Benvenuti nel Paese dove ti pagano per studiare

DRUDE EMILIE EHN, 27 ANNI, RESEARCH ASSISTANT AL DIPARTIMENTO DI DESIGN DEI SERVIZI DELL’UNIVERSITÀ DI AALBORG

CENTO GIORNI IN EUROPA, COPENAGHEN, DANIMARCA

Benvenuti nel Paese
dove ti pagano per studiare

Testo di Orsola Riva | Foto e video di Raffaele Petralla

Università gratis e stipendio garantito dallo Stato
Ecco come il welfare danese è riuscito
a portare alla laurea metà dei suoi giovani

danimarca

«Lo Stato danese spende
ogni anno 3,3 miliardi di euro,
circa l’1% del Pil, tra sussidi
e prestiti calmierati
agli studenti universitari»

David Elmegaard JensenFUNZIONARIO MINISTERIALE

BICI DAVANTI ALLA STAZIONE DI NØRREPORT

Ogni mese
uno studente danese
si mette in tasca
circa 825 euro,
se vive da solo.
Se invece vive
con i genitori
prende molto meno

BIBLIOTECA DELLA CBS, LA COPENHAGEN BUSINESS SCHOOL

Visto da fuori può sembrare
un sistema assistenziale
ma è tutto l’opposto:
un incentivo a uscire
di casa presto e a imparare
a cavarsela da soli

UNO STUDENTE IN UNA DELLE SALE DELLA BIBILOTECA A NORREBRO

DI ORSOLA RIVA

Birra burro e bacon sono le tre B della catena alimentare danese. Ventitré anni, il viso liscio come un panetto di burro, Gustav Ring Albrectsen è iscritto al primo anno del master in produzione di birra dell’Università di Copenaghen. «Sono uscito di casa a 18 anni — racconta —, subito dopo il liceo. Ai miei non volevo chiedere nulla. Lavoravo part-time in un supermercato che vendeva attrezzature per fare la birra in casa e naturalmente ogni mese ricevevo il sussidio che lo Stato dà a tutti gli studenti danesi, l’SU».

Eccola, la parola magica che sta dietro al successo di un Paese che laurea la metà dei suoi giovani (da noi sono appena un quarto). SU sta per Statens Uddannelsesstøtte, che si pronuncia più o meno così: steitoens uddennelsoestoedoe. In pratica, qui in Danimarca, non solo l’università è gratis ma i ragazzi sono addirittura pagati per studiare. Tutti, indipendentemente dal reddito. «Con i soldi pubblici più quelli che guadagno io — continua Gustav — riesco a fare quasi tutto, ma devo fare i miei conti. Mi muovo in bici, come tutti. I vestiti non mi interessano e non faccio mai regali a Natale o per il compleanno. Esco spesso la sera ma non vado in centro, mi accontento della birra al friday bar, che costa poco».Si chiama Statens Uddannelsesstøtte ed è la parola magica del welfare danese: uno stipendio di Stato per tutti gli studenti universitari, indipendentemente dal reddito

Le feste del venerdì sera nei bar dei vari campus sono un’istituzione fra gli studenti — e una delle principali cause di rottura delle giovani coppie. Quelle all’A-vej bar, qui a Frederiksberg, sono leggendarie: vi si servono fiumi di birra, tanto che la Carlsberg ha deciso di premiare questo suo punto vendita con dei bicchieri speciali. «In totale, fra sussidi e prestiti calmierati, lo Stato spende quasi 25 miliardi di corone l’anno, equivalenti a 3,3 miliardi di euro: circa l’1 per cento del Pil», spiega David Elmegaard Jensen, funzionario dell’Agenzia che eroga i soldi per conto del ministero.

Ogni mese uno studente danese si mette in tasca poco più di 6.000 corone (6.166), equivalenti a 825 euro. Su cui però deve pagare le tasse. Se vivi in una piccola città universitaria può anche bastarti, ma a Copenaghen gli alloggi sono carissimi e così molti si cercano un lavoro. Sicché gli studenti da un lato percepiscono il sussidio, dall’altro contribuiscono a finanziare il welfare con le imposte pagate sui loro redditi. «Lo scopo fondamentale di questo schema di aiuti è la mobilità sociale. Nessuno studente capace dev’essere costretto a rinunciare agli studi perché non ne ha i mezzi», spiega Elmegaard. Il rettore dell’Università di Copenaghen Henrik Wegener, epidemiologo di fama mondiale, è la prova provata che il sistema funziona: «In casa eravamo in cinque: quattro fratelli e mia madre, single. Ci siamo tutti laureati. Senza l’aiuto dello Stato non ce l’avremmo mai fatta. Io devo tutto al welfare».

Qui in Danimarca, se sei un ragazzo sveglio e volonteroso, hai molte più possibilità di fare il salto di classe che da noi. Come Mikkel Nielsen, 22 anni, spalle larghe. In tutti i sensi. Ha iniziato a lavorare a 13 anni, consegnando riviste porta a porta, poi ha fatto l’istruttore di nuoto per sette anni e dopo il liceo ha lavorato un anno intero per mettere da parte i soldi per fare l’università. Adesso è uno dei rappresentanti degli studenti della Copenhagen Business School. Stessa storia per Mike Gudbergsen, 24 anni, primo anno del master in Scienze Politiche all’Università di Copenaghen: si divide fra studio, lavoro e impegno politico. I suoi gestiscono un maneggio a 30 chilometri dalla capitale. «Senza l’SU — dice — non avrei potuto fare l’università. La mia famiglia non aveva abbastanza soldi. Mio fratello e io siamo i primi ad esserci laureati». Anche Mike ha lavorato per un anno intero fra il liceo e l’università.Grazie all’aiuto dello Stato, a 18-19 anni i ragazzi danesi sono già fuori casa. È come se ricchi e poveri ripartissero (quasi) dallo stesso nastro di partenza

Ed ecco l’altro segreto del welfare danese. Visto da fuori può sembrare un sistema assistenziale, ma in realtà è tutto l’opposto: un incentivo a uscire di casa presto e imparare a cavarsela da sé, tant’è che per quei pochi che non se ne vanno subito l’assegno di Stato è molto più striminzito: fra i 125 e i 350 euro a seconda del reddito familiare. Lo spiega bene Gøsta Esping-Andersen, docente alla Bocconi e autore di un testo di riferimento sul welfare (The three worlds of welfare capitalism): «Il welfare danese ha come scopo di sgravare la famiglia dagli obblighi della protezione sociale, si tratti di bambini, vecchi o giovani. Da noi i ragazzi vogliono diventare indipendenti molto presto e, grazie all’aiuto dello Stato, possono farlo anche se provengono da una famiglia a basso reddito». A 18-19 anni sono già fuori di casa ed è come se, ricchi e poveri, ripartissero (quasi) dallo stesso nastro di partenza.

Drude Emilie Ehn, 27 anni, è ricercatrice presso il dipartimento di Design dei servizi dell’Università di Aalborg, campus di Copenaghen. Lunghi capelli biondi, frangia sbarazzina, racconta: «Dopo il diploma ho lavorato un anno per mettere insieme i soldi per un lungo viaggio in Asia. Tornata a casa, mi sono iscritta al corso di laurea in Servizi sociali e ho iniziato a lavorare per mantenermi. Asili di giorno, bar di sera. E intanto studiavo. E facevo volontariato. Nel 2015 è esplosa la crisi dei migranti e mentre il governo liberal-conservatore, con l’appoggio esterno dell’estrema destra xenofoba e il voto favorevole anche dei socialdemocratici, votava leggi come quella sul sequestro preventivo di beni e gioielli ai richiedenti asilo, io mi davo da fare per dare una mano».

«Con i soldi pubblici,
più quelli che guadagno io,
riesco a fare quasi tutto.
Ma devo fare i miei conti.
Mi muovo in bici,
non faccio mai regali a Natale
e la sera mi accontento
di una birra con gli amici»

Gustav Ring AlbrectsenSTUDENTE

GUSTAV, 23 ANNI, STA FREQUENTANDO UN MASTER IN PRODUZIONE DI BIRRA ALL’UNIVERSITÀ DI COPENAGHEN

«Io sono turca e, in quanto
cittadina non comunitaria,
devo pagare per l’università.
Ma qui è facile trovare
un impiego
con cui mantenersi.
Lavoro part-time in un bar
e mi diverto pure.
In Turchia sarebbe impossibile»

Sinem GürbüzSTUDENTESSA

SINEM, 19 ANNI, STUDIA ALLA CBS, COPENHAGEN BUSINESS SCHOOL

«Il welfare danese
non è un sistema assistenziale
ma un modello economico
che funziona. I giovani
sono spinti a uscire
prima di casa,
sono più autonomi,
capaci di trovarsi un lavoro
e iniziare presto a pagare le tasse»

Julian Lo CurloSTUDENTE

JULIAN, 24 ANNI, ITALO-ARGENTINO, È MEMBRO DEL DIRETTIVO DELL’UNIONE NAZIONALE DEGLI STUDENTI DANESI

«In casa eravamo in cinque:
quattro fratelli
e mia madre, single.
Ci siamo tutti laureati.
Senza l’aiuto dello Stato
non ce l’avrei mai fatta,
io devo tutto al welfare»

Henrik WegenerRETTORE UNIVERSITA’ DI COPENAGHEN

L’INTERNO DI UNO DEGLI EDIFICI DELLA CBS

«In Danimarca
pochi hanno troppo
e ancora meno
hanno troppo poco»

Nicolaj GrundtvigPEDAGOGISTA DELL’800

STUDENTI DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE DELL’UNIVERSITÀ DI COPENAGHEN

Seduto alla scrivania della sua luminosissima casa in pieno centro, Jens Christian Grøndahl, uno degli scrittori più letti fuori dai confini danesi, amatissimo in Francia, incomprensibilmente ancora poco noto in Italia (l’ultimo suo romanzo pubblicato da Feltrinelli si intitola Spesso sono felice), prova a spiegare il segreto di una società dove tutti pagano le tasse — e che tasse: l’ultimo scaglione sfiora il 56% (in Italia è il 43%) — e apparentemente sono felici di farlo.«I danesi appartengono in maggioranza a un’estesissima classe media. Come diceva Nicolaj Grundtvig — il pedagogista che a metà dell’800 ha istituito il sistema delle cosiddette folk high school, le scuole popolari dove ancora oggi i ragazzi danesi, finito il liceo, vanno a imparare a stare con gli altri — in Danimarca pochi hanno troppo e ancora meno hanno troppo poco».

Il welfare danese funziona perché si applica a una società piccola e molto omogenea, dove l’indice Gini delle diseguaglianze è minimo e l’invidia sociale quasi assente. «Qui tutti danno tanto, ma ricevono anche tanto (anche i più benestanti che altrimenti sarebbero disincentivati dal pagare tasse così alte, come sottolinea l’economista Carl-Johan Lars Dalgaard, ndr). E soprattutto si fidano del prossimo e delle istituzioni. Il problema, semmai, è che la nostra è una società molto aperta verso l’interno, ma chiusa verso l’esterno», dice Grøndahl che, insieme a Claudio Magris, Milan Kundera e un’altra dozzina di intellettuali europei, ha firmato l’appello di Bernard-Henri Lévy per salvare l’Europa dai populismi.«La maggioranza della popolazione appartiene
alla classe media. Qui tutti danno tanto, ma ricevono anche tanto. E soprattutto si fidano del prossimo e delle istituzioni»
Jens Christian GrøndahlSCRITTORE

Di recente, anche gli studenti universitari stranieri sono finiti nel mirino del governo di centro-destra. A partire dal 2013, infatti, in seguito a una sentenza della Corte di Giustizia europea, un giovane comunitario che venga a fare l’università in Danimarca ha diritto a percepire lo stesso generoso assegno di Stato dei suoi colleghi danesi, purché lavori almeno 10-12 ore alla settimana. È il caso di Silvia Prandini, originaria di Sabbioneta, in provincia di Mantova e, a soli 20 anni, già cittadina del mondo. «Mentre facevo il liceo linguistico, ho scelto di andare un anno all’estero, a Las Vegas. Quando sono tornata a casa, i miei compagni mi sembravano rimasti indietro. E così mi sono messa a cercare su Internet dove potevo andare. Sono sbarcata a Copenaghen a settembre e a dicembre avevo già trovato un lavoro da Starbucks, all’aeroporto, dove sapere il danese non serve. Adesso sono al secondo anno di Information management alla CBS. I soldi se ne vanno quasi tutti per l’affitto ma riesco comunque a non chiedere niente ai miei».

Silvia è una degli oltre 20 mila studenti europei che ogni anno percepiscono il sussidio. Spesa totale: poco meno di un miliardo di corone (130 milioni di euro) se si considerano anche i residenti da almeno 5 anni (ai quali non è richiesto di lavorare), la metà se si calcolano solo gli studenti-lavoratori arrivati più di recente. Il problema è che dopo la laurea solo un terzo di questi giovani talenti resta in Danimarca; gli altri fanno le valigie e vanno altrove. In un mercato globalizzato, la mobilità studentesca è un fatto normale. Ma qui s’intreccia con le polemiche sul cosiddetto welfare tourism: il sospetto — «soprattutto nei confronti dei cittadini dei Paesi dell’Est», fa notare Drude — che vogliano solo approfittare del welfare danese.

Ecco perché ad agosto il governo di centro-destra, con l’attivo contributo del Partito danese del popolo (questa volta i socialdemocratici hanno votato contro), ha approvato un provvedimento che ha imposto alle università di tagliare 1.000-1.200 posti destinati agli studenti stranieri. Non potendo discriminare apertamente gli europei, alle università è stato chiesto vuoi di tagliare alcuni corsi in inglese, vuoi di rinazionalizzarli tornando a insegnare in danese. Spiega Henrik Dahl, sociologo e parlamentare dell’Alleanza liberale, partito di governo: «Una delle ragioni per cui il nostro sistema è così generoso con gli studenti, anche rispetto agli altri nostri vicini scandinavi, è perché noi ci vediamo come un Paese senza risorse naturali. Per questo investiamo tanto sul capitale umano. Ma non possiamo pagare gli studi anche al resto dell’Europa. E soprattutto non possiamo chiedere ai nostri concittadini di farlo».I danesi pagano tasse altissime, tra le più alte del mondo (56% per l’ultimo scaglione), ma sono felici di farlo

Studenti, professori, sindacati e industriali, però, non la pensano così. «La Danimarca è un Paese piccolo che ha bisogno di attrarre manodopera altamente qualificata. Mai visto una legge che abbia messo tutti così d’accordo, nel senso che siamo tutti contrari», dice Julian Lo Curlo, 24 anni, argentino con passaporto italiano e membro del direttivo dell’Unione nazionale degli studenti. La Società danese degli ingegneri ha già lanciato l’allarme: entro il 2025 potrebbero mancare 15 mila ingegneri e scienziati naturali. Jesper Langergaard, direttore del consorzio Universities Denmark, rincara la dose: «Invece di fissarci su quanto ci costano gli studenti stranieri, dovremmo concentrarci su come fare per cercare di trattenerne di più. Quel trenta per cento di studenti che resta a lavorare qui rappresenta, già adesso, un affare per noi. Per portare alla laurea un danese dobbiamo mantenerlo fin dalla culla. Al confronto i due anni di master di uno studente europeo — che è cresciuto e ha studiato a spese di un altro Paese — costano come un caffè solubile. Ma spiegarlo agli elettori danesi è difficile». E quest’anno, a giugno, si vota.

Benvenuti nel Paese dove ti pagano per studiareultima modifica: 2021-11-12T20:06:19+01:00da vitegabry
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