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Archivi giornalieri: 2 novembre 2022
Normativa
La denominazione dei ministri e le loro competenze
La denominazione dei ministri e le loro competenze
A ministri con e senza portafoglio sono attribuite denominazioni che dovrebbero indicare le loro competenze. Tuttavia queste diciture ufficiali hanno un carattere comunicativo più che sostanziale.
Definizioni
Nell’ordinamento italiano i ministri sono titolari di due importanti ma distinte funzioni. Da un lato infatti sono responsabili collegialmente degli atti adottati dal consiglio dei ministri, di cui fanno parte assieme al presidente del consiglio.
Dall’altro sono responsabili individualmente degli atti emanati dai ministeri a cui sono preposti.
I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri.
Non a tutti i ministri però è attribuito un dicastero. Come previsto dall’articolo 9 della legge 400/1988 ad alcuni ministri possono essere delegate funzioni proprie del presidente del consiglio.
Nel caso in cui a un ministro sia attribuito un dicastero, questi ne diventa il vertice politico. Di conseguenza assume da un lato il potere d’indirizzo e dall’altro la responsabilità politica delle decisioni.
Per questa ragione le sue competenze specifiche derivano dalle funzioni che la legge attribuisce a quello stesso ministero. Il decreto legislativo 300/1999 infatti definisce il numero complessivo dei ministeri (attualmente 15 – articolo 1 comma 4 bis), la loro denominazione ufficiale (articolo 1 comma 1) e le loro attribuzioni principali (titolo IV), anche se in alcuni casi queste possono essere indicate in leggi differenti.
Funzioni e responsabilità dei ministri senza portafoglio sono ricavabili invece dalla legge 400/1988 (art. 9) che esplicita come, dopo la nomina da parte del capo dello stato, sia il presidente del consiglio a delegargli le funzioni.
A questo punto il presidente del consiglio emana prima un decreto con cui attribuisce gli incarichi ai ministri senza portafoglio e poi una serie di altri decreti attraverso i quali vengono definite le funzioni di ciascuno di questi.
Con il primo atto dunque viene sostanzialmente attribuito il titolo al ministro, come ad esempio “ministro per i rapporti con il parlamento” o “ministro per le politiche del mare e per il sud”. Con i secondi invece il capo del governo indica finalità, funzioni e compiti attribuiti al ministro, stabilendo che, per esercitarli, questi possa avvalersi di uno o più dipartimenti della presidenza del consiglio.
Sia nel caso dei ministri con portafoglio che senza, i nomi doverebbero idealmente indicare a cittadini e organi dello stato le loro funzioni. Tuttavia si tratta in questo caso di una dimensione a tutti gli effetti comunicativa più che sostanziale. Per cui il cambio di nome di un ministro o un ministero non implica necessariamente un cambio di funzioni e viceversa.
Dati
Come accennato, a partire dal 1999, il numero e la denominazione dei ministeri è stabilito da un’apposita legge. Questo tuttavia non toglie che, all’occorrenza, non possa essere emanato un nuovo provvedimento legislativo con il quale vengano modificate le denominazioni e/o le funzioni attribuite a ciascun ministero, decidendo magari di crearne di nuovi o accorparne di esistenti.
Inizialmente il numero di dicasteri era pari a 12. Nei primi anni dopo l’approvazione della norma sono però aumentati fino ad arrivare a 18 nel 2006. Due anni dopo il loro numero è poi tornato al valore originale per poi risalire a 13 nel 2009. Da quel momento tuttavia questo valore è rimasto stabile per oltre 10 anni, tornando poi a crescere nel 2020 (14) e nel 2021 (15).
Ma se il numero di ministri con portafoglio è stabilito per legge, dovendo necessariamente corrispondere a quello dei ministeri, lo stesso non vale per i ministri senza portafoglio (Dlgs 300/1999 art. 4 bis), il cui numero e denominazione può variare senza particolari complicazioni all’insediamento di ogni nuovo esecutivo.
Analisi
Quello che è dunque da tenere presente è la grande differenza che esiste in un cambio di denominazione a seconda che questo abbia un valore meramente comunicativo, piuttosto che non preluda a un cambio di competenze se non addirittura la fusione o lo scorporamento di diversi dicasteri.
Il primo è ad esempio il caso del ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, fino a marzo 2021 noto come ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Non avendo modificato le competenze del dicastero, il cambio di nome ha rappresentato una mera operazione di comunicazione, o tutt’al più un auspicio di cambiamento nel suo indirizzo strategico.
Se invece il cambio di nome prelude a una riorganizzazione delle competenze tra diversi dicasteri, piuttosto che a un loro spacchettamento o una loro fusione, i passaggi necessari diventano ben più complessi e articolati. Affinché i cambiamenti entrino in funzione infatti sono di solito necessari diversi decreti attuativi. Talvolta alcuni di questi devono andare a modificare i regolamenti organizzativi dei dicasteri sopprimendo o istituendo nuovi dipartimenti o direzioni generali. Perché questi organismi entrino in funzione occorre poi che siano nominati i nuovi vertici e che entrino in vigore i decreti di ripartizione delle risorse. Nel caso della suddivisione del ministero dell’università e della ricerca voluto dal secondo governo Conte, ad esempio, sono stati necessari quasi 2 anni affinché il nuovo ministero dell’università entrasse pienamente in funzione.
Leggi.
Per questo sarebbe opportuno che tali decisioni venissero prese sulla base di pressanti esigenze di carattere amministrativo, e non solo per valutazioni di comunicazione politica.
Quanto ai ministri senza portafoglio vediamo per esempio il caso in cui un ministro presente in un esecutivo non venga nominato in quello successivo. In una situazione di questo tipo, almeno parte delle sue competenze potrebbero essere attribuite, in seguito, a uno o più sottosegretari. Oppure rimanere in capo al presidente del consiglio.
Allo stesso modo l’attribuzione di un nuovo nome a dei ministri senza portafoglio può avere un valore meramente comunicativo o implicare che gli saranno attribuite altre competenze di palazzo Chigi.
Nulla toglie però che questi cambiamenti nella squadra dei ministri senza portafoglio, non possano preludere anche a un cambio nella ripartizione di competenze tra presidenza del consiglio e ministeri. Cambiamenti che in questo caso richiederebbero lunghe procedure, del tutto simili a quelle già descritte.
La denominazione dei ministri e le loro competenze
La denominazione dei ministri e le loro competenze
A ministri con e senza portafoglio sono attribuite denominazioni che dovrebbero indicare le loro competenze. Tuttavia queste diciture ufficiali hanno un carattere comunicativo più che sostanziale.
Definizioni
Nell’ordinamento italiano i ministri sono titolari di due importanti ma distinte funzioni. Da un lato infatti sono responsabili collegialmente degli atti adottati dal consiglio dei ministri, di cui fanno parte assieme al presidente del consiglio.
Dall’altro sono responsabili individualmente degli atti emanati dai ministeri a cui sono preposti.
I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri.
Non a tutti i ministri però è attribuito un dicastero. Come previsto dall’articolo 9 della legge 400/1988 ad alcuni ministri possono essere delegate funzioni proprie del presidente del consiglio.
Nel caso in cui a un ministro sia attribuito un dicastero, questi ne diventa il vertice politico. Di conseguenza assume da un lato il potere d’indirizzo e dall’altro la responsabilità politica delle decisioni.
Per questa ragione le sue competenze specifiche derivano dalle funzioni che la legge attribuisce a quello stesso ministero. Il decreto legislativo 300/1999 infatti definisce il numero complessivo dei ministeri (attualmente 15 – articolo 1 comma 4 bis), la loro denominazione ufficiale (articolo 1 comma 1) e le loro attribuzioni principali (titolo IV), anche se in alcuni casi queste possono essere indicate in leggi differenti.
Funzioni e responsabilità dei ministri senza portafoglio sono ricavabili invece dalla legge 400/1988 (art. 9) che esplicita come, dopo la nomina da parte del capo dello stato, sia il presidente del consiglio a delegargli le funzioni.
A questo punto il presidente del consiglio emana prima un decreto con cui attribuisce gli incarichi ai ministri senza portafoglio e poi una serie di altri decreti attraverso i quali vengono definite le funzioni di ciascuno di questi.
Con il primo atto dunque viene sostanzialmente attribuito il titolo al ministro, come ad esempio “ministro per i rapporti con il parlamento” o “ministro per le politiche del mare e per il sud”. Con i secondi invece il capo del governo indica finalità, funzioni e compiti attribuiti al ministro, stabilendo che, per esercitarli, questi possa avvalersi di uno o più dipartimenti della presidenza del consiglio.
Sia nel caso dei ministri con portafoglio che senza, i nomi doverebbero idealmente indicare a cittadini e organi dello stato le loro funzioni. Tuttavia si tratta in questo caso di una dimensione a tutti gli effetti comunicativa più che sostanziale. Per cui il cambio di nome di un ministro o un ministero non implica necessariamente un cambio di funzioni e viceversa.
Dati
Come accennato, a partire dal 1999, il numero e la denominazione dei ministeri è stabilito da un’apposita legge. Questo tuttavia non toglie che, all’occorrenza, non possa essere emanato un nuovo provvedimento legislativo con il quale vengano modificate le denominazioni e/o le funzioni attribuite a ciascun ministero, decidendo magari di crearne di nuovi o accorparne di esistenti.
Inizialmente il numero di dicasteri era pari a 12. Nei primi anni dopo l’approvazione della norma sono però aumentati fino ad arrivare a 18 nel 2006. Due anni dopo il loro numero è poi tornato al valore originale per poi risalire a 13 nel 2009. Da quel momento tuttavia questo valore è rimasto stabile per oltre 10 anni, tornando poi a crescere nel 2020 (14) e nel 2021 (15).
Ma se il numero di ministri con portafoglio è stabilito per legge, dovendo necessariamente corrispondere a quello dei ministeri, lo stesso non vale per i ministri senza portafoglio (Dlgs 300/1999 art. 4 bis), il cui numero e denominazione può variare senza particolari complicazioni all’insediamento di ogni nuovo esecutivo.
Analisi
Quello che è dunque da tenere presente è la grande differenza che esiste in un cambio di denominazione a seconda che questo abbia un valore meramente comunicativo, piuttosto che non preluda a un cambio di competenze se non addirittura la fusione o lo scorporamento di diversi dicasteri.
Il primo è ad esempio il caso del ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, fino a marzo 2021 noto come ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Non avendo modificato le competenze del dicastero, il cambio di nome ha rappresentato una mera operazione di comunicazione, o tutt’al più un auspicio di cambiamento nel suo indirizzo strategico.
Se invece il cambio di nome prelude a una riorganizzazione delle competenze tra diversi dicasteri, piuttosto che a un loro spacchettamento o una loro fusione, i passaggi necessari diventano ben più complessi e articolati. Affinché i cambiamenti entrino in funzione infatti sono di solito necessari diversi decreti attuativi. Talvolta alcuni di questi devono andare a modificare i regolamenti organizzativi dei dicasteri sopprimendo o istituendo nuovi dipartimenti o direzioni generali. Perché questi organismi entrino in funzione occorre poi che siano nominati i nuovi vertici e che entrino in vigore i decreti di ripartizione delle risorse. Nel caso della suddivisione del ministero dell’università e della ricerca voluto dal secondo governo Conte, ad esempio, sono stati necessari quasi 2 anni affinché il nuovo ministero dell’università entrasse pienamente in funzione.
Leggi.
Per questo sarebbe opportuno che tali decisioni venissero prese sulla base di pressanti esigenze di carattere amministrativo, e non solo per valutazioni di comunicazione politica.
Quanto ai ministri senza portafoglio vediamo per esempio il caso in cui un ministro presente in un esecutivo non venga nominato in quello successivo. In una situazione di questo tipo, almeno parte delle sue competenze potrebbero essere attribuite, in seguito, a uno o più sottosegretari. Oppure rimanere in capo al presidente del consiglio.
Allo stesso modo l’attribuzione di un nuovo nome a dei ministri senza portafoglio può avere un valore meramente comunicativo o implicare che gli saranno attribuite altre competenze di palazzo Chigi.
Nulla toglie però che questi cambiamenti nella squadra dei ministri senza portafoglio, non possano preludere anche a un cambio nella ripartizione di competenze tra presidenza del consiglio e ministeri. Cambiamenti che in questo caso richiederebbero lunghe procedure, del tutto simili a quelle già descritte.
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Procurade e moderare
PROCURADE ‘ E MODERARE
Procurade de moderare
Procurade de moderare
Procurad’e moderare
Barones, sa tirannia
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pés in terra
Decrarada est giaj sa gherra
Contra de sa prepotentzia
Incomintzat sa passentzia
In su pobulu a mancare
Mirade ch’est pesende
Contra de bois su fogu
Mirade chi no est giogu
Chi sa cosa andat ‘e veras
Mirade chi sas aeras
Minetan su temporale
Zente cunsizzada male
Iscurtade sa ‘oghe mia
No apprettedas s’isprone
A su poveru ronzinu,
Si no in mesu caminu
S’arrempellat appuradu;
Mizzi ch’es tantu cansadu
E non ‘nde podet piusu;
Finalmente a fundu in susu
S’imbastu ‘nd ‘hat a bettare.
Su pobulu chi in profundu
Letargu fit sepultadu
Finalmente despertadu
S’abbizzat ch ‘est in cadena,
Ch’istat suffrende sa pena
De s’indolenzia antiga:
Feudu, legge inimiga
A bona filosofia!
…
Custa, populos, est s’ora
D’estirpare sos abusos
A terra sos malos usos
A terra su dispotismu
Gherra, gherra a s’egoismu
E gherra a sos oppressores
Custos tirannos minores
Est pretzisu umiliare
Traduzione: Fate in modo di moderare
Baroni (proprietari terrieri),
cercate di moderare la vostra tirannia,
Altrimenti, a costo della mia vita,
tornerete nella polvere (per terra),
La guerra contro la prepotenza
è stata già dichiarata
e nel popolo la pazienza
inizia a mancare
State attenti perché contro di voi
si sta levando il fuoco,
Attenti perché non è un gioco,
se questo inizia per davvero
Guardate che le nubi
preannunciano il temporale
Gente consigliata male
ascoltate la mia voce
Non continuate ad usare lo sprone
sul povero ronzino,
o in mezzo al cammino
si ribellerà imbizzarrito;
è così stanco e malandato
da non poterne più,
e finalmente dovrà rovesciare
il basto e il cavaliere.
Il popolo sardo
che era caduto in un profondo letargo
Finalmente anche se disperato
si accorge di essere schiavo
Sente che sta soffrendo
solo a causa dell’antica indolenza
Feudo, legge nemica
di ogni buona filosofia!
…
Questa, o popolo sardo,
è l’ora di eliminare gli abusi
Abbasso le abitudini nefaste,
contro ogni dispotismo
Guerra, guerra all’egoismo
e guerra agli oppressori
È importante che questi piccoli tiranni
vengano vinti.
il manifesto
Riforma Pensioni 2022-2023
Riforma Pensioni 2022-2023
L’obiettivo è arrivare ad una Riforma Pensioni condivisa, dopo le proroghe inserite nella Legge di Bilancio 2022 per quanto concerne APe Social ed Opzione Donna. Garantire la flessibilità di uscita dal mondo del lavoro, mantenendo attiva l’opzione agevolata riservata alle donne e alle categorie svantaggiate con una uscita graduale da Quota 100 grazie a Quota 102: è l’obiettivo chiave per la Riforma Pensioni, avviata con la Legge di Bilancio 2022 ma da completarsi nel corso dell’anno.
In cima alla lista delle priorità ci sono anche i giovani: l’esigenza è di assicurare un inserimento nel mondo del lavoro stabile, così da evitare carriere discontinue e stipendi bassi, con effetti sulle future pensioni. Da ripensare anche temi legati al reddito dei pensionati (14esima, rivalutazione assegni ecc.) e alla pensione complementare.
Ipotesi di Riforma Pensioni dal 2023
Tante le ipotesi in vista per la riforma del sistema previdenziale dal 1º gennaio 2023. Sul tavolo ci sono le proposte dei sindacati e quelle di governo.
Pensione con la Quota 41
Avanzata dai sindacati, prevede la pensione anticipata con 41 anni di contributi, senza calcolo dell’assegno (che resta con sistema misto o retributivo). Per la Pensione Precoci, attualmente ci vogliono 42 anni e dieci mesi per gli uomini e 41 anni e dieci mesi per le donne.
I Sindacati vorrebbero una Quota 41 per tutti senza limiti di età e di categoria, mentre il Governo potrebbe “cedere” soltanto per un eventuale compromesso, aprendosi ad esempio alle categorie di lavoratori addetti alle mansioni gravose.
Pensione a 64 anni con ricalcolo contributivo
Si tratta della proposta principale tra quelle avanzate dal Governo, simile all’Opzione Donna: prevede la pensione anticipata rinunciando alla quota maturata con sistema retributivo, con un intero ricalcolo contributivo della pensione. Ci sono anche sotto proposte:
- pensione a 64 anni di età con assegno previdenziale maturato pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale;
- pensione a 64 anni di età e 36 anni di contributi, senza limiti sul valore dell’assegno.
Il compromesso potrebbe essere: pensione a 64 con penalizzazione dell’assegno ma deroghe per soggetti e categorie più deboli..
Pensione con anticipo quota contributiva
Si tratta di un meccanismo proposto dall’INPS per accedere prima alla sola quota contributiva della pensione, ad esempio a 63 anni di età con almeno 20 anni di contributi ed un importo minimo di 1,2 volte l’assegno sociale. Al raggiungimento dell’età per la pensione di vecchiaia si prenderebbe anche la quota retributiva della pensione maturata.
Riforma Pensioni 2023: DEF e Legge di Bilancio
In base alle intenzioni di Governo per la riforma pensioni 2023, il ministro dell’Economia, Daniele Franco, presentando gli obiettivi previdenziali inseriti nel DEF (Documento di Economia e Finanza), ha spiegato:
nel pieno rispetto dell’equilibrio dei conti pubblici, della sostenibilità del debito e dell’impianto contributivo del sistema, occorrerà trovare soluzioni che consentano forme di flessibilità in uscita ed un rafforzamento della previdenza complementare.
Su PMI.it tutte le novità, le regole e le proposte di riforma pensioni 2023: guide ed esempi di calcolo, quali i requisiti minimi per l’accesso alle agevolazioni previdenziali, le controversie sulla legge sulle pensioni, le ultime notizie sulle pensioni, rivalutazione e potere d’acquisto.
La disoccupazione in Ue dopo l’emergenza sanitaria Europa
La disoccupazione in Ue dopo l’emergenza sanitaria Europa
La pandemia ha colpito duramente il mercato del lavoro causando, oltre una perdita salariale e di ore lavorative, un aumento della disoccupazione. Dopo l’emergenza sanitaria la situazione è migliorata, ma le regioni meridionali dell’Ue affrontano ancora situazioni difficili.
Il tasso di disoccupazione è uno strumento molto importante per descrivere il mercato del lavoro e per misurare lo stato di salute di un’economia nel suo complesso.
In Italia come nel resto dell’Unione europea, la pandemia ha colpito duramente i lavoratori causando, oltre a un forte calo delle ore lavorative e a una significativa perdita di massa salariale, anche un aumento della disoccupazione.
Quanto è aumentata la disoccupazione nelle regioni d’Europa.
Ma qual è la situazione nel 2022, quando lo stato di emergenza è finito e molti ambiti della vita quotidiana sono tornati alla situazione precedente lo scoppio della pandemia?
Il tasso di disoccupazione nelle regioni Ue
Con tasso di disoccupazione si intende la quota di persone all’interno della forza lavoro che sono alla ricerca di un impiego. Ovvero tutti coloro che non lavorano al momento della rilevazione ma che non si trovano in una situazione di inattività, essendo alla ricerca di un impiego.
Ovvero poco meno di 13 milioni di persone, sui circa 446,8 milioni che risultano risiedere nell’Unione nel 2022. Parliamo di una variazione del 21% rispetto allo stesso mese del 2020, quando il numero di disoccupati superava ampiamente i 16 milioni.
I paesi che registrano i valori inferiori sono tutti appartenenti all’area meridionale/mediterranea dell’Europa. Il tasso più elevato è registrato dalla Spagna (14,8%), seguita dalla Grecia (14,7%) e dall’Italia (9,5%). Al quarto posto per quota di disoccupati, prima della Francia, si posiziona la Svezia con l’8,8%. Il record positivo lo detiene invece la Repubblica ceca, con appena il 2,8%.
Tuttavia le differenze sussistono non solo a livello nazionale, ma anche regionale.
Nel 2021, sono in particolare le regioni meridionali della Spagna, della Grecia e dell’Italia a registrare le cifre più alte. Prima tra tutte l’enclave di Ceuta, che raggiunge il 26,6%. Seguono le Canarie, l’Andalusia e la regione del Sud, tutte in Spagna.
Mentre la Bassa Baviera, in Germania, è l’unica con un tasso di disoccupazione inferiore al 2%. Seguono altre aree dell’Europa centrale e orientale, in particolare le regioni delle capitali Varsavia (2,1%) e Praga (2,3%).
Per quanto riguarda l’Italia, è la Campania a registrare il tasso più elevato (19,3%), seguita da Sicilia (18,7%) e Calabria (18%). Al contrario al nord si riscontrano le cifre più contenute, in particolare in Trentino-Alto Adige (4,8%, con una differenza di quasi 15 punti percentuali rispetto alla Campania).
Il calo della disoccupazione in Italia e in Ue
Il tasso di disoccupazione mensile in Italia e in Ue, tra 2019 e 2022
Con tasso di disoccupazione si intende la quota di persone nella forza lavoro (di età compresa tra i 15 e i 74 anni) che non lavorano ma sono alla ricerca di un impiego. I dati sono destagionalizzati, ovvero sono eliminate le fluttuazioni connesse a fattori meteorologici, consuetudinari o legislativi all’interno della serie storica. Questo con lo scopo di individuare la tendenza di fondo. Non sono invece corretti per gli effetti di calendario, ovvero non è stato cambiato il numero di giorni lavorati in particolari periodi dell’anno come nel caso delle vacanze pasquali o dell’anno bisestile.
FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat
(pubblicati: giovedì 20 Ottobre 2022)
In Italia il tasso di disoccupazione è stato costantemente al di sopra della media Ue, ma il calo è stato più marcato e conseguentemente lo scarto è andato gradualmente diminuendo. Se a gennaio e febbraio del 2019 la differenza era superiore ai 3 punti percentuali, ad agosto 2022 è pari a 1,8.
Lo stesso si può osservare rispetto agli altri grandi paesi Ue: in Germania, il calo in questo stesso lasso di tempo è stato di 0,1 punti percentuali (passando dal 3,1% al 3%), mentre in Francia è stato di 1,5 punti (da 8,8% a 7,3%) e in Spagna di 1,9 (da 14,3% a 12,4%).
Ma in assoluto il paese che ha visto il calo maggiore da prima a dopo la pandemia è stata la Grecia, dove a gennaio del 2019 il tasso di disoccupazione si attestava al 19,4% (con una differenza di 7 punti percentuali).
Foto: Sora Shimazaki – licenza
Pensione 61 anni o senza limiti di età, due vie 2023 per la pensione anticipata
Pensione 61 anni o senza limiti di età, due vie 2023 per la pensione anticipata
Andare in pensione nel 2023 potrebbe essere qualcosa di mai visto prima. Infatti potrebbe essere una possibilità migliore perfino della quota 100 del triennio 2019-2021. Pensione 61 anni o senza limiti di età, sono queste due delle ipotizzate misure che potrebbero fare capolino per il 2023. Tutto dipenderà da cosa il Governo Meloni vorrà fare. Infatti se davvero vorrà mettere le mani sul sistema previdenziale, correggendolo ed evitando il ritorno alla Legge Fornero, allora si che tutto potrebbe cambiare. Vediamo come potrebbero andare in pensione i lavoratori con due nuove misure che non necessariamente sono alternative tra loro e che potrebbero fare entrambe l’apparizione nel sistema.
Pensione 61 anni o senza limiti di età, le due strade sono percorribili?
Effettivamente si tratterebbe di due misure che produrrebbero gioco forza un aumento della spesa pubblica italiana. Ma è anche vero che sarebbero misure flessibili che lascerebbero ai lavoratori la scelta di utilizzarle o meno e soprattutto, di scegliere quando utilizzarle. Partiamo dalla quota 41 per tutti. Si tratterebbe di aprire al pensionamento a quanti hanno raggiunto i 41 anni di contributi versati. Una alternativa ai 42 anni e 10 mesi tipici della pensione anticipata canonica (per le donne 41 anni e 10 mesi). Un vantaggio di 22 mesi per gli uomini e di 10 mesi per le donne. Una variante meno onerosa per la casse dello Stato sarebbe impostare a 61 anni l’età minima per lasciare il lavoro una volta raggiunti i 41 anni di contributi. In pratica si chiederebbe ai lavoratori di completare quanto meno la quota 102, con soglie fisse 61 anni di età e 41 anni di contributi versati.
Le pensioni a 61 anni con quota 100 o quota 102
Quota 102 sarebbe anche la possibilità che verrebbe fuori dalle pensioni flessibili dai 61 anni. Infatti un’altra via è quella di dare ai lavoratori la possibilità di accedere alla pensione una volta aggiunta la quota. L’età minima sarebbe sempre a 61 anni, mentre la contribuzione a 36 anni. Significa che potrebbero lasciare il lavoro a 61 anni quelli con 41 anni di contributi. E così, a 62 anni basterebbero 40 anni di contribuzione, a 63 anni 39, a 64 ne servirebbero 38, a 65 “solo” 37 come a 66, 36. Scenderebbe a 35 anni la soglia minima se da quota 102 si passa a quota 100. Uscirebbero a 61 anni quanti hanno 39 anni di contributi, a 62 anni chi ne ha 38, a 63 anni quelli con 37 e così via fino alla combinazione finale di 65 anni di età e 35 di contributi.