” e nelle pagine dedicate alle singole Corti di giustizia tributaria. Selezionando una Corte di Giustizia Tributaria di interesse, di primo o secondo grado, il servizio permette di effettuare due tipologie di ricerca: “Info ricorso” (per consultare le informazioni di un contenzioso tributario, indicando il numero di registro generale e l’anno di iscrizione a ruolo: nel risultato della ricerca sono presenti le principali informazioni descrittive del ricorso, quali l’oggetto della controversia, la categoria dei soggetti interessati e l’esito del contenzioso e, sono inoltre disponibili, i dati relativi alla tipologia degli atti depositati, alle udienze e ai provvedimenti giurisdizionali emanati dall’organo giudicante con riguardo al singolo ricorso), “Calendario udienze” (per ricercare le udienze di una specifica sezione della Corte di giustizia tributaria preselezionata, in base ad un intervallo di date e all’orario selezionati. In riferimento alla singola sezione sono consultabili le date e le aule di svolgimento delle udienze, nell’ambito delle quali sono individuati i dettagli dei relativi ricorsi, come il numero di registro generale, l’ordine di chiamata e la modalità di trattazione).

 

2. Il servizio di download del fascicolo processuale

Per gli utenti del PTT è disponibile, nell’area riservata, la funzionalità per il download del fascicolo processuale, che consente di acquisire gli atti processuali sui dispositivi personali per la consultazione in modalità offline. Dopo aver ricercato il fascicolo processuale di interesse, tramite la funzionalità “Ricerca Fascicolo” del PTT, è possibile richiedere il download completo del fascicolo o solo di alcune cartelle col pulsante “Download Fascicolo”, nella pagina “Dettaglio Fascicolo”. Il sistema, ricevuta la richiesta di download, procede alla creazione di un file in formato ZIP contenente gli atti processuali del fascicolo o delle cartelle selezionate. Per verificare lo stato di lavorazione e l’esito finale della richiesta di download è necessario selezionare “Richieste Download Fascicolo” dalla pagina del fascicolo in esame. Dopo il completamento della procedura, il file ZIP può essere scaricato sul device dell’utente. Il sistema conserva il file ZIP per 15 giorni, oltre tale termine occorre replicare la richiesta di download per scaricare di nuovo il fascicolo. È possibile visualizzare le richieste di download in corso di lavorazione e quelle relative ai fascicoli processuali per i quali è disponibile il file ZIP, selezionando “Elenco richieste download” nel menu “Interrogazione Atti Depositati” del PTT.

3. Udienze online dal 1° settembre 2023

Il 1° settembre 2022 era stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la L. n. 130/22, recante disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario. Il provvedimento, per far fronte agli impegni assunti dall’Italia con il PNRR, innova la giustizia tributaria sotto il profilo ordinamentale e processuale: la riforma è entrata in vigore il 16 settembre 2022 ma, per alcune disposizioni, è stata prevista un’applicazione differita. L’introduzione dell’udienza a distanza a regime obbligatoria è stata infatti fissata al 1° settembre 2023. Pertanto, da detta data, le udienze della Corte di giustizia tributaria di primo grado in composizione monocratica, nonché le trattazioni delle istanze cautelari, si svolgeranno esclusivamente a distanza, con l’eccezione dell’espressa richiesta, di una delle parti e per comprovate ragioni, dell’udienza in presenza. Ciò è stato statuito dall’art. 4, c. 4, unicamente per i ricorsi notificati a decorrere dal 1° settembre 2023.

Il parere del Garante privacy sul registro delle sanzioni pecuniarie civili

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1. Il decreto

 
 

1. Il decreto

 

2. Lo schema di decreto sul registro

 

3. Il parere del Garante

 

Indice

1. Il decreto

Il decreto legislativo 7/2016 ha abrogato una serie di reati ed ha introdotto al loro posto degli illeciti civili con sanzioni pecuniarie. Inoltre, ha disciplinato la reiterazione dell’illecito, che si verifica allorquando, entro 4 anni dalla commissione di un illecito, la stessa persona compia un’altra violazione sottoposta a sanzione pecuniaria civile della stessa indole della prima, accertata con provvedimento esecutivo. Per verificare la presenza di una reiterazione dell’illecito, infine, il citato decreto legislativo ha previsto l’istituzione di un apposito registro informatizzato dove sono conservati tutti i provvedimenti in materia di sanzioni pecuniarie, demandando ad un apposito decreto del Ministro della giustizia la disciplina della sua tenuta.
In applicazione di detto decreto legislativo, quindi, il Ministero della Giustizia ha richiesto al Garante per la protezione dei dati personali un parere sullo schema di decreto emanato per disciplinare la tenuta del suddetto registro.

 

2. Lo schema di decreto sul registro

Lo schema di decreto sottoposto all’esame del Garante si compone di 6 articoli.
Nel primo articolo è previsto che il registro dei provvedimenti di applicazione delle sanzioni pecuniarie civili sia istituito per poter applicare la norma sulla reiterazione dell’illecito, su base nazionale.
L’articolo 2 stabilisce che il sistema informativo del registro debba permettere agli uffici competenti di poter iscrivere, eliminare, trasmettere e conservare i dati in questione attraverso delle tecnologie informatiche nonché tutte le attività che riguardano la formazione dei relativi certificati e i rapporti con gli utenti, in modo tale da garantire il rispetto dei principi di completezza, aggiornamento, esattezza e sicurezza dei dati.
L’articolo 3 prevede che il capo di ciascun ufficio giudiziario, con riferimento a tutte le utenze che sono assegnate all’ufficio, debba individuare uno o più funzionari abilitati ad operare sul registro e tra questi un referente che assume la responsabilità della gestione degli accessi al sistema e che rilasci i certificati delle iscrizioni contenute nel registro. Inoltre, viene previsto che ogni operazione compiuta sul registro debba essere memorizzata in appositi file di log e conservata per cinque anni.
L’articolo 4 stabilisce che devono essere iscritti nel registro i provvedimenti di applicazioni delle sanzioni pecuniarie che siano passati in giudicato (cioè rispetto ai quali non sia più possibile esperire l’appello o il ricorso in cassazione) e che tali provvedimenti siano iscritti solo per estratto contenente i dati indicati nel comma 2 dell’art. 6 del citato decreto legislativo 7/2016. Inoltre, il soggetto abilitato a procedere all’iscrizione nel registro deve verificare che il provvedimento di applicazione della sanzione pecuniaria contenga i dati utili per l’estratto da iscrivere nel registro e se verifica che ci sono dati mancanti o incompleti deve segnalare la cosa al giudice che ha emesso il provvedimento ai fini della sua correzione.
L’articolo 5 stabilisce che le iscrizioni debbono essere eliminate dal registro dopo che sono decorsi 10 anni dalla commissione della violazione oppure in caso di morte della persona a cui essi si riferiscono oppure se il provvedimento iscritto è stato revocato oppure lo stesso non fosse ancora passato in giudicato.
Infine, l’articolo 6 prevede che gli uffici che esercitano la giurisdizione acquisiscono dal registro il certificato di tutte le iscrizioni esistenti riferite ad un determinato soggetto e lo inseriscono nel fascicolo del processo in cui si discute dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria nei confronti di tale soggetto. Inoltre, la norma prevede che l’interessato abbia il diritto di ottenere il certificato relativo alle iscrizioni che lo riguardano, rivolgendosi a qualunque ufficio giudiziario di primo grado. 

3. Il parere del Garante

In primo luogo, il Garante ha ritenuto non in linea con la normativa privacy l’art. 5 dello schema di decreto, disciplinante la durata di conservazione nel registro dei dati relativi ai provvedimenti di applicazione delle sanzioni pecuniarie.
Infatti, secondo il Garante, il decreto legislativo 7/2016 stabilisce che la reiterazione dell’illecito sussiste soltanto qualora il soggetto abbia compiuto una violazione della stessa indole nei 4 anni precedenti a quella oggetto del procedimento dove si discute dell’applicazione di una sanzione pecuniaria. Pertanto, il termine decennale di conservazione delle iscrizioni nel registro appare non in linea con il principio della limitazione della conservazione dei dati rispetto alla finalità perseguita, come previsto dal Regolamento europeo per la protezione dei dati personali (GDPR).
In secondo luogo, il Garante ha ritenuto che il medesimo articolo 5 non rispetti il principio della privacy by default previsto dal citato GDPR. Infatti, posto che viene ivi previsto che sia il soggetto abilitato della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento a curare l’eliminazione delle iscrizioni obsolete, sarebbe invece più in linea con il citato principio della protezione dei dati per impostazione predefinita che tale cancellazione avvenisse attraverso un procedimento automatizzato al termine dello scadere del periodo di conservazione dei dati sopra previsto.
In terzo luogo, il Garante ha evidenziato come il decreto in esame dovrebbe prevedere delle specifiche garanzie per permettere agli interessati di esercitare i diritti di cui agli art. 15-22 del GDPR, soprattutto per permettere di assicurare il rispetto del principio di esattezza dei dati. A tal fine, quindi, il decreto dovrebbe stabilire le modalità per individuare il soggetto competente a fornire riscontro alle richieste di esercizio dei diritti da parte degli interessati e a disciplinare con apposite procedure la gestione delle relative istanze nonché a fornire a detti interessati l’informativa sui loro diritti e sulle modalità per esercitarli.
In quarto luogo, il Garante inviata il Ministero a inviargli la bozza del Decreto del direttore dei sistemi informativi automatizzati del ministero stesso che questi dovrà adottare per disciplinare le regole di funzionamento tecniche del sistema informativo del registro.
Infine, il Garante ha richiesto al Ministero di effettuare una valutazione di impatto del trattamento sulla protezione dei dati personali, prima di dare inizio al trattamento (quindi alla tenuta del registro), in quanto i dati che saranno ivi conservati sono a tutti gli effetti ritenuti dati relativi a “reati” ai sensi dell’art. 10 del GDPR.

Congedo parentale: aggiornamenti per lavoratori autonomi

Congedo parentale: aggiornamenti per lavoratori autonomi

 
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I nostri autori

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Rosario Bello
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Aggiornamenti procedurali per la presentazione delle domande di congedo parentale dei padri lavoratori autonomi
>>>Leggi il messaggio n. 4265/2022 INPS<<<

 

 
 
 

1. Disciplina generale

 

2. Come presentare la domanda?

 

3. Riferimenti normativi

 

Indice

 

1. Disciplina generale

L’INPS, con messaggio n. 4265/2022, Direzione Centrale Ammortizzatori Sociali Direzione Centrale Tecnologia, Informatica e Innovazione, ha  provveduto ad espletare gli aggiornamenti procedurali per la presentazione delle domande di congedo parentale dei padri lavoratori autonomi di cui al Capo XI del Decreto-Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 – Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53 -.
Il Decreto-Legislativo 30 giugno 2022, n. 105 – Attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio – nell’ottica di conciliare l’attività lavorativa e la vita privata per i genitori nonché di realizzare una piena condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la parità di genere in ambito lavorativo e familiare, ha introdotto alcune novità normative in materia di maternità, paternità e congedo parentale. Le domande di congedo parentale dei padri lavoratori autonomi possono riguardare anche periodi di astensione precedenti la data di presentazione della domanda stessa, purché inerenti a periodi di astensione usufruiti tra il 13 agosto 2022 (data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 105/2022) e il 25 novembre scorso. Per i periodi di congedo parentale posteriori al 25 novembre 2022, le domande devono essere presentate prima dell’inizio del periodo di fruizione o, al massimo, il giorno stesso. L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale precisa che durante la fruizione del congedo parentale è obbligatorio astenersi dallo svolgimento di attività lavorativa.

2. Come presentare la domanda?

La domanda telematica inerente il congedo parentale deve essere presentata all’Istituto attraverso uno dei seguenti canali:

  • sito web dell’Istituto, www.inps.it, autenticandosi tramite SPID, CIE o CNS;
  • Contact center al numero 803 164 (gratuito da rete fissa) oppure al numero 06 164 164 da rete mobile (a pagamento, in base alla tariffa applicata dai diversi gestori);
  • Istituti di patronato e intermediari dell’Istituto, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi.

3. Riferimenti normativi

  • Decreto-Legislativo 30 giugno 2022, n. 105 – Attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio -;
  • Direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio;
  • Decreto-Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 – Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53 -;
  • Legge 8 marzo 2000, n. 53 – Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città –