Archivi giornalieri: 29 novembre 2014

LA PRIMA SARDISTA: MARIANNA BUSSALAI TRA POESIA, IRONIA E FEMMINISMO

 

LA PRIMA SARDISTA: MARIANNA BUSSALAI TRA POESIA, IRONIA E FEMMINISMO

    

di: Virginia Saba
CHI SIAMO
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LA PRIMA SARDISTA: MARIANNA BUSSALAI TRA POESIA, IRONIA E FEMMINISMO

Orani, 1904. Nel piccolo paese, ai piedi del Monte Gonare nel cuore della Barbagia, una bambina fiera e dal cuore tiepido avrebbe presto innalzato i destini delle donne sarde. Fiera, perché divenne guida dell’uomo in tempi nei quali la figura femminile era relegata al fuso. Il suo battito lento, invece, fu l’esito di una malattia che la tenne chiusa nella sua piccola casa fino ai 43 anni (quando il suo cuore smise di battere), circondata dai profumi antichi e dalle pareti strette, così strette da far trasbordare il pathos dei suoi pensieri.Da quella casa nacque una coraggiosa e ambiziosa battaglia, quella per un’Isola autonoma.

Marianna Bussalai Casa

Marianna Bussalai, orfana di madre, intrappolata da una deformazione della colonna vertebrale, che ha vincolato la sua vita a un letto, è diventata un’attivista storica: la prima donna sardista, la prima delPartito Sardo d’Azione, la prima a partecipare da protagonista al congresso provinciale del suo partito.
Ha portato l’emancipazione, ha difeso la libertà, ha tessuto parole poetiche facendosi cullare dai suoni della lingua sarda. E ancora, ha letto Marx e detestato la ricchezza materiale, ha rinunciato alla mondanità ed esaltato lo spirito, ha offerto con coraggio un rifugio a Emilio Lussu (“ho bisogno di seguirlo devotamente”, scriveva), nella sua botola blu. La sua casa è diventata un mondo di parole e riflessioni, un covo nato per contrastare il fascismo e riportare la repubblica.
Ha contribuito al percorso di un popolo, soprattutto quello femminile. Dalla ricerca dell’identità all’alfabetizzazione, alla libertà della donna. E forse, proprio la sua condizione di donna ha fatto sì che, nonostante sia stata un punto di riferimento per la Sardegna, sia a stento accennata sui libri di storia.

Una testimonianza preziosa è quella che ha regalato Marta Brundu, compaesana dell’intellettuale di Orani, che ha voluto dedicarle una tesi (www.mariannabussalai.org). Testimonianze, foto e documenti che riportano in luce uno dei personaggi più interessanti della storia sarda.


«Ringrazio Marianna per avermi trasmesso l’orgoglio di essere donna e di essere sarda – racconta Brundu – , la passione per la cultura, la forza di affrontare le avversità, il coraggio di sopportare la malattia; ammiro la suacaparbietà nel vincere l’isolamento, la capacità di non piegarsi alla cultura dominante, la lucidità nel giudicare gli eventi mentre accadono».
Sua nonna era vicina di casa, intima amica e confidente di Marianna e di sua sorella Ignazia. «Ricordo quando fin da piccolissima mi recavo a casa di Ignazia per farmi raccontare, come fosse un cantastorie, la vita di Marianna a episodi». Ciò che ne è derivato è tesoro. Poesie e traduzioni sublimi, amicizie che sostituivano la bellezza esterna che mancava alla sua vita.

Francesco CasulaRaccontare Marianna Bussalai è stata anche la missione di Francesco Casula, professore di storia e filosofia esperto di lingua sarda e storia dell’Isola. Il suo libro Marianna Bussalai (Alfa Editrice), pubblicato lo scorso luglio, è scritto in lingua sarda anche per lei, “signorina Mariannedda”, che della nostra lingua amava la musica, la riteneva patrimonio prezioso, identità da proteggere.

«Perché ho voluto dedicarle un libro? Perché è una donna – racconta Casula – e le donne in Sardegna hanno sempre esercitato un ruolo essenziale non solo a livello familiare e sociale ma anche a livello economico e culturale. Ma di loro i libri non parlano mai. Ad iniziare dai libri di storia».
Una donna de gabale, spiega. «Valente, di valore. Una ragazzina che con la quarta elementare, malaticcia, in un paese chiuso com’era Orani agli inizi del Novecento, da autodidatta si fa una cultura, non solo letteraria ma anche filosofica e politica (legge fra gli altri Marx), diventa scrittrice e poetessa e insieme leader politica. I suoi amici – con cui ha una fitta corrispondenza epistolare – sono Montanaru e i grandi dirigenti sardisti: da Luigi Oggianu a Pietro Mastinu, dai fratelli Melis (compreso il futuro presidente della Regione sarda, Mario Melis) a Emilio Lussu e Dino Giacobbe. E Sebastiano Satta, il principe del foro nuorese, il cantore della sardità, che andava spesso a trovarla ad Orani».

Quale il bene più prezioso che ha lasciato al popolo sardo Marianna Bussalai?
La testimonianza di una vita esemplare. Marianna Bussalai, “Signorina Mariannedda de sos Battor Moros”, così veniva chiamata dagli oranesi, è infatti una straordinaria figura di femminista, di sardista e di antifascista. Una poetessa, traduttrice e intellettuale di valore, morta nel 1947, a soli 43 anni.  Frequenta solo fino alla quarta elementare, poi abbandona a causa di una malattia che non le permette di potersi recare a Nuoro per proseguire gli studi. Autodidatta – legge gli autori sardi (Sebastiano Satta, Montanaru, – con cui ha un fitto carteggio epistolare – e Giovanni Maria Angioy, di cui vanta una remota ascendenza), gli italiani (Dante, Manzoni, Monti, Pindemonte) ma anche i russi. Di Montanaru traduce le poesie in italiano. Di Dante avrebbe voluto tradurre la Divina Commedia in Limba per poter dare al popolo sardo – scriveva – la possibilità di leggere e comprendere l’opera.

Marianna Bussalai copertina libro Francesco Casula

Poesie in Italiano e in Sardo: soprattuttomutettos e terzine. 
Famose sono rimaste quelle che mettono alla berlina i fascisti, ad iniziare dai ras locali. Il sardismo e l’antifascismo, cui dedicò tutta la sua vita, – ovvero l’amore smisurato per l’Autonomia e per la libertà – li vedeva incarnati meravigliosamente in Lussu, verso cui nutriva ammirazione e persino devozione. Marianna Bussalai infatti durante tutto il ventennio fascista diventa a Orani – ma non solo – punto di riferimento dell’antifascismo, la sua casa è il circolo antifascista, composto di ragazzi e ragazze, di uomini e donne.
È altresì punto di riferimento dei Sardisti: ai Congressi del PSd’Az viene sempre delegata per portare le istanze dei minatori di Orani, dei pastori e del mondo delle campagne.

Come si distingueva il suo pensiero politico, il suo essere sardista? Come si distinguerebbe in particolare oggi?
II mio sardismo – scriverà in una lettera all’avvocato Luigi Oggiano – nato da prima che il Partito sardo sorgesse, cioè da quando, sui banchi delle scuole elementari, mi chiedevo umiliata perché nella storia d’Italia non si parlasse mai della Sardegna. Giunsi alla conclusione che la Sardegna non era Italia e doveva avere una storia a parte”.
Quello della Bussalai è dunque un Sardismo ante litteram, nasce inizialmente come sentimento o, più precisamente, come ri-sentimento contro uno Stato patrigno. Di qui la sua militanza nel Partito sardo d’azione e la sua “devozione” nei confronti di Lussu, che periodicamente le scriveva dall’esilio a Parigi.
“Ho bisogno di seguirlo devotamente in qualunque modificazione, in qualunque innovamento dal più ampio e moderno respiro – scriverà in una lettera all’amica Mariangela Maccioni –  ma ad una condizione: purché sia nel Partito nostro, nel Partito sardo, come «sardisti» non in un Partito italiano «nazionale», dove saremmo forse ancora «autonomisti» ma non saremmo più «sardisti». Perché militare in un Partito «sardo» significava che v’era (oltre alla necessità di riforme autonomiste dell’intero stato italiano) anche una «questione sarda», di fronte alla Penisola; una passione Sarda, una coscienza Sarda da formare, sia pure per un lontano futuro.
E a chi obiettava che rinchiudersi nella Sardegna e in un Partito come il PSd’Az sarebbe provinciale e limitativo, in una lettera all’amica Graziella Sechi Giacobbe scrive: “Mi spieghi perché ci voglia un cuore più capace per militare nel Partito italiano d’azione e un cuore più limitato per militare nel Partito sardo d’Azione. Indubbiamente l’Italia ha una superficie maggiore della Sardegna; ma la vastità e la grettezza dello spirito non si misurano a metri o a chilometri quadrati”.

E allora cosa possono dare in più e di diverso le donne in politica?
Riferendomi alla esperienza specifica di Marianna Bussalai, posso dire che per lei la “politica” era la politica bella, fatta di  teoria e prassi, partecipazione diretta e coinvolgimento, soprattutto dei giovani, impegno e passione. Disinteresse assoluto. Fede quasi.
Ai Congressi del suo Partito andava per rappresentare i bisogni e i problemi della gente oranese, ma soprattutto dei lavoratori e non per cercare qualche posto in lista per le elezioni.
Non politica politicante, come diremmo oggi, dunque. Che Bussalai rimproverava persino al viceparroco, che utilizzava la religione per fini politici, “temporali”, si diceva allora, impelagato com’era nel regime fascista.Rivolta femminista

In cosa consisteva il suo femminismo?
Siamo agli inizi del Novecento, in un paese del Nuorese dove le differenze di genere più che mai segnavano il divario fra i ruoli nella società. A ciò occorre aggiungere i disagi legati alla sua menomazione fisica. Ebbene, Marianna Bussalai, pur in questo contesto e in queste condizioni, legge, studia, scrive, organizza l’opposizione antifascista, è politicamente attiva, coinvolge, da vera leader, i giovani nella sua attività, partecipa ai Congressi del suo Partito i cui massimi dirigenti, quando vanno a trovarla, diventano insolitamente taciturni. “Quando vado a Orani – dirà Titino Melis – vado per ascoltare Marianna”. Tanta era la sua autorevolezza di donna prima ancora che di leader politica.

Come era vista dagli uomini del suo tempo?
Aveva due grandi amiche e compagne di lotta: Mariangela Maccioni e Graziella Sechi-Giacobbe, che considera “dolci ed eroiche amiche”. La prima è maestra elementare e moglie di Raffaello Marchi (verrà sospesa dall’insegnamento perché ostile al Fascismo), la seconda ugualmente antifascista è moglie di Dino Giacobbe, il mitico combattente e comandante nella Guerra civile in Spagna contro Franco. Formano la cosiddetta triade sardista e antifascista.

E aveva soprattutto molti amici
Lussu, Giacobbe, i fratelli Melis, Oggiano, Mastino, Sebastiano Satta, Montanaru. Ma aveva amici, in modo particolare fra i giovani: per cui era un punto di riferimento intellettuale e culturale oltre che politico.
Così la ricorda con affetto e ammirazione Gonario Usala, uno dei suoi “allievi” più cari e fedeli: “Era enciclopedica nella sua formazione culturale nonostante si fosse formata da perfetta autodidatta. Su tutto dava risposte appropriate. Nel suo cuore aveva tuttavia la Sardegna e proprio ai libri sardi, ne possedeva tantissimi, riservava un’attenzione particolare”.

Cosa potrebbe insegnare questa figura di donna alle donne sarde d’oggi?
Nonostante la sua fragilità fisica e la sua malattia, era una donna libera e ribelle, coraggiosa e anticonformista, attiva e impegnata, colta e poetica. E innamorata della sua gente e della sua terra. Ecco il suo insegnamento.

Quaderno Marianna Bussalai

Quali sono i suoi versi più belli?
Molti  critici ritengono che la sua poesia più bella sia stata la traduzione in italiano di una poesia di Montanaru (A Giagia mia: A Mia nonna). A tal punto da considerarla superiore all’originale in lingua sarda. Da parte mia ritengo che gli scritti più validi e, ancora oggi più che mai attuali, siano i suoi Mutos eMutetus, in lingua sarda. Soprattutto quelli ironici e satirici con cui ridicolizzava i gerarchi e gli scherani del fascismo e Mussolini stesso (nel cui nome allungava il mussi-mussi, l’appellativo con cui si chiamano in Sardo i gatti e la cui espressione deriva dal latino mus (topo) e dunque a fronte di mussi-mussi il (gatto si avvicina).

Eccone alcuni:
“Farinacci est bragosu/ca l’ana saludau/sos fascistas de Orane/tene’ pius valentia/de su ras de Cremona/su Farinacci nostru.
Ite bella Nugòro / tottu mudada a frores / in colore ‘e fiama. / Ite bella Nugòro / solu a tie est s’amore / ca ses sa sola mama / Sardigna de su coro/ Saludan’ sos sardistas / chin sa manu in su coro / de sas iras fascistas / si nde ride’ Nugòro.

La sua produzione letteraria è fatta di grande pathos e ideali. Sempre attuale o nostalgicamente anacronistica nel mondo di oggi?
Attuale, perché noi oggi avremmo urgente bisogno di nuovi e rinnovati Mutos e Mutetos contro i nuovi Cesari. I potenti hanno paura della satira, perché niente è più irriverente ed eversivo del sorriso che può frantumare i bastioni della paura, rendendo ridicolo il potente. Il sorriso è infatti capace di scomporre gerarchie sociali e indebolire il sistema che viene sezionato e raccontato con le parole acuminate dell’ironia. Ecco perché il potere non tollera la satira e, quando può, cerca di cancellarla.

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Nov 28 alle 10:31 PM
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Ricordando Sebastiano Satta nel Centenario della sua morte

Ricordando Sebastiano Satta nel Centenario della sua morte

di FRANCESCO CASULA

Posted on 29 novembre 2014zicu1

SEBASTIANO SATTA* di Francesco Casula

Il “vate” nuorese, cantore della sardità mitica e drammatica (1867-1914)

Nasce a Nuoro il 21 maggio 1867. II padre, nuorese, Antonio Satta, è un  avvocato assai no­to; la madre, Raimonda Gungui è di Mamoiada, villaggio vicino a Nuoro, in piena Barbagia. Il Satta, rimasto orfano di padre all’età di cinque anni, ben presto conosce il disagio e le umiliazioni della povertà.

Compie gli studi elementari e ginnasiali a Nuoro, quelli liceali e universitari a Sassari, do­ve consegue la laurea in giurisprudenza nel 1894 ed esercita la professione di giornalista. Nella Sassari di allora, che gli ricordava la Bologna carducciana che aveva conosciuto durante il servizio militare, con fermenti repubblicani e progressisti, aderisce agli ideali socialisti.

Nel 1893 pubblica due raccolte di poesie Nella terra dei Nuraghes eVersi ribelli, di modesto valore artistico ma utili per capire l’itinerario spirituale del poeta. Fortemente influenzato da Carducci, tra le incertezze tecniche e i convenzionalismi formali si inizia però a intravedere il Satta più autentico. Nella prima silloge, di otto liriche, due sono in lingua sarda; nella seconda ugualmente di otto liriche, è presente un Satta protestatorio nei confronti del servizio militare, ma più perché è stato allontanato dalla sua Sardegna che per motivi ideologici.

Torna intanto a Nuoro dove è consigliere comunale nel triennio 1900-1903 e dal 1896 al 1908 esercita la professione di avvocato. In tale professione – come riferisce lo storico Raimondo Bonu, probabilmente con eccessiva enfasi- “ebbe fama di valente penalista e di oratore brillante, facondo, irruente, temuto per le sue arringhe, perché sapeva cogliere dalle circostanze più disparate la nota umana, adatta a trasformare il delinquente affidato alla sua difesa in un eroe, in un rivendicatore di diritti, in un maestro di giustizia sociale”.

Nel 1896, in occasione del centenario della rivoluzione angioyana scrive l’ode Primo Maggio, dedicata al protagonista di quella rivoluzione antifeudale, Giovanni Maria Angioy, appunto. E’ pubblicata nel quotidiano di Sassari, “La Nuova Sardegna” , ma il numero fu sequestrato: segno di tempi di censura e di repressione. L’ode carica di retorica e ascendenze carducciane, è impregnata di una intensa <sardità> che caratterizzerà anche la sua poesia più matura. Che arriverà con i Canti barbaricini pubblicati nel 1909. In essi sono ancora indubbiamente presenti gli echi della poesia carducciana, pascoliana, del D’Annunzio di Alcione e persino di Victor Hugo, di Heinrich Heine e di Walt Whitmanma la sua poesia inizia ad avere una sua precisa e personale fisionomia, dal punto di vista espressivo, metrico e dei contenuti.

Colpito da paralisi 1’8 Marzo 1908, passa gli ultimi anni della sua vita senza poter neppure parlare. Scrive le sue ultime poesie fra il 1909-1914. Esse saranno raccolte –senza ulteriore rielaborazione e revisione- nei Canti del Salto e della Tanca e verranno pubblicate postume nel 1924.

Condannato all’infermità, la sua vita interiore si fa più raccolta e più intensa e la sua poesia è caratterizzata da una <sardità> ancor più esclusiva, persino nei particolari stilistici e lessicali. Della gente sarda non descrive solo gli stati d’animo e i modi di vivere ma anche il modo di parlare e di costruire il periodo.

Muore improvvisamente il 29 novembre 1914 a Nuoro dove viene sepolto senza funerali religiosi perché aveva espresso la volontà di non gradire né preti, né preghiere alla sua morte. Le cronache narrano che folle di contadini, pastori e persino banditi, scesero dalle montagne per accompagnarlo alla sua ultima dimora, memori del suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale e della sua passione per la patria sarda. Satta infatti fu molto popolare e amato dalla sua gente che vedeva in lui un vero e proprio “vate” e cantore di una mitica e drammatica identità sarda.

Presentazione di un testo [tratto da Canti barbaricini ora in Canti, Sebastiano Satta, Ilisso editore, Nuoro 2003, pag.66]

Il sonetto è tratto da Canti Barbaricini, una delle raccolte del Satta più valide, l’altra è Canti del salto e della Tanca. Essa –è il poeta stesso a scriverlo- “canta o, meglio narra il dolore della gente e della terra che si distende da Montespada a Montalbo, dalle rupi di Corrasi fino al mare; e canta dolor di madri, odio di uomini, pianto di fanciulli…Barbaricini ho voluto chiamare questi canti perché sono accordi nati in Barbagia di Sardigna; ed anche quando essi non celebrano spiriti e forme di quella terra rude e antica, barbaricini sono nell’anima e barbaricine hanno le fogge e i modi”.

Certo, nel lessico, nel linguaggio, nello stile e persino nella struttura del testo poetico e a livello fonico-timbrico, ci sono abbondanti influenze della coeva poesia italiana, ma non è un semplice epigono di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, come parte della critica ha voluto sostenere. Egli infatti è soprattutto un poeta capace di farsi interprete dell’immaginario collettivo della Nuoro del suo tempo, nella quale si identificavano molti sardi, soprattutto “barbaricini”. In lui infatti le mimesi esterne si interiorizzano, si fanno simbolo, linguaggio, gestualità verbale di una caratteristica cultura, quella sarda. E ai fatti e ai problemi dell’Isola partecipa, vivamente e dolorosamente: per cui si può dire che il mondo sardo, come natura e come eventi, non solo si riflette nella sua poesia, ma passa contemporaneamente attraverso la sua anima, da cui prende colore e calore.

VESPRO DI NATALE 

Incappucciati1, foschi2, a passo lento,

tre banditi ascendevano3la strada

deserta e grigia, tra la selva rada4

dei sughereti5, sotto il ciel d’argento.

 

Non rumore di mandre6 o voci7,

il vento agitava8 per l’algida9 contrada.

Vasto10 silenzio. In fondo, monte Spada11

ridea12 bianco nel vespro sonnolento13.

 

O vespro di Natale14! Dentro il core

ai banditi piangea la nostalgia

di te, pur senza udirne le campane:

 

e mesti eran, pensando al buon odore

del porchetto e del vino15, e all’allegria

del ceppo16, nelle lor case lontane17.

Note

Metrica: sonetto. Rime ABBA, CDE

1.Incappucciati: con il copricapo nero di orbace in testa..

2.Foschi: oscuri appunto perché indossavano un cappotto di orbace nero che li nascondeva agli occhi delle persone e li proteggeva dal freddo. Le orbace infatti sono un tessuto di lana di pecora, molto resistente e impermeabile.

3.Ascendevano: salivano

4.Rada: non folta di sughere.

5.Sughereti: sono boschi di sughere (o soveri)  molto estesi in Gallura –nord est della Sardegna- e nel Mandrolisai –centro sud-, mentre sono assai limitati e poco folti nella Barbagia di Ollolai dove è ambientata la poesia.

6.Rumore di mandre: le pecore portano al collo i campanacci –in sardo sas sonazas- che producono un caratteristico tintinnio e servono per essere localizzate dai pastori..

7.Voci: i pastori sono soliti richiamare le greggi con voci e più spesso con fischi particolari che le bestie intendono come per istinto. Inoltre i pastori si chiamano fra loro, in spazi vasti, per comunicarsi notizie e scambiarsi quattro chiacchiere. Di qui l’abitudine degli stessi a parlare sempre a voce molto alta, quasi urlata.

8.Agitava:portava.

9.Algida: gelida, fredda.

10.Vasto: profondo.

11.Monte Spada: una delle vette più belle e più alte del Gennargentu (m.1595) nel territorio di Fonni, mentre Punta Corrasi –cui Satta accenna nell’introduzione ai Canti Barbaricini- in agro di Oliena è alta m.1463.

12.Ridea: spiccava perché coperto di neve.

13.Vespro sonnolento: la sera che porta il sonno e dunque il riposo.

14.Vespro di Natale: la notte di Natale.

15.Porchetto e vino: ancora oggi ma soprattutto nel passato era consuetudine delle famiglie sarde di ambiente pastorale e barbaricine in specie, consumare a Natale, dopo la messa di mezzanotte abbondanti arrosti (di salsicce, porchetti, agnelli o capretti) innaffiati da un buon vino.

16.Ceppo: i tronchi necessari per alimentare il fuoco.

17.Case lontane: in Sardegna gli insediamenti umani sono concentrati nei villaggi, distanti gli uni dagli altri. Il territorio è spopolato per cui le campagne sono solitarie: in queste, soprattutto in quelle caratterizzate da montagne e luoghi impervii, si rifugiavano –e si rifugiano ancora- i banditi.

Giudizi critici

Goffredo Bellonci scrive che Satta “aveva il senso della terra, il più grande dono che Federico Nietzesche facesse al suo Zaratustra, la più grande virtù che abbia cantato nel libro della giungla immortale Rudyard Kipling…Ogni strofa, ogni verso, ogni parola sigillava del suo stile sardo, inimitabile nel ritmo, nelle immagini, nei trapassi”.

[Goffredo bellonci, sul Giornale d’Italia del 30 Novembre 1914 ora anche in  Sebastiano Satta, I canti e altre poesie, a cura di Francesco Corda, Edizioni 3T, Cagliari 1983]

Mentre per Giovanni Pirodda: “Il Satta fu popolare e amato, fra i lettori sardi contemporanei, per il suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale, e per l’interpretazione, nei toni di un fremente individualismo romantico, dei miti di un immaginario collettivo: la natura, la donna (sposa e madre-matriarca), il tópos del ricorrente ribellismo e dell’attesa di una palingenesi: sono i temi di una mitica e drammatica identità sarda, espressi attraverso la mediazione autorevole delle forme letterarie e metriche della poesia italiana fra ‘800 e ‘900. Ma al di là del mito l’esperienza sattiana raggiunge una capacità poetica spesso misconosciuta, che merita di essere annoverata almeno tra le voci minori di quel periodo”.

[Giovanni Pirodda, Letteratura delle regioni d’Italia, Storia e testi, Sardegna, Editrice la Scuola, Brescia 1992, pag.316].

ANALIZZARE

In questo sonetto, concentrandola in pochi versi, il poeta riesce a cogliere intensamente e a rappresentare una nota paesistica, interiorizzandola però, ovvero traducendola in tema lirico, scevro da ogni indugio illustrativo, ma soprattutto da preoccupazioni edificanti, civili e pedagogiche, ispirate a un socialismo umanitario, che pure abbondano in altre liriche.

La rappresentazione, sospesa fra la realtà e la fantasia, dei banditiincappucciati e tristi che passano per vie desolate, foschi su sfondi di neve e che incedono con tanta cupa andatura che solo questo cadenzato endecasillabo sa mimare, ricorda la misura espressiva dei piccoli quadretti del Pascoli delle Mirycae.

La forma conclusa del sonetto inoltre, dove per di più l’endecasillabo si smorza nei frequenti enjambements, rende il silenzio carico di tristezza, di dolcezza e di vitalità insieme, di una inestinguibile nostalgia dell’intimità familiare, di un rifugio sereno e festoso, che invade l’animo dei banditi, fragili creature umane anch’essi. In altre liriche mitizzati come belli, feroci e prodi.

Il linguaggio è alto, illustre, gli aggettivi ricercati, aulici (foschi, rada, algida) tanto da rischiare di risultare stereotipati e poco creativi.

*Tratto da “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula (volume 1°, Ed. Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011)

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