Archivi giornalieri: 1 novembre 2014

Pensione ai superstiti

Pensione ai superstiti

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CHE COSA E’

È una prestazione economica erogata, a domanda, in favore dei familiari del:

  • pensionato (pensione di reversibilità);
  • lavoratore (pensione indiretta).

A CHI SPETTA

Hanno diritto alla pensione:

  • il coniuge superstite, anche se separato: se il coniuge superstite è separato con addebito, la pensione ai superstiti spetta a condizione che gli sia stato riconosciuto dal Tribunale il diritto agli alimenti;
  • il coniuge divorziato se titolare di assegno divorzile;
  • figli (legittimi o legittimati, adottivi o affiliati, naturali, riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell’altro coniuge) che alla data della morte del genitore siano minorenni, inabili, studenti o universitari e a carico alla data di morte del medesimo;
  • nipoti minori (equiparati ai figli) se a totale carico degli ascendenti (nonno o nonna) alla data di morte dei medesimi.

In mancanza del coniuge, dei figli e dei nipoti la pensione può essere erogata:

  • ai genitori d’età non inferiore a 65 anni, non titolari di pensione, che alla data di morte del lavoratore e/o pensionato siano a carico del medesimo.

In mancanza del coniuge, dei figli, dei nipoti e dei genitori la pensione può essere erogata:

  • ai fratelli celibi inabili e sorelle nubili inabili, non titolari di pensione, che alla data di morte del lavoratore e/o pensionato siano a carico del medesimo.

REQUISITI

Il lavoratore deceduto, non pensionato, deve aver maturato, in alternativa:

  • almeno 780 contributi settimanali (requisiti previsti per la pensione di vecchiaia prima dell’entrata in vigore del D.lvo 503/92);
  • almeno 260 contributi settimanali di cui almeno 156 nel quinquennio antecedente la data di decesso (requisiti previsti per l’assegno ordinario di invalidità).

INDENNITÀ PER MORTE

Il superstite del lavoratore assicurato al 31.12.1995 e deceduto senza aver perfezionato i requisiti amministrativi richiesti, può richiedere l’indennità per morte, se:

  • il lavoratore deceduto non aveva ottenuto la pensione;
  • non sussiste per nessuno dei superstiti il diritto alla pensione indiretta per mancato perfezionamento dei requisiti richiesti;
  • nei 5 anni precedenti la data di morte risulta versato almeno un anno di contribuzione.

La domanda per ottenere l’indennità in parola deve essere presentata, a pena di decadenza, entro un anno dalla data del decesso del lavoratore assicurato.

INDENNITÀ UNA-TANTUM

Il superstite di lavoratore assicurato dopo il 31.12.1995 e deceduto senza aver perfezionato i requisiti amministrativi richiesti, può richiedere l’indennità una-tantum, se:

  • non sussistono i requisiti assicurativi e contributivi per la pensione indiretta;
  • non ha diritto a rendite per infortunio sul lavoro o malattia professionale, in conseguenza della morte dell’assicurato;
  • è in possesso di redditi non superiori ai limiti previsti per la concessione dell’assegno sociale.

Il diritto all’importo in questione è soggetto alla prescrizione decennale.

LA DOMANDA

La domanda può essere inoltrata esclusivamente in via telematica attraverso uno dei seguenti canali:

  • Web – avvalendosi dei servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN attraverso il portale dell’Istituto, www.inps.it
  • telefono – contattando il contact center integrato, al numero 803164 gratuito da rete fissa o al numero 06164164 da rete mobile a pagamento secondo la tariffa del proprio gestore telefonico
  • patronati e tutti gli intermediari dell’Istituto – usufruendo dei servizi telematici offerti dagli stessi

La domanda vale anche come richiesta dei ratei di pensione maturati e non riscossi dal deceduto.

QUANDO SPETTA

La pensione ai superstiti decorre dal 1° giorno del mese successivo a quello del decesso del lavoratore ovvero del pensionato, indipendentemente dalla data di presentazione della domanda.

QUANTO SPETTA

L’importo spettante ai superstiti è calcolato sulla base della pensione dovuta al lavoratore deceduto ovvero della pensione in pagamento al pensionato deceduto applicando le percentuali previste dalla L. 335/95:

  • 60%, solo coniuge (*);
  • 70%, solo un figlio;
  • 80%, coniuge e un figlio ovvero due figli senza coniuge;
  • 100% coniuge e due o più figli ovvero tre o più figli;
  • 15% per ogni altro familiare, avente diritto, diverso dal coniuge, figli e nipoti.

N.B.Le pensioni ai coniugi superstiti aventi decorrenza dal 1° gennaio 2012 sono soggette ad una riduzione dell’aliquota percentuale, rispetto alla disciplina generale, nei casi in cui il deceduto abbia contratto matrimonio ad un’età superiore a 70 anni; la differenza di età tra i coniugi sia superiore a 20 anni o il matrimonio sia stato contratto per un periodo di tempo inferiore ai dieci anni. La decurtazione della pensione ai superstiti non opera qualora vi siano figli minori, studenti o inabili.

INCUMULABILITÀ CON REDDITI DEL BENEFICIARIO

La pensione ai superstiti liquidata a decorrere dal 1.9.1995 viene ridotta se il titolare possiede altri redditi, come indicato nella seguente tabella:

AMMONTARE DEI REDDITI PERCENTUALI DI RIDUZIONE
Reddito superiore a 3 volte il trattamento minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, calcolato in misura pari a 13 volte l’importo mensile  in vigore al 1° gennaio 25%
dell’importo della
pensione
Reddito superiore a 4 volte il trattamento minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, calcolato in misura pari a 13 volte l’importo mensile in vigore al 1° gennaio 40%
dell’importo della
pensione
Reddito superiore a 5 volte il trattamento minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, calcolato in misura pari a 13 volte l’importo mensile in vigore al 1° gennaio) 50%
dell’importo della
pensione

L’incumulabilità non si applica in presenza di contitolari  appartenenti al medesimo nucleo familiare (Circ. 234 del 25 agosto 1995).

PENSIONE AI SUPERSTITI, ASSEGNO SOCIALE E PENSIONE SOCIALE

Quando il titolare di un assegno sociale o pensione sociale diventa titolare di pensione ai superstiti, perde contestualmente il diritto a dette prestazioni di natura assistenziale, che pertanto vengono revocate dalla data di decorrenza della nuova pensione, anche se a carico di Ente diverso dall’INPS (Circ. 65 del 21 marzo 1984). Vanno, invece, solo ricostituite se derivano da invalidità civile, essendo il reddito dell’anno precedente, in base alla normativa di riferimento, il requisito per la loro concessione o revoca (Circ. 86 del 27 aprile 2000)

CAUSE DI CESSAZIONE

Il diritto alla pensione ai superstiti cessa nei seguenti casi:

  • per il coniuge, qualora contragga nuovo matrimonio. In questo caso al coniuge spetta solo l’una tantum pari a due annualità della sua quota di pensione, compresa la tredicesima mensilità, nella misura spettante alla data del nuovo matrimonio. Nel caso che la pensione risulti erogata, oltre che al coniuge, anche ai figli, la pensione deve essere riliquidata in favore di questi ultimi applicando le aliquote di reversibilità previste in relazione alla mutata composizione del nucleo familiare;
  • per i figli minori, al compimento del 18° anno di età;
    per i figli studenti di scuola media o professionale che terminano o interrompono gli studi e comunque al compimento del 21° anno di età. La prestazione di un’attività lavorativa da parte dei figli studenti, il superamento del 21° anno di età e l’interruzione degli studi non comportano l’estinzione, ma soltanto la sospensione del diritto alla pensione;
  • per i figli studenti universitari che terminano o interrompono gli anni del corso legale di laurea e comunque al compimento del 26° anno di età. La prestazione di un’attività lavorativa da parte dei figli universitari e l’interruzione degli studi non comportano l’estinzione, ma soltanto la sospensione del diritto alla pensione;
  • per i figli inabili qualora venga meno lo stato di inabilità;
  • per i genitori qualora conseguano altra pensione;
  • per i fratelli e le sorelle qualora conseguano altra pensione, o contraggano matrimonio, ovvero venga meno lo stato di inabilità;
  • per i nipoti minori, equiparati ai figli legittimi, valgono le medesime cause di cessazione e/o sospensione dal diritto alla pensione ai superstiti previste per i figli.

N.B. La cessazione della contitolarità di uno o più soggetti determina la riliquidazione della prestazione nei confronti dei restanti beneficiari, calcolando la pensione dalla decorrenza originaria con gli incrementi perequativi e di legge intervenuti nel tempo, in base alle aliquote di pertinenza dei restanti contitolari.


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La lingua sarda racconta il mondo

La lingua sarda racconta il mondo

 
La lingua sarda racconta il mondo

 

 

ROMA – Uno noto storico sardo, Antonello Mattone dell’Università di Sassari ha scritto :” Sono d’accordo con certe forme moderate di bilinguismo, ma la lezione universitaria in sardo la trovo controproducente e ridicola. Oggi non avrebbe alcun senso utilizzare il Sardo come linguaggio scientifico, giacché esso nelle sue due grandi varianti, campidanese e logudorese, è una lingua di fatto rurale, che ha assimilato solo indirettamente i termini più propriamente legati alla vita e alla cultura cittadina”.

Si muove sullo stesso versante il linguista Alberto Sobrero, (In “Introduzione all’Italiano contemporaneo”, Ed. Laterza, 2 voll.). “E’ giusto scrive – non dimenticare le lingua locali ma “sarebbe assurdo o, nella migliore delle ipotesi, comico, pensare di usare le parlate locali per la matematica, la fisica e la filosofia!”.

In altre parole, secondo i due illustri intellettuali, la lingua locale, in questo caso il Sardo, sarebbe incapace e inadatta a esprimere la cultura rbana e scientifica, la modernità in quanto lingua arcaica, agro-pastorale, utile solo per raccontare contos de foghile.

Questa posizione nasce sostanzialmente da un pregiudizio: che la lingua sarda si sia “bloccata”, ovvero sia ancorata permanentemente alla sola tradizione agropastorale, e dunque sia incapace di esprimere la cultura moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia alla medicina, allo sport. I “nostri”, non fanno i conti con la “dinamicità” delle lingue e dunque anche di quella sarda:che non è un bronzetto nuragico ma cambia, muta e si modifica continuamente arricchendosi di nuovi lemmi. Così termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale scientifico negli ultimi decenni sono entrati nella lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha assimilati. Questo “scambio” (con  accumuli, arricchimenti, contaminazioni) è una cosa normalissima e avviene in tutte le lingue. E tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più arretrate” sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.

A rispondere a chi parla di “blocco” e di incapacità di alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche: “La rimozione de “blocco” è pienamente possibile. Farò soltanto l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita, storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente rimosso il proprio “blocco dialettale”, ma che pur non possedendo ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato “una grande corrente di pensiero”, eppure settant’anni fa il vietnamita era soltanto un “dialetto” o meglio “un gruppo di dialetti”.

Mentre il più grande studioso di bilinguismo a base etnica, l’americano J. F. Fishman (In “Istruzione bilingue”, Ed. Minerva Italica, 1972) scrive:”Ogni e qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”. 

A chi pensa che le lingue locali e native – e dunque per noi il Sardo – siano incapaci e inadatte a raccontare la “modernità” e la cultura “alta”, perché intrinsecamente povere e inadeguate, risponde in modo particolare un semiologo come Stefano Gensini (In “Elementi di storia linguistica italiana”, Minerva Italica, Bergamo 1983). Fra l’altro ricorda e cita Leibniz – filosofo e intellettuale tedesco –  secondo cui non vi è lingua povera che non sia capace di parlare di tutto.

Ma rispondono soprattutto Ferdinand de Saussurre, il fondatore della linguistica moderna (In “Corso di linguistica generale”, Laterza, Bari,1983) e Ludwig Wittgenstein, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio. in (In “Osservazioni filosofiche” Einaudi, Torino,1983).

Al di là comunque delle posizioni teoriche degli studiosi, la risposta più convincente la offrono gli scrittori che la lingua sarda oggi praticano e maneggiano, una lingua duttile che adattano ad ogni argomento e problematica: così Gianfranco Pintore nei suoi romanzi può indifferentemente parlare di telematica, cavi ottici, computer, energia atomica (in Su Zogu); come di centralismo e federalismo, autonomia e separatismo (in Morte de unu Presidente). Mentre Giampaolo Mura, docente di fisica all’Università di Cagliari (nel saggio Sa chistione mundiali de s’energhia) può tranquillamente disquisire di energia solare, eolica, nucleare, da biomassa e il poeta Franco Carlini (in S’Omine chi bendiat su tempus) può raccontare l’alienazione, la scissione dell’io, lo sdoppiamento della personalità, tutte problematiche moderne e che ricordano tanto sia Pirandello che Rimbaud (Je est un autre).

E un giornalista sportivo come Vittorio Sanna può commentare in Sardo le partite del Cagliari e sempre in Sardo giovani bilingui possono condurre telegiornali in Tv locali, raccontando la cronaca come gli avvenimenti politici.

Perché ogni lingua – sostiene Bachisio Bandinu, antropologo e gran conoscitore delle cose sarde – anche quella della più sperduta tribù africana, è in grado di raccontare il mondo. Immaginiamoci una lingua neolatina, come quella sarda, arricchita nei secoli dal greco-bizantino, l’arabo, il catalano, il castigliano, l’italiano. E persino dal francese.

 

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Palabanda:Congiura o Rivolta Rivoluzionaria?

 

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PALABANDA:CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?

di FRANCESCO CASULA

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire allaquaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula56. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando” 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo dirivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta” 12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .

E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento” 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito” 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848,Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848,Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.

 

trascrizione della testimonianza di Napolitano

Segue dalla prima pagina

Ecco la trascrizione dell’udienza dedicata alla testimonianza resa dal Presidente Napolitano al Quirinale davanti alla II Sezione della Corte d’Assise di Palermo

Ecco la trascrizione della udienza dedicata alla testimonianza resa dal Presidente Napolitano al Quirinale, il 28 ottobre scorso nella Sala del Bronzino, davanti alla II Sezione della Corte d’Assise di Palermo e resa nota oggi. 

La trascrizione della registrazione audio dell’udienza è stata eseguita a cura della II Sezione della Corte d’Assise di Palermo.

Roma, 31 ottobre 2014

 

elementi correlati

dall’Osservatore Romano

Beatificazione di don Pedro Asúa Mendía, martire nella guerra civile spagnola

 
Viene beatificato questo primo novembre in Spagna, il sacerdote basco don Pedro Asúa Mendía, martire nella guerra civile spagnola. Al rito, celebrato nella co-cattedrale di Maria Immacolata a Vitoria, nei Paesi Baschi, partecipa, in rappresentanza del Santo Padre, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Il servizio di Roberta Barbi: 

Ci sono chiamate vocazionali che esigono di mettere i talenti che si posseggono al servizio della propria missione: accadde questo anche a Pedro Asúa Mendía, che dopo la laurea in architettura conseguita a Madrid, rispose al Signore prendendo i voti nel 1924. L’allora vescovo di Vitoria, Mateo Múgica, ne riconobbe immediatamente la bravura, come ricorda ilcardinale Amato:

“Fu subito nominato architetto ufficiale della diocesi, con l’incarico di curare il restauro di molti immobili e di edificarne di nuovi. La sua opera principale fu il seminario di Vitoria, la cui costruzione ebbe un’eco anche al di fuori della Spagna”.

Dopo questo vennero la scuola di Getxo, la chiesa di Nostra Signora degli Angeli a Romo, la chiesa di San Cristoforo a Vitoria conosciuta come “la quinta parrocchia”. Don Asúa Mendía era un lavoratore instancabile che non trascurava i suoi compiti di pastorale giovanile: aiutava il parroco di Balmaseda nella catechesi con i giovani, organizzò un gruppo di Azione cattolica, dirigeva ritiri ed esercizi spirituali, oltre a dedicarsi ad assistere i poveri e gli ammalati. Fu un vero predicatore sociale e questo non passò inosservato. In Spagna erano anni di tensione tra nazionalisti e repubblicani, che sfociarono nella guerra civile che come sempre tutto trascina via con sé. Il cardinale Amato ci aiuta a inquadrare quel periodo storico:

“Nella prima metà del XX secolo, la Chiesa cattolica in Spagna fu oggetto di un feroce attacco, sia sul piano fisico sia sotto l’aspetto giuridico e amministrativo. La libertà di culto fu limitata e perfino soppressa; le chiese e i cimiteri vennero profanati e distrutti. Numerose furono le vittime del terrore rivoluzionario, che giunse al culmine nell’estate del 1936”.

Sfuggito più volte all’identificazione, sentiva che il cerchio si stava stringendo intorno a lui. Il 25 agosto 1936, don Pedro si rifugiò presso alcuni parenti, ma venne raggiunto e catturato quattro giorni dopo. Senza alcun processo né detenzione in carcere, fu portato in una località solitaria e immediatamente fucilato. Il suo corpo, gettato in fretta in una cava, fu ritrovato un mese dopo, ma identificato solo dopo due anni. Nel 1956 i suoi resti furono traslati nella cappella del seminario di Vitoria che aveva costruito, ma non poterono riposare in pace: durante la dittatura franchista che seguì il conflitto, la figura di Pedro fu strumentalizzata dal regime che lo indicò come un martire repubblicano, mentre il motivo della sua uccisione, avvenuta in odium fidei, risiedeva solo nell’abito che aveva scelto di indossare:

“L’unica ragione era il suo status di sacerdote. Le testimonianze concordano nel mettere in risalto la sua profonda serenità di fronte al martirio”.

Alla notizia, infatti, dell’uccisione di 51 missionari claretiani a Barbastro, che andarono incontro alla morte pregando e cantando, manifestò il desiderio di imitarli. Questi sono i martiri: coloro che accettano la volontà del Signore e sono pronti a sacrificare la propria vita per la fede, come conclude il porporato:

“La Chiesa celebra i martiri perché sono i testimoni più convincenti del Vangelo. Come vittime inermi del male, essi testimoniano che il perdono e l’amore vincono sempre sul male e sui malvagi. La Chiesa non dimentica questi suoi figli coraggiosi e invita tutti a non rinnovare mai più questi spettacoli disumani di uccisioni fraterne”.

 

 

(Da Radio Vaticana)

Dossier Statistico Immigrazione 2014

Dossier Statistico Immigrazione 2014
31/10/2014

È stato presentato mercoledì 29 ottobre 2014 il Dossier Statistico Immigrazione curato da IDOS (www.dossierimmigrazione.it) per conto dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali – www.unar.it ).
Il dato più rilevante è l’aumento degli atteggiamenti discriminatori nei confronti dei cittadini stranieri messi in atto non solo da singole persone ma anche da alcune Amministrazioni.

Viene sottolineato inoltre l’importante ruolo dei lavoratori immigrati sul piano previdenziale: nel 2012 sono stati versati circa 8,9 miliardi di Euro di contributi da questi lavoratori pur rimanendo molto marginale la loro incidenza sul sistema pensionistico.
Nel Dossier è stata pubblicata anche una scheda sul ruolo dei Patronati essendo stato considerato determinante il loro contributo, in servizi offerti, in professionalità degli operatori, per attenzione umana, verso i cittadini stranieri.

Alla fine del 2013 in Italia gli stranieri residenti risultano essere 4.922.085 su una popolazione complessiva di 60.782.668 abitanti e con una incidenza dell’8,1% (1 su ogni 12 abitanti).
Le donne sono il 52,7% del totale mentre i minori sono oltre 1 milione di cui 925.569 quelli con cittadinanza non comunitaria. Gli iscritti alla Scuola risultano essere 802.785 nell’Anno Scolastico 2013/2014, il 9% di tutti gli iscritti.

Gli stranieri residenti in Lombardia sono oltre 1 milione e quelli residenti nel Lazio oltre 660.000. 
La popolazione immigrata rappresenta un accentuato policentrismo provenendo da196 nazionalità. Circa la metà proviene da soli cinque paesi: Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina..
L’incidenza di alcune comunità sul resto della popolazione immigrata è significativa in Toscana con il 17% dei cittadini cinesi e la Campania con il 18,5% dei cittadini ucraini.

I flussi d’ingresso di nuovi lavoratori, a seguito del perdurare della crisi finanziaria, sono notevolmente diminuiti: nel 2013 i visti di ingresso per motivi di lavoro subordinato sono stati 25.683 e 1810 per lavoro autonomo. 76.164 sono stati invece i visti per ricongiungimento familiare ( a fronte di 77.705 nuove nascite).

L’acquisizione di cittadinanza italiana è risultata essere, nel 2013, di 100.712 unità.

In considerazione dei numerosi arrivi di profughi soprattutto via mare dalla Libia e dalla Siria, sono state registrate, nel 2013, 26.620 richieste d’asilo (a fronte delle 127.000 ricevute dalla Germania).

Sono 2,4 milioni gli occupati stranieri di cui il 63,6 % risulta essere impiegato nei servizi, il 31,7% nell’industria di cui il 13,3% nelle costruzioni e il 4,7% inagricoltura.
Nel 2013 il tasso di disoccupazione tra gli stranieri è al 17,3% (per gli italiani all’11,5%). In questi ultimi cinque anni il tasso di disoccupazione è aumentato di 5,7 punti (per gli italiani di 3,6 punti).
Nel 2013 è salito anche il divario della retribuzione netta mensile percepita in media dagli stranieri: 959 Euro ovvero il 27,% in meno rispetto ai 1.313 Euro dei lavoratori italiani..

Il 35,3% degli occupati stranieri svolge professioni non qualificate (soprattutto servizi domestici e alberghieri) e il 32,6% è impiegato come operaio. Il 26,0% lavora da impiegato o addetto ad attività commerciali e solo il 6,1% svolge professioni qualificate (tra gli italiani è il 37%).
Un milione di stranieri cioè il 41,1% degli occupati ha un grado di istruzione più elevato rispetto alle mansioni che svolge a dimostrazione che il livello di istruzione degli immigrati è generalmente medio-alto (il 10,3% ha una laurea e il 32,4% un diploma: dati del Censimento 2011).

L’invio delle rimesse sono state nel 2013 pari a 5,5 miliardi di Euro dall’Italia (in calo per via della crisi, rispetto ai 6,8 miliardi del 2012).

Un ruolo particolarmente positivo continua a essere svolto dagli immigrati sul piano previdenziale, grazie alla loro giovane età (in media 31,1 anni contro i 44,2 degli italiani nel Censimento 2011), che ne fa dei fruitori marginali del sistema pensionistico. Nel 2012 sono stati versati circa 8,9 miliardi di Euro di contributi da lavoratori stranieri e in futuro, secondo le stime di IDOS, l’incidenza degli stranieri tra quanti raggiungeranno l’età pensionabile sarà del 2,6% nel 2016, del 4,3% nel 2020 e del 6% nel 2025, quando tra i residenti stranieri i pensionati saranno all’incirca 1 ogni 25 (oggi tra gli italiani sono 1 ogni 3).
Bisogna anche interrogarsi sulle prestazioni che gli immigrati si aspettano dal sistema previdenziale e assicurativo italiano. In questa difficile congiuntura, il 12,6% delle famiglie in Italia si trova in condizioni di povertà relativa e il 7,9% in condizioni di povertà assoluta (quota che sale al 9% tra gli individui). Le famiglie con almeno un componente straniero sono 2.354.000 (il 7,1% del totale delle famiglie) e al loro interno la disoccupazione desta preoccupazione non solo perché cresciuta rapidamente, ma perché coinvolge maggiormente individui adulti che ricoprono un ruolo determinante nella costituzione dei redditi. Ne deriva un maggiore ricorso alle prestazioni di sostegno socio-previdenziale, che però si scontra spesso con forti e illegittime chiusure a livello comunale, regionale e nazionale.

I casi di discriminazione segnalati all’UNAR nel 2013 sono stati 1.142 dei quali il 68,7% su base etnico-razziale. I mass-media rappresentano il fronte più esposto (34,2% delle segnalazioni rispetto al 19,6% dell’anno precedente). I casi di discriminazione nei contesti di vita pubblica sono il 20,4% mentre sono il 7% i casi di discriminazione nell’accesso al lavoro e ai servizi pubblici. Il 5,1% ha riguardato l’accesso alla casa.. Attorno al 4% le discriminazioni denunciate nei confronti della scuola e delle forze pubbliche.
Tra le forme di discriminazione vi è anche quella per motivi religiosi: le appartenenze religiose dei cittadini stranieri in Italia si attestano al 33.1% quella musulmana, al 29,6% quella ortodossa, al 18,5% quella cattolica, al 6,4% quella relative a tradizioni religiose orientali, al 5%quella degli evangelici e altri cristiani.

Infine la devianza degli immigrati è rappresentata da un 29% in più tra il 2004 e il al 2012 quando quella degli italiani è aumentata, nello stesso periodo, del 37,6%.
C’è da rilevare che nello stesso periodo i residenti italiani sono diminuiti mentre quello stranieri quasi raddoppiati e pertanto l’incidenza sul totale delle denuncie verso quest’ultimi è diminuita.

(da Dossier Statistico Immigrazione 2014 – Rapporto UNAR – Dalle Discriminazioni ai diritti)

Nel Dossier è presente una Scheda riguardante l’attività e il ruolo dei Patronati. La riportiamo integralmente:

Patronati e tutela

Gli istituti di patronato e di assistenza sociale sono soggetti di diritto privato che esercitano una funzione di utilità pubblica. Costituiti nell’immediato dopoguerra, sono stati regolamentati in maniera innovativa con la legge n. 152 del 30 marzo 2001.
A promuovere i patronati sono ammesse, in presenza di determinate garanzie, le associazioni di lavoratori operanti a livello nazionale. Sono attualmente 28 i patronati riconosciuti e ammessi al finanziamento pubblico, ma la stragrande maggioranza delle pratiche viene svolta da quelli che fanno capo ai sindacati e alle grandi associazioni di lavoratori, dipendenti e autonomi.
La loro funzione consiste nell’assistere gratuitamente, anche a livello di contenzioso, le pratiche in materia previdenziale, socio-assistenziale e infortunistica a beneficio di tutti i lavoratori presenti in Italia, immigrati compresi, con la possibilità di accesso alle banche dati degli enti preposti all’erogazione delle prestazioni. 
Questa ampia gamma di interventi li porta a svolgere annualmente quasi 12 milioni di pratiche facendo perno su circa 10 mila operatori professionalizzati e poco più di 8 mila sportelli, che operano anche nelle aree più remote e disagiate e si avvalgono del supporto di numerosi volontari. 
Gli interventi devono essere prestati dai patronati dietro esplicito mandato di assistenza e prescindono dall’adesione degli interessati alle organizzazioni promotrici.
Il finanziamento pubblico viene assicurato tramite il prelievo dello 0,226% sul gettito contributivo riscosso dagli istituti previdenziali. Il fondo patronati, costituito presso il Ministero del Lavoro, viene ripartito tra i singoli istituti previa verifica dell’attività da loro svolta e il sistema di punteggio si basa sulle pratiche che hanno avuto esito positivo.
Per quanto riguarda gli emigrati italiani, i patronati possono svolgere attività di supporto alle autorità diplomatiche e consolari italiane all’estero, con l’apertura di nuovi e fruttuosi spazi di intervento nell’attuale fase in cui è in corso la ristrutturazione della rete consolare e va aumentando il numero degli italiani iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. 
Per gli immigrati, invece, oltre all’assistenza loro prestata come lavoratori, i patronati intervengono, grazie ai protocolli stipulati con il Ministero dell’Interno, anche per assistere e trasmettere telematicamente le pratiche di richiesta o rinnovo del permesso di soggiorno o di ricongiungimento, come pure in occasione dei decreti flussi e dei provvedimenti di regolarizzazione. I Patronati svolgono oltre la metà delle pratiche che annualmente vengono indirizzate alle Questure e alle Prefetture.
I Patronati, inoltre, promuovono campagne sui diritti dei lavoratori, realizzano ricerche e organizzano eventi. 
I Patronati sono suddivisi in Coordinamenti e il più rappresentativo è il CePa (Centro Patronati) composto da:
Patronato Acli (www.patronato.acli.it)
Inas-Cisl (www.inas.it)
Inca Cgil (www.inca.it)
Ital Uil (www.ital.it)

 

Degenera la crisi in Burkina Faso (Osservatore Romano)

Degenera la crisi in Burkina Faso

· L’esercito dichiara decaduti Governo e Parlamento e il presidente si dimette ·

31 ottobre 2014

 
 

 

Ouagadougou, 31. Degenera nel Burkina Faso la crisi innescata dall’iniziativa del presidente, Blaise Compaoré, al potere dal 1987, di modificare la Costituzione che gli impedisce di concorrere l’anno prossimo per un ulteriore mandato. Oggi il Parlamento, controllato dal partito di Compaoré, avrebbe dovuto appunto pronunciarsi su un disegno di legge governativo per tenere in aprile un referendum per modificare la Costituzione. Ma ieri l’iniziativa di disubbidienza civile proclamata dall’opposizione, che già due giorni fa aveva portato in piazza nella capitale Ouagadougou centinaia di migliaia di persone, è sfociata in un assalto al Parlamento che è stato incendiato. Secondo fonti concordi, negli scontri ci sarebbero stati una trentina di morti.

A quel punto, il capo delle forze armate, il generale Honoré Nabere Traoré, aveva annunciato lo scioglimento del Parlamento, la decadenza del Governo e l’avvio di una transizione per un anno, fino alle previste elezioni dell’ottobre 2015.

In tarda mattinata, il colonnello Isaac Zida, comandante della guardia presidenziale, ha detto alle centinaia di migliaia di persone che ancora sono in piazza che Compaoré si è dimesso. Il presidente, in nottata aveva dichiarato che non intendeva farlo, ma al tempo stesso aveva annunciato il ritiro del controverso progetto di revisione costituzionale, assicurando che sarebbe rimasto in carica solo per il periodo di transizione stabilito dall’esercito.

Tra i primi commenti stranieri c’è stato quello del ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, con l’auspicio che «si vada verso un ritorno alla calma». Fabius ha assicurato che non c’è pericolo per i tremilacinquecento francesi, civili e militari, presenti in Burkina Faso, uno dei Paesi del Sahel dove la Francia ha dispiegato truppe. Oggi a Ouagadougou è atteso l’inviato speciale dell’Onu per l’Africa occidentale, Mohamed Ibn Chambas.

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