Archivi giornalieri: 11 dicembre 2022

L’Abruzzo a due velocità sulla raccolta differenziata Abruzzo Openpolis

Abruzzo L’Abruzzo a due velocità sulla raccolta differenziata Openpolis

In Abruzzo la raccolta differenziata dei rifiuti supera la media nazionale e quella delle principali regioni del centro-sud. Tuttavia sono ampie le differenze interne: spicca l’area di Chieti, restano indietro L’Aquila e Pescara.

 

La lotta ai cambiamenti climatici e per un ambiente più sano passa anche dal riciclo dei materiali, prodotti sempre in maggiori quantità così come i rifiuti ad essi connessi.

Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo assistito a una parziale inversione di tendenza a causa della pandemia. Tra il 2019 e il 2020, infatti, la produzione di rifiuti urbani in Italia è passata da oltre 30 milioni di tonnellate a 28,9 (-3,59%). In Abruzzo il calo è stato più contenuto, passando da 600mila a 585mila tonnellate (-2,5%).

Ma la raccolta differenziata dei rifiuti deve rimanere una priorità sia a livello nazionale che sui territori.

Il riciclo dei rifiuti urbani rappresenta una priorità stabilità anche da obiettivi nazionali.

Dal 2006, infatti, vige un obiettivo nazionale che prevede che almeno il 65% dei rifiuti urbani prodotti venga differenziato. Un obiettivo che era stato stabilito per il 2012, a cui il nostro paese si avvicina solo adesso, e che l’Abruzzo ha sostanzialmente conseguito proprio nel 2020.

In Italia nel 2020 è stato differenziato in media il 63% dei rifiuti urbani. Superano tale quota 11 regioni, tra cui l’Abruzzo con il 64,99% dei rifiuti differenziati. Un valore che colloca la regione ben al di sopra di altre regioni dell’Italia centrale e meridionale. Mediamente il centro Italia si attesta sul 59,2% di raccolta differenziata, il sud addirittura al 53,6%, con i minimi registrati in Sicilia (42,3%), Calabria (52,2%) e Lazio (52,5%).

Tuttavia la quota raggiunta in Abruzzo è circa 10 punti al di sotto di Veneto e Sardegna, regioni prime in classifica, dove vengono differenziati i tre quarti dei rifiuti urbani.

Un divario, quello tra regioni del nord e del centro-sud, su cui il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede di intervenire con la prima componente della missione 2 del piano, per “migliorare la capacità di gestione efficiente e sostenibile dei rifiuti e il paradigma dell’economia circolare”. Un insieme di investimenti e riforme del valore di 2,1 miliardi di euro, finalizzata a

(…) migliorare la gestione dei rifiuti e dell’economia circolare, rafforzando le infrastrutture per la raccolta differenziata, ammodernando o sviluppando nuovi impianti di trattamento rifiuti, colmando il divario tra regioni del Nord e quelle del Centro-Sud.

Sebbene l’Abruzzo presenti dati migliori rispetto ad altre regioni centro-meridionali, la situazione è fortemente differenziata sul territorio.

Quanto incide la raccolta differenziata sul territorio abruzzese

La provincia di Chieti raggiunge la soglia delle regioni prime in classifica. Nel chietino quasi tre quarti dei rifiuti urbani vengono differenziati (74,55%). Segue la provincia di Teramo (68%), mentre livelli più contenuti si registrano nella provincia dell’Aquila (61,87%) e nel pescarese (54,05%).

253 kg di raccolta differenziata per abitante nella provincia di Pescara nel 2020. A Chieti sono 326.

Tra i capoluoghi spiccano Chieti (71,16% di differenziata) e Teramo (69,55%). Indietro Pescara (47,68%) e L’Aquila (39,03%). Nel capoluogo regionale meno del 40% dei rifiuti urbani viene differenziato, in base ai dati relativi al 2020.

Considerando i comuni non capoluogo con oltre 25mila abitanti, superano il 70% di differenziata Avezzano (77,16%), Lanciano (76,41%), Vasto (74,51%) e Roseto degli Abruzzi (70,04%). Quota poco inferiore per Francavilla al Mare (68,48%), mentre più distante Montesilvano (35,04%).

GRAFICO
DESCRIZIONE

Per conoscere il livello di raccolta differenziata sul tuo territorio, clicca sulla casella Cerca… e digita il nome del tuo comune. Puoi cambiare l’ordine della tabella cliccando sull’intestazione delle colonne.

FONTE: elaborazione Abruzzo Openpolis su dati Ispra
(pubblicati: martedì 18 Ottobre 2022)

 

Per quanto riguarda gli altri comuni, si trovano tutti in provincia di Chieti quelli dove la quota di raccolta differenziata raggiunge i livelli più elevati. Nei territori di Villa Santa Maria, Santa Maria Imbaro e Borrello si supera il 90%. Ma anche a Crecchio, Palena, Filetto e Gamberale la quota è di poco inferiore.

Sono 49 i comuni abruzzesi in cui la differenziata raggiunge l’80%. Di questi, ben 39 – cioè quasi 4 su 5 – appartengono alla provincia di Chieti.

Si trovano tutti nell’aquilano, invece, i territori dove si differenziano meno gli scarti. Tra questi spiccano i tre comuni dell’Alta valle dell’Aterno: Campotosto (2,25% di raccolta differenziata nel 2020), Montereale (8,12%) e Capitignano (11,8%).

 

Non si ferma il consumo di suolo nelle aree protette Ambiente

Non si ferma il consumo di suolo nelle aree protette Ambiente

In quanto zone caratterizzate da un valore naturalistico importante, le aree protette vanno preservate dalla copertura artificiale del suolo.

 

La biodiversità è un elemento importante per il rafforzamento degli ecosistemi. Mantiene infatti l’ambiente stabile e più resistente ai disastri naturali. È infatti questo uno dei motivi che ha portato all’introduzione delle aree naturali protette, nate con lo scopo di preservare gli ambienti in cui vivono determinate specie. Non si tratta però di zone completamente esenti dall’attività umana, che può causare dei problemi a livello di consumo di suolo.

Che cosa sono le aree naturali protette

Le aree naturali protette sono tutte quelle zone composte da elementi fisici, morfologici o biologici che hanno un importante valore naturalistico. All’interno di questi territori, vigono specifiche norme di salvaguardia, come ad esempio il divieto di caccia.

Queste aree sono regolate dalla legge 394/91 con cui è stato istituito anche un elenco in cui vengono iscritte tutte le aree che rispettano i requisiti. Si tratta di zone molto varie, sia per gli elementi naturali che le compongono che per chi le gestisce. Sono ad esempio compresi i parchi nazionali ma anche quelli regionali e interregionali. Si includono anche le riserve naturali, ovvero tutte quelle zone che contengono specie rilevanti dal punto di vista naturalistico, ma anche le zone umide di interesse internazionale e le aree di reperimento terrestri e marine.

In Italia esistono 871 aree protette. Comprendono oltre 3 milioni di ettari tutelati a terra, 2,8 milioni circa di ettari a mare e 658 chilometri di costa.

Le aree naturali protette non sono completamente esenti dalle attività dell’uomo.

Questi sono territori che hanno specifiche tutele a livello legislativo ma sui quali possono svolgersi anche determinate attività umane, con conseguente utilizzo di alcune risorse delle zone. Una di queste è il suolo che ha un ruolo cruciale nel mantenimento delle diverse forme di vita presenti, oltre che un rilevante valore socioeconomico. Come abbiamo già visto in passato, la copertura artificiale del suolo compromette numerose funzioni, da quelle agricole fino a quelle ambientali. Anche se il consumo di suolo rappresenta un problema maggiore nelle aree urbane, non è un fenomeno esclusivamente limitato alle aree più densamente abitate.

Il fenomeno infatti è monitorato in tutto il territorio italiano, con rilevazioni specifiche per le aree naturali protette. Ispra stima che al 2020 il suolo consumato nelle zone presenti nell’elenco delle aree naturali protette (Euap) sia pari a 59.335 ettari totali.

1,9% il suolo consumato nelle aree protette (Ispra, 2020).

Questo valore è inferiore rispetto a quello calcolato per l’intera superficie nazionale, pari infatti al 7,1%. Come affermato da Ispra, le azioni legislative contribuiscono molto alla tutela di queste aree che vengono preservate in modo più efficace rispetto al resto del territorio nazionale.

Nonostante ciò, il consumo di suolo nelle aree naturali protette è un fenomeno che non si ferma. Sempre secondo Ispra, tra il 2019 e il 2020 sono stati consumati 65 ettari di terreno. Poco meno della metà dei consumi dell’anno si concentra in Lazio (17,1 ettari), Abruzzo (8,5) e Campania (6,7). Rispetto al 2012, il consumo del suolo è aumentato di 846,37 ettari.

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta il suolo consumato nelle aree contenute nell’elenco ufficiale delle aree protette (Euap) fino al 2020.

Sono considerate aree protette tutte quelle zone che rispondono a determinati requisiti di tipo ambientale e economico, come definito dal ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Ispra
(consultati: giovedì 1 Dicembre 2022)

 

La regione caratterizzata dal maggior suolo consumato nelle aree protette è la Campania con 13.379 ettari sfruttati. Seguono Puglia (6.644), Lazio (6.130) e Sicilia (4.267). In fondo si trovano Friuli-Venezia Giulia (165), Valle d’Aosta (82) e Molise (22). 

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta l’incidenza di zone con consumo di suolo sul totale presente nell’elenco ufficiale delle aree protette (Euap) fino al 2020.

Sono considerate aree protette tutte quelle zone che rispondono a determinati requisiti di tipo ambientale e economico, come definito dal ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Ispra
(consultati: giovedì 1 Dicembre 2022)

 

In Liguria si registra la maggiore percentuale di suolo consumato in aree protette (4,2%). A questa regione seguono Campania (3,8%), Veneto (3,2%) e Lazio (2,8%). Quelle in cui l’incidenza è minore sono Trentino-Alto Adige (0,3%), Friuli-Venezia Giulia (0,3%), Molise (0,3%) e Valle d’Aosta (0,2%).

Foto: BBPhotodesign – licenza

 

Solo con opportunità educative eque si tutelano i diritti dei minori #conibambini

Solo con opportunità educative eque si tutelano i diritti dei minori #conibambini

Dopo la pandemia, la povertà è sempre più un fenomeno multidimensionale. Oltre alla questione economica, è cruciale l’accesso a opportunità e servizi per tutti i minori. Un diritto oggi non sempre tutelato sull’intero territorio nazionale e che coinvolge il ruolo della comunità educante.

 
Partner


Il 10 dicembre ricorre la giornata mondiale dei diritti umani. Dal punto di vista di bambini e ragazzi, tutelarli significa garantire un accesso equo all’istruzione e, in generale, alle opportunità educative e sociali.

Non parliamo solo dell’istruzione in senso formale, impartita tra le mura scolastiche. Ma dell’insieme di esperienze formative, culturali e sociali che sono fondamentali per la crescita. E che, in definitiva, possono contrastare la povertà educativa.

La povertà educativa è la condizione in cui un bambino o un adolescente si trova privato del diritto all’apprendimento in senso lato, dalle opportunità culturali e educative al diritto al gioco. Povertà economica e povertà educativa si alimentano a vicenda. Vai a “Quali sono le cause della povertà educativa”

Come sottolineato dalle Nazioni unite in occasione dell’ultima giornata mondiale, ciò è ancora più importante nel contesto che stiamo vivendo. L’impatto delle crisi finanziarie e pandemica succedutesi negli ultimi anni ha reso la povertà un fenomeno sempre più multidimensionale.

Essere poveri non è solo una questione monetaria, ma anche di mancato accesso agli strumenti che consentono di sottrarsi all’esclusione sociale.

Successive financial and health crises have had long-lasting and multidimensional impacts on millions of young people. Unless their rights are protected, including through decent jobs and social protection, the “Covid generation” runs the risk of falling prey to the detrimental effects of mounting inequality and poverty.

L’accesso alle opportunità educative non è garantito allo stesso modo sul territorio nazionale.

Per le generazioni più giovani, segnate dall’emergenza Covid, garantire l’accesso a questo tipo di opportunità significa anche tutelarne i diritti. Per farlo è necessario un approccio olistico alla povertà minorile, che miri alla salvaguardia dell’intero percorso di crescita del minore. Nell’accesso all’istruzione, ma anche nella possibilità di fare sport, di usufruire di esperienze culturali, di disporre di luoghi dove trovarsi con gli amici.

Questi diritti non sempre sono tutelati sull’intero territorio nazionale. In molti casi le aree più deprivate in termini di servizi e opportunità sono anche quelle con maggiore povertà economica e livelli di istruzione più bassi.

La povertà minorile nel contesto post-pandemico

Negli ultimi anni, la povertà assoluta è cresciuta nel nostro paese e con essa si sono allargati anche i divari tra le generazioni.

Torna su

Con la pandemia, la quota di bambini e ragazzi in povertà assoluta ha superato il 14%. Si tratta di un record nella serie storica, ma il fenomeno nelle sue tendenze non è affatto nuovo. Da circa 10 anni i minori e le loro famiglie sono la fascia di popolazione più spesso in povertà.

GRAFICO
DA SAPERE

Una persona si trova in povertà assoluta quando vive in una famiglia che non può permettersi l’insieme dei beni e servizi che, nel contesto italiano, sono considerati essenziali per mantenere uno standard di vita minimamente accettabile.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: mercoledì 15 Giugno 2022)

 

Ciò è stato sicuramente l’esito delle crisi economiche che si sono succedute negli ultimi anni, a partire dalla recessione del 2008. Tuttavia i dati segnalano anche il ruolo della possibilità di accesso all’istruzione, e in generale alle opportunità educative, nell’alimentare tali dinamiche. Nel corso dell’ultimo decennio, il tasso di occupazione dei giovani che hanno lasciato la scuola prima del tempo è crollato.

Un dato ancora più grave per il nostro paese, la cui caratteristica – nel contesto europeo – è proprio una maggiore “ereditarietà” nei livelli di istruzioneIn Italia circa due terzi dei figli di chi non ha il diploma abbandonano a loro volta, contro una media Ocse inferiore di oltre 20 punti.

2/3 dei bambini con i genitori senza diploma restano con lo stesso livello d’istruzione, rispetto a una media Ocse del 42%.

Questo ha un impatto sull’ascensore sociale: nascere in una famiglia povera, con meno istruzione, significa spesso essere condannati a restare in quella condizione.

Aree interne e mezzogiorno indietro su abbandoni e apprendimenti

Ciò ha forti connotazioni territoriali. Le aree del paese con meno adulti diplomati tendono a coincidere con quelle con più abbandoni precoci, una relazione visibile tanto a livello regionale quanto in quello locale. Si tratta generalmente anche dei territori dove si registrano i livelli di apprendimento più bassi.

GRAFICO
DA SAPERE

Ogni capoluogo è stato classificato in base a due parametri.

Il primo è il punteggio nelle prove Invalsi di italiano (a.s. 2020/21) al grado 2 (II primaria). Ciascun capoluogo è stato classificato in due categorie: competenze medio-basse (se il dato è inferiore o uguale alla mediana dei capoluoghi); competenze medio-alte (se superiore alla mediana).

Il primo è il punteggio nelle prove Invalsi di italiano (a.s. 2020/21) al grado 13 (V superiore). Anche in questo caso abbiamo suddiviso ciascun capoluogo in due categorie (competenze medio-alte; competenze medio-basse) con lo stesso criterio.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Invalsi
(ultimo aggiornamento: giovedì 2 Settembre 2021)

 

I risultati nei test Invalsi sono sistematicamente peggiori nelle città del sud rispetto a quelle del nord e nelle aree interne rispetto ai centri maggiori.

Le aree interne sono i territori del paese più distanti dai servizi essenziali (quali istruzione, salute, mobilità). Parliamo di circa 4.000 comuni, con 13 milioni di abitanti, a forte rischio spopolamento (in particolare per i giovani), e dove la qualità dell’offerta educativa risulta spesso compromessa. Vai a “Che cosa sono le aree interne”

Questa tendenza si innesta su profonde disparità nell’offerta di servizi, opportunità, esperienze educative e sociali. I territori con più abbandoni e bassi apprendimenti spesso infatti coincidono con quelli con minore dotazione di servizi e opportunità educative.

Le troppe opportunità che mancano nei territori deprivati

Le disuguaglianze nelle opportunità educative cominciano nei primi anni di vita, con la possibilità di accesso agli asili nido, meno diffusi proprio nei territori che registrano un livello più basso di apprendimenti.

In primo luogo nelI’Italia meridionale. In 3 grandi regioni del mezzogiorno, l’offerta di posti nido supera di poco i 10 posti ogni 100 bambini: Sicilia (12,5), Calabria (11,9) e Campania (11). Lo stesso vale per le aree interne: nei comuni polo l’offerta di servizi prima infanzia raggiunge i 33 posti ogni 100 bambini, in quelli periferici e ultraperiferici la quota mediamente non arriva al 20%.

Sono spesso gli stessi territori che, nella scuola dell’obbligo, vedono una minore diffusione dei servizi scolastici. A partire dalle mense, fondamentali per garantire l’estensione di attività educative ed extrascolastiche.

Non a caso, la diffusione del tempo pieno nelle scuole risente dello stesso tipo di divari. In primo luogo quello tra centro-nord e sud. Tra le regioni a statuto ordinario, la quota di classi delle primarie a tempo pieno supera il 50% nel Lazio, Lombardia, Piemonte e Toscana. Mentre si trovano tutte nel mezzogiorno quelle in cui la quota non raggiunge il 25%: Calabria (21,5%), Puglia (16,8%), Abruzzo (16%), Campania (13,2%) e Molise (5,6%).

In secondo luogo, riemerge la spaccatura tra città maggiori e piccoli centri. Nei comuni con oltre 100mila abitanti il 60,4% delle classi delle elementari sono a tempo pieno, mentre in quelli con meno di 1.000 residenti la quota scende sotto al 15%.

14,5% le classi delle scuole primarie a tempo pieno nei comuni tra 500 e 999 abitanti. In quelli con meno di 500 residenti la quota scende al 6,5%.

Oltre alla mancanza di servizi educativi, si tratta spesso dei territori in cui – fuori dall’orario scolastico – sono più carenti luoghi e strutture dove fare attività sportive. E in generale gli spazi dedicati ai minori, dai parchi ai centri di aggregazione. Una carenza di opportunità che ancora una volta è ricorrente soprattutto nel mezzogiorno, nelle periferie urbane, nelle aree interne.

GRAFICO
DA SAPERE

I centri di aggregazione / sociali, da glossario Istat, sono definiti come luoghi “nei quali promuovere e coordinare attività ludico-ricreative, sociali, educative, culturali e sportive, per un corretto utilizzo del tempo libero. Per utenti si intende il numero di persone che hanno beneficiato del servizio durante l’anno”.

Nei dataset Istat, i dati sui centri di aggregazione riguardano due aree tematiche: “famiglia e minori” e “anziani”. Ai fini dell’analisi sono stati isolati solo gli utenti relativi all’area “famiglia e minori” e messi in relazione con il numero di residenti 0-17 in ciascun territorio. Dati non disponibili per Sud Sardegna.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: lunedì 31 Dicembre 2018)

 

Il contributo essenziale della comunità educante

In questo quadro, appare prioritario un investimento educativo sulla scuola come baricentro della rete territoriale di soggetti che già oggi, in ciascun territorio, lavorano in ambiti diversi al contrasto della povertà educativa: insegnanti, famiglie, presidi sociali, culturali ed educativi.

Dalle strutture sportive alle biblioteche, dai musei alle librerie, dai cinema ai doposcuola. Solo alleanze educative di questa natura possono intervenire sulle cause – a tutto tondo – del fenomeno.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi ad asili nido e servizi prima infanzia sono di fonte Istat, mentre quelli relativi alla percentuale di classi a tempo pieno nelle regioni a statuto ordinario sono di fonte Sose.

Foto: Marisa Howenstine (unsplash) – Licenza

 

La povertà lavorativa è ancora una realtà in Europa Europa

La povertà lavorativa è ancora una realtà in Europa Europa

La povertà tra chi lavora è un fenomeno diffuso in Europa ed è anzi rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi 10 anni. Riguarda anche le famiglie ad alta intensità lavorativa e colpisce soprattutto i più giovani.

 

Le discussioni in parlamento in materia di salario minimo e povertà lavorativa

La scorsa settimana si è tornato a parlare, in parlamento, di salario minimo. Si tratta di un tema che in Italia si discute da anni, ma su cui ancora non sono state prese decisioni vincolanti. La posizione delle nuove camere in materia si è espressa nei giorni scorsi, quando sono state respinte una serie di mozioni presentate da Andrea Orlando (Pd), Giuseppe Conte (M5s), Matteo Richetti (Iv) e da Marco Grimaldi (Avs) in favore all’introduzione del salario minimo. Invece l’unica mozione approvata è stata quella della maggioranza, firmata da Chiara Tenerini (FI), contraria al salario minimo e favorevole al ricorso a misure alternative per tutelare i lavoratori.

A oggi l’Italia è uno dei pochi stati membri dell’Unione europea a essere sprovvisto di una misura di salario minimo. Infatti nel nostro paese il livello minimo dei salari viene stabilito tramite contrattazione collettiva, a seconda del settore. Uno dei principali problemi legati all’assenza di un salario minimo per tutti è la cosiddetta povertà lavorativa. Ovvero quando una persona, nonostante sia occupata talvolta anche a tempo pieno, percepisce un salario inferiore alla soglia di povertà.

Il fenomeno della povertà lavorativa in Europa

Nonostante l’Unione europea la consideri un fenomeno da arginare, è ancora ampiamente diffusa, e l’Italia è uno degli stati membri con più lavoratori a rischio. Prevenire tale condizione fa parte di un progetto più ampio, ovvero della strategia comunitaria per arginare la povertà.

I lavoratori hanno diritto a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso. Sono garantite retribuzioni minime adeguate […]. La povertà lavorativa va prevenuta.

Si definisce povertà lavorativa il fenomeno per cui persone regolarmente occupate che risultano essere a rischio povertà, ovvero che hanno un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di povertà relativa (fissata al 60% del reddito mediano nazionale).

Ci sono una serie di fattori che incidono su questa condizione, ad esempio la cittadinanza (gli stranieri sono quasi ovunque più esposti a questo fenomeno). Ma anche l’età (a scapito dei giovani) e il livello di educazione (l’incidenza è maggiore tra chi non possiede un titolo di studio terziario).

Un altro elemento importante è l’intensità lavorativa. In tutti i paesi Ue tranne Belgio, Irlanda e Finlandia oltre il 20% degli adulti parte di nuclei familiari a bassa intensità lavorativa è a rischio povertà, come evidenzia Eurostat. In 6 stati tra cui l’Italia il dato supera il 40%, con la cifra più elevata registrata dal Portogallo (54%).

Tuttavia anche tra chi lavora intensamente l’incidenza è elevata. Il 9,4% delle famiglie a elevata intensità lavorativa è a rischio povertà, con picchi del 19,8% in Romania e del 14,3% in Lussemburgo. In Italia, è a rischio povertà il 40,2% delle famiglie a bassa intensità lavorativa, il 25,7% di quelle a intensità media e l’8,3%% dei nuclei a intensità lavorativa alta.

Quanto incide la povertà tra i lavoratori negli stati Ue

Nel 2021, quasi un decimo di tutti i lavoratori, mediamente nell’Unione europea, è a rischio povertà.

8,9% dei lavoratori in Ue è a rischio povertà (2021).

Si tratta di un dato che nel corso dell’ultimo decennio è rimasto sostanzialmente invariato, registrando solo lievi oscillazioni ma attestandosi sempre tra l’8% e il 10%. Mentre da paese a paese la situazione risulta fortemente differenziata.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati si riferiscono alle persone di età tra i 18 e i 64 anni con un impiego, che risultano essere a rischio povertà, nel 2021. Sono considerate occupate le persone che hanno svolto un lavoro per almeno metà anno. Il dato della Slovacchia è relativo al 2020.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat
(pubblicati: venerdì 11 Novembre 2022)

 

La Romania riporta il dato più elevato d’Europa, con il 15,2% dei lavoratori che risultano essere a rischio povertà. Seguono il Lussemburgo (13,5%) e la Spagna (12,7%) e, al quarto posto, l’Italia (11,7%).

Nel corso dell’ultimo decennio, il miglioramento più pronunciato si è verificato in Grecia (che nel 2012 arrivava quasi al 14%) e in Romania (dove nello stesso anno sfiorava il 19%). Mentre in 10 paesi membri c’è stato un peggioramento, significativo soprattutto in Lussemburgo (+3,2 punti percentuali) e Bulgaria (+2,6). Mediamente in Ue non c’è stato alcun cambiamento.

In Italia, il picco è stato raggiunto nel 2017 e nel 2018 (12,3%). Ma nel complesso la quota di lavoratori a rischio povertà è leggermente aumentata nel corso dell’ultimo decennio: nel 2012 si attestava all’11,1%.

La povertà lavorativa colpisce sproporzionatamente i giovani

Tra le categorie più esposte alla povertà lavorative ci sono in particolar modo le persone più giovani, di età compresa tra i 18 e i 24 anni.

GRAFICO
DA SAPERE

Con “lavoratori poveri” si intende le persone con un impiego, che risultano essere a rischio povertà. Sono considerate occupate le persone che hanno svolto un lavoro per almeno metà anno. Non è disponibile il dato slovacco relativo al 2021.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat
(pubblicati: giovedì 1 Dicembre 2022)

 

La Romania è il paese Ue con la quota più elevata di lavoratori a rischio povertà, sia come media nazionale (15,2%) che specificamente nella fascia dei più giovani (21,1%).

Il divario più ampio tuttavia è quello della Danimarca (14,2 punti percentuali). Seguono in questo senso Bulgaria (8,2 punti) e Lussemburgo (7,3). Sono pochi gli stati membri in cui il divario è invece a vantaggio dei giovani: prima da questo punto di vista la Lettonia (5 punti percentuali).

Foto: Maarten van den Heuvel – licenza

 

La sfida delle scadenze Pnrr a fine anno #OpenPNRR

La sfida delle scadenze Pnrr a fine anno #OpenPNRR

Sono ancora 40 le scadenze da raggiungere entro dicembre, per chiedere all’Ue nuovi fondi. Ma le intenzioni del governo sul Pnrr continuano a non essere chiare.

 

Il quadro attuale delle scadenze

Manca meno di un mese alla fine dell’anno, un appuntamento cruciale nel cronoprogramma del piano nazionale di ripresa e resilienza. Il 31 dicembre infatti si chiude il quarto trimestre del 2022 e con esso il termine per completare le scadenze europee previste dal Pnrr. Non solo quelle indicate per il periodo che va da ottobre a dicembre, il quarto trimestre appunto, ma anche per i tre mesi precedenti tra giugno e agosto, cioè il terzo trimestre 2022. Il loro conseguimento è un passaggio necessario per poter chiedere all’Unione europea un nuovo rilascio di fondi.

Ogni sei mesi la commissione europea controlla che i paesi abbiano completato le scadenze Ue del Pnrr. In caso di verifica positiva, si procede all’erogazione dei fondi. Vai a “Come l’Ue verifica l’attuazione dei Pnrr negli stati membri”

Trasparenza, informazione, monitoraggio e valutazione del PNRR

Il tuo accesso personalizzato al Piano nazionale di ripresa e resilienza

Accedi e monitora

 

Trasparenza, informazione, monitoraggio e valutazione del PNRR

Il tuo accesso personalizzato al Piano nazionale di ripresa e resilienza

Accedi e monitora

 

In base alla nostra attività di monitoraggio, l’ultimo aggiornamento al 25 novembre 2022 conferma che 2 scadenze europee del terzo trimestre sono ancora da completare e quindi in ritardo. Si tratta in particolare dell’aggiudicazione di tutti gli appalti pubblici per le green communities e dell’entrata in vigore della riforma per i servizi idrici integrati. A queste 2 milestone si aggiungono poi le 38 scadenze ancora da completare, sulle 51 previste per il quarto trimestre.

40 su 55 le scadenze europee del Pnrr che l’Italia deve ancora completare per poter chiedere nuove risorse all’Ue.

Sempre in base al nostro monitoraggio, dei 38 milestone e target da completare nel quarto trimestre, 15 sono a buon punto, quindi a un passo dal completamento, ma ben 23 ancora in corso, cioè interventi avviati ma lontani dalla loro realizzazione. Solo 13 scadenze su 51 risultano invece completate.

In altre parole: manca poco al termine e il nostro paese non ha rispettato neanche metà degli impegni previsti per il trimestre in corso.

Il destino incerto del Pnrr

La questione è capire come il governo Meloni si sta ponendo rispetto a queste scadenze da completare. Sempre in base al nostro monitoraggio, possiamo segnalare che nelle ultime settimane, di passi avanti nell’attuazione di milestone e target ce ne sono stati pochi. Se questo da un lato è comprensibile, per via di tempi e passaggi di consegne che l’insediamento di un nuovo esecutivo comporta, dall’altro lascia aperti molti dubbi su quello che succederà da qui ai prossimi mesi.

Come abbiamo avuto modo di raccontare in altri articoli, la coalizione a sostegno del governo Meloni ha dichiarato in diverse occasioni – già a partire dalla campagna elettorale – di voler modificare il Pnrr attuale. E anche se l’esecutivo non ha ancora presentato alla commissione europea una proposta di revisione, diverse dichiarazioni anche recenti ne confermano le intenzioni.

In primis l’intervento della presidente Giorgia Meloni all’assemblea dell’Anci (associazione nazionale comuni italiani) del 24 novembre scorso. In quell’occasione Meloni ha ribadito infatti la volontà di verificare con la commissione europea le misure più idonee ad aggiornare il piano. Posizioni riprese anche da Raffaele Fitto, ministro per gli affari europei, il sud, le politiche di coesione e il Pnrr. Il quale ha sottolineato in un recente colloquio con Repubblica l’intenzione di implementare il piano e di armonizzarlo con i fondi di coesione. Oltre che di modificare obiettivi e scelte che ormai non considera più attuali.

Le criticità sottolineate finora dall’esecutivo si concentrano quindi su due questioni principali. La prima è quella relativa alla guerra ancora in corso tra Russia e Ucraina e alle sue conseguenze economiche. L’aumento del costo dell’energia e delle materie prime infatti pone inevitabilmente delle difficoltà e dei ritardi nella realizzazione di opere e progetti Pnrr così come erano stati definiti originariamente.

La seconda questione, collegata in parte alla prima, riguarda i tempi di attuazione del piano. Quando ancora non era in carica, Meloni aveva già evidenziato i ritardi nella realizzazione dei progetti previsti ponendo l’attenzione, oltre che sul rincaro dei costi, anche sulla lentezza delle procedure rispetto alla rigidità del cronoprogramma. Un tema che a partire dal 2023 si farà più pressante perché molti investimenti entreranno nel vivo della loro messa a terra.

Siamo nella fase in cui siamo chiamati ad affrontare concretamente l’avvio dei cantieri, per questo ovviamente è necessario accelerare l’iter di approvazione dei progetti e rilascio dei pareri, è un tema enorme.

Per questi motivi c’è chi dal governo auspica già ora una proroga dei termini di attuazione dell’agenda. A partire dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini, alla guida del dicastero responsabile della quota maggiore di fondi Pnrr. Il ministro ha infatti recentemente sostenuto l’importanza di rivedere non solo i modi e i costi, ma anche i tempi di realizzazione dei progetti.

Un appuntamento inevitabile

A fronte di un esecutivo che richiama l’attenzione sulle criticità di tempi e costi del Pnrr e sulla necessità di modifiche, è bene però ricordare due elementi cruciali. Il primo riguarda le modalità con cui un processo di revisione può avere luogo.

Gli stati possono apportare delle modifiche ai rispettivi Pnrr purché esse siano giustificate da circostanze oggettive. Vai a “Quanto e come può essere modificato il Pnrr”

Dunque si possono rivedere – almeno secondo il regolamento – solo quegli interventi diventati impossibili da conseguire così come erano stati previsti. Una clausola che si applicherebbe, per esempio, ai cambiamenti resi necessari dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia. Ma forse non ad altri interventi inclusi nel Pnrr, come la riforma della giustizia ideata dal governo Draghi e che l’esecutivo Meloni vorrebbe modificare.

Per ricevere i fondi, vanno completate le scadenze.

Il secondo elemento è il meccanismo di rilascio delle risorse da parte dell’Ue. Per richiedere alla commissione la prossima tranche di finanziamento, il nostro paese deve in ogni caso riuscire entro dicembre a realizzare quelle 40 scadenze europee da completare. Fino a che non sarà inviata e approvata una richiesta di modifica del piano infatti, interrompere l’attuazione di target e milestone comporterebbe inevitabilmente la mancata ricezione delle risorse.

Ma chi se ne deve occupare? Ogni scadenza, così come ogni misura, è di titolarità di un organizzazione responsabile, principalmente ministeri o dipartimenti della presidenza del consiglio. Come è noto, il governo Meloni ha apportato delle novità a deleghe e denominazioni di ministeri e dipartimenti. Formalmente non sono ancora state apportate modifiche al Pnrr e quindi gli enti titolari non sono stati ancora rinominati né confermati nelle rispettive responsabilità. Tuttavia, è possibile prevedere i passaggi di titolarità e quindi identificare quali tra i ministeri e i dipartimenti attuali saranno più coinvolti da qui alla fine dell’anno nel conseguimento di milestone e target.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati mostrano il numero di scadenze Pnrr europee che l’Italia deve ancora completare entro dicembre per richiedere la terza tranche di finanziamento all’Ue. I nomi dei ministeri rispecchiano la ridenominazione voluta dal governo Meloni, anche se formalmente non è stata ancora applicata al Pnrr.

FONTE: elaborazione e dati OpenPNRR
(ultimo aggiornamento: venerdì 25 Novembre 2022)

 

Il dipartimento per la trasformazione digitale dovrà conseguire 8 scadenze prima della fine dell’anno. È l’organizzazione titolare con più impegni da rispettare, seguita dal ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (6) e dal ministero dell’economia e delle finanze (4).

Il governo è consapevole dell’urgenza di completare i 40 milestone e target mancanti entro dicembre. Tant’è che indiscrezioni diffuse dalla stampa parlano della lavorazione di uno o più decreti ad hoc per velocizzare le procedure e quindi realizzare per tempo le scadenze rimaste. Il consiglio dei ministri potrebbe approvarlo entro la fine dell’anno, per completare gli interventi in linea con il cronoprogramma e chiedere a Bruxelles nuovi fondi. Una pratica – questa dei cosiddetti “decreti Pnrr” – avviata già dal governo Draghi per riuscire a rispettare i tempi delineati dall’agenda.

L’esecutivo potrebbe quindi riuscire a centrare l’obiettivo di fine anno. Tuttavia, il destino del Pnrr, le sue eventuali modifiche e i ritardi nella realizzazione dei progetti sono questioni cruciali e delicate, che dovranno essere necessariamente dipanate nei prossimi mesi, in accordo con l’Unione europea.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: palazzo Chigi – Licenza

 

La maggioranza ha margini ridotti nelle commissioni Governo e parlamento

La maggioranza ha margini ridotti nelle commissioni Governo e parlamento

Spesso lontane dai riflettori, è qui che si svolge la maggior parte del lavoro parlamentare. Per questo valutarne gli equilibri interni è molto importante.

 

Nei primi giorni di novembre camera e senato hanno definito la composizione delle commissioni parlamentari. In questo articolo ci concentreremo in particolar modo su quelle cosiddette permanenti. Si tratta cioè di quelle commissioni che sono chiamate, tra le altre cose, a valutare le proposte di legge prima che queste arrivino in aula per l’approvazione definitiva.

Spesso poco considerate da media e opinione pubblica, le commissioni ricoprono invece un ruolo estremamente importante. È proprio in questi ambiti infatti che si svolge la gran parte del lavoro sui testi.

Qui si cercano convergenze politiche e il dibattito entra realmente nel merito delle questioni. Vai a “Cosa sono le commissioni parlamentari e perché sono importanti”

Avere una maggioranza solida in commissione è quindi fondamentale per permettere un iter più agevole dei disegni di legge. E proprio per questo risulta di fondamentale importanza valutare con attenzione gli equilibri al loro interno. Sia tra maggioranza e opposizione sia all’interno della stessa coalizione di governo.

L’alleanza composta da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati ha ottenuto una vittoria ampia alle elezioni. Tuttavia analizzando la composizione delle varie commissioni emerge come, soprattutto al senato, i numeri della maggioranza non siano poi così solidi.

Come si compongono le commissioni

Prima di valutarne gli equilibri interni però è importante capire come deputati e senatori vengono assegnati alle commissioni. I regolamenti di camera e senato non prevedono un numero fisso di componenti. L’obiettivo è piuttosto quello di rispettare il più possibile la consistenza dei diversi gruppi.

L’articolo 19 del regolamento della camera prevede che ciascun gruppo debba designare lo stesso numero di componenti per ogni commissione. Tale numero è proporzionale alla ripartizione dei seggi in aula. Spetta al presidente della camera poi – sempre su proposta dei gruppi – distribuire tra le commissioni quei deputati che non siano rientrati nella ripartizione perché in eccesso, sempre cercando di rispettare i rapporti di forza tra le varie formazioni. La stessa procedura si applica anche per quegli esponenti appartenenti a gruppi la cui consistenza numerica sia inferiore a quella delle commissioni. In questo caso, ad alcuni deputati può essere permesso di far parte di più di una commissione.

L’articolo 21 del regolamento del senato prevede passaggi simili. In questo caso in particolare, visto il numero limitato di senatori, coloro che appartengono ai gruppi meno numerosi possono arrivare a far parte di più commissioni fino a un massimo di 3.

I Senatori che non risultino assegnati […] sono distribuiti nelle Commissioni permanenti, sulla base delle proposte dei Gruppi di appartenenza, dal Presidente del Senato, in modo che in ciascuna Commissione siano rispecchiati, per quanto possibile, la proporzione esistente in Assemblea tra tutti i Gruppi parlamentari e il rapporto tra maggioranza e opposizione.

Queste operazioni di distribuzione d’ufficio, per così dire, determinano il fatto che all’interno di ogni singola commissione gli equilibri tra le varie forze politiche siano diversi.

Gli equilibri cambiano da una commissione all’altra.

Per questo diventa molto interessante valutarle caso per caso. Tenendo sempre presenti due elementi. Il primo è che, a seguito del taglio dei parlamentari, il senato ha ridotto le proprie commissioni permanenenti da 14 a 10 aumentando gli ambiti di competenza di quelle rimaste. La camera dei deputati invece non ha ancora approvato la riforma del proprio regolamento (al momento sono state presentate due proposte di modifica). Il secondo è che la composizione delle varie commissioni si rinnova dopo due anni dall’inizio della legislatura. Di conseguenza gli equilibri potrebbero cambiare ulteriormente.

Gli equilibri al senato

Osservando più nel dettaglio la composizione delle commissioni notiamo che, come già anticipato, la situazione più complicata si incontra al senato. Qui infatti in molti casi il margine per la maggioranza è estremamente ridotto.

Da questo punto di vista, la situazione all’interno della commissione giustizia appare particolarmente complessa. Qui infatti, considerando che l’unica esponente del gruppo misto (Ilaria Cucchi) appartiene all’opposizione, la maggioranza ha un margine minimo.

voto di scarto tra maggioranza e opposizione all’interno della commissione giustizia del senato.

Come noto, Forza Italia ha una particolare sensibilità sul tema. In questa commissione c’è un solo componente azzurro, ovvero Pierantonio Zanettin. In casi estremi, il venir meno anche solo di questo unico voto rischierebbe di determinare uno stallo dei lavori.

Sostanzialmente però in tutte le commissioni la maggioranza, se non coesa, rischia di non avere i numeri. Considerando anche il posizionamento degli appartenenti al gruppo misto in base a come hanno votato la fiducia al governo, in 3 commissioni (bilancioambiente e lavori pubblici, finanze e tesoro) il margine scende a 2. La quarta commissione (politiche Ue) è l’unica in cui il margine è di 4 voti, in tutte le altre invece è di 3. Lo scarto medio rispetto all’opposizione è di appena 2,6 voti.

GRAFICO
DA SAPERE

Il grafico mostra la divisione dei seggi tra maggioranza e opposizione all’interno delle commissioni parlamentari. Il gruppo misto è conteggiato a parte perché non è sempre possibile definire lo schieramento politico dei suoi membri.

FONTE: elaborazione e dati openpolis
(ultimo aggiornamento: mercoledì 16 Novembre 2022)

 

Il fatto che i margini siano così ridotti può non rappresentare un problema. Ci sono infatti dei temi su cui la maggioranza appare essere più coesa. Ad esempio all’interno dell’ottava commissione (ambiente, lavori pubblici, comunicazioni) sembra improbabile un rischio di spaccature, anche se quello delle telecomunicazioni è un altro tema dirimente per Fi. Discorso diverso può essere fatto ad esempio per la commissione bilancio dove le 4 forze della maggioranza hanno obiettivi e sensibilità diverse. Come già detto, in questo caso lo scarto è di soli 2 voti e l’apporto di Lega e Forza Italia è indispensabile.

Questa dinamica incide sugli equilibri della maggioranza. Non è forse un caso che, a proposito della legge di bilancio, la presidente Meloni abbia lanciato delle aperture verso la proposta di dialogo avanzata dal leader di Azione-Italia viva Carlo Calenda.

Nelle commissioni la maggioranza non può permettersi spaccature.

Da sottolineare la situazione complessa anche all’interno della terza commissione del senato che si occupa di affari esteri e difesa. Qui, viste anche le sensibilità diverse che Lega e Forza Italia hanno nei confronti della Russia, il rischio di spaccature potrebbe essere più concreto. Anche se c’è da dire che, nel definire la strategia internazionale del nostro paese, il governo svolge certamente un ruolo preponderante.

Al di là degli aspetti politici però è rilevante notare che agli esponenti della maggioranza viene richiesta la massima partecipazione. In molti ambiti infatti bastano anche solo un paio di assenze per malattia per far andare sotto la coalizione. Questo presupponendo ovviamente che gli esponenti dell’opposizione siano tutti presenti. Una situazione molto complessa quindi che rischia di rendere molto difficile la navigazione delle proposte di legge e, di conseguenza, l’attuazione del programma di governo.

Gli equilibri alla camera

Come già detto, la situazione appare meno complessa alla camera. All’interno delle commissioni permanenti infatti i numeri della maggioranza sono più solidi. C’è solo un caso, quello della commissione cultura e istruzione, in cui il margine è di 3 voti. In tutti gli altri ambiti il margine è superiore, fino a raggiungere i 9 voti all’interno della commissione difesa.

Anche se a Montecitorio la situazione risulta meno complicata, è bene sottolineare che anche qui la Lega rappresenta l’ago della bilancia in molti contesti.

50% le commissioni della camera in cui la Lega può essere l’ago della bilancia.

È così all’interno delle commissioni:

  • affari costituzionali;
  • esteri;
  • trasporti;
  • finanze; 
  • cultura (qui anche i voti di Forza Italia sono decisivi);
  • lavoro;
  • affari sociali.

Ovviamente in caso di una rottura politica che veda l’uscita dalla maggioranza di una tra Lega e Forza Italia, assisteremmo alla caduta del governo che non avrebbe più i numeri per andare avanti. Tuttavia, anche senza arrivare a scenari così estremi, il Carroccio in queste commissioni può avere un margine di contrattazione molto consistente per portare avanti le proprie istanze.

Come si distribuiscono le presidenze di commissione

Un altro elemento interessante da analizzare riguarda le posizioni chiave all’interno delle commissioni. Nelle dinamiche parlamentari infatti non tutti i deputati e i senatori hanno la stessa importanza. Chi ricopre una key position ha maggiori probabilità di riuscire a portare avanti le proprie istanze.

Abbiamo già detto che la gran parte del lavoro sui progetti di legge avviene all’interno delle commissioni. Di conseguenza, sapere chi ricopre questi incarichi è molto importante per capire chi sono i parlamentari politicamente più rilevanti.

Tra le posizioni chiave ci sono quelle di presidente, vicepresidente, segretario e capogruppo di commissione. Vai a “Quali sono i ruoli chiave del parlamento”

Un altro ruolo molto importante è quello del relatore. Questa figura però cambia al variare del provvedimento in esame. L’incarico più rilevante in assoluto nell’ambito delle commissioni è quello di presidente. Da questo punto di vista possiamo osservare che, com’era lecito attendersi, è Fratelli d’Italia ad esprimerne il maggior numero. Il partito di Giorgia Meloni infatti può vantare la metà delle presidenze (5 alla camera e 7 al senato). La Lega invece ne ha 4 a Montecitorio e 3 a palazzo Madama mentre Forza Italia rispettivamente 3 e 2.

Un ultimo elemento di rilievo riguarda il rapporto tra governo e parlamento. In particolare tra chi ricopre incarichi chiave in commissione e il ministro competente nella stessa materia. Al netto degli equilibri fragili che abbiamo descritto finora infatti, per un partito poter fare affidamento su due posizioni di rilievo come il ministro e il presidente di commissione significa avere un peso politico maggiore e una più sigificativa capacità di incidere sui disegni di legge.

Per quanto, con la riduzione del loro numero, al senato sia più difficile associare una commissione a un singolo ministro è proprio qui che si registra la maggior quantità di parallelismi. Il caso più eclatante in questo senso è quello della nona commissione che si occupa di industria, turismo e agricoltura. I ministeri coinvolti sono 3 e sono guidati tutti da esponenti di Fratelli d’Italia (rispettivamente Adolfo UrsoDaniela Santanché e Francesco Lollobrigida), così come il presidente della commissione (Luca De Carlo).

Parallelismo a favore di Fdi anche per quanto riguarda la commissione per le politiche dell’Unione europea il cui presidente è Giulio Terzi di Sant’Agata e il ministro di riferimento è Raffaele Fitto.

Parallelismo presidente-ministro a favore della Lega invece all’interno della commissione finanze e tesoro. Qui infatti il presidente è Massimo Garavaglia e il ministro competente Giancarlo Giorgetti. In 2 casi infine Forza Italia esprime un presidente di commissione e uno dei 2 ministri di riferimento. Il presidente della commissione ambiente e lavori pubblici infatti è Claudio Fazzone mentre il ministro è Gilberto Pichetto Fratin (la parte relativa ai lavori pubblici può essere attribuita invece al ministero delle infrastrutture, guidato da Matteo Salvini).

Per quanto riguarda la commissione esteri e difesa la presidente è Stefania Craxi e il ministro azzurro è quello degli esteri, Antonio Tajani. Al dicastero della difesa invece troviamo Guido Crosetto (Fdi).

Alla camera invece solo in un caso il presidente della commissione e il ministro appartengono allo stesso partito, in questo caso Fratelli d’Italia. Si tratta della commissione giustizia dove il presidente è Ciro Maschio e il ministro di riferimento Carlo Nordio.

Foto: Comunicazione camera

 

L’Europa chiude i confini a sud-est Mranigti

L’Europa chiude i confini a sud-est Mranigti

L’Unione europea mette ingenti risorse a disposizione dei paesi balcanici, molti dei quali candidati per l’adesione, per difendere le proprie frontiere esterne sud-orientali. L’unica strategia implementata è la militarizzazione dei confini.

 

Complice la vicenda legata allo sbarco dei migranti a bordo della Ocean Viking, nelle ultime settimane è tornato alla ribalta il tema migratorio, sia in Italia che in Europa. Se ne è parlato il 25 novembre al consiglio dell’Unione e di nuovo l’8 dicembre. Particolare attenzione è stata rivolta alla cosiddetta rotta balcanica, caratterizzata da un marcato aumento dei tentativi di ingresso, per la quale l’Europa ha appena elaborato un nuovo piano d’azione.

I richiedenti asilo intrappolati ai confini dell’Europa

Si parla di aumento dei tentativi di ingresso, ma cosa significa esattamente? Non tanto che un maggior numero di persone percorrono questa rotta migratoria, che collega l’Asia centrale e meridionale con i confini sud-orientali dell’Europa, quanto più che si rilevano più tentativi di attraversamento dei confini. Tentativi che Frontex, l’agenzia europea di guardia di frontiera e costiera, reputa “illegali”, nonostante richiedere l’asilo sia un diritto fondamentale.

+159% i tentativi di ingresso in Ue tramite la rotta balcanica nell’ottobre 2022 rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, secondo Frontex.
 

A ottobre del 2022 sono stati più di 22mila i tentativi di attraversamento registrati da Frontex lungo la rotta balcanica. Il 172% in più rispetto al mediterraneo centrale, la seconda rotta per numero di rilevamenti, e una cifra superiore al totale di tutte le altre rotte, cumulativamente.

Anche nel bilancio annuale è lungo i Balcani che si registra il numero più elevato di tentativi di attraversamento: oltre 128mila.

Queste cifre non corrispondono però al numero di arrivi, in quanto una stessa persona può tentare più volte di attraversare un confine. Oppure un tentativo può non essere intercettato dalla guardia di frontiera. Si tratta piuttosto di respingimenti, ovvero casi di allontanamento spesso anche violento dei richiedenti asilo dal confine, per impedire loro di raggiungere l’Europa.

Push-backs are coercive practices implemented by public order authorities against foreigners who attempt to enter the territory of a State without having first obtained permission […].

Come abbiamo raccontato in un altro recente approfondimentotali respingimenti sono ampiamente considerati illegali. E sempre più frequenti, visto che l’intero confine dell’Europa orientale, da nord a sud, è ormai costituito da muri.

A oggi non esistono numeri precisi sugli arrivi via terra. Una mancanza di trasparenza colmata solo il parte dalle stime dell’alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), secondo il quale nel 2022 sarebbero transitate nei Balcani occidentali 26.532 persone. Di queste, pochissime sono effettivamente riuscite a presentare una domanda di asilo.

1.127 le richieste di asilo inoltrate nei paesi balcanici in tutto il 2022, secondo l’Unhcr.

Inoltre, una certa confusione rispetto alle reali cifre sugli attraversamenti della rotta emerge anche se si confrontano i su citati di Frontex con quelli forniti dalla polizia ungherese, di cui ci siamo occupati in uno speciale sul paese lo scorso settembre. Secondo le forze dell’ordine ungheresi, infatti, sarebbero stati oltre 132mila i respingimenti solo sulle proprie frontiere con la Croazia e con la Serbia, e solo tra gennaio e luglio di quest’anno. Si tratta di cifre di molto superiori a quelle fornite da Frontex, in relazione peraltro a tutti i Balcani occidentali.

 

Nel 2022 rispetto al 2021 il numero di richiedenti asilo presenti nei paesi dei Balcani occidentali è andato gradualmente diminuendo, per poi riprendere a crescere da aprile in poi. A settembre 2022, l’ultimo dato disponibile, erano 11.505 i migranti registrati, leggermente di più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (10.756). Di questi, la maggior parte si trovava in Serbia (il 62%) e in Bosnia Erzegovina (il 32%). Nel 38% dei casi si trattava di afghani, nel 17% di siriani. Quasi 400 erano minori non accompagnati.

Anche se questi dati sono considerabili alla stregua di “nuovi arrivi”, come indica la stessa Unhcrvanno considerati esclusivamente mese per mese, non a livello annuale, perché la stessa persona può essere registrata più volte, in più momenti diversi.

Le risorse europee per fermare i migranti nei Balcani

Lo scorso 25 ottobre la commissione europea ha redatto una raccomandazione sull’aumento delle risorse da destinare ai paesi dei Balcani occidentali per arginare i flussi migratori verso il continente. In tale contesto, ha adottato anche un nuovo pacchetto di assistenza di importo pari a 39,2 milioni di euro.

Ma dal 2021, nell’ambito dell’Ipa III (acronimo inglese di instrument of pre-accession assistance, ovvero lo strumento di assistenza preadesione per i paesi che vogliono entrare nell’Unione europea) le cifre sono molto più elevate.

€ 201,7 mln i contributi dell’Ue al controllo dei confini e gestione dei flussi migratori nei Balcani occidentali tra 2021 e il 25 novembre 2022.

L’obiettivo generale dell’Ipa è sostenere i paesi beneficiari nell’adozione e nell’attuazione delle riforme politiche, istituzionali, giuridiche, amministrative, sociali ed economiche necessarie affinché tali beneficiari rispettino i valori dell’Unione e si allineino progressivamente alle sue norme, standard, politiche e prassi, in vista dell’adesione futura.

The general objective of the IPA III instrument is to support the beneficiaries in adopting and implementing the political, institutional, legal, administrative, social and economic reforms required by those beneficiaries to comply with Union values and to progressively align to Union rules, standards, policies and practices with a view to Union membership, thereby contributing to their stability, security and prosperity.

Si tratta in poche parole di soldi che servirebbero ad allineare i paesi candidati con il resto dell’Ue, in vista della loro adesione.

Uno degli obiettivi specifici è sostenere la coesione territoriale e la cooperazione transfrontaliera attraverso le frontiere terrestri e marittime, compresa la cooperazione transnazionale e interregionale. Tra le priorità tematiche rientra anche “rafforzare le capacità di affrontare le sfide migratorie a livello regionale e internazionale”.

Le azioni di cooperazione territoriale e transfrontaliera ammontano nel complesso al 3,51% del budget totale. Ed è previsto un loro graduale aumento negli anni: dai 65 milioni del 2021 ai 73 del 2027. Per raggiungere un totale di 485 milioni nell’arco dei 7 anni.

Un modo insomma per subordinare l’adesione all’Unione all’impegno nel difendere un’Europa che è sempre più simile a una fortezza. Delegando il lavoro ad altri, come si fa già con la Libia nel caso della rotta del mediterraneo centrale e con la Turchia per quello orientale. Ma finanziando, dietro le quinte, una crescente militarizzazione delle frontiere.

Foto: un migrante a Bihać, confine bosniaco-croato (Mattia Fonzi)

 

Chi decide la politica di cooperazione allo sviluppo

Chi decide la politica di cooperazione allo sviluppo

La cooperazione allo sviluppo è parte integrante e qualificante della politica estera italiana. Per questo i ruoli chiave dei due ambiti combaciano, con l’eccezione di alcune figure con competenze specifiche in ambito di cooperazione.

 

Progetto


Nel 2014 il parlamento ha approvato una legge molto importante per il settore della cooperazione (legge 125/2014). Nello spirito di questo provvedimento la politica di cooperazione diventava una componente cruciale della più generale politica estera italiana.

La cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile […] è parte integrante e qualificante della politica estera dell’Italia.

Tra le molte novità, la norma modificava il nome del ministero (diventato ministero degli esteri e della cooperazione Internazionale – Maeci), istituiva l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo e stabiliva l’obbligo di nominare un vice ministro degli esteri con questa delega.

Un tassello importante che ha contribuito a definire l’intreccio d’istituzioni, funzionari, membri del governo e del parlamento che contribuiscono a formare la nostra politica di cooperazione allo sviluppo.

Il ministero e l’agenzia

Se si guarda all’esecutivo è importante considerare il peso che ha la presidenza del consiglio sulle scelte generali di politica estera, e dunque in questa fase la presidente Giorgia Meloni. Tuttavia, la responsabilità della politica estera italiana è del ministro degli esteri, ovvero del vicepresidente del consiglio e coordinatore di Forza Italia (FI) Antonio Tajani. Questi pur non avendo mai ricoperto incarichi in questo settore né presso il ministero né nel parlamento italiano, ha comunque un’ampia esperienza internazionale, avendo svolto sia il ruolo di commissario europeo all’industria, sia quello di presidente del parlamento di Strasburgo.

La responsabilità politica è del ministro che tuttavia è tenuto a conferire la delega in materia di cooperazione allo sviluppo a un viceministro. Vai a “Che cosa fanno i viceministri e i sottosegretari di stato”

Il ministro, come stabilito dalla legge, nomina un viceministro, attribuendogli la delega alla cooperazione allo sviluppo. In termini pratici quindi sarà Edmondo Cirielli di Fratelli d’Italia a seguire i vari dossier che riguardano la cooperazione. Alla sua prima esperienza di governo, Cirielli è stato a lungo parlamentare (dal 2001 con Alleanza nazionale) e nel suo percorso ha quasi sempre fatto parte o della commissione esteri o di quella difesa (che ha un chiaro risvolto estero viste ad esempio le missioni militari cui l’Italia partecipa).

Altri due sottosegretari chiudono il gruppo di esponenti politici posti al vertice della Farnesina. Ovvero Maria Tripodi, anche lei di Forza Italia, e Giorgio Silli di Noi Moderati, le cui deleghe al momento non sono state ufficializzate.

Ma anche i vertici amministrativi sono importanti. Tra tutti il segretario generale del ministero, l’ambasciatore Ettore Francesco Sequi, e il direttore dell’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo, Luca Maestripieri. Entrambi hanno ricevuto l’incarico dall’ex ministro degli esteri Luigi Di Maio, anche se Maestripieri era stato inizialmente nominato dal ministro Moavero Milanesi nel corso del primo governo Conte. Vedremo nei prossimi mesi se il governo manterrà questo assetto o deciderà per un cambiamento. Sicuramente prima o poi il ministro Tajani dovrà decidere come riempire una casella di grande rilevanza che attualmente è scoperta, ovvero quella di direttore della direzione generale cooperazione allo sviluppo del Maeci.

I compiti delle commissioni

Oltre ai ministeri però, un ruolo fondamentale è o dovrebbe essere svolto anche dal parlamento, e in particolare dalle commissioni esteri di camera e senato.

Le commissioni esteri di camera e senato sono competenti in tutte le materie che riguardano la politica estera, inclusa la cooperazione allo sviluppo. Vai a “Cosa sono le commissioni parlamentari e perché sono importanti”

I loro poteri dunque sono molto ampi riguardando innanzitutto l’esame di qualsiasi proposta di legge rientri in questi ambiti (art. 72 della costituzione), come ad esempio la legge di bilancio e quindi la quantità di risorse da destinare al settore della cooperazione, ma anche l’esame delle delibere del governo sulle missioni internazionali.

Tra le prerogative delle commissioni poi rientrano anche alcuni poteri d’indirizzo, come le risoluzioni o gli ordini del giorno. Attraverso atti di questo tipo, l’aula o le commissioni possono ad esempio impegnare il governo a perseguire impegni internazionali su temi quali la coerenza delle politiche o l’efficacia dell’aiuto.

In alcune occasioni inoltre, il parere delle commissioni è espressamente previsto dalla legge. Come nel caso del documento triennale di programmazione e indirizzo della politica di cooperazione, per la cui approvazione è richiesto il parere, non vincolante, delle commissioni parlamentari. Nonostante le previsioni di legge nel corso degli anni la presentazione del documento ha subito forti ritardi e per questa ragione la norma è stata recentemente modificata in modo da rendere più efficace questo passaggio (L. 234/2021 art. 1 comma 807).

Proprio per assolvere questi compiti disponendo di tutte le informazioni necessarie le commissioni possono inoltre organizzare delle audizioni conoscitive. In queste occasioni vengono invitate figure istituzionali o della società civile che possono essere parte o meno di organi previsti dalla legge, come il consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo.

Purtroppo almeno nell’ultima legislatura il ruolo delle commissioni non ha inciso particolarmente sulla politica di cooperazione, limitandosi a poco più che la presentazione e in alcuni casi l’approvazione di qualche emendamento alla legge di bilancio. Peraltro in anni recenti la discussione sulla legge di bilancio è sempre avvenuta in un unico ramo del parlamento, mentre l’altra aula, per mancanza di tempo, si è limitata a ratificare decisioni già prese.

I ruoli chiave

Nonostante questo, il potere formale delle commissioni resta intatto e dunque, per completare l’elenco degli incarichi più importanti nel settore della cooperazione vanno considerati quantomeno i presidenti delle commissioni esteri dei due rami del parlamento.

Alla camera si tratta di Giulio Tremonti. Eletto in questa legislatura con Fratelli d’Italia Tremonti è stato parlamentare dal 1994 al 2018 quasi sempre nelle fila di Forza Italia o del Popolo delle libertà (Pdl) a eccezione del suo il primo mandato. Ministro delle finanze in tutti i governi Berlusconi nella sua lunga carriera parlamentare ha comunque avuto occasione di far parte sia della commissione esteri che di quella sulle politiche dell’Unione europea.

A palazzo Madama invece è la senatrice Stefania Craxi (FI) a ricoprire il ruolo di presidente della commissione esteri e difesa. Deputata di Forza Italia e del Pdl dal 2006 al 2013, durante il quarto governo Berlusconi è stata sottosegretaria agli esteri. Rieletta in parlamento nel 2018, nella scorsa legislatura è stata vice presidente della commissione esteri del senato.

3 su 5 i ruoli chiave ricoperti da esponenti di Fratelli d’Italia in materia di politica estera e di cooperazione.

Dei 5 incarichi politici più importanti dunque, 2 sono attribuiti a esponenti di Forza Italia (il ministro degli esteri e la presidenza della commissione esteri del senato) e 3 a esponenti di Fratelli d’Italia (la presidenza del consiglio, il viceministro e il presidente della commissione esteri della camera). Del tutto escluso, o quasi, appare dunque l’altro partito cardine della maggioranza, ovvero la Lega.

Gli equilibri politici nelle commissioni parlamentari

Guardando però più approfonditamente alla composizione delle commissioni parlamentari la Lega risulta avere in entrambi i casi più esponenti di Forza Italia. Ma questa è la naturale conseguenza di una più ampia rappresentanza parlamentare ottenuta in seguito alle recenti elezioni. Inoltre a un esponente della Lega è stata attribuita la vicepresidenza di commissione alla camera. Si tratta di Paolo Formentini, deputato alla seconda esperienza parlamentare, che già aveva ricoperto questo ruolo durante la precedente legislatura.

L’altra vicepresidente è l’esponente del Partito democratico (Pd) Lia Quartapelle. Deputata alla terza legislatura ha sempre ricoperto incarichi in commissione esteri, prima come segretaria, poi come capogruppo e ora come vicepresidente. Nel corso della diciassettesima legislatura peraltro è stata relatrice della legge che ha definito la disciplina generale della cooperazione allo sviluppo (l. 125/2014).

Da segnalare infine che della commissione fanno parte anche alcune figure politiche di primo piano. Come ad esempio il leader del Movimento 5 stelle ed ex presidente del consiglio Giuseppe Conte, il segretario di +Europa ed ex sottosegretario agli esteri Benedetto della Vedova e il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni. Ma anche l’ex ministro alle infrastrutture Graziano Delrio, l’ex ministro della difesa Lorenzo Guerini e l’ex ministro per gli affari europei Vincenzo Amendola, tutti deputati del Partito democratico.

Quanto alla commissione del senato, presieduta dal Stefania Craxi (FI), le vicepresidenze sono invece state attribuite a un esponente di Fratelli d’Italia, Roberto Menia, e a uno del Movimento 5 stelle, Ettore Licheri.

Il primo è stato deputato dal 1994 al 2013, eletto prima con Alleanza nazionale e poi con il Popolo delle libertà. Nel quarto governo Berlusconi ha svolto anche il ruolo di sottosegretario presso il ministero dell’ambiente. Nel corso della sua lunga esperienza parlamentare comunque ha fatto parte in più occasioni anche della commissione esteri.

Ettore Licheri invece è alla sua seconda esperienza parlamentare. Nella scorsa legislatura è stato presidente della commissione politiche dell’Unione europea del senato per i primi due anni. Successivamente ha proseguito il suo lavoro in quella stessa commissione come componente semplice, fino a maggio 2022, quando è entrato a far parte della commissione esteri.

Per concludere in commissione esteri del senato si trovano anche due ex presidenti del consiglio, Mario Monti (senatore a vita iscritto al gruppo misto) e Matteo Renzi (Azione-Italia viva), oltre che l’ex sottosegretaria al ministero della difesa Stefania Pucciarelli (Lega).

L’articolo è stato redatto grazie al progetto “Cooperazione: mettiamola in Agenda”, finanziato dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Le opinioni espresse non sono di responsabilità dell’Agenzia.

Foto: Governo.it