Archivi giornalieri: 6 novembre 2022

Le regioni italiane e l’energia rinnovabile Innovazione

Le regioni italiane e l’energia rinnovabile Innovazione

La riduzione delle emissioni passa per la transizione ecologica. In un quadro europeo, anche le regioni possono dare il loro contributo.

 

La transizione verso fonti di energia rinnovabili è cruciale per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Dal punto di vista dei consumi, l’Unione europea ha definito dei traguardi che sono stati raggiunti con l’impegno dei singoli stati membri. A livello italiano, il conseguimento degli obiettivi è definito anche dai contributi delle singole regioni.

Il consumo di energia rinnovabile nell’Unione europea

L’Unione europea ha come obiettivo quello di diventare il primo continente a emissioni zero entro il 2050. Per muoversi in questa direzione, ci sono stati diversi provvedimenti dal punto di vista legislativo. In particolare, la direttiva 2009/28 del parlamento europeo e del consiglio sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili definisce i traguardi comunitari per quel che riguarda il consumo di energia da fonti diverse da quelle fossili. È una misura che riguarda tutti gli ambiti del consumo di energia.

All’interno del segmento energetico, ci sono tre componenti principali: elettricità, trasporti e riscaldamento. Ciascuno può essere supportato tramite un mix energetico di risorse rinnovabili ed estrattive. Vai a “Come funzionano la produzione e il consumo di energia”

Nella direttiva, sono definiti due obiettivi da raggiungere a livello comunitario entro il 2020. Nello specifico, il consumo di energia da fonti rinnovabili deve essere superiore al 20% mentre per il settore dei trasporti questo limite minimo è fissato al 10%. Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti nell’Unione europea nel suo complesso. Come riporta Eurostat, il consumo di energia rinnovabile è infatti passato dal 9,6% del 2004 al 22,1% del 2020, con 2 punti percentuali in più rispetto al traguardo prestabilito. Per quel che riguarda i trasporti, si riporta invece un aumento dall’1,6% del 2004 al 10,2% del 2020, con un incremento di oltre 8 punti percentuali.

Gli obiettivi italiani e il ruolo delle regioni

Sul piano nazionale, la direttiva europea è stata recepita con il decreto legislativo 28/2011. Come per gli altri stati membri, anche per l’Italia sono stati definiti due traguardi da raggiungere entro il 2020. Uno è relativo ai consumi finali lordi, che devono essere supportati da fonti rinnovabili almeno per il 17%. Il secondo invece riguarda specificamente il settore dei trasporti, in cui il minimo è stabilito al 10%.

L’Italia è uno di quei paesi comunitari in cui il risultato raggiunto ha superato gli obiettivi prestabiliti. Sul piano nazionale, il secondo target, quello legato ai trasporti è stato raggiunto nel 2020, con un valore pari a 10,7%. Al contrario, l’obiettivo generale era già stato raggiunto nel 2014 con il 17,1% andando poi a crescere fino al 2020 con il 20,4%. Un dato su cui incide anche la diminuzione dei consumi dovuta alle limitazioni dei trasporti e alle attività commerciali causate dall’emergenza pandemica. Secondo Eurostat, questo può aver inciso principalmente sulla diminuzione dello sfruttamento dell’energia prodotta con combustibili fossili.

Anche le regioni contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi comunitari.

Per il raggiungimento del primo obiettivo nazionale è stato necessario il contributo di tutte le regioni. Per questo motivo il ministero dello sviluppo economico ha emanato un decreto nel 15 marzo 2012 chiamato “burden sharing“, che significa letteralmente “condivisione delle responsabilità”. Questo decreto definisce infatti i target minimi di consumo per ogni singola regione.

Esattamente come nel caso nazionale, l’obiettivo è calcolato facendo un rapporto tra l’energia consumata da fonti rinnovabili e i consumi totali. Per quel che riguarda le regioni non si tiene però conto del settore dei trasporti dal momento che è un settore principalmente di competenza statale.

Come riportato da Gse, coerentemente al resto d’Europa, nel 2020 i consumi sono diminuiti rispetto all’anno precedente in tutte le regioni. In quest’anno, la Valle d’Aosta si riconferma la regione che registra il consumo maggiore di energia da fonti rinnovabili (105%).

Seguono la provincia autonoma di Bolzano (67,9%), la Basilicata (52,1%) e la provincia autonoma di Trento (47,2%). In fondo alla classifica si trovano Emilia-Romagna (12%), Lazio (11,2%) e Liguria (7,9%). In termini di valore assoluto, la Lombardia è quella che riporta i consumi maggiori, sia per quel che riguarda il dato complessivo che per l’ambito delle energie rinnovabili. È però importante notare che questa è la regione con il maggior numero di abitanti in Italia.

Come è stato detto, per ogni regione erano previsti degli obiettivi specifici. In linea con il dato nazionale, quasi tutti i territori considerati registrano un valore superiore ai traguardi prestabiliti. La regione che riporta il consumo più ampio rispetto alle previsioni è la Valle d’Aosta (+53,3 punti percentuali).

GRAFICO
DA SAPERE

La quota è calcolata escludendo il consumo di energia per il settore dei trasporti. Si considerano soltanto il settore elettrico e quello termico. L’unità di misura utilizzata è il chilotep (ktep), un multiplo della tonnellata equivalente di petrolio (tep). Un tep rappresenta l’energia rilasciata dalla combustione di una tonnellata di petrolio grezzo.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Gse.
(pubblicati: lunedì 18 Luglio 2022)

 

Seguono la Provincia autonoma di Bolzano (+31,4), la Basilicata (+19) e la Calabria (+15,7). Gli incrementi minori si registrano in Emilia-Romagna (+3,1 punti percentuali), Campania (+3,1) e Toscana (+1,9). Sono tre le regioni in cui il valore riportato è minore di quello definito dal burden share. Si tratta di Lazio (-0,7 punti percentuali), Sicilia (-2,1) e Liguria (-6,2).

Foto: Andreas Gücklhorn – licenza

 

Che cosa sono le fusioni di comuni

Che cosa sono le fusioni di comuni

È un’operazione in cui due o più comuni formano un nuovo ente. Viene incentivata dallo stato per ridurre i costi per le amministrazioni locali.

Definizione

La fusione è l’associazione di due o più comuni con l’istituzione di un nuovo ente e la soppressione di quelli che lo vanno a comporre. Tra queste operazioni si considera anche l’incorporazione, ovvero un processo in cui si mantengono delle caratteristiche del comune più grande che ingloba quelli più piccoli. Non ci sono dei limiti al numero di abitanti per metterla in atto.

L’attuazione è volontaria attraverso un referendum, come è scritto nell’articolo 132 della costituzione italiana. Questo processo deve coinvolgere tutti i territori interessati. L’istituzione del nuovo ente è materia di competenza regionale, come riportato nell’articolo costituzionale 133. Le regioni provvedono inoltre con legge propria a istituire i procedimenti per la procedura di fusione.

Sono previsti dei contributi statali per i comuni che si fondono, con entrate straordinarie per i dieci anni successivi. Per i comuni fusi dopo il 2018, si tratta del 60% dei trasferimenti erariali al 2010, con un limite massimo di 2 milioni di euro. Questi provvedimenti si trovano all’interno del decreto legislativo 267/2000. Anche le regioni possono prevedere dei contributi attraverso le proprie leggi. Inoltre, al nuovo ente sono applicate anche delle misure di tutela e semplificazione che possono variare tra le regioni.

Dati

Il comune è un ente pubblico storicamente importante, essendo il fulcro dell’organizzazione politica italiana da secoli. Negli ultimi anni, è entrato nel dibattito pubblico il tema della sua razionalizzazione. Nonostante si sia registrato un calo in tempi recenti, nel 2021 le amministrazioni sono 7.904. Sempre nel 2021, in media, nei comuni abitano 7.495 residenti. I divari demografici all’interno dell’Italia sono piuttosto ampi, data la numerosità degli enti locali molto piccoli.

44,6% la percentuale di comuni italiani che non supera i 2.000 abitanti (Istat, 2021).

 

I comuni in Italia inferiori ai 2.000 abitanti sono 3.527. Di questi, 2.313 si trova dentro le aree interne, ovvero quelle zone del paese in cui la distanza dai servizi essenziali è maggiore. Questi compongono una quota pari al 65,6%. All’interno delle aree ultraperiferiche, il 32,5% non supera i 2.000 abitanti, in quelle periferiche questa percentuale è pari al 66,2% e in quelle intermedie invece ammonta al 55%.

Ci sono state negli anni numerose critiche che hanno sollevato il tema del ridisegno dei confini territoriali degli enti locali, vista anche l’attuazione di interventi simili in altri stati europei. Una delle soluzioni adottate in Italia è la fusione, che tra tutte rappresenta lo stadio più compiuto della razionalizzazione delle funzioni comunali.

141 le fusioni in essere dalla loro introduzione nell’ordinamento italiano (2020).

Analisi

La fusione può essere uno strumento utile per ridurre i costi di gestione a livello comunale e innescare delle economie di scala all’interno del comune. Ci sono infatti dei costi fissi per ogni comune la cui incidenza può diminuire incrementando la popolazione, come per esempio il servizio di anagrafe. Non sempre però questa può essere una soluzione applicabile. Soprattutto in aree più complesse come quelle montane, la geografia di un territorio può rendere complessa la fusione.

La fusione non è sempre una soluzione applicabile.

Come abbiamo visto infatti, molto spesso i comuni più piccoli si trovano all’interno delle cosiddette aree interne. La fusione di comuni di questo tipo può essere vantaggiosa per le comunità di questi territori ma allo stesso tempo molto ardua. È comunque una decisione che viene valutata dalle amministrazioni e dagli abitanti del posto dal momento che non si tratta di un’operazione di tipo forzoso.

 

I concetti di stato e nazione

I concetti di stato e nazione

I termini “stato” e “nazione” sono spesso usati in maniera intercambiabile, ma hanno significati differenti.

Definizione

Con stato si intende l’organizzazione politica di una comunità. Sia nella struttura che nelle modalità di funzionamento, esso è regolamentato da norme giuridiche (leggi) ed è dedito alla cura dei bisogni della popolazione. Ha numerose funzioni, che nel tempo si sono moltiplicate (Cotta, Della Porta, Morlino), dal monopolio dell’uso legittimo della forza alla gestione dei servizi di welfare.

Si tratta quindi di un’entità istituzionale, e nell’ordinamento italiano ha lo status di una persona giuridica pubblica con autonomia legale.

Per quanto riguarda invece la nazione, etimologicamente il termine deriva da “nascere”, e indica il paese non tanto come organizzazione politica, quanto più come appartenenza comune di un gruppo di persone a un insieme di radici storiche e culturali, a tradizioni, valori, lingua, religione, usi, costumi e patrimonio condivisi. In altre parole, indica la “identità” di uno stato. Politicamente, è un potenziale elemento di coesione interna, ma anche di differenziazione rispetto all’esterno.

Secondo il sociologo tedesco Theodor Geiger, a livello storico la nazione sarebbe emersa dal disfacimento dello stato assoluto, quando i confini “naturali” subentrarono a quelli “dinastici”. La nazione sarebbe quindi un’unità sociale che trascende i vincoli puramente giuridici dello stato.

Lo stato è una struttura, non una comunità di persone.

Lo stato invece non è fatto dalle persone, è anzi esterno a esse: consiste nella struttura sotto cui una comunità di persone si organizza. In un certo senso si pone in contrapposizione rispetto alla popolazione.

L’unione di questi due concetti, uno prettamente giuridico e l’altro identitario, ha dato vita ai cosiddetti stati-nazioneMa i confini di stato e nazione non sempre coincidono, perché una nazione può esistere anche laddove non ci sia uno stato. Come nel caso del Kurdistan, caratterizzato da una forte identità collettiva ma istituzionalmente inesistente.

Spesso ai concetti di stato e nazione si accompagna quello di sovranità. In particolare nei rapporti internazionali, questo concetto si declina in alcuni principi: la non ingerenza negli affari interni, l’indipendenza e la pari dignità. È a tali elementi che si richiamano attualmente i sovranisti quando rivendicano la supremazia delle nazioni (ma più esattamente degli stati-nazione) rispetto ad alcune forme di collaborazione internazionali come ad esempio l’Unione europea. Principi tuttavia difficili da attuare data la forte interdipendenza a livello economico (ma anche sociale e culturale) che caratterizza il mondo contemporaneo.

Analisi

Nel suo discorso per chiedere la fiducia al parlamento, la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha ripetutamente usato i termini stato e nazione, spesso in modo intercambiabile.

13 le volte in cui la presidente del consiglio Giorgia Meloni si riferisce all’Italia con il termine “nazione” nel suo discorso alla camera.

In alcuni passaggi, “nazione” è usato per identificare un aspetto prettamente istituzionale e politico. La presidente del consiglio si definisce ad esempio la prima donna a capo del governo di una nazione, non di uno stato, anche se il suo incarico è di natura istituzionale e politica e quindi afferente alla sfera dello stato. Afferma poi che durante il suo mandato – ancora, un elemento di natura politica – darà priorità assoluta all’interesse “della nazione”.

Quello che noi vogliamo fare è liberare le migliori energie di questa Nazione e garantire agli italiani, a tutti gli italiani, un futuro di maggiore libertà, giustizia, benessere e sicurezza.

Altrettante volte la presidente del consiglio usa il termine “stato” per parlare dell’Italia. In un’occasione la sovrapposizione tra i due termini appare particolarmente evidente, quando l’Italia è definita sia “stato fondatore dell’Ue” che “nazione fondatrice dell’Ue”.

Si tratta di una precisa scelta di comunicazione che prevede una commistione di termini che sono però diversi. Questa scelta è pienamente voluta e allude al concetto ideologico di primato nazionale. Nel corso della storia, spesso le forze al potere hanno sfruttato il rischio di una minaccia esterna agli interessi nazionali per tacitare le opposizioni e ricompattare la comunità. Tale strategia viene utilizzata ancora oggi con successo, a destra e a sinistra, in regimi sia autoritari che democratici.

Il concetto di nazione si basa su un’idea e non su fatti.

Tuttavia è importante evidenziare che il concetto di nazione è stato più volte criticato, perché il suo fondamento è un concetto vuoto, e non un fatto reale e concreto. Ernest Renan, filosofo francese dell’800 considerato il padre dell’idea di nazione, sosteneva che questa fosse un’anima, un principio spirituale, che presupponeva un passato (un’eredità comune) ma che si riassumeva nel presente (in un presunto consenso attuale). Storicamente però l’idea di un popolo caratterizzato etnicamente ma anche da un punto di vista linguistico e religioso è fittizia, non ha riscontri. L’Italia in maniera particolare è stata presa da numerosi storici ad esempio di come all’interno dei confini di uno stesso paese possa presentarsi una grande diversità.

Nonostante il termine derivi da “nascere”, “nazione” non è semplicemente una questione di rapporto tra l’individuo e il territorio. A determinare l’appartenenza alla nazione è la condivisione di un patrimonio fatto di simboli, di stemmi, di vittorie e di sconfitte. Come evidenzia lo storico tedesco Hagen Schulze, la guerra fu infatti un catalizzatore importante nella nascita dell’idea di nazione. Il concetto nasce storicamente da un elemento di ostilità, di demarcazione di ogni paese rispetto al vicino che si affaccia ai confini. Anche oggi quest’ultimo può entrare in un paese, per vie legali, acquisendo ad esempio la cittadinanza, ma solo rispettando una lunga serie di requisiti.

Di fatto quello di nazione è un concetto di natura essenzialistica e quindi escludente, chiuso verso l’esterno. Se uno straniero può ottenere la cittadinanza e quindi stabilirsi in un paese attraverso le istituzioni statali, non può per definizione essere parte di un patrimonio ideale passato. Ne è di fatto escluso. Se poi si fa un’equazione tra i concetti di stato e nazione, l’esclusione diventa ancora più netta.

 

I decreti sicurezza hanno prodotto effetti opposti a quelli promessi Migranti

I decreti sicurezza hanno prodotto effetti opposti a quelli promessi Migranti

Il governo Meloni ha promesso il ritorno ai decreti sicurezza. Ma nei due anni in cui sono stati pienamente operativi hanno prodotto più irregolarità, meno inclusione sociale e un sistema lontano dal modello dell’accoglienza diffusa.

 

Il neonato governo ha promesso il ritorno ai decreti sicurezza, con l’obiettivo di contrastare “l’immigrazione irregolare”.

Tuttavia, nei due anni in cui i decreti sono stati operativi (da ottobre 2018 a dicembre 2020), si è assistito a livelli maggiori di irregolarità nella posizione dei migranti in Italia, a una minore inclusione sociale e a cambiamenti nel sistema per richiedenti asilo e rifugiati che vanno nella direzione opposta al modello dell’accoglienza diffusa.

L’ennesima riforma del sistema?

Nel suo primo discorso in parlamento da presidente del consiglio, Giorgia Meloni ha parlato anche degli sbarchi sulle coste italiane, ponendo l’accento da un lato sui flussi di ingresso regolare da parte dei migranti e dall’altro sulla volontà di impedire le partenze dai paesi nordafricani.

In Italia, come in qualsiasi altro Stato serio, non si entra illegalmente, si entra solo attraverso i decreti flussi. […] È nostra intenzione recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione Europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva proprio il blocco delle partenze dei barconi dal nord Africa.

Sul fenomeno migratorio Meloni ha fatto riferimento esclusivamente agli arrivi, ma non al sistema di accoglienza, più volte riformato negli ultimi anni.

Nel programma di coalizione i “decreti sicurezza” compaiono al primo punto nel capitolo dedicato alla “sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale”. Vedremo se il governo intenderà realmente reintrodurre il sistema previsto dal decreto sicurezza. Intanto in campagna elettorale il vice presidente del consiglio Matteo Salvini ha più volte auspicato un ritorno alle disposizioni decise quando era ministro dell’interno, cancellate (in parte) dalla riforma Lamorgese del secondo governo Conte.

Ma quali sono stati gli effetti ottenuti dal decreto sicurezza nei due anni in cui è stato attivo? Ne abbiamo parlato in dettaglio nel rapporto Centri d’Italia, l’emergenza che non c’è, in occasione del lancio, avvenuto lo scorso febbraio, di Centri d’Italia, la prima piattaforma di monitoraggio indipendente sul sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, realizzata da ActionAid Italia e openpolis.

Il biennio del decreto sicurezza

Nell’analisi degli effetti del decreto sicurezza occorre fare una premessa imprescindibile: tra la fine del 2018 e la fine del 2020 le presenze nel sistema di accoglienza si sono quasi dimezzate, a causa della riduzione degli sbarchi, derivante a sua volta da politiche e disposizioni operate da governi precedenti, come il decreto Minniti e il memorandum Italia-Libia del 2017.

Oltre all’abolizione della protezione umanitaria, di cui abbiamo parlato in un precedente approfondimento, una delle novità più rilevanti del decreto sicurezza è stata la trasformazione del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) in Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproimi).

Nel nuovo Siproimi, sistema a titolarità pubblica più incline all’inclusione sociale e all’orientamento lavorativo, sono potuti entrare solo i titolari di asilo, e non come era accaduto per anni anche ai richiedenti asilo, ovvero a chi aveva inoltrato la richiesta ma ancora non aveva ottenuto la risposta.

Ai richiedenti asilo veniva negato l’accesso al Siproimi.

Per questi ultimi, quindi, è stato istituito un passaggio obbligatorio ai centri di accoglienza straordinaria (Cas), strutture per lo più assistenziali, che rappresentavano quasi il 70% del totale dei centri in Italia e che, con il decreto sicurezza, hanno perso anche a livello formale il loro carattere di straordinarietà.

Si è andati insomma verso una direzione opposta al modello dell’accoglienza diffusa in strutture piccole e ben distribuite sul territorio. Un modello in grado di facilitare l’inclusione degli ospiti nelle comunità e ridurre l’impatto dei centri nelle città.

È evidente dai dati: i centri di piccole dimensioni (fino a 20 posti) rappresentano la categoria più penalizzata nei due anni in cui è stato attivo il decreto sicurezza.

Inoltre, i centri di grandi dimensioni – quelli con più di 50 posti a disposizione, e che più spesso presentano criticità nella gestione e nell’integrazione con il tessuto del territorio che li ospita – sono diventati sempre più grandi. Infatti se nel 2018 queste strutture avevano in media 98 posti, due anni dopo la loro capienza media era salita a 110. Con casi rilevanti soprattutto nelle aree metropolitane, come a Milano, dove in media i centri di accoglienza hanno una capienza dieci volte maggiore alla media nazionale.

Anche il sistema della seconda accoglienza, il Siproimi – che oggi per via della riforma Lamorgese ha preso il nome di sistema di accoglienza e integrazione (Sai) – è stato penalizzato nei due anni considerati. Si è registrato infatti un calo del 12,7% dei posti disponibili, pari a oltre 4mila unità.

4.557 posti disponibili in meno, nel sistema Siproimi, dal 2018 al 2020.

L’occasione persa

Se tracciamo un bilancio degli effetti prodotti dal decreto sicurezza, quindi, possiamo affermare che si è trattato di un’occasione persa per riformare il già lacunoso sistema dell’accoglienza.

Si sarebbe infatti potuto approfittare del netto calo degli arrivi per chiudere i grandi centri e strutturare tutto il sistema secondo il modello dei piccoli centri. Più efficace per l’inclusione, meno impattante sul tessuto sociale pre-esistente e meno appetibile per le organizzazioni che vogliono massimizzare i profitti economici con la gestione dei centri.

Nelle prossime settimane analizzeremo gli effetti del primo anno di riforma Lamorgese.

Riusciremo a comprendere nelle prossime settimane se la riforma Lamorgese, entrata in vigore alla fine del 2020, andrà invece in questa direzione. In questi mesi, infatti, abbiamo chiesto al ministero dell’interno i dati relativi alle strutture attive nel 2021, ottenendoli non senza difficoltà.

Nei prossimi mesi insieme ad ActionAid racconteremo, attraverso le mappe interattive di Centri d’Italia e il rapporto annuale sullo stato dell’accoglienza, i frutti della nostra analisi.

Nel frattempo siamo costretti a constatare che il parlamento ancora non rende pubblica la relazione sul sistema per gli anni 2020 e 2021, a dispetto di quanto prevede la legge.

FotoGeralt – licenza

 

Cosa ci dicono i voti di fiducia al governo Meloni Il confronto in parlamento

Cosa ci dicono i voti di fiducia al governo Meloni Il confronto in parlamento

L’esecutivo ha ottenuto la fiducia delle camere. Ma la maggioranza solida emersa da queste votazioni potrebbe rivelare nel tempo alcune falle.

 

Come noto, la scorsa settimana il governo Meloni ha incassato la fiducia dal parlamento. I voti favorevoli sono stati numerosi sia alla camera che al senato, come non accadeva dal 2008.

Un risultato che, come abbiamo raccontato, è stato possibile grazie alla vittoria netta della coalizione di centrodestra alle elezioni. Esito elettorale che peraltro ha reso possibile la nascita dell’esecutivo in tempi estremamente brevi. Soprattutto in confronto a quanto avvenuto nella precedente legislatura, quando passarono circa 3 mesi dall’esito delle elezioni all’effettivo ingresso in carica del primo governo Conte.

57,8% i voti favorevoli al governo Meloni sul totale degli appartenenti a camera e senato.

In tutto il parlamento i voti favorevoli sono stati 350, i contrari 233 e gli astenuti 10. In 11 erano assenti o in missione. L’esito ci dice dunque che il governo Meloni a oggi ha i numeri per andare avanti potenzialmente per tutta la legislatura. Tuttavia, analizzando più nel dettaglio l’esito delle votazioni possiamo notare degli elementi interessanti.

In primo luogo, la maggioranza di centrodestra da sola non ha i numeri per riformare la costituzione in senso presidenziale senza che sia dato luogo a un referendum confermativo. Se lo vorrà fare, come annunciato in campagna elettorale, dovrà coinvolgere anche le opposizioni. Inoltre, va sottolineato che i numeri dell’alleanza di governo al senato non sono poi così solidi come potrebbe sembrare. E con la nomina dei sottosegretari rischiano anche di diminuire.

Come si sono espressi i gruppi

Alla camera la maggioranza si regge su numeri rassicuranti. Considerando solamente i voti favorevoli di Fratelli d’ItaliaLega e Forza Italia, il governo ha infatti incassato ben 225 voti. Un numero molto superiore alla maggioranza assoluta che si attesta a 201 e che dovrebbe mettere il governo al riparo da incidenti di percorso.

Un governo incaricato deve avere la fiducia del parlamento per operare. Se non la ottiene deve dimettersi. Vai a “Che cosa sono i voti di fiducia”

Ai voti dei 3 partiti principali della coalizione inoltre se ne sono aggiunti altri 10 provenienti dal gruppo misto. Si tratta in particolare degli appartenenti alla componente Noi moderati – Maie, la cui formazione come gruppo autonomo (così come nel caso dell’alleanza Verdi-Sinistra) è stata autorizzata solo successivamente alla votazione e in deroga al regolamento attualmente in vigore alla camera che richiede l’adesione di almeno 20 deputati per la formazione di un gruppo autonomo. A questi poi si aggiunge il voto di Michela Vittoria Brambilla. Attualmente iscritta al misto ma storica esponente di Forza Italia.

Il margine rispetto alla maggioranza assoluta è quindi di 34 voti. Un distacco ampio ma non abbastanza da raggiungere i 2/3 della camera (267), necessari per modificare la costituzione senza passare dal referendum.

Anche il senato ha conferito la propria fiducia al governo. Rispetto a Montecitorio però, qui i numeri della maggioranza sono più bassi, per quanto comunque non risicati. Anche in questo caso nessuna sorpresa. Tutti i senatori del centrodestra (fatta eccezione per il presidente dell’aula La Russa) hanno espresso il proprio sostegno al governo.

Poiché nel conteggio vanno tenuti presenti anche i 6 senatori a vita, il margine del centro-destra rispetto alla maggioranza assoluta (103) è solo di 12 voti.

Dato questo contesto, la coalizione dovrà fare attenzione a nominare i sottosegretari. Si tratta infatti di ruoli estremamente importanti per il funzionamento del governo, ma che comportano una scarsa partecipazione ai lavori e alle votazioni delle camere.

I sottosegretari coadiuvano i ministri nell’esercizio delle loro funzioni ed esercitano i compiti a essi delegati. Vai a “Che cosa fanno i viceministri e i sottosegretari di stato”

Durante il governo Draghi, viceministri e sottosegretari erano 40. Salvo pochissime eccezioni, questi incarichi sono stati ricoperti da esponenti che occupavano anche un seggio in parlamento. C’è da dire che quando il governo ne ha avuto bisogno, i suoi componenti che facevano anche parte del parlamento non hanno mai fatto mancare il loro appoggio. Evenienza che si è verificata spesso, ad esempio, durante il governo Conte II. Tuttavia il centrodestra dovrà distribuire in maniera oculata queste posizioni tra deputati e senatori, per non rischiare di incappare in incidenti di percorso.

Il centrodestra non ha i numeri per modificare la costituzione da solo.

Com’è evidente inoltre, anche in questo caso rimane lontana la maggioranza dei 2/3. Un traguardo impossibile da raggiungere, sia alla camera che al senato, anche con l’aggiunta dei voti del cosiddetto terzo polo che, per bocca di alcuni dei suoi leader, aveva aperto alla possibilità di appoggiare alcune riforme istituzionali.

Come hanno votato i singoli deputati

Finora ci siamo soffermati sull’esito finale dei voti di fiducia. Vediamo adesso più nel dettaglio come si sono espressi i singoli componenti delle camere. Innanzitutto possiamo osservare che durante le votazioni si sono registrate alcune defezioni, sia nelle file della maggioranza che in quelle delle opposizioni. Alla camera, per quanto riguarda il centrodestra, i voti mancanti sono da attribuire al presidente dell’aula (che di norma non prende parte alle votazioni) Lorenzo Fontana e a due deputati di Forza Italia che erano “in missione”. Si tratta del neo ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin e di Ugo Cappellacci.

Anche i gruppi dell’opposizione si sono espressi in maniera compatta, votando contro il governo senza particolari sorprese. Le assenze in quest’ala di Montecitorio sono state 3: Vincenzo Amendola e Roberto Morassut del Partito democratico e Dario Carotenuto del Movimento 5 stelle.

Da approfondire poi il comportamento del gruppo misto che per definizione contiene al suo interno posizioni eterogenee. In particolare sono 5 i deputati del misto che non hanno votato la fiducia al governo, astenendosi. Si tratta della componente delle minoranze linguistiche, composta da Renate Gebhard, Franco Manes, Manfred Schullian e Dieter Steger. A loro si è aggiunto anche Francesco Gallo che, al pari di Brambilla, non è iscritto a nessuna componente.

Passando al senato, abbiamo già introdotto il tema dei senatori a vita che contribuiscono ad aumentare la soglia della maggioranza assoluta. Nell’analisi sulla tenuta della coalizione di governo c’è da dire però che questi esponenti non partecipano in maniera assidua ai lavori delle aule. Generalmente la ragione è da attribuire all’età avanzata, a problemi di salute o altri impegni. Una dinamica che si è confermata anche in questo caso. Renzo Piano infatti era assente al momento del voto. Mentre Liliana SegreCarlo Rubbia e Giorgio Napolitano risultavano in missione.

Elena Cattaneo – che già in passato aveva manifestato posizioni più vicine all’ala progressista del parlamento – si è astenuta. Interessante da questo punto di vista anche la posizione di Mario Monti che, pur avendo espresso apprezzamenti per molte delle linee programmatiche del governo, si è astenuto.

Inoltre, anche a palazzo Madama si sono astenuti i rappresentanti delle minoranze linguistiche, in questo caso riuniti nel gruppo Per le autonomie. Si tratta di Meinhard Durnwalder, Dafne Musolino e Juliane Unterberger. Atri due appartenenti al gruppo, Luigi Spagnolli e Pietro Patton, hanno invece votato contro il governo.

Tra coloro che non hanno partecipato al voto, infine, Celestino Magni (misto, in missione) e Tatiana Rojc (Pd).

Dichiarazioni dei leader

Un altro elemento da tenere in considerazione riguarda l’effettiva capacità della coalizione di rimanere compatta. Come del resto ha sottolineato il capogruppo della Lega al senato Massimiliano Romeo nel suo intervento. È evidente infatti che per quanto il centrodestra si sia presentato alle elezioni unito e con un programma unico, le differenze di posizione su più temi ci sono. Almeno stando alle dichiarazioni rilasciate dai leader.

Diversità che peraltro erano già emerse durante la campagna elettorale. Per esempio riguardo il piano nazionale di ripresa e resilienza, come abbiamo raccontato in un articolo precedente. Nonostante tutte le forze del centrodestra fossero d’accordo sulla necessità di rivedere il Pnrr, le posizioni su come farlo erano un po’ diverse.

Senza dimenticare che anche nella composizione del consiglio dei ministri le cronache hanno riportato delle tensioni tra gli alleati, con Lega e Forza Italia che sono state costrette a rinunciare ad alcune cariche che avevano rivendicato.

A ciò si aggiunga che la stessa presidente Meloni, nei suoi interventi in aula, ha manifestato posizioni più caute rispetto a quanto dichiarato in campagna elettorale, soprattutto in ambito economico. Un esempio è il discorso alla camera per la fiducia, durante il quale ha sottolineato che le priorità oggi sono le misure a supporto dei cittadini su carburante e bollette.

Un impegno finanziario imponente che […] ci costringerà a rinviare altri provvedimenti che avremmo voluto avviare già nella prossima legge di bilancio.

Anche in questi ultimi giorni sono emerse posizioni diverse da parte degli alleati. Per esempio riguardo l’aumento al limite del contante, con FdI e Lega che sembrano spingere a favore di questa misura e Forza Italia che invece frena.

Altro elemento di fondamentale importanza sarà inoltre quello del posizionamento internazionale. Se da un lato, almeno in via ufficiale, tutte le forze politiche hanno condannato l’invasione dell’Ucraina, dall’altro le ricette proposte su come muoversi nello scacchiere internazionale appaiono diverse.

Da questo punto di vista proprio la presidente del consiglio è apparsa la più ferma nel sostegno incondizionato al popolo ucraino e nella volontà di svolgere un ruolo da protagonista nei tavoli negoziali europei e internazionali. Su questo aspetto invece le posizioni di Lega e Forza Italia sembrano più orientate a cercare un compromesso per il cessate il fuoco e arginare così i danni economici che la guerra sta arrecando anche al nostro paese.

Un ultimo spunto ce lo fornisce infine l’intervento in senato di Silvio Berlusconi, il primo dopo 9 anni. Il presidente di Forza Italia è tornato a parlare di uno dei suoi cavalli di battaglia, quello della riforma della giustizia. Il leader azzurro però nel suo discorso non ha fatto alcun cenno alla riforma che stava portando avanti la ministra della giustizia uscente Marta Cartabia. Una riforma prevista dal Pnrr e che peraltro si trova in una fase avanzata di definizione. Alla fine di settembre infatti il consiglio dei ministri uscente aveva approvato i decreti legislativi che avrebbero dovuto dare attuazione alla riforma. Metterci mano a questo punto significherebbe con ogni probabilità fallire uno dei traguardi che il nostro paese è tenuto a raggiungere per il Pnrr entro la fine dell’anno.

Foto: Governo – Licenza

 

San Leonardo di Limoges

 

San Leonardo di Limoges


Nome: San Leonardo di Limoges
Titolo: Eremita
Nascita: 496 circa, Gallie
Morte: 6 novembre 559, Limoges, Francia
Ricorrenza: 6 novembre
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Nacque nelle Gallie sul finire del secolo V da illustre famiglia, parente del celebre Clodoveo re dei Franchi, che lo tenne a battesimo e lo volle alla sua corte perchè ricevesse una educazione degna del suo rango. Ed il fanciullo crebbe bello, intelligente, gentile e valoroso, degno in tutto dei suoi antenati.

Clodoveo sperava di farne un illustre generale del suo esercito, ma i disegni di Dio su questo fiore dei Franchi erano diversi. Difatti appena raggiunse la pubertà, il giovanetto, segnato dal dito di Dio, si ritirò dalla corte per frequentare la scuola del celebre S. Remigio. Alla scuola ed agli esempi del Santo, il giovane si innamorò talmente di Dio e della vita apostolica, che volle dedicarsi interamente a Dio, e consacrarsi alla propagazione del Vangelo tra i popoli barbari. E predicò coll’esempio e colla parola: visitò poveri, soccorse infermi, liberò carcerati.

Tanta virtù gli attirò ben presto l’ammirazione di tutti, tanto che lo stesso figlio di Clodoveo lo propose per la dignità episcopale. Leonardo, saputo questo, dopo aver rifiutato, credendosene indegno, si ritirò nel territorio di Orléans dandosi qui alla evangelizzazione di quei pagani. Poco dopo entrò nel monastero di Micy e dopo il noviziato vi fece la professione religiosa. Di qui fu inviato quale apostolo nell’Aquitania: con lui entrò in quella regione la sapienza e la carità di Cristo. Gli idoli furono abbattuti, la vera religione stabilita. Memorabile è il prodigio che egli operò in favore della sposa del re Teodeberto: stava per morire durante il parto, quando per le preghiere del nostro Santo immantinente lei e la sua creatura furono liberati dalla morte. Per questo S. Leonardo è stato sempre invocato come protettore delle gestanti.

Intanto il re Teodoberto, riconoscente, volle dare al nostro Santo ingenti ricchezze, ma Leonardo rifiutò e dopo aver esortato il re ad usare quanto avrebbe dato a lui in favore dei poveri, accettò soltanto una selva nella foresta di Pauvain, nel Limosino, per fabbricarvi un monastero. Quella zona, dal nobile dono del re, si chiamerà nobiliacum, da cui Noblat o Noblac, il nome del villaggio fondato da San Leonardo. Da qui in poi fu soprannominato da Limonges (Limosino). Radunati molti suoi seguaci ed ammiratori, li educò alla vera vita religiosa e per mantenerli nel fervore istituì per primo l’adorazione perpetua a Gesù in Sacramento.

Dopo aver compiuto altri miracoli ed aver edificato i suoi religiosi ed il popolo colle sue straordinarie virtù, rendeva la sua bell’anima a Dio il 6 novembre del 559.

PRATICA. Facciamo oggi qualcosa in favore dei poveri.

PREGHIERA. O Signore, ti preghiamo di ascoltare le preghiere del tuo servo Leonardo, affinchè colui che noi veneriamo con debito ossequio ci sollevi con la sua intercessione.

MARTIROLOGIO ROMANO. Nella cittadina vicino a Limoges in Francia in seguito insignita del suo nome, san Leonardo, eremita.

ICONOGRAFIA

San Leonardo è spesso rappresentato con delle catene e dei ceppi, per la sua particolare protezione dei carcerati ingiustamente; talvolta è in abito diaconale, episcopale, più spesso è in abiti benedettini, sovente nella versione da cistercense, ossia con tunica bianca, simbolo della purezza d’animo, stretta in vita da un cordone o da una cintura di cuoio, segno di penitenza, e da uno scapolare nero, simbolo della vita contemplativa.

San Leonardo

titolo San Leonardo
autore Ignoto anno ignoto
San Leonard

titolo San Leonard
autore Ignoto anno Ignoto

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