Archivi giornalieri: 9 novembre 2022

4. Presenze e cambi di gruppo dei parlamentari “rieletti”

4. Presenze e cambi di gruppo dei parlamentari “rieletti”

Come abbiamo già raccontato nella nostra guida alle elezioni, la gran parte dei parlamentari uscenti è stata ricandidata dalle varie forze politiche. Di questi 619 deputati e senatori, circa la metà è stata confermata e contribuirà a comporre le camere della XIX legislatura.

302 i parlamentari della XVIII legislatura che sono stati rieletti.

In questo quarto capitolo ripercorreremo l’attività degli esponenti “confermati” attraverso due indicatori: il tasso di partecipazione ai lavori delle camere e gli eventuali cambi di gruppo. Si tratta di dati rilevanti, non solo perché godono sempre di grande attenzione presso media e opinione pubblica, ma anche perché possono fornirci qualche indicazione utile sul possibile andamento della legislatura appena iniziata.

Come noto infatti l’attuale parlamento è composto da un numero ridotto di rappresentanti. Di conseguenza un’alta partecipazione ai lavori delle camere sarà fondamentale per assicurare la piena funzionalità di tutti gli organismi che le compongono.

Per quanto riguarda i cambi di gruppo invece, possiamo osservare che molti tra i parlamentari uscenti e ricandidati si erano riposizionati nella scorsa legislatura. Pochi tra questi però hanno effettivamente ottenuto un seggio. In un parlamento dove molti gruppi hanno numeri ridotti, valutare il rischio di possibili abbandoni è un elemento molto importante per le stesse forze politiche.

I dati sulle presenze nella XVIII legislatura dei parlamentari rieletti

Per valutare l’effettiva presenza in aula di deputati e senatori è possibile conteggiare la partecipazione ad ogni singola sessione di voto (purché avvenga in modalità elettronica). Ciò perché all’interno di una seduta si possono svolgere anche più votazioni e non è detto che un parlamentare partecipi dall’inizio alla fine.

Per analizzare compiutamente questi dati tuttavia è importante tenere presente due elementi. Il primo riguarda il fatto che i regolamenti di camera e senato non prevedono la registrazione del motivo di un’assenza al voto. Non è quindi possibile distinguere l’assenza ingiustificata da quella, ad esempio, per ragioni di salute. Inoltre è importante fare una distinzione tra assenze tout court e missioni. Rientrano in questa seconda tipologia tutte le mancate partecipazioni attribuibili ad impegni istituzionali (come ad esempio le assenze dovute a incarichi di governo). Per questi motivi ci concentreremo sulla percentuale di presenze piuttosto che su assenze e missioni. Pur con i limiti che questo indicatore comporta.

Tra i 302 parlamentari “rieletti” il livello di partecipazione alle sedute delle camere è molto eterogeneo. Si passa infatti da esponenti con un’altissima percentuale di presenze a chi invece in parlamento non c’è quasi mai andato. Considerando complessivamente entrambe le camere, possiamo osservare che la maggior parte degli esponenti confermati (162) ha una percentuale di presenze in aula compresa tra il 75,1% e il 100%. C’è una quota consistente di rieletti però che nella legislatura precedente ha fatto registrare una quota di partecipazione inferiore al 50%.

61 su 302 i parlamentari rieletti con una percentuale di presenze inferiore al 50% nella XVIII legislatura. 

Tra questi, 15 hanno una percentuale di presenze inferiore al 25%. La Lega è la forza politica che ha rieletto il maggior numero di parlamentari (9) con un tasso di partecipazione compreso tra lo 0% e il 25% durante la scorsa legislatura. Il Carroccio d’altra parte ha anche rieletto il maggior numero di parlamentari che rientrano nella più alta fascia di partecipazione (38). Valori simili però anche per Fratelli d’Italia (36) e Movimento 5 stelle (34). Il Partito democratico è invece quello che ne ha eletti di più (13) nella fascia 25,1%-50%.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati relativi alle presenze possono essere ricavati dalla partecipazione alle votazioni elettroniche. I parlamentari possono infatti risultare, per ogni singola votazione: presenti, assenti o in missione (quando non partecipano al voto perché occupati in compiti istituzionali). Non sono presenti i dati sul gruppo misto del senato perché nessuno dei suoi componenti (fatta eccezione per tre senatori a vita) faceva già parte di palazzo Madama nella XVIII legislatura. Rispetto ai primi capitoli di questo esercizio sono variati i numeri del gruppo misto alla camera e sono nati due nuovi gruppi “Alleanza Verdi-Sinistra” e “Noi moderati”.

FONTE:  dati ed elaborazione openpolis
(ultimo aggiornamento: martedì 6 Settembre 2022)

 

Nell’analizzare questi dati è sempre importante tenere presente che molti tra i parlamentari con un basso livello di partecipazione ai lavori delle camere hanno avuto un ruolo in uno dei tre governi che si sono succeduti nell’ambito della XVIII legislatura. Altri invece, pur non facendo parte dell’esecutivo ricoprivano incarichi di vertice all’interno del loro partito.

In questi casi è difficile, se non scorretto, parlare di assenteismo. Tuttavia, con i parlamentari ridotti a 600 la mancata partecipazione ai lavori, giustificabile o meno che sia, può presentare aspetti problematici per il funzionamento delle camere. Valutare come si sono comportati i parlamentari uscenti può fornire indicazioni utili in questo senso.

I parlamentari meno presenti nel dettaglio

Analizzando i dati relativi ai 15 deputati e ai 15 senatori confermati con la più bassa percentuale di partecipazione, troviamo molti nomi noti anche al grande pubblico. Alla camera il dato più basso in assoluto è quello di Michela Vittoria Brambilla (0,81%) storica esponente di Forza Italia ma attualmente appartenente al gruppo misto. Seguono Antonio Angelucci (attualmente in forza alla Lega, 3,23%) e Lorenzo Guerini (Pd, 10,26%).

Chi ha incarichi di governo partecipa poco ai lavori delle camere.

Oltre all’ex ministro della difesa, tra i deputati con una bassa percentuale di partecipazione ai lavori della camera, troviamo molti esponenti che hanno ricoperto incarichi di governo nel corso della XVIII legislatura. Tra questi Mara Carfagna (Azione-Iv – 18,62%), Giancarlo Giorgetti (Lega – 20,21%), Roberto Speranza (Pd – 25,06%) e Paola De Micheli (Pd – 28,25%). 

Tra i nomi noti con un basso tasso di partecipazione e che non avevano impegni di governo troviamo invece, Marta Fascina (Fi – 24,14%), Maria Elena Boschi (Azione-Iv – 27,48%) ed Enrico Letta (Pd – 28,83%).

Pur non rientrando in questa graduatoria è interessante rilevare che anche la presidente del consiglio Giorgia Meloni nel corso della XVIII legislatura, pur essendo sempre stata all’opposizione, ha fatto registrare un livello di partecipazione modesto.

35,1% il tasso di partecipazione ai lavori della camera di Giorgia Meloni durante la XVIII legislatura.

Il senatore “rieletto” con il livello di partecipazione più basso tra il 2018 e il 2022 è invece Alessandro Morelli (12,19%). Seguono Gian Marco Centinaio (17,2%) e Massimo Garavaglia (20,4%). In questo caso è interessante notare che i primi 6 senatori confermati con il più basso livello di partecipazione durante la XVIII legislatura appartengono tutti alla Lega. Dopo quelli già citati troviamo infatti Giulia Bongiorno (20,6%), Umberto Bossi (21,2%) e il segretario Matteo Salvini (23,3%).

Considerando anche la camera, gli esponenti della Lega in questa categoria sono ben 15. La seconda forza politica che ne conta di più è il Partito democratico con 6.

I parlamentari che hanno cambiato gruppo nella XVIII legislatura

Per quanto riguarda i cambi di gruppo invece, possiamo osservare che molti dei parlamentari che si erano riposizionati nella scorsa legislatura sono stati candidati nuovamente ma non sono moltissimi quelli effettivamente eletti. Parliamo di 42 esponenti su 170 (il 25% circa).

Si tratta di un elemento molto interessante. Senza dubbio la pratica del cambio di casacca, per quanto del tutto legittima, non è ben vista dall’opinione pubblica. Ma nemmeno dagli stessi partiti. Infatti, alcuni parlamentari probabilmente hanno cambiato appartenenza per assicurarsi maggiori probabilità di una ricandidatura. D’altra parte, per i gruppi è importante incrementare il loro numero per poter pesare di più nelle dinamiche d’aula.

Ogni parlamentare deve aderire ad un gruppo. Ma può cambiare liberamente nel corso della legislatura assumendosene la responsabilità politica di fronte agli elettori. Vai a “Che cosa sono i gruppi parlamentari”

Tuttavia è possibile che le segreterie di partito puntino a una pattuglia parlamentare che sia il più possibile “affidabile”. Per questo motivo probabilmente chi ha cambiato gruppo in molti casi è stato candidato in una posizione di lista o in collegi che rendevano difficile la rielezione.

Detto questo, considerando le due camere complessivamente, il gruppo che ospita il maggior numero di parlamentari che hanno cambiato appartenenza nella scorsa legislatura è Azione-Italia viva (19). Un dato evidentemente influenzato dalla scissione dal Pd operata da Matteo Renzi e dai parlamentari a lui vicini.

Lega e Partito democratico ne schierano invece 6 ciascuno, mentre Fratelli d’Italia 5.

GRAFICO
DA SAPERE

Il grafico mostra quanti deputati e senatori per ogni gruppo parlamentare formatosi nella XIX legislatura abbiamo cambiato appartenenza almeno una volta durante la legislatura precedente. Non sono presenti i dati sul gruppo misto del senato perché nessuno dei suoi componenti (fatta eccezione per tre senatori a vita) faceva già parte di palazzo Madama nella XVIII legislatura. Rispetto ai primi capitoli di questo esercizio sono variati i numeri del gruppo misto alla camera e sono nati due nuovi gruppi “Alleanza Verdi-Sinistra” e “Noi moderati”.

FONTE: dati ed elaborazione openpolis
(ultimo aggiornamento: lunedì 31 Ottobre 2022)

 

Tra i confermati, solamente Daniela Ruffino (che attualmente fa parte del gruppo di Azione-Iv alla camera) ha cambiato gruppo 3 volte. Ha infatti iniziato la XVIII legislatura in Forza Italia, ha aderito poi al gruppo misto e successivamente a Coraggio Italia. Quando il gruppo espressione di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro si è sciolto per la venuta meno del numero minimo di aderenti richiesto dal regolamento, Ruffino è dovuta tornare nel gruppo misto.

Ci sono poi altri 11 esponenti che hanno cambiato gruppo due volte. Particolarmente interessante il caso della deputata Valeria Sudano che nel 2018 aveva aderito al Pd per poi passare a Italia viva e successivamente alla Lega. Formazione con cui è stata rieletta alla camera.

Un altro caso particolare è quello di Tatiana Rojc. Nel 2021, la senatrice friulana aveva accettato la richiesta del Pd di confluire nel costituendo gruppo degli Europeisti che avrebbe dovuto fungere da stampella al secondo esecutivo Conte. Un modo per rimpiazzare i voti di Italia viva venuti a mancare. Fallito questo tentativo Rojc è tornata nel proprio gruppo di appartenenza.

12 i parlamentari rieletti che hanno cambiato gruppo più di una volta nella XVIII legislatura.

I casi passati in rassegna evidenziano come non tutti i cambi di gruppo abbiano le stesse motivazioni. In alcuni casi possono essere dovuti a esigenze tecniche. Ad esempio, come abbiamo raccontato in questo articolo, il regolamento della camera non è ancora stato riformato per adattarlo ai nuovi numeri ridotti. Perciò molti esponenti di forze politiche minori attualmente presenti a Montecitorio si sono visti costretti ad aderire momentaneamente al gruppo misto. È il caso, ad esempio, degli appartenenti a Noi moderati e all’Alleanza Verdi-Sinistra.

Ciò perché la propria formazione non avrebbe superato la soglia minima dei 20 aderenti richiesta dalle norme vigenti per costituirsi in forma autonoma. La formazione di questi due gruppi è stata autorizzata successivamente in deroga al regolamento. Da ricordare che il bilancio del parlamento prevede l’assegnazione di specifiche risorse a ogni gruppo per assicurarne il funzionamento.

Alla luce di quanto detto diventa molto importante analizzare ogni cambio di gruppo singolarmente per poter distinguere le esigenze tecniche dal mero opportunismo

Foto: Facebook – Azione

 

La riforma delle pensioni con le nuove Quota 100 o Quota 102 lasciano incredibili opzioni di uscita

La riforma delle pensioni con le nuove Quota 100 o Quota 102 lasciano incredibili opzioni di uscita

pensioni

Spiragli di una riforma delle pensioni nel vero senso della parola sono sempre più visibili. Infatti ogni giorno che passa ed ogni nuova dichiarazione da chi è vicino al dossier pensioni della Legge di Bilancio, la speranza aumenta. Le ipotesi di prorogare semplicemente l’APE sociale, l’opzione donna e la Quota 102, cioè le tre misure in scadenza a dicembre prossimo, stanno lasciando il campo ad un profonda revisione del sistema. Che potrebbe venire dotato di nuove misure che sarebbero una specie di toccasana per il sistema e per i lavoratori. E il paragone con le vecchie misure non regge ed è a completo vantaggio di quelle che il governo potrebbe varare.

La riforma delle pensioni con le nuove misure e perché migliorerebbe la situazione per tutti

Uscire a 63 anni con 36 anni di contributi ma solo se alle prese con mansioni gravose è ciò che oggi consente l’APE sociale. Una misura che non riguarda tutti i lavoratori e che non è propriamente una misura pensionistica. Infatti è temporanea (fino ai 67 anni), non è reversibile, non prevede nell’ordine, maggiorazioni sociali, assegni familiari e tredicesima. A questo bisogna aggiungere che non ha un importo libero ma ha la soglia massima fissata a 1.500 euro.

Con le nuove pensioni flessibili, a 63 anni con quota 100 rivisitata, potrebbero andare in pensione quanti hanno 37 anni di contributi versati. E prenderebbero una pensione classica, calcolata con il sistema misto e quindi senza la penalizzazione che subiscono le lavoratrici con opzione donna. Naturalmente quest’ultima conviene come età di uscita, partendo dai 58 anni, ma statisticamente è una opzione sfruttata in media a 61/62 anni.

La nuova Quota 102 rispetto alla vecchia

Con la Quota 102 che sta per scadere, in pensione ci vanno quanti hanno maturato 64 anni di età e 38 anni di contributi versati. Se al posto di Quota 100 venisse varata una nuova Quota 102 flessibile, la platea dei beneficiari si allargherebbe esponenzialmente. Oggi infatti i limiti sono fissi e cioè 64 anni di età e 38 di contributi. Con la novità diventerebbero limiti variabili.

Lascerebbero il lavoro anche i soggetti che hanno 61 anni di età, anche se serviranno 41 anni di contributi versati. E poi anche a 62 e 63 anni rispettivamente con 40 e 39 anni di contributi. Ma l’opportunità sarebbe valida anche a 66 anni con 36 anni di contributi e a 65 anni con 37 anni di versamenti. Evidente l’estensione di platea che aumenterebbe ancora di più con la Quota 100 che per esempio consente il pensionamento già con 35 anni di contributi a chi ne ha 65 di età. Uscire prima dal lavoro in maniera più facile quindi, questo ciò che potrebbe accadere nel 2023.

Si invita a leggere attentamente le Avvertenze riguardo al presente articolo e alle responsabilità dell’autore, consultabili QUI»
 

Invalidità civile: gestione dell’assenza alla visita medico-legale

Invalidità civile: gestione dell’assenza alla visita medico-legale

Nella procedura “Accertamenti Ispettorato Tecnico Medico Legale” è stata rilasciata una nuova funzionalità per la gestione automatizzata dei soggetti convocati a visita che risultino assenti. L’INPS lo comunica con il messaggio 8 novembre 2022, n. 4029.

La registrazione dell’assenza a visita in procedura determina l’immediata e automatica sospensione temporanea della prestazione sul “Data Base Pensioni”.

L’interessato riceverà una comunicazione, con l’avviso dell’avvenuta sospensione e con l’invito a presentare, entro 90 giorni, idonea giustificazione dell’assenza.

Nel caso in cui non venga prodotta alcuna giustificazione o la stessa non sia valutata idonea, allo scadere dei termini previsti si provvederà alla revoca definitiva del beneficio economico dalla data di sospensione, formalizzandola con una seconda comunicazione al cittadino.

Congedo parentale: aggiornate le procedure per la domanda online

Congedo parentale: aggiornate le procedure per la domanda online

L’Istituto, con il messaggio 4 agosto 2022, n. 3066 e con la circolare INPS 27 ottobre 2022, n. 122, ha illustrato le novità introdotte dal decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105 in materia di maternitàpaternità e congedo parentale e ha fornito le indicazioni per il riconoscimento delle indennità.

Per quanto riguarda la presentazione delle domande online di congedo parentale delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti del settore privato e degli iscritti alla Gestione Separata, nonché delle domande di congedo facoltativo del padre, le procedure informatiche del portale sono state aggiornate (messaggio 8 novembre 2022, n. 4025).

Gli aggiornamenti delle procedure relative al congedo parentale dei lavoratori autonomi, all’indennità anticipata di maternità delle lavoratrici autonome e al congedo di paternità obbligatorio a pagamento diretto saranno comunicati con successivo messaggio. Fino ad allora i lavoratori potranno fruire delle relative tutele, regolarizzando la fruizione in seguito presentando domanda online all’INPS.

Lavoratori dipendenti: chiarimenti sull’esonero contributivo 2022

Lavoratori dipendenti: chiarimenti sull’esonero contributivo 2022

Il decreto Aiuti-bis (decreto-legge 9 agosto 2022, n. 115) ha previsto, per i periodi di paga dal 1° luglio al 31 dicembre 2022, l’incremento di 1,2 punti percentuali dell’esonero sulla quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore, introdotto dalla legge di bilancio 2022.

L’INPS, con il messaggio 7 novembre 2022, n. 4009, fornisce alcuni chiarimenti sull’applicazione dell’incremento dell’1,2 per cento e sulle istruzioni operative per la compilazione dei flussi UniEmens .

Giornata contro la violenza sulle donne: le iniziative dell’INPS

Giornata contro la violenza sulle donne: le iniziative dell’INPS

In occasione del 25 novembreGiornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’Istituto, su proposta del Comitato Unico di Garanzia, promuove diversi eventi dedicati al contrasto alla violenza di genere.

Le iniziative dell’INPS contro la violenza sulle donne

Nelle giornate del 4, 11, 18 e 25 novembre, dalle 18 alle 19, si terrà un ciclo di quattro appuntamenti online promosso dal Museo del Risparmio di Torino, in collaborazione con gli Stati generali delle Donne e il CUG dell’INPS, intitolato “NON PIÙ VITTIME. Imparare a riconoscere le diverse forme di violenza di genere”.

All’incontro del 25 novembre interverrà la Vicepresidente dell’Istituto, Maria Luisa Gnecchi, sul tema “Educazione finanziaria e scelte previdenziali consapevoli”.

Il 16, 17 e 18 novembre, nell’ingresso della sede della Direzione Generale dell’INPS, sarà allestita una mostra fotografica di vari autori a cura dell’Associazione Ikonica, intitolata “SEI BELLA DA MORIRE – Foto e storie che raccontano la violenza sulle donne”. La raccolta fotografica itinerante nasce a sostegno dei centri antiviolenza.

All’inaugurazione della mostra, nella giornata del 16 novembre, alle 15.30, saranno presenti il Direttore Generale Vincenzo Caridi, il Presidente dell’Istituto Pasquale Tridico, la Vicepresidente Maria Luisa Gnecchi e il Presidente del CIV Robertino Ghiselli, insieme alla Presidente del CUG Maria Giovanna De Vivo. Interverrà Angelo Franceschi, promotore della raccolta fotografica e direttore artistico del progetto itinerante, socio fondatore dell’Associazione Ikonica Foto, fotoreporter da oltre 30 anni dei giornali “La Repubblica” e “Il Tempo”. Parteciperà anche una rappresentanza del CUG, dei dipendenti della Direzione Generale dell’Istituto e delle organizzazioni sindacali.

TFR/TFS dipendenti pubblici: esclusività del canale telematico

TFR/TFS dipendenti pubblici: esclusività del canale telematico

L’Istituto, nell’ambito della trasformazione digitale e tecnologica della Pubblica Amministrazione, ha attivato un importante percorso di potenziamento della digitalizzazione dei servizi e delle procedure amministrative.

In questo contesto si inserisce la scelta di affidare al solo canale telematico lo scambio di informazioni in merito al Trattamento di fine servizio ( TFS ) e al Trattamento di fine rapporto ( TFR ) peri dipendenti pubblici.

Dal 1° gennaio 2023, dunque, gli interessati dovranno utilizzare esclusivamente il canale telematico per lo scambio dei dati digitali necessari a definire il trattamento di fine servizio ( TFS ) e il trattamento di fine rapporto ( TFR ).

Rimane invariata la modalità di invio dei dati giuridico-economici necessari alla liquidazione del TFR per i rapporti di lavoro a tempo determinato del comparto scuola attraverso il flusso telematico MUR/MEF.

La circolare INPS 4 novembre 2022, n. 125 detta le istruzioni operative per l’utilizzo del canale telematico TFS e fornisce precisazioni sull’avvio in modalità esclusiva del canale telematico TFS – TFR .

4. Presenze e cambi di gruppo dei parlamentari “rieletti”

4. Presenze e cambi di gruppo dei parlamentari “rieletti”

Come abbiamo già raccontato nella nostra guida alle elezioni, la gran parte dei parlamentari uscenti è stata ricandidata dalle varie forze politiche. Di questi 619 deputati e senatori, circa la metà è stata confermata e contribuirà a comporre le camere della XIX legislatura.

302 i parlamentari della XVIII legislatura che sono stati rieletti.

In questo quarto capitolo ripercorreremo l’attività degli esponenti “confermati” attraverso due indicatori: il tasso di partecipazione ai lavori delle camere e gli eventuali cambi di gruppo. Si tratta di dati rilevanti, non solo perché godono sempre di grande attenzione presso media e opinione pubblica, ma anche perché possono fornirci qualche indicazione utile sul possibile andamento della legislatura appena iniziata.

Come noto infatti l’attuale parlamento è composto da un numero ridotto di rappresentanti. Di conseguenza un’alta partecipazione ai lavori delle camere sarà fondamentale per assicurare la piena funzionalità di tutti gli organismi che le compongono.

Per quanto riguarda i cambi di gruppo invece, possiamo osservare che molti tra i parlamentari uscenti e ricandidati si erano riposizionati nella scorsa legislatura. Pochi tra questi però hanno effettivamente ottenuto un seggio. In un parlamento dove molti gruppi hanno numeri ridotti, valutare il rischio di possibili abbandoni è un elemento molto importante per le stesse forze politiche.

I dati sulle presenze nella XVIII legislatura dei parlamentari rieletti

Per valutare l’effettiva presenza in aula di deputati e senatori è possibile conteggiare la partecipazione ad ogni singola sessione di voto (purché avvenga in modalità elettronica). Ciò perché all’interno di una seduta si possono svolgere anche più votazioni e non è detto che un parlamentare partecipi dall’inizio alla fine.

Per analizzare compiutamente questi dati tuttavia è importante tenere presente due elementi. Il primo riguarda il fatto che i regolamenti di camera e senato non prevedono la registrazione del motivo di un’assenza al voto. Non è quindi possibile distinguere l’assenza ingiustificata da quella, ad esempio, per ragioni di salute. Inoltre è importante fare una distinzione tra assenze tout court e missioni. Rientrano in questa seconda tipologia tutte le mancate partecipazioni attribuibili ad impegni istituzionali (come ad esempio le assenze dovute a incarichi di governo). Per questi motivi ci concentreremo sulla percentuale di presenze piuttosto che su assenze e missioni. Pur con i limiti che questo indicatore comporta.

Tra i 302 parlamentari “rieletti” il livello di partecipazione alle sedute delle camere è molto eterogeneo. Si passa infatti da esponenti con un’altissima percentuale di presenze a chi invece in parlamento non c’è quasi mai andato. Considerando complessivamente entrambe le camere, possiamo osservare che la maggior parte degli esponenti confermati (162) ha una percentuale di presenze in aula compresa tra il 75,1% e il 100%. C’è una quota consistente di rieletti però che nella legislatura precedente ha fatto registrare una quota di partecipazione inferiore al 50%.

61 su 302 i parlamentari rieletti con una percentuale di presenze inferiore al 50% nella XVIII legislatura. 

Tra questi, 15 hanno una percentuale di presenze inferiore al 25%. La Lega è la forza politica che ha rieletto il maggior numero di parlamentari (9) con un tasso di partecipazione compreso tra lo 0% e il 25% durante la scorsa legislatura. Il Carroccio d’altra parte ha anche rieletto il maggior numero di parlamentari che rientrano nella più alta fascia di partecipazione (38). Valori simili però anche per Fratelli d’Italia (36) e Movimento 5 stelle (34). Il Partito democratico è invece quello che ne ha eletti di più (13) nella fascia 25,1%-50%.

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DA SAPERE

I dati relativi alle presenze possono essere ricavati dalla partecipazione alle votazioni elettroniche. I parlamentari possono infatti risultare, per ogni singola votazione: presenti, assenti o in missione (quando non partecipano al voto perché occupati in compiti istituzionali). Non sono presenti i dati sul gruppo misto del senato perché nessuno dei suoi componenti (fatta eccezione per tre senatori a vita) faceva già parte di palazzo Madama nella XVIII legislatura. Rispetto ai primi capitoli di questo esercizio sono variati i numeri del gruppo misto alla camera e sono nati due nuovi gruppi “Alleanza Verdi-Sinistra” e “Noi moderati”.

FONTE:  dati ed elaborazione openpolis
(ultimo aggiornamento: martedì 6 Settembre 2022)

 

Nell’analizzare questi dati è sempre importante tenere presente che molti tra i parlamentari con un basso livello di partecipazione ai lavori delle camere hanno avuto un ruolo in uno dei tre governi che si sono succeduti nell’ambito della XVIII legislatura. Altri invece, pur non facendo parte dell’esecutivo ricoprivano incarichi di vertice all’interno del loro partito.

In questi casi è difficile, se non scorretto, parlare di assenteismo. Tuttavia, con i parlamentari ridotti a 600 la mancata partecipazione ai lavori, giustificabile o meno che sia, può presentare aspetti problematici per il funzionamento delle camere. Valutare come si sono comportati i parlamentari uscenti può fornire indicazioni utili in questo senso.

I parlamentari meno presenti nel dettaglio

Analizzando i dati relativi ai 15 deputati e ai 15 senatori confermati con la più bassa percentuale di partecipazione, troviamo molti nomi noti anche al grande pubblico. Alla camera il dato più basso in assoluto è quello di Michela Vittoria Brambilla (0,81%) storica esponente di Forza Italia ma attualmente appartenente al gruppo misto. Seguono Antonio Angelucci (attualmente in forza alla Lega, 3,23%) e Lorenzo Guerini (Pd, 10,26%).

Chi ha incarichi di governo partecipa poco ai lavori delle camere.

Oltre all’ex ministro della difesa, tra i deputati con una bassa percentuale di partecipazione ai lavori della camera, troviamo molti esponenti che hanno ricoperto incarichi di governo nel corso della XVIII legislatura. Tra questi Mara Carfagna (Azione-Iv – 18,62%), Giancarlo Giorgetti (Lega – 20,21%), Roberto Speranza (Pd – 25,06%) e Paola De Micheli (Pd – 28,25%). 

Tra i nomi noti con un basso tasso di partecipazione e che non avevano impegni di governo troviamo invece, Marta Fascina (Fi – 24,14%), Maria Elena Boschi (Azione-Iv – 27,48%) ed Enrico Letta (Pd – 28,83%).

Pur non rientrando in questa graduatoria è interessante rilevare che anche la presidente del consiglio Giorgia Meloni nel corso della XVIII legislatura, pur essendo sempre stata all’opposizione, ha fatto registrare un livello di partecipazione modesto.

35,1% il tasso di partecipazione ai lavori della camera di Giorgia Meloni durante la XVIII legislatura.

Il senatore “rieletto” con il livello di partecipazione più basso tra il 2018 e il 2022 è invece Alessandro Morelli (12,19%). Seguono Gian Marco Centinaio (17,2%) e Massimo Garavaglia (20,4%). In questo caso è interessante notare che i primi 6 senatori confermati con il più basso livello di partecipazione durante la XVIII legislatura appartengono tutti alla Lega. Dopo quelli già citati troviamo infatti Giulia Bongiorno (20,6%), Umberto Bossi (21,2%) e il segretario Matteo Salvini (23,3%).

Considerando anche la camera, gli esponenti della Lega in questa categoria sono ben 15. La seconda forza politica che ne conta di più è il Partito democratico con 6.

I parlamentari che hanno cambiato gruppo nella XVIII legislatura

Per quanto riguarda i cambi di gruppo invece, possiamo osservare che molti dei parlamentari che si erano riposizionati nella scorsa legislatura sono stati candidati nuovamente ma non sono moltissimi quelli effettivamente eletti. Parliamo di 42 esponenti su 170 (il 25% circa).

Si tratta di un elemento molto interessante. Senza dubbio la pratica del cambio di casacca, per quanto del tutto legittima, non è ben vista dall’opinione pubblica. Ma nemmeno dagli stessi partiti. Infatti, alcuni parlamentari probabilmente hanno cambiato appartenenza per assicurarsi maggiori probabilità di una ricandidatura. D’altra parte, per i gruppi è importante incrementare il loro numero per poter pesare di più nelle dinamiche d’aula.

Ogni parlamentare deve aderire ad un gruppo. Ma può cambiare liberamente nel corso della legislatura assumendosene la responsabilità politica di fronte agli elettori. Vai a “Che cosa sono i gruppi parlamentari”

Tuttavia è possibile che le segreterie di partito puntino a una pattuglia parlamentare che sia il più possibile “affidabile”. Per questo motivo probabilmente chi ha cambiato gruppo in molti casi è stato candidato in una posizione di lista o in collegi che rendevano difficile la rielezione.

Detto questo, considerando le due camere complessivamente, il gruppo che ospita il maggior numero di parlamentari che hanno cambiato appartenenza nella scorsa legislatura è Azione-Italia viva (19). Un dato evidentemente influenzato dalla scissione dal Pd operata da Matteo Renzi e dai parlamentari a lui vicini.

Lega e Partito democratico ne schierano invece 6 ciascuno, mentre Fratelli d’Italia 5.

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DA SAPERE

Il grafico mostra quanti deputati e senatori per ogni gruppo parlamentare formatosi nella XIX legislatura abbiamo cambiato appartenenza almeno una volta durante la legislatura precedente. Non sono presenti i dati sul gruppo misto del senato perché nessuno dei suoi componenti (fatta eccezione per tre senatori a vita) faceva già parte di palazzo Madama nella XVIII legislatura. Rispetto ai primi capitoli di questo esercizio sono variati i numeri del gruppo 

Il tetto al contante nell’Unione europea Europa

Il tetto al contante nell’Unione europea Europa

Il contante è il metodo più utilizzato nelle transazioni quotidiane dei cittadini europei. Tuttavia presenta degli svantaggi e l’Unione europea intende limitarne l’uso.

 

Ha fatto discutere una recente proposta di legge, depositata da alcuni esponenti del centrodestra, relativa al limite massimo dei pagamenti in contante. L’innalzamento del il tetto era già considerato all’interno dei programmi elettorali di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia tra le misure per favorire l’economia e le imprese.

All’interno dei confini dell’Unione sono considerati validi sia i pagamenti in denaro che numerose forme di transazione elettronica. Entrambi presentano vantaggi e svantaggi a seconda di chi effettua il pagamento e dell’importo. La frequenza del loro utilizzo è cambiata nel tempo.

I pagamenti nell’Unione europea

Le transazioni fatte con metodi diversi dal denaro sono in generale in crescita all’interno dell’area euro. Secondo la banca centrale europea (Bce), il numero di pagamenti nel 2021 è incrementato del 12,5% rispetto all’anno precedente. Una crescita in termini di valore delle transazioni pari al 18,6%. Il 49% di questi pagamenti è stato effettuato tramite le carte, il 22% da bonifici e il 20% da contrazione diretta di debito.

La pandemia ha inciso sulle abitudini di pagamento.

Un aumento che, sempre secondo la Bce, è stato in qualche modo causato anche dalle restrizioni dovute alla crisi pandemica, che hanno reso i metodi di pagamento virtuale più convenienti per i cittadini. Il contante ha però avuto un ruolo di riserva di valore più che di mezzo per effettuare dei pagamenti. Sono infatti diminuiti i pagamenti ma è aumentata la richiesta di banconote.

L’ultimo studio relativo alle attitudini dei cittadini ai pagamenti nell’area euro è stato condotto nel 2019 a cura della Bce. Prima dello scoppio della pandemia, il contante era il metodo più utilizzato per quel che riguarda i pagamenti di natura ordinaria, a cui seguiva la carta di credito.

73% il numero di pagamenti effettuati nel 2019 con il contante (Bce).

I trasferimenti in contante rappresentavano il 48% del valore totale dei pagamenti mentre quelli della carta componevano il 41%. Il restante era coperto da altri metodi.

Andando a considerare il dato a livello dei singoli stati nell’eurozona, il dato segna delle differenze importanti.

 

Tra gli stati dell’eurozona, quello in cui i consumatori effettuano più transazioni in contante è Malta (88%) a cui seguono Spagna (83%), Cipro (83%) e Italia (82%). In fondo alla classifica si trovano l’Estonia (48%), la Finlandia (35%) e i Paesi Bassi (34%).

Per quel che riguarda il valore complessivo di questi pagamenti, i paesi caratterizzati dai valori più alti sono Malta (73%), Cipro (73%), Spagna (66%) e Slovacchia (63%).

Il pagamento in contante è una parte importante dell’economia. È un metodo inclusivo che permette anche alle persone con meno possibilità di effettuare delle transazioni, motivo per cui la banca centrale europea ha messo in atto una strategia per tutelarne la disponibilità. Non è però un metodo privo di rischi. L’anonimato garantito dal contante può facilitare attività illegali come ad esempio il riciclaggio di denaro. In particolare per evitare i finanziamenti alle attività terroristiche l’Unione europea si è interrogata sulle limitazioni delle transazioni in contante.

La posizione europea sui tetti dei pagamenti in contante

Al momento, non c’è una legislazione condivisa a livello europeo sulle restrizioni dei pagamenti in contante. Ci sono però due strumenti giuridici che possono imporre dei limiti.

Il primo è un sistema di controllo che si applica alle persone che passano i confini dell’Unione con contanti o beni equivalenti superiori in valore ai 10.000 euro. È necessario in questo caso effettuare una dichiarazione sia per entrare che per uscire dallo spazio comunitario. Il secondo è contenuto nella direttiva 2015/849 e riguarda l’associazione tra pagamenti di importo elevato e pericolo di riciclaggio.

Al fine di aumentare la vigilanza e mitigare i rischi associati a tali pagamenti in contanti, è opportuno che i soggetti che commerciano beni rientrino nell’ambito di applicazione della presente direttiva quando effettuano o accettano pagamenti in contanti di importo pari o superiore a 10 000 EUR. Gli Stati membri dovrebbero poter adottare soglie più basse, limitazioni supplementari di ordine generale all’uso del contante e ulteriori disposizioni più rigorose.

Nonostante non esista quindi un quadro legislativo coeso, l’Unione europea prevede l’adozione di tetti all’utilizzo del contante per i singoli stati membri. Misure di questo tipo hanno visto una rapida crescita in anni recenti tra i paesi comunitari. La situazione che si presenta è piuttosto eterogenea sia per quel che riguarda i limiti in termini di valore che per le categorie a cui sono applicati.

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta la presenza o meno di un tetto alle transazioni monetarie in contante e l’eventuale soglia. Per gli stati che non hanno adottato l’euro è stata effettuata una conversione.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Ecc
(consultati: venerdì 4 Novembre 2022)

 

Sono 12 gli stati comunitari in cui c’è una soglia massima per commercianti e consumatori riguardo ai pagamenti in contante. In alcuni casi si tratta di un limite comune a consumatori e commercianti, in altri differenziato tra queste due categorie. Per 6 paesi esistono delle soglie solo in determinate situazioni. Nei restanti 9 non ci sono limiti alle transazioni in contanti.

Il limite più basso che si riscontra nell’Unione europea è quello imposto dalla Grecia, pari a 500 euro, applicato in qualsiasi circostanza. Quello più alto si trova in Ungheria e si tratta di un limite di 40.000 euro al mese applicato esclusivamente alle persone giuridiche.

In Italia il tetto del contante è regolato dal decreto legislativo 231/2007. Secondo l’ultima modifica contenente nella legge 15/2022, questo limite è fissato ai 2.000 euro fino al 31 dicembre 2022. Dal 1 gennaio 2023 la soglia dovrebbe ulteriormente abbassarsi fino ai 1.000 euro.

Foto: Towfiqu barbhuiya – licenza

 

Un QR-Code presenta ai giovani lavoratori dipendenti i servizi INPS

Un QR-Code presenta ai giovani lavoratori dipendenti i servizi INPS

L’Istituto ha avviato di recente una campagna rivolta a giovani lavoratrici e lavoratori tra i 18 e i 30 anni che risultano, a luglio 2022, neoiscritti al Fondo Lavoratori Dipendenti Privati, per illustrare le prestazioni di loro interesse e i servizi online per richiederle.

Lo ha fatto scegliendo di utilizzare il QR-Code in una lettera di benvenuto nel mondo dei servizi INPS.

Il QR-Code inquadrato con lo smartphone dai destinatari dà accesso a un breve video, pubblicato nel canale INPS YouTube, nel quale prende vita Cody, un QR-Code animato, che presenta i servizi INPS di potenziale interesse e, nel congedarsi, suggerisce di aprire il link alla guida interattiva con rimandi alle schede del portale istituzionale per approfondimenti sui diversi servizi INPS illustrati.

La guida è pubblicata nella sezione “Guide interattive” del portale INPS.

La campagna sperimentale è stata realizzata nell’ambito di uno dei progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) inclusi nella linea di innovazione “Comunicazione digitale”: il progetto PNRR – Sistema di comunicazione personalizzata approfondita con QR-Code.

Video: Cody presenta i servizi INPS per i giovani lavoratori dipendenti

Guida in 10 passi per giovani lavoratori dipendenti (pdf 173KB)

Messaggio 7 novembre 2022, n. 3993

Il tetto al contante nell’Unione europea Europa

Il tetto al contante nell’Unione europea Europa

Il contante è il metodo più utilizzato nelle transazioni quotidiane dei cittadini europei. Tuttavia presenta degli svantaggi e l’Unione europea intende limitarne l’uso.

 

Ha fatto discutere una recente proposta di legge, depositata da alcuni esponenti del centrodestra, relativa al limite massimo dei pagamenti in contante. L’innalzamento del il tetto era già considerato all’interno dei programmi elettorali di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia tra le misure per favorire l’economia e le imprese.

All’interno dei confini dell’Unione sono considerati validi sia i pagamenti in denaro che numerose forme di transazione elettronica. Entrambi presentano vantaggi e svantaggi a seconda di chi effettua il pagamento e dell’importo. La frequenza del loro utilizzo è cambiata nel tempo.

I pagamenti nell’Unione europea

Le transazioni fatte con metodi diversi dal denaro sono in generale in crescita all’interno dell’area euro. Secondo la banca centrale europea (Bce), il numero di pagamenti nel 2021 è incrementato del 12,5% rispetto all’anno precedente. Una crescita in termini di valore delle transazioni pari al 18,6%. Il 49% di questi pagamenti è stato effettuato tramite le carte, il 22% da bonifici e il 20% da contrazione diretta di debito.

La pandemia ha inciso sulle abitudini di pagamento.

Un aumento che, sempre secondo la Bce, è stato in qualche modo causato anche dalle restrizioni dovute alla crisi pandemica, che hanno reso i metodi di pagamento virtuale più convenienti per i cittadini. Il contante ha però avuto un ruolo di riserva di valore più che di mezzo per effettuare dei pagamenti. Sono infatti diminuiti i pagamenti ma è aumentata la richiesta di banconote.

L’ultimo studio relativo alle attitudini dei cittadini ai pagamenti nell’area euro è stato condotto nel 2019 a cura della Bce. Prima dello scoppio della pandemia, il contante era il metodo più utilizzato per quel che riguarda i pagamenti di natura ordinaria, a cui seguiva la carta di credito.

73% il numero di pagamenti effettuati nel 2019 con il contante (Bce).

I trasferimenti in contante rappresentavano il 48% del valore totale dei pagamenti mentre quelli della carta componevano il 41%. Il restante era coperto da altri metodi.

Andando a considerare il dato a livello dei singoli stati nell’eurozona, il dato segna delle differenze importanti.

 

Tra gli stati dell’eurozona, quello in cui i consumatori effettuano più transazioni in contante è Malta (88%) a cui seguono Spagna (83%), Cipro (83%) e Italia (82%). In fondo alla classifica si trovano l’Estonia (48%), la Finlandia (35%) e i Paesi Bassi (34%).

Per quel che riguarda il valore complessivo di questi pagamenti, i paesi caratterizzati dai valori più alti sono Malta (73%), Cipro (73%), Spagna (66%) e Slovacchia (63%).

Il pagamento in contante è una parte importante dell’economia. È un metodo inclusivo che permette anche alle persone con meno possibilità di effettuare delle transazioni, motivo per cui la banca centrale europea ha messo in atto una strategia per tutelarne la disponibilità. Non è però un metodo privo di rischi. L’anonimato garantito dal contante può facilitare attività illegali come ad esempio il riciclaggio di denaro. In particolare per evitare i finanziamenti alle attività terroristiche l’Unione europea si è interrogata sulle limitazioni delle transazioni in contante.

La posizione europea sui tetti dei pagamenti in contante

Al momento, non c’è una legislazione condivisa a livello europeo sulle restrizioni dei pagamenti in contante. Ci sono però due strumenti giuridici che possono imporre dei limiti.

Il primo è un sistema di controllo che si applica alle persone che passano i confini dell’Unione con contanti o beni equivalenti superiori in valore ai 10.000 euro. È necessario in questo caso effettuare una dichiarazione sia per entrare che per uscire dallo spazio comunitario. Il secondo è contenuto nella direttiva 2015/849 e riguarda l’associazione tra pagamenti di importo elevato e pericolo di riciclaggio.

Al fine di aumentare la vigilanza e mitigare i rischi associati a tali pagamenti in contanti, è opportuno che i soggetti che commerciano beni rientrino nell’ambito di applicazione della presente direttiva quando effettuano o accettano pagamenti in contanti di importo pari o superiore a 10 000 EUR. Gli Stati membri dovrebbero poter adottare soglie più basse, limitazioni supplementari di ordine generale all’uso del contante e ulteriori disposizioni più rigorose.

Nonostante non esista quindi un quadro legislativo coeso, l’Unione europea prevede l’adozione di tetti all’utilizzo del contante per i singoli stati membri. Misure di questo tipo hanno visto una rapida crescita in anni recenti tra i paesi comunitari. La situazione che si presenta è piuttosto eterogenea sia per quel che riguarda i limiti in termini di valore che per le categorie a cui sono applicati.

GRAFICO
DA SAPERE

Il dato rappresenta la presenza o meno di un tetto alle transazioni monetarie in contante e l’eventuale soglia. Per gli stati che non hanno adottato l’euro è stata effettuata una conversione.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Ecc
(consultati: venerdì 4 Novembre 2022)

 

Sono 12 gli stati comunitari in cui c’è una soglia massima per commercianti e consumatori riguardo ai pagamenti in contante. In alcuni casi si tratta di un limite comune a consumatori e commercianti, in altri differenziato tra queste due categorie. Per 6 paesi esistono delle soglie solo in determinate situazioni. Nei restanti 9 non ci sono limiti alle transazioni in contanti.

Il limite più basso che si riscontra nell’Unione europea è quello imposto dalla Grecia, pari a 500 euro, applicato in qualsiasi circostanza. Quello più alto si trova in Ungheria e si tratta di un limite di 40.000 euro al mese applicato esclusivamente alle persone giuridiche.

In Italia il tetto del contante è regolato dal decreto legislativo 231/2007. Secondo l’ultima modifica contenente nella legge 15/2022, questo limite è fissato ai 2.000 euro fino al 31 dicembre 2022. Dal 1 gennaio 2023 la soglia dovrebbe ulteriormente abbassarsi fino ai 1.000 euro.

Foto: Towfiqu barbhuiya – licenza

 

Intervista sull’indipendentismo e dintorni

Intervista sull’Indipendentismo e dintorni:
Questa lunga nota è rivolta per chi vuole andare oltre gli slogan. Per chi non ha frettta. Per chi vuole capire. E’ di qualche anno fa ma conserva, penso e spero, ancora la la sua cocente attualità

Dani Morgan, una ricercatrice boliviana, che ha fatto il dottorato a Cagliari sul tema dell’Indipendentismo sardo, mi ha intervistato. Ecco, di seguito le sue domande con le relative mie risposte.

1.Perchè professor Francesco Casula, essere indipendentista?

Risposta
L’ipotesi indipendentista, fino a qualche decennio fa demonizzata e criminalizzata, oggi è entrata prepotentemente nel dibattito politico e nelle più alte sedi istituzionali, Consiglio regionale compreso. E certo si può convenire e dissentire. Una cosa però occorre affermare con nettezza: il diritto alla Autodeterminazione dei popoli – e dunque alla Indipendenza e persino alla secessione e separazione – è garantito dal Diritto e da tutte le Convenzioni internazionali. Con buona pace della stessa Costituzione italiana che prevede la repubblica “una e indivisibile”. E anche con buona pace dell’ordinamento giuridico italiano liberticida secondo cui la “secessione” è addirittura un reato (art. 241, Attentati contro la integrità, l’indipendenza o l’unita’ dello Stato) da punire con la reclusione non inferiore a dodici anni.
Del resto, il diritto alla “secessione” è stato praticato negli ultimi decenni – per limitarci solo al Vecchio Continente – da decine di popoli europei, dando vita a nuovi stati con la disgregazione dell’URSS e della Iugoslavia; con la “separazione” della Slovacchia dalla repubblica Ceca ecc.
Il diritto all’autodeterminazione e dunque all’indipendenza del popolo sardo si fonda sul suo essere “nazione”; ovvero sulla sua storia, diversa e dissonante rispetto alla coeva storia italiana. Ed anche europea. Storia che incardina la sua specifica identità culturale e linguistica che non può essere sciolta e dispersa – come fino ad oggi è successo – nel calderone della “italianità”.
La Sardegna è entrata nell’orbita italiana nel 1720 , quando per un “baratto di guerra”, l’Isola passa dalla Spagna al Piemonte. Ritrovandosi una provincia di uno staterello ottuso e famelico, specie dopo la rinuncia all’Autonomia stamentaria nel 1847.
Oggi è arrivato il momento storico di riprenderci la nostra indipendenza nazionale persa.
Perché?
Perché anche, per non dire soprattutto, dopo la cosiddetta Unità d’Italia, la nostra Isola viene considerata, trattata e utilizzata dallo Stato Italiano come una colonia d’oltremare, una colonia interna, in cui alloccare industrie nere e inquinanti (segnatamente quelle petrolchimiche) e stazione di servizio per basi e servitù militari.
L’onere militare che grava sulla Sardegna è enorme: a ribadirlo recentemente è stato lo stesso Presidente della Regione sarda Francesco Pigliaru secondo cui la Sardegna “contribuisce per oltre il 60% del totale nazionale, in termini di presenza militare e gravami, con una popolazione pari al 2%”.
I numeri parlano chiaro: nell’Isola sono oltre 35.000 gli ettari di territorio sotto vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20.000 chilometri quadrati, una superficie quasi pari all’estensione dell’intera Sardegna. Sull’isola ci sono poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburanti (nel cuore di Cagliari) alimentati da una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di Esercito, Aeronautica e Marina). Si tratta di strutture e infrastrutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. Il poligono del Salto di Quirra-Perdasdefogu (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione, mentre il poligono Nato di Capo Frasca (costa occidentale) ne occupa oltre 1.400.
Insomma un’Isola militarizzata. Con enormi porzioni del suo territorio sottratte all’uso civile. Alla coltivazione. Inquinati delle esercitazioni militari con l’utilizzo dell’uranio impoverito, causa di morti per tumore e di malformazioni, per gli umani e gli animali.
Ma la Sardegna non è solo una colonia interna dell’Italia ma anche una “nazione oppressa”, “proibita”, “non riconosciuta” dallo Stato Italiano, emarginata dalla storia, insieme a tutte le altre minoranze etniche del mondo. In Europa al pari dei Baschi, Catalani, Bretoni, Occitani, Irlandesi ecc. Contro cui è ancora in atto un pericolosissimo processo di “genocidio” soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di “minoranze” che – ha scritto Antonio Simon Mossa, il grande teorico Algherese dell’Indipendentismo sardo moderno – “l’imperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire”.
La Sardegna ha infatti una precisa identità etno-nazionale: per la sua storia; la sua lingua millenaria (per secoli, durante i regni Giudicali, lingua ufficiale e “cancelleresca”), nata secoli e secoli prima dell’Italiano; le sue tradizioni e la sua civiltà.

1. Come definisce l’Autonomia? In che modo è diversa da altri concetti come Federalismo, e Indipendenza?

Risposta
1. Autonomia.
La visione autonomistica dello Stato, è ancora tutta dentro l’ottica dello Stato unitario e centralista – così come in buona sostanza è ancora disegnato dalla Costituzione repubblicana, – che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere nella “periferia” o, più semplicemente può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe parziali alla Regione, che comunque in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continua ad essere utilizzata come un terminale di politiche sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale; che vede il rapporto Stato-Sardegna in termini asimettrici, di pura e semplice dipendenza, che prefigura da un lato l’accettazione di uno Stato coinvolgente e ancora totalizzante – nonostante qualche timido tentativo di “dimagrimento” – dall’altro la concessione di uno spazio di gestione amministrativa e politica del tutto ininfluente. Insomma, uno scambio ineguale, che pone la Regione in uno stato di marcata inferiorità.
2. Federalismo.
Scrive Emilio Lussu in un saggio del 1933, pubblicato nel n. 6 di «Giustizia e Libertà»: ”Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento”.
E precisa: ”Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”.
Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati, aggiungo io – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri”: l’intera frase virgolettata è tratta da «Federalismo” di Norberto Bobbio, “Introduzione a Silvio Trentin».
In questa visione federalista il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, di un unico potere e soggetto singolare per far capo a più soggetti e poteri plurali. In questa visione la Regione cessa di essere la rappresentanza in sede regionale e periferica dell’Amministrazione statale per diventare l’Ente esponenziale della Comunità sarda.
3. Indipendenza.
Per Sardegna sovrana e indipendente intendo il suo diritto e la sua possibilità e capacità di realizzare l’Autogoverno, l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e del territorio, il diritto a usare e valorizzare la propria lingua e cultura, a gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico, la possibilità di controllare i grandi mezzi di comunicazione di massa e dell’informazione, di fronte alla quale oggi la Regione è totalmente disarmata e niente può fare perché essi rispondano a criteri di uso democratico e socialmente utile. Il potere infine, nei settori fondamentali quali la difesa e i rapporti internazionali, di decidere in piena sovranità e autonomia.
Porre in questi termini la questione della Nazione sarda, significa a mio parere, pensare alla creazione di un nuovo Stato, separato dallo Stato italiano, in cui storicamente è stato incorporato.
Separazione che non significa isolamento e chiusura in se stesso, e neppure che, in prospettiva, possa rifiutare superiori livelli, anche istituzionali, di integrazione e di interdipendenza, necessari oggi per affrontare i problemi socio-economici, a dimensione continentale e mondiale, connessi:
• alla diffusione delle nuove tecnologie e alla globalizzazione dell’economia e dei mercati;
• al crescente grado di interdipendenza e di integrazione raggiunto dall’economia dei singoli paesi e delle singole aree e regioni;
• al carattere europeo e internazionale assunto dai flussi e dallo scambio di materie prime, di prodotti manufatti, di tecnologie e di capitali;
• all’importanza soverchiante che in tali condizioni acquistano le economie su scala e le imprese che non producono solo per il mercato locale ma per mercati più ampi e lontani.

3.Quando, secondo lei, è nata la questione sarda? Perché è nata?

Risposta
La paternità dell’espressione “Questione sarda” si deve a Gian Battista Tuveri. Intellettuale, politico e scrittore sardo repubblicano, federalista democratico e progressista.
La sua notorietà ebbe inizio ai primi del 1848, in seguito agli avvenimenti succedutisi alla fusione con il Piemonte, con l’abolizione degli antichi istituti autonomi del Regnum Sardiniae e con la concessione dello Statuto Albertino: il Tuveri fu tra coloro che considerarono quelle decisioni – e prima ancora la legge “delle chiudende” e l’abolizione dei diritti feudali – gravi errori che avrebbero aggravato le condizioni economiche e sociali della Sardegna, provocando la rovina del mondo agro-pastorale. Di qui la critica implacabile contro la politica accentratrice e colonialista del Piemonte, di cui la Sardegna “era diventata una fattoria, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”.
Con questa espressione si vuole reclamare l’attenzione della politica statale sulle difficoltà dell’Isola, promuovendo il riscatto della Sardegna e del popolo sardo contro uno stato centralista e oppressivo. Che tale sarà soprattutto dopo l’Unità d’Italia.
Questa infatti si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis – dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud, (il blocco storico gramsciano ), sostenuti dagli inglesi (che con la Massoneria finanzieranno la cosiddetta “Impresa dei Mille di Garibaldi” e la conquista del sud.
Una Unità realizzata contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.
C’è di più: si realizzerà un’unità biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi: come appunto Tuveri.
La politica del nuovo stato unitario, centralista e statalista produrrà in Sardegna la devastazione dell’economia, soprattutto dopo la rottura dei Trattati doganali con la Francia nel 1887.
4.Quali sono i principali problemi economici e politici che riguardano la Sardegna?
Risposta
A livello economico:
la Sardegna è caratterizzata dalla “dipendenza” e dallo “scambio ineguale”: importa prodotti (finiti), ad alto valore aggiunto, ed esporta materie prime e prodotti (semilavorati) a basso valore aggiunto: in questo scambio “ineguale” si impoverisce sempre di più, arricchendo, di contro il Nord o comunque i Paesi dove le sue risorse si dirigono. Questo meccanismo ha operato soprattutto nel periodo della cosiddetta industrializzazione petrolchimica.
Con la crisi e la fine della industrializzazione si è chiuso un ciclo più che quarantennale, fatto di promesse ma anche di illusioni programmatorie e petrolchimiche, che ha lasciato in Sardegna, un cimitero di ruderi industriali ma soprattutto disoccupazione, malessere, inquinamento, spopolamento e nuova emigrazione: questa volta di qualità, non come negli anni ’60, dequalificata e generica. Ad abbandonare la Sardegna sono infatti viepiù giovani laureati: risorse preziosissime che potrebbero, qui in Sardegna, mettere a disposizione le loro professionalità e competenze per la ricerca e l’innovazione e che invece sono costretti a emigrare.
Lo spopolamento è certamente uno dei problemi più gravi e acuti che pur già in atto, rischia di diventare drammatico nel prossimo futuro: a causa della crisi, specie occupazionale, dei giovani in particolare. Ma anche perché lo Stato progressivamente sta liquidando tutti i servizi sociali (dalle Scuole alle Poste, agli Ospedali, ecc.).
Con lo spopolamento – che afferisce soprattutto alla Sardegna “interna”, l’Isola rischia di ridursi a una ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.
Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.
Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.
Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.
Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile, prima ancora che economica e sociale.
Altro gravissimo problema è quello dei trasporti interni (abbiamo ancora in monobinario per le ferrovie!) e soprattutto esterni, con l’Italia e gli altri Stati. Nonostante la retorica del potere politico statale e regionale, che da decenni strombazzano la “continuità territoriale”, questa è ancora di là da venire.
A livello politico:
La Sardegna è ugualmente caratterizzata dalla “dipendenza”. I partiti italiani in Sardegna rappresentano e costituiscono delle succursali dei Partiti statali e rispondono non ai bisogni dei Sardi ma agli ordini dei loro gerarchi romani, milanesi ecc.
Per utilizzare il lessico di Francesco Masala – il nostro più grande poeta etnico – i Partiti italiani nell’Isola altro non sono che “le la filiali isolane della fabbrica politica italiota, che si limitano a importare nell’Isola i manufatti politici prodotti in Continente: insomma una grave forma di centralismo burocratico, di colonialismo politico-culturale, senza nessun approfondimento né della Questione sarda né della grande lezione del sardismo lussiano”.
Costruire un’alternativa all’insieme della partitocrazia italiota – sostanzialmente il progetto di AutodetermiNatzione – è dunque urgente e necessario per la liberazione nazionale e sociale della Sardegna, iniziando a “rompere” la dipendenza politica ma anche economica e culturale-linguistica.

5.Quali sono stati i principali ostacoli per il movimento indipendentista?

Risposta
Sono soprattutto di ordine culturale. Ma anche psicologico.
Secoli di colonialismo culturale e linguistico hanno dessardizzato e snazionalizzato i Sardi. Per annichilire l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa, il moderno teorico dell’Indipendentismo sardo – “un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica, anche con la complicità di molti sardi che si lasciano comprare”. Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda, segnatamente dell’uso pubblico del Sardo.
L’ideologo nazionalitario e indipendentista sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a “morire”: “Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione economica”
Il pretesto e l’alibi di tale “genocidio” è stato – ed è – che occorreva (occorre) trascendere e travolgere le arretratezze del mondo “barbarico” – per noi Sardi “barbaricino” – le sue superstizioni, le sue “aberranti” credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economico-culturali, espressione di una civiltà preindustriale e rurale, considerata ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre alla tendenza del capitalismo e degli Stati – e dunque delle etnie dominanti – a omologare in nome di una falsa “unità”, della globalizzazione dei mercati, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientista, le etnie marginali e con esse le loro differenze, in quanto portatrici di codici “altri”, scomodi e renitenti, ossia reverdes (ribelli).
Cancellata la nostra storia, recisa la nostra lingua (ad iniziare dalla Scuola ufficiale dello stato italiano), senza più difese, è più facile dominarci e assoggettarsi anche psicologicamente, azzerando la nostra autostima e, facendoci credere che solo dall’Italia e da fuori, possiamo aspettare la nostra liberazione. Perché da soli, da noi stessi non possiamo avere garantita neppure la nostra esistenza e la nostra vita.
Si sentono persino simili piacevolezze: se diventiamo “indipendenti” e ci separiamo dall’Italia, chi potrebbe garantire le nostre pensioni?

6.Perché pensa che i partiti italiani abbiano avuto più successo in Sardegna rispetto al movimento indipendentista?

Risposta
Perché detengono da sempre il potere. Non solo quello politico, burocratico e amministrativo ma quello culturale. Hanno occupato manu militari le Università; gli Enti di qualsivoglia genere: ad iniziare da quelli bancari. Hanno i “loro” Sindacati, ad iniziare da CGIL-CISL-UIL.
Attraverso questi Enti controllano e dirigono l’opinione pubblica, distribuiscono posti di lavo (per la verità sempre meno, specie con la crisi fiscale dello Stato), prebende, mance e dunque nelle elezioni raccolgono il consenso popolare.
Inoltre posseggono ingenti risorse economiche e finanziarie provenienti non solo dai plurimi finanziamenti pubblici ma da sostegni privati (spesso illegali, con le tangenti).
Si sono sostanzialmente “impadroniti” dei grandi mezzi di comunicazione di massa: grandi Quotidiani e Giornali, TV, pubbliche e private: attraverso di essi condizionano e indirizzano l’opinione pubblica e il consenso elettorale.

7.Qual sarebbe la strategia migliore per avanzare la questione dell’indipendenza a livello popolare? Come cercare di coinvolgere i Sardi che si sentono emarginati?

Risposta
Attraverso una capillare, ubiquitaria e diffusa controinformazione culturale e politica: senza limitarsi ad agitare al vento facili slogan o discorsi che non riescono a far muovere i mulini per macinare grano.
L’importante sarà fare le cose non limitarsi a denunciarle, sperimentare e non solo predicare, praticare l’obiettivo, praticare scampoli di indipendenza e non aspettare l’ora x in cui questa si raggiungerebbe.
L’importante è incrociare la gente, i lavoratori, i giovani, costruire trame che organizzino e compattino i soggetti sui bisogni, gli interessi, la crescita culturale e civica, favorendo l’autorganizzazione dei cittadini e il protagonismo sociale, i contropoteri polari.
Ma soprattutto occorrerà che gli Indipendentisti si diano una “visione”, una cultura alta e “altra”. Con la valorizzazione e l’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirsi e guardare al futuro e non per rifugiarsi nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici basati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo/persona incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali. Convinti e consapevoli che la standardizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Omologazione che annulla progressivamente le specificità: ibernandole nella bara della tecnica, del calcolo economico, del mercato, della mercificazione.
8.Pensa che l’Unione Europea abbia un ruolo da svolgere nelle lotte per l’autodeterminazione? Come descriverebbe la posizione della Sardegna in Europa?

Risposta
L’attuale Unione Europea è nemica dei popoli che nel Vecchio Continente si battono per l’Autodeterminazione e per l’indipendenza: basti pensare alla sua posizione nei confronti dei Catalani.
La UE è oggi l’Europa degli Stati (anzi degli Stati forti, ad iniziare dalla Germania) non dei popoli. E’ l’Europa delle banche, della finanza, delle multinazionali, dei burocrati e autocrati. E’ un’Europa anti sociale e antidemocratica, egoista e antisolidarista, da cui niente c’è da aspettarsi.
Occorre dunque battersi per un’Europa radicalmente diversa: democratica, sociale, solidale, ecologica, aperta; un’Europa dei diritti: sociali oltre che civili. Che metta al primo posto, valorizzandole, le identità peculiari dei popoli: ad iniziare dalle loro lingue native.
All’interno di questa Europa rinnovata completamente la Sardegna entrerebbe a pieno diritto, con la sua storia, le sue tradizioni, le sue produzioni materiali e immateriali. Per dare e ricevere. Confrontandosi. Contaminandosi. Arricchendosi.

9.Pensa che la questione della lingua sia una parte indispensabile per la lotta per l’indipendenza?

Risposta
Certamente sì. Il già citato Francesco Masala era solito affermare che: A unu populu nche li podes moer totu e sighit a bivere, ma si nche li moes sa limba si nche si nche morit (a un popolo puoi togliere tutto e continua a vivere, ma se gli togli la lingua , muore).
La nostra lingua, il sardo è infatti la più forte ed essenziale componente del nostro patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, e sta a fondamento dell’identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazione e come popolo. Essa affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea.
Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova – e anche una grande metafora – del rapporto fra le culture. Comunicare restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia, essere radicati in una tradizione senza fare di questo, un elemento di separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue – dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza.
Nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria ad essere abolita. Un universo di suoni e di saperi a dileguarsi. Preservare allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito dell’ecologia della cultura e del sapere.
L’idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: un frivolo sogno lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare di ordine mercantile. Anche perché,: a cosa servirebbe – si chiede il Professor Sergio Maria Gilardino, docente di letteratura comparata all’Università di Montreal (Canada) e grande difensore delle lingue ancestrali – conoscere e parlare tutti nell’intero Pianeta la stessa lingua, magari l’inglese, se non abbiamo più niente da dirci, essendo tutti ormai omologati e dunque privi e deprivati delle nostre specificità e differenze?
Ma c’è di più: certi programmi “internazionalisti”che prevedono una unificazione linguistica dell’umanità e una scomparsa delle nazionalità, quando non sono inutili esercitazioni retoriche, sono in genere la mistificazione di concezioni sciovinistiche, o addirittura nascondono intenzioni di genocidio culturale di derivazione imperialistica.
Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia più volte è accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del ‘900 appartengono a una storia di migrazioni tra le lingue: da Elias Canetti a Paul Celan, da Vladimir Nabokof a Iosif Brodskij, da Isaac Bashevis Singer a Salman Rushdie, da Witold Marian Gombrowicz a Vidiadhar Suraiprsar Naipaul.

10.Qual è’ lo scopo principale del Progetto Autodeterminazione? In che senso rappresenta un nuovo capitolo per il movimento sardo?

Risposta
Lo scopo di Autodeterminatzione con relativi obiettivi e finalità sono emblematicamente sintetizzati dal simbolo e, soprattutto, dalla scritta.
Come simbolo ha scelto unu carrabusu (uno scarabeo) il simpatico animaletto che dovrebbe insieme significare la Rinascita e avere il ruolo di innetare e limpiare su logu (ripulire e mondare il luogo): ovvero quella Sardegna imbruttata, inquinata, devastata da un industrialismo perverso.
Ancor più simbolica la scritta:AutodetermiNatzione: una scritta politica prima ancora che elettorale. Prefigurante e polisenso. Con una pluralità di significati. Tutti convergenti. Con l’«Auto» (dal greco αὐτός) che evoca ed esprime, autodifesa, autocoscienza, autoconsapevolezza, autostima. Ma soprattutto fare da sé, con i propri mezzi, con le proprie forze. A significare che la liberazione della Sardegna dipende solo da noi Sardi. Non da qualche “Salvatore” o “Gigante” esterno. Di cui occorre sempre diffidare (Timeo Danaos et dona ferentes!-Temo i Greci anche quando portano doni). Anche quando promettono oro argento e mirra. Come fanno sempre in occasione delle elezioni i Partiti italiani. Perchè furat chie benit dae su mare!-Ruba chi viene dal mare) Storicamente. Sono sempre venuti per depredarci, conquistarci, occuparci, dominarci.
La liberazione non potrà venire dai Partiti politici italiani (de destra, di sinistra di centro) che in Sardegna si configurano semplicemente come succursali dei Partiti centralisti continentali, da cui ricevono ordini e programmi, confezionati fuori dall’Isola e, quasi sempre, contro gli interessi dell’Isola stessa. Di qui la scelta di Autodeterminatzione di porsi contro e in alternativa ai Partiti italiani.
Ad «Auto» si aggiunge Determinazione: Ad indicare tutta la forza, la voglia, la risoluta volontà con cui l’aggregazione si prefigge di perseguire l’obiettivo. Nel termine «AutodetermiNatzione» è incorporata «Natzione». Ovvero lo status della Sardegna: in virtù della sua storia, lingua, cultura, tradizioni. Uno status oggi prevalentemente “virtuale”, in fieri. Che per i protagonisti di AutodetermiNatzione occorre che diventi “fattuale”: con lo Stato. Con l’Indipendenza. Attraverso un progetto. Un percorso. Un processo. Una strategia.
Si tratta di un obiettivo ambizioso e di prospettiva. Di cui l’alleanza elettorale dovrebbe essere un primo passo. Inutile dire che condizione necessaria per avviare e costruire il processo di indipendenza dovrà essere il passaggio di AutodetermiNatzione da alleanza elettorale ad alleanza politica, più vasta e corposa, che si dia precisi obiettivi di programma, al di là e oltre le elezioni. Senza limitarsi – lo ripeto – ad agitare al vento facili slogan o discorsi che non riescono a far muovere i mulini per macinare grano.
L’importante sarà fare le cose non limitarsi a denunciarle, sperimentare e non solo predicare, praticare l’obiettivo, praticare scampoli di indipendenza e non aspettare l’ora x in cui questa si raggiungerebbe. L’importante è incrociare la gente, i lavoratori, i giovani, costruire trame che organizzino e compattino i soggetti sui bisogni, gli interessi, la crescita culturale e civica, favorendo l’autorganizzazione dei cittadini e il protagonismo sociale,
A tal fine occorrerà che AutodetermiNatzione si dia idealità e finalità che disegnino uno “Stato sardo” che sia il più dissimile possibile dallo Stato italiano, accentrato e centralista. E viepiù antisociale.
Ma soprattutto occorrerà che si dia una “visione”, una cultura alta e “altra”. Con la valorizzazione e l’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici basati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo/persona incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.
In che senso rappresenta un nuovo capitolo per il Movimento sardo?
Perché, dopo decenni di frammentazione e divisione, chiusure e settarismi, il variegato Pianeta indipendentista, sovranista e sardista trova “l’unità”: ben otto Partiti e Movimenti di quest’area (Rossomori, Sardegna Possibile, Sardigna Natzione, Irs, Liberu, Sardos, Communidades, Gentes, Radicales sardos) nelle scorse elezioni politiche del 4 marzo, si sono presentati uniti, in una unica lista elettorale, con il logo di Autodeterminatzione, trovando una sintesi politico elettorale unitaria, un vero e proprio miracolo.

Perché anche, per non dire soprattutto, dopo la cosiddetta Unità d’Italia, la nostra Isola viene considerata, trattata e utilizzata dallo Stato Italiano come una colonia d’oltremare, una colonia interna, in cui allocare industrie nere e inquinanti (segnatamente quelle petrolchimiche) e stazione di servizio per basi e servitù militari.
L’onere militare che grava sulla Sardegna è enorme: a ribadirlo recentemente è stato lo stesso Presidente della Regione sarda Francesco Pigliaru secondo cui la Sardegna “contribuisce per oltre il 60% del totale nazionale, in termini di presenza militare e gravami, con una popolazione pari al 2%”.
I numeri parlano chiaro: nell’Isola sono oltre 35.000 gli ettari di territorio sotto vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20.000 chilometri quadrati, una superficie quasi pari all’estensione dell’intera Sardegna. Sull’isola ci sono poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburanti (nel cuore di Cagliari) alimentati da una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di Esercito, Aeronautica e Marina). Si tratta di strutture e infrastrutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. Il poligono del Salto di Quirra-Perdasdefogu (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione, mentre il poligono Nato di Capo Frasca (costa occidentale) ne occupa oltre 1.400.
Insomma un’Isola militarizzata. Con enormi porzioni del suo territorio sottratte all’uso civile. Alla coltivazione. Inquinati delle esercitazioni militari con l’utilizzo dell’uranio impoverito, causa di morti per tumore e di malformazioni, per gli umani e gli animali.

ORA BASTA.
BASTA CON L’UTILIZZO DELLA SARDEGNA COME COLONI A INTERNA DELLO STATO ITALIANO
-Per decenni la Sardegna è stata utilizzata come stazione per industrie nere e inquinanti. Con la crisi e la fine della industrializzazione si è chiuso un ciclo più che quarantennale, fatto di promesse ma anche di illusioni programmatorie e petrolchimiche, che ha lasciato in Sardegna, un cimitero di ruderi industriali ma soprattutto disoccupazione, malessere, inquinamento, spopolamento e nuova emigrazione: questa volta di qualità, non come negli anni ’60, dequalificata e generica. Ad abbandonare la Sardegna sono infatti viepiù giovani laureati: risorse preziosissime che potrebbero, qui in Sardegna, mettere a disposizione le loro professionalità e competenze per la ricerca e l’innovazione e che invece sono costretti a emigrare.
-Fin dagli anni ’50 – con accelerazioni negli anni ’70 – l’Isola è stata trasformata in una grande area di basi e servitù militari, servizi bellici essenziali in cui avvengono esercitazioni, addestramenti, sperimentazioni di nuove armi, depositi di carburanti, ecc..
L’onere militare che grava sulla Sardegna è enorme: la Sardegnacontribuisce per oltre il 60% del totale nazional-statale, in termini di presenza militare e gravami, con una popolazione pari al 2%”.
I numeri parlano chiaro: nell’Isola sono oltre 35.000 gli ettari di territorio sotto vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20.000 chilometri quadrati, una superficie quasi pari all’estensione dell’intera Sardegna. Sull’isola ci sono poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburanti (nel cuore di Cagliari) alimentati da una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di Esercito, Aeronautica e Marina). Si tratta di strutture e infrastrutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. Il poligono del Salto di Quirra-Perdasdefogu (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione, mentre il poligono Nato di Capo Frasca (costa occidentale) ne occupa oltre 1.400.
Insomma in un’Isola militarizzata. Con enormi porzioni del suo territorio sottratte all’uso civile. Alla coltivazione. Inquinati delle esercitazioni militari con l’utilizzo dell’uranio impoverito, causa di morti per tumore e di malformazioni, per gli umani e gli animali.
-Oggi si vorrebbe trasformare la Sardegna in un ricettacolo delle scorie radioattive: in un primo momento dovrà contenere 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media intensità e poi anche 17 mila metri cubi ad alta attività, questi ultimi per un massimo di 50 anni (per poi essere sistemati in un deposito geologico di profondità di cui al momento poco si sa). Spesa prevista? Per il Deposito e il Parco tecnologico è prevista una spesa di 900 milioni di euro, che saranno prelevati dalle componenti della bolletta elettrica pagata dai consumatori: ma son sicuro che quella spesa si dilaterà a dismisura.

Se questa titulia, questo disegno infame e criminale passerà il brand della nostra Terra sarà quello infausto della scoria radioattiva e mortifera.

Dobbiamo opporci con tutte le forze e i mezzi possibili e impossibili perché tale disegno non passi.

Il nostro brand deve e può essere quello della Terra dei Nuraghi e del Sole; delle eccellenze agro-alimentari; del beni archeologici, storico-culturali-linguistici e ambientali.
E le scorie?