Archivio mensile:aprile 2023

Con l’aumento degli anziani sono necessari più servizi sui territori Bilanci dei comuni

Con l’aumento degli anziani sono necessari più servizi sui territori Bilanci dei comuni

Gli enti locali hanno un ruolo fondamentale nell’erogazione di servizi necessari per un paese in continuo invecchiamento. Un’analisi, comune per comune, delle spese per la popolazione più anziana.

 

La conseguenza del calo delle nascite che sta vivendo l’Italia è l’invecchiamento della popolazione. L’aumento della popolazione anziana rende quindi necessarie delle specifiche politiche di welfare. Anche i comuni possono contribuire in questo senso predisponendo dei servizi e finanziando delle coperture economiche e delle indennità.

L’invecchiamento della popolazione rappresenta un fenomeno che sta vivendo l’intero continente europeo ma si stima che gli effetti saranno particolarmente importanti per l’Italia. Secondo le recenti analisi di Eurostat, nel 2100 il 32,5% della popolazione avrà più di 65 anni contro il 21,1% registrato nel 2022. L’Italia però sarà tra gli stati con la maggiore incidenza, seconda solo a Malta.

35,1% popolazione italiana che nel 2100 avrà almeno 65 anni.

Un incremento rispetto al 2022 di circa 11 punti percentuali. L’Italia, al pari della Spagna, sarà invece al primo posto per quel che riguarda i residenti con più di 80 anni. Comporranno il 17,4% della popolazione del paese, circa 10 punti percentuali in più del valore registrato nel 2022. Al di là delle proiezioni, già oggi l’Italia è uno dei paesi più anziani al mondo, con 187,9 persone con almeno 65 anni ogni 100 persone con 15 anni.

La struttura di livelli di assistenza adeguati sarà quindi un aspetto cruciale per le politiche sociali dei prossimi anni. Si fa a partire dai comuni, gli enti più vicini alle dirette esigenze delle comunità.

Le spese dei comuni per gli interventi per gli anziani

Gli interventi per questo gruppo demografico sono inseriti all’interno di una voce della dodicesima missione di spesa, quella dedicata alle politiche sociali.

Si comprendono diversi interventi. Tra questi ci sono le indennità dirette all’anziano, come la copertura pensionistica e gli sgravi per le cure mediche. Ma sono presenti anche le uscite per coprire i rischi che derivano dalla condizione di vecchiaia (come ad esempio il calo dei redditi) e i rimborsi per chi si prende cura della persona non autosufficiente.

Infine, ci sono anche le spese sostenute per le strutture residenziali e gli strumenti assistenziali a favore di mobilità, integrazione sociale e svolgimento delle attività di vita quotidiana.

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DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa per gli interventi per gli anziani. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati. Tra le città italiane con più di 200mila abitanti non sono disponibili i dati di Palermo perché alla data di pubblicazione non risulta accessibile il bilancio consuntivo 2021.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2021
(consultati: lunedì 17 Aprile 2023)

 

Trieste si spende di più per gli interventi di assistenza agli anziani. Si parla di 99,59 euro pro capite, circa il doppio rispetto alla seconda (Milano, 46,48). Seguono Venezia (45,66) e Firenze (36,44). A spendere di meno sono invece le grandi città del sud: Catania (11,64 euro pro capite), Bari (3,08), Messina (2,82) e Napoli (0,50). 

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DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa riportata negli interventi per gli anziani. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati. Tra le città italiane con popolazione superiore a 200mila abitanti, sono state considerate le 5 che hanno speso di più per la voce considerata nel 2021.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2016-2021
(consultati: lunedì 17 Aprile 2023)

 

Trieste si conferma la città con la spesa maggiore in tutti gli anni considerati con uscite che non scendono mai sotto i 90 euro a persona. Rispetto al 2016, la spesa è aumentata del 6,7%. La città che però registra l’incremento maggiore è Padova (+17,2%). Al contrario, le uscite degli altri comuni sono in calo. La diminuzione minore è quella di Firenze (-0,7%) a cui seguono Venezia (-5,9%) e Milano (-25,7%).

In base agli ultimi bilanci disponibili, i comuni italiani spendono in media 16,67 euro a persona per la tutela della popolazione più anziana. Sono otto le grandi città che riportano spese superiori. Le amministrazioni con le uscite maggiori sono quelle della provincia autonoma di Bolzano (85,99), del Friuli-Venezia Giulia (60,25) e delle Marche (41,79). Al contrario, registrano spese minori i comuni siciliani (6,51 euro pro capite), calabresi (4,52) e umbri (3,68).

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DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa per gli interventi per gli anziani. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2021
(consultati: lunedì 17 Aprile 2023)

 

Tra i quasi ottomila comuni italiani, quello che spende di più per questa voce di spesa è San Leonardo in Passiria, in provincia di Bolzano, con 2.021,52 euro pro capite. Seguono tre comuni lombardi, Ferrera Erbognone (1.772,44) e Zavattarello (1.484,21) in provincia di Pavia e Grosotto (1.443,14) a Sondrio. In tutto sono 12 le amministrazioni che riportano più di mille euro di spesa a persona.

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I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da Openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto: Matt Bennett – licenza

 

Turismo Abruzzo

La scommessa del turismo sostenibile in Abruzzo Abruzzo Openpolis

Il turismo in regione è diversificato, grazie alla varietà dei luoghi ma anche dell’offerta, come nel caso virtuoso di Aielli. La sfida è far crescere il settore, costruendo un sistema di qualità e sostenibile, anche grazie al Pnrr.

 

Differenziarsi, destagionalizzare il turismo e internazionalizzarlo continuando a prendersi cura dei territori per evitare il rischio di turistificazione.

Si potrebbe riassumere così presente e futuro del turismo in Abruzzo, una regione fatta di luoghi che si sono avvicinati in tempi relativamente recenti a questo comparto, importante per il paese e per le economie locali.

Partendo dallo stato dell’arte in regione, abbiamo indagato sulle (notevoli) potenzialità turistiche dell’Abruzzo, fermandoci nel nostro viaggio ad Aielli (L’Aquila), un piccolo paese che fino a 8 anni fa non aveva mai visto un turista e oggi conta decine di migliaia di presenze l’anno, esempio virtuoso di sostenibilità e convivenza tra comunità locali e turisti. Una coabitazione non sempre salutare per i territori.

Basti pensare a tutto il dibattito in corso sulla turistificazione, processo socio-economico in atto in molte città del mondo, secondo il quale un luogo abitato diventa nel tempo esclusivo oggetto di consumo turistico. Si tratta di una dinamica che tuttavia, secondo alcuni studiosi delle aree interne, sarebbe molto lontana dal verificarsi.

In Abruzzo oggi siamo lontani dalla turistification. Quella che si chiama carrying capacity, ossia la capacità di carico turistico dei territori non è sotto stress. Per intenderci, in regione oggi non ci sono posti come, per esempio, Ischia in Campania.

L’Abruzzo è una regione fortemente eterogenea dal punto di vista della proposta, potendo contare su oltre 130 chilometri di costa, un’importante tratto della catena appenninica e numerose città e paesi d’arte.

Come si compone l’offerta turistica abruzzese

Oggi i poli attrezzati ad accogliere i flussi di turismo in Abruzzo sono principalmente tre: la fascia costiera, il capoluogo regionale e i piccoli comuni interni del sud.

Questo dato emerge chiaramente analizzando l’offerta di posti letto negli esercizi turistici, considerando tutte le tipologie, dagli hotel ai b&b.

116.929 posti letto negli esercizi ricettivi abruzzesi nel 2021.

Pnrr, ritardi e riordino della dirigenza Mappe del potere

Pnrr, ritardi e riordino della dirigenza Mappe del potere

Con l’approssimarsi di alcune importanti scadenze europee il governo deve decidere se e come modificare alcuni aspetti del Pnrr. Un percorso che però rischia di essere complicato dal contestuale riordino della governance e dei dirigenti pubblici impegnati su questo settore.

 

Il 30 aprile è una data chiave se il governo intende presentare alla commissione europea delle proposte di modifica al piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Per decidere se e quali modifiche proporre bisogna però avere chiaro il quadro degli interventi previsti. È fondamentale quindi conoscere approfonditamente le potenzialità di ogni singola misura, il loro stato di avanzamento, le relative problematiche potenziali e in essere.

Trasparenza, informazione, monitoraggio e valutazione del PNRR

Il tuo accesso personalizzato al Piano nazionale di ripresa e resilienza

Accedi e monitora

 

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Il tuo accesso personalizzato al Piano nazionale di ripresa e resilienza

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Informazioni di questo tipo possono essere fornite al governo soltanto dai dirigenti pubblici responsabili dell’attuazione degli interventi. Dirigenti che, stando a una recente riforma, rischiano di essere sostituiti da un momento all’altro in virtù di una riorganizzazione che appare più rischiosa che promettente, in particolare in un momento così delicato.

Riforma della governance e cambi nella dirigenza

Della riforma della governance del Pnrr (Dl 13/2023) e delle perplessità su una revisione organizzativa tanto profonda abbiamo già parlato in un precedente approfondimento.

Complessivamente sono molte le modifiche rilevanti introdotte dal decreto, in questa sede è importante però ricordarne alcune tra cui l’istituzione di un nuovo organo presso la presidenza del consiglio, la struttura di missione del Pnrr. Strettamente collegata è poi la profonda modifica delle competenze attribuite al servizio centrale del Pnrr della ragioneria generale dello stato. Si tratta dell’organo che originariamente rappresentava il perno dell’intero sistema e che ora perde molta della sua centralità assumendo il nome di ispettorato generale.

Inoltre a ogni soggetto titolare di misure del Pnrr è stata data la possibilità di cambiare la propria struttura di governance. Questo vuol dire che 14 ministeri e 7 dipartimenti della presidenza del consiglio potranno modificare l’organizzazione degli uffici che gestiscono le misure del Pnrr.

4 su 21 i soggetti titolari di misure Pnrr che hanno scelto di fare affidamento su una struttura esistente piuttosto che istituire un’apposita unità di missione.

In particolare i 17 soggetti titolari che hanno messo in piedi delle apposite unità di missione hanno dovuto provvedere oltre che alla loro istituzione anche alla nomina dei dirigenti. Un processo che ora chi deciderà di modificare la propria organizzazione dovrà ripetere da capo.

Nomine, dirigenti e ritardi

Già lo scorso anno la corte dei conti aveva avvertito che la lentezza delle procedure di nomina dei maggiori dirigenti (a livello dirigenziale generale) produceva ritardi a cascata. Prima di tutto rispetto alla nomina dei dirigenti di livello subordinato (non dirigenziale generale) e di conseguenza per l’adozione degli atti di cui questi sono responsabili.

i ritardi nell’individuazione dei titolari delle strutture tecniche di coordinamento si sono riflessi, a valle, nella copertura degli uffici interni.

Con la pubblicazione della nuova relazione la corte è tornata sullo stesso punto evidenziando il rischio che la nuova riforma possa portare al riproporsi di quella situazione. Un’osservazione che i magistrati contabili hanno inserito nonostante il decreto sia stato approvato solo pochi giorni prima che la corte pubblicasse la nuova relazione.

evitare che la fase di avvio delle nuove strutture sia caratterizzata da tempistiche e difficoltà simili a quelle già segnalate […] con conseguenti rischi di rallentamenti nell’azione amministrativa proprio nel momento centrale della messa in opera di investimenti e riforme.

Questo testo inoltre fornisce una sintesi della struttura dirigenziale alla guida degli uffici a fine 2022 mostrando chiaramente come la questione non riguardi solo una manciata di funzionari.

Certo è giusto precisare che probabilmente non tutte le amministrazioni titolari si avvarranno di questa possibilità. Inoltre le nuove norme hanno previsto che gli incarichi attuali decadano solo all’atto di nomina dei nuovi dirigenti. Tuttavia è evidente che una situazione di incertezza sui vertici amministrativi rende a dir poco complicata sia l’ordinaria amministrazione che, a maggior ragione, quella straordinaria. Di conseguenza, al di là del merito, ciò che lascia maggiormente perplessi è la scelta delle tempistiche.

A che punto siamo

I molti passaggi necessari affinché cambi concretamente la governance del Pnrr, al momento si trovano appena alle prime fasi. Non risulta infatti in atto quella riorganizzazione della presidenza del consiglio che pure sarebbe necessaria quantomeno per attivare la struttura di missione Pnrr.

Lo stesso vale per gran parte dei dipartimenti e dei ministeri che decideranno di modificare la propria struttura di governance. D’altronde attualmente non è stato comunicato neanche informalmente quali e quante di queste si ritiene che procederanno in questa direzione.

Al momento qualche iniziativa in tal senso si registra solo da parte del ministero dell’agricoltura e da quello dell’economia.

Nel primo caso il consiglio dei ministri (Cdm) ha approvato il decreto di modifica del regolamento di organizzazione anche se questo ancora non risulta ancora pubblicato in gazzetta ufficialeNel caso del ministero dell’economia invece il Cdm ha approvato le modifiche solo in via preliminare.

Questa attesa d’altronde risulta piuttosto comprensibile se si considera che il decreto devessere convertito in legge dal parlamento prima di assumere carattere definitivo.

Il parlamento ha 60 giorni per convertire un decreto in legge. In caso contrario la norma decade perdendo efficacia fin dal principio. Vai a “Che cosa sono i decreti legge”

Il provvedimento è stato approvato al senato e proprio in queste ore è in votazione a Montecitorio. Qui, come ormai avviene di frequente, il testo ha seguito un iter molto semplificato visto che, per non decadere, dev’essere convertito in legge entro il 25 aprile.

Foto: governo.it

 

l’IMPEGNO DEI GIOVANI PER L’AMBIENTE E GLI SPAZI VERDI NELLE CITTA

L’impegno dei giovani per l’ambiente e gli spazi verdi nelle città #conibambini

I giovani italiani sono tra i più preoccupati per l’ambiente. La cura del verde urbano può dare un contributo fondamentale in questo senso, ma restano divari nella sua disponibilità. Nelle città del mezzogiorno i metri quadri per minore residente sono molti meno della media nazionale.

 

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Rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, da alcuni anni i più giovani mostrano una maggiore sensibilità verso l’ambiente e la sostenibilità.

Si tratta di un fenomeno emerso a livello internazionale, messo in evidenza dalle manifestazioni dei Fridays for future, che si riscontra anche nel nostro paese. Una delle ultime indagini promosse dal parlamento europeo attraverso Eurobarometro ha indicato come la questione ambientale rimanga una delle priorità principali per le nuove generazioni.

Il 51% dei giovani europei tra 15 e 24 anni si dichiara molto preoccupato per il cambiamento climatico, contro il 45% nelle altre fasce d’età. Per l’Italia il divario generazionale è ancora più ampio: quasi 2 ragazzi su 3 sono molto preoccupati per il clima, a fronte di una media del 53% nella popolazione complessiva.

Questa tendenza ha portato a una maggiore mobilitazione dei più giovani sui temi della tutela dell’ambiente. Come abbiamo avuto modo di raccontare, sono soprattutto ragazze e ragazzi a partecipare ad associazioni ecologiche o per i diritti, in una percentuale sensibilmente crescente rispetto al passato.

Inquinamento e qualità dell’ambiente nelle città

In particolare preoccupano le prospettive di lungo periodo, a maggior ragione per i più giovani. Le previsioni degli esperti indicano che entro la fine di questo secolo la temperatura potrebbe aumentare di oltre 1,5 gradi centigradi.

2100 entro quell’anno l’aumento medio del livello del mare potrebbe oscillare tra i 40 e i 63 cm, in conseguenza dello scioglimento dei ghiacci.

Tuttavia le conseguenze delle emissioni di co2 sono visibili anche nel breve periodo. Nell’indagine Istat sulla vita quotidiana delle famiglie del 2021, il 9,1% dei nuclei ha dichiarato che nella zona in cui vive l’inquinamento dell’aria è un problema molto impattante.

L’inquinamento è un problema soprattutto nelle città, anche nel sud.

La quota incide in modo variabile sul territorio, anche in relazione al fatto che nella pianura padana si trova una delle aree più inquinate d’Italia e d’Europa. E infatti la quota di famiglie che dichiarano molto problematico l’inquinamento dell’aria raggiunge il 12,5% in Lombardia. Tuttavia la regione con più famiglie che dichiarano questo problema è la Campania: 13,7% dei nuclei. Seguono Lombardia, Lazio (11,7%) e Sicilia (10,4%).

Il fenomeno appare problematico soprattutto nelle città: l’11,7% dei nuclei residenti nei comuni con più di 50mila abitanti dichiara criticità nella qualità percepita dell’aria. Addirittura la quota sfiora una famiglia su 5 nei centri di area metropolitana.

19% delle famiglie che vivono nei centri delle aree metropolitane dichiarano gravi problemi di inquinamento dell’aria.

Il ruolo del verde urbano nella tutela dell’ambiente

Per mitigare tali problematiche, è importante anche la presenza e la cura di aree verdi in ambito urbano. Le aree verdi hanno un ruolo centrale nella mitigazione di tali problematiche, maggiormente impattanti negli agglomerati urbani.

Ad esempio, la presenza di verde contribuisce all’abbassamento della presenza di polveri sottili nell’aria, attenua l’inquinamento acustico, contrasta l’innalzamento delle temperature, aumenta la permeabilità del suolo, senza contare l’impatto sull’ecosistema e la biodiversità in ambito urbano.

In questo senso, le amministrazioni comunali hanno un ruolo da non sottovalutare. Nell’ultima rilevazione sulla qualità ambientale delle città, Istat ha censito i capoluoghi in cui le amministrazioni hanno promosso iniziative di manutenzione degli spazi verdi da parte di cittadini o associazioni.

75 su 109 le città che hanno promosso iniziative locali per la manutenzione del verde urbano nel 2021.

Nel 2021 sono state 75 le amministrazioni comunali che hanno previsto questo tipo di iniziative, in crescita rispetto alle 69 del 2020. Parliamo quindi di poco meno del 70% dei capoluoghi di provincia italiani, una quota che sfiora l’82% nel centro Italia, il 77% nel nord-est e si attesta al 68% nel nord-ovest. Mentre nel sud e nelle isole circa il 57% delle città capoluogo ha previsto questo tipo di interventi.

In aggiunta a questo aspetto, anche la dotazione di verde pubblico appare inferiore nelle città del sud, specialmente in rapporto ai bambini e ragazzi residenti. Si tratta di una questione che abbiamo avuto modo di approfondire in passato e che trova conferma nei nuovi dati rilasciati quest’anno, relativi al 2021.

L’offerta di verde fruibile rispetto ai minori residenti

Se si considera il complesso delle aree verdi gestite da enti pubblici e disponibili per l’accesso ai cittadini, le città italiane dispongono di oltre 342 milioni di metri quadri di verde urbano fruibile. Includendo in questa categoria parchi urbani, aree a verde storico, giardini pubblici e altri spazi verdi disponibili per la fruizione, ma non il verde incolto o le aree boschive.

Rispetto ai quasi 2,7 milioni di residenti con meno di 18 anni nei capoluoghi si tratta di circa 128 metri quadri per minore. Come era già emerso per le aree sportive all’aperto, le città del nord-est primeggiano nell’offerta di verde fruibile rispetto ai minori residenti: 218 metri quadri per ogni abitante con meno di 18 anni. Seguono quelle del nord-ovest (136,9 mq) e del centro Italia (123,5 mq), mentre i capoluoghi del mezzogiorno si attestano poco sopra i 70 metri quadri per ciascun bambino o ragazzo.

Tale tendenza emerge chiaramente osservando i dati città per città. Ai primi posti spiccano due comuni del Friuli-Venezia Giulia: Gorizia, con oltre 1.000 mq di verde fruibile per minore, e Pordenone (705,3 mq). Seguono altre città settentrionali. Nell’ordine VerbaniaMonzaFerraraReggio EmiliaSondrio, tutte con oltre 300 metri quadri per ciascun bambino residente.

La dotazione di verde fruibile rispetto ai minori residenti appare invece molto inferiore in altre realtà, del sud e non solo. Non raggiungono i 50 metri quadri per minore Catania (47,3 mq), Genova (46,1), Imperia (43,1), Taranto (42,8), Trapani (39,3), Andria (37,2), Isernia (35,7), Messina (31,5), Trani (30,3), Crotone (19,3) e Barletta (15). Undici città, di cui 9 del mezzogiorno.

Queste disparità nell’offerta di verde pubblico rispecchiano quelle nella partecipazione di cittadini e associazioni alla manutenzione e alla cura degli spazi verdi, come rilevato in precedenza. Divari su cui intervenire, tanto per la tutela dell’ambiente nelle città, quanto per quella dei diritti di bambini e ragazzi che vi abitano.

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I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi al verde urbano nelle città sono di fonte Istat e sono aggiornati al 2021.

Foto:  Allison Shelley (EDUimages) – Licenza

 

La detenzione nei Cpr alimenta il circolo vizioso dell’irregolarità Migranti

La detenzione nei Cpr alimenta il circolo vizioso dell’irregolarità Migranti

I Cpr sono strutture detentive in cui vengono trattenuti i migranti considerati irregolari. Oltre la metà vengono dalla Tunisia, un paese che l’Italia reputa sicuro nonostante sia a rischio sia per gli abitanti che per i migranti che vi transitano.

In questi giorni si sta parlando molto di Tunisia. Nel febbraio scorso, infatti, alcune dichiarazioni del presidente Kais Saied sui migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana hanno scatenato una spirale di violenza nel paese nordafricano, peraltro precipitato in una grave crisi socio-economica e politica.

A oggi l’Italia considera la Tunisia un luogo sicuro e ha stretto con il suo governo numerosi accordi di rimpatrio. Ma in realtà la situazione venutasi a creare in questi mesi nel paese preoccupa numerose organizzazioni e reti della società civile, di ricerca e soccorso in mare e di solidarietà verso i migranti, tanto che oltre 70 sigle hanno diffuso recentemente un appello, affinché le autorità europee revochino gli accordi con lo stato tunisino.

[…] rilasciamo questa dichiarazione per ricordare che la Tunisia non è né un paese di origine sicuro né un paese terzo sicuro e pertanto non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco (Place of Safety, POS) per le persone soccorse in mare.

Parallelamente in Italia sono aumentati gli investimenti nel sistema di detenzione dei migranti considerati irregolari, come abbiamo raccontato in un recente approfondimento. E l’approccio all’accoglienza è diventato gradualmente più securitario. Tutto questo ha pesanti conseguenze sia sui migranti che partono dalla Tunisia, costretti in condizioni di crescente precarietà, che sui tunisini stessi, che vengono automaticamente discriminati e privati del loro diritto di richiedere l’asilo. Quella tunisina è infatti la nazionalità più rappresentata all’interno dei centri detentivi per migranti in Italia, i centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), e la più esposta ai rimpatri forzati.

Nei Cpr si rimane detenuti per troppo tempo

I Cpr sono centri di detenzione amministrativa dove vengono trattenuti i migranti sottoposti a un ordine di espulsione, in attesa di essere rimpatriati. Si tratta di vere e proprie prigioni, dove sono rinchiuse persone che di fatto non hanno commesso alcun crimine.

Al termine della permanenza, i detenuti sono ancora irregolari.

Questi luoghi non hanno peraltro alcuna utilità visto che, a differenza di altre strutture detentive, non avviano percorsi finalizzati all’inclusione della persona. La quale, giunta al termine della sua detenzione, è irregolare quanto lo era in precedenza. In questo senso i Cpr generano un circolo vizioso che finisce per creare ancora più irregolarità, vista anche l’inefficace politica dei rimpatri. Con effetti deleteri sui migranti stessi, che vengono esclusi e relegati alla marginalità, ma anche sulle comunità, che deve gestire ulteriori ed evitabili conflitti e tensioni sociali.

La detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare.

Secondo i dati presentati dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà

La detenzione nei Cpr alimenta il circolo vizioso dell’irregolarità Migranti

La detenzione nei Cpr alimenta il circolo vizioso dell’irregolarità Migranti

I Cpr sono strutture detentive in cui vengono trattenuti i migranti considerati irregolari. Oltre la metà vengono dalla Tunisia, un paese che l’Italia reputa sicuro nonostante sia a rischio sia per gli abitanti che per i migranti che vi transitano.

 

In questi giorni si sta parlando molto di Tunisia. Nel febbraio scorso, infatti, alcune dichiarazioni del presidente Kais Saied sui migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana hanno scatenato una spirale di violenza nel paese nordafricano, peraltro precipitato in una grave crisi socio-economica e politica.

A oggi l’Italia considera la Tunisia un luogo sicuro e ha stretto con il suo governo numerosi accordi di rimpatrio. Ma in realtà la situazione venutasi a creare in questi mesi nel paese preoccupa numerose organizzazioni e reti della società civile, di ricerca e soccorso in mare e di solidarietà verso i migranti, tanto che oltre 70 sigle hanno diffuso recentemente un appello, affinché le autorità europee revochino gli accordi con lo stato tunisino.

[…] rilasciamo questa dichiarazione per ricordare che la Tunisia non è né un paese di origine sicuro né un paese terzo sicuro e pertanto non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco (Place of Safety, POS) per le persone soccorse in mare.

Parallelamente in Italia sono aumentati gli investimenti nel sistema di detenzione dei migranti considerati irregolari, come abbiamo raccontato in un recente approfondimento. E l’approccio all’accoglienza è diventato gradualmente più securitario. Tutto questo ha pesanti conseguenze sia sui migranti che partono dalla Tunisia, costretti in condizioni di crescente precarietà, che sui tunisini stessi, che vengono automaticamente discriminati e privati del loro diritto di richiedere l’asilo. Quella tunisina è infatti la nazionalità più rappresentata all’interno dei centri detentivi per migranti in Italia, i centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), e la più esposta ai rimpatri forzati.

Nei Cpr si rimane detenuti per troppo tempo

I Cpr sono centri di detenzione amministrativa dove vengono trattenuti i migranti sottoposti a un ordine di espulsione, in attesa di essere rimpatriati. Si tratta di vere e proprie prigioni, dove sono rinchiuse persone che di fatto non hanno commesso alcun crimine.

Al termine della permanenza, i detenuti sono ancora irregolari.

Questi luoghi non hanno peraltro alcuna utilità visto che, a differenza di altre strutture detentive, non avviano percorsi finalizzati all’inclusione della persona. La quale, giunta al termine della sua detenzione, è irregolare quanto lo era in precedenza. In questo senso i Cpr generano un circolo vizioso che finisce per creare ancora più irregolarità, vista anche l’inefficace politica dei rimpatri. Con effetti deleteri sui migranti stessi, che vengono esclusi e relegati alla marginalità, ma anche sulle comunità, che deve gestire ulteriori ed evitabili conflitti e tensioni sociali.

La detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare.

Secondo i dati presentati dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nel 2021 sono transitate nei centri di permanenza per il rimpatrio 5.145 persone. Ovvero il 17,5% in più rispetto al 2020, quando erano state 4.387. Appena 5 di questi erano donne e oltre la metà erano di nazionalità tunisina.

In teoria la permanenza nei centri dovrebbe avere una durata breve, sufficiente solo a identificare la persona e predisporre il suo rimpatrio. Nella realtà però spesso i detenuti si ritrovano in un limbo che può durare molti giorni. Mediamente, il loro soggiorno supera abbondantemente il mese.

36,3 giorni il tempo di permanenza nei Cpr, in media, nel 2021, secondo il garante delle libertà.

Nel Cpr di Macomer (Nuoro) la permanenza media è di quasi 74 giorni. Seguono Brindisi con 51 giorni e Torino con 47. Caltanissetta e Trapani sono invece i centri dove si registra la permanenza media più contenuta (meno di 20 giorni).

Siccome i dati sono relativi al 2021, figura ancora il Cpr di Torino, che è stato recentemente chiuso e che è ora è sotto accusa per aver somministrato arbitrariamente psicofarmaci ai detenuti per sedarli. Un caso che, secondo alcune inchieste giornalistiche, sarebbe tutt’altro che raro.

Chi sono le persone trattenute nei Cpr

Nei centri di permanenza per il rimpatrio sono state trattenute, nel 2021, persone provenienti da 71 paesi. Tuttavia le nazionalità più rappresentate sono quelle nord-africane e in particolare quella tunisina. Su circa 5mila detenuti, infatti, quasi 3mila provengono dalla Tunisia.

54,5% dei detenuti nei Cpr sono di nazionalità tunisina (2021).

I primi paesi di origine dei migranti trattenuti nei centri di permanenza per il rimpatrio sono tutti nord-africani. Prima tra tutti la Tunisia (quasi 3mila persone), seguita dall’Egitto (517) e dal Marocco (420). Insieme, proviene dal nord-Africa il 75% dei detenuti.

Stando ai dati del garante nazionale, nel 2021 il 48,9% dei detenuti è stato effettivamente rimpatriato. Per quanto riguarda gli altri, nel 31,5% dei casi l’autorità giudiziaria non ha convalidato il loro trattenimento. Due persone sono decedute.

L’Italia considera ancora la Tunisia un paese sicuro

Come accennato, i tunisini sono di gran lunga la nazionalità più rappresentata nei Cpr e sono molto frequentemente rimpatriati (nel 64,8% dei casi). Inoltre, secondo i dati del garante, 79 dei 103 voli charter di rimpatrio forzato sono partiti per la Tunisia: parliamo di 1.823 persone su 2.172, pari all’84% del totale. Costituiscono anche il 33% delle persone registrate negli hotspot – i luoghi in cui si definisce se un migrante può richiedere l’asilo o se è un “migrante economico” e quindi va rimpatriato quanto prima.

Dal 2019 la Tunisia è nella lista dei 13 paesi sicuri.

Sono dati molto eloquenti, che illustrano quello che l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha definito il “mito della sicurezza in Tunisia“. Nell’ottobre 2019, con un decreto interministeriale, l’Italia ha inserito la Tunisia in una lista di 13 paesi d’origine sicuri, con criteri che secondo Asgi sono incerti e poco trasparenti. L’incongruenza oggi risulta ancora più visibile, vista la crisi politica e socio-economica in corso e l’approccio escludente nei confronti dei migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana.

Il fatto che l’Italia consideri la Tunisia un luogo sicuro ha conseguenze su come le domande di asilo dei tunisini vengono analizzate. La procedura, come rileva Asgi, ne risulta accelerata, con tempi più ristretti e minori garanzie. Inoltre, il diritto di asilo non è propriamente esistente in Tunisia se non in una forma molto stringente (e può essere valutato e garantito solo dall’Unhcr). Pertanto, i sempre più numerosi migranti che si trovano nel paese nord-africano si trovano in situazioni particolarmente precarie.

Foto: Francesca Runza – licenza

 

La disponibilità di verde pubblico nelle città italiane Ambiente

La disponibilità di verde pubblico nelle città italiane Ambiente

Ogni anno l’istituto di statistica rileva la presenza di verde nei capoluoghi del paese. A riportare la maggiore incidenza sono quelli del nord-est, che è la zona maggiormente esposta all’inquinamento.

 

La disponibilità di aree verdi è un fattore fondamentale per la qualità della vita negli ambienti urbani. Non soltanto per il loro valore paesaggistico, estetico e di luogo di ritrovo e socializzazione. Le città presentano infatti alcune caratteristiche che contribuiscono ad aggravare gli effetti dei cambiamenti climatici. Per esempio il traffico veicolare e il consumo di suolo, che inaspriscono ulteriormente il processo di innalzamento delle temperature. Il verde urbano riesce a mitigare tali effetti negativi, rendendo gli ambienti urbani più vivibili.

Verde urbano: il ruolo degli alberi

Secondo la classificazione elaborata da Istat, rientrano nella categoria di verde urbano le ville e i giardini storici, i grandi parchi e il cosiddetto verde attrezzato (ovvero i giardini e le piccole aree dotate di impianti per i bambini). Ma anche le aree di arredo urbano come le aiuole, le rotonde e gli spartitraffico, i giardini scolastici, gli orti urbani e botanici, le aree sportive pubbliche all’aperto, le aree boschive, i cimiteri e il verde incolto.

Le foglie degli alberi assorbono Co2 e producono ossigeno.

Gli alberi sono particolarmente importanti per contrastare il cambiamento climatico. Tramite le foglie infatti essi riescono a trattenere il particolato e neutralizzare gli effetti delle sostanze inquinanti, oltre a generare ombra che aiuta a gestire l’innalzamento delle temperature. Il fogliame inoltre è capace di assorbire l’anidride carbonica e di produrre ossigeno, con un effetto diretto sull’inquinamento.

Analizziamo dunque quanti sono gli alberi a disposizione nei centri urbani del nostro paese stando all’ultimo aggiornamento Istat.

16,9 alberi ogni 100 abitanti in media nei comuni capoluogo di provincia e di città metropolitana nel 2021.

Questa è una media che riflette una situazione fortemente diversificata, con città più e meno coperte da aree alberate.

Sono entrambe in Emilia-Romagna le due città con la maggiore disponibilità di alberi in rapporto alla popolazione residente. Si tratta di Modena (115 ogni 100 abitanti, l’unico centro urbano in cui il numero di alberi supera il numero di residenti) e Reggio Emilia (52).

In generale, la maggiore incidenza si rileva nel nord-est del paese, dove il numero di alberi sale a 28,4 ogni 100 abitanti. Segue il nord-ovest con 23,4. Distante il centro con 13 alberi ogni 100 residenti e ancora più bassi i dati del sud e delle isole, rispettivamente pari a 8,9 e 3,9. I capoluoghi del nord tuttavia si trovano in zone maggiormente industrializzate e quindi inquinate. A maggior ragione, disporre di aree verdi per queste città è importante.

L’incidenza delle aree verdi nei centri urbani

Un altro indicatore importante per valutare la disponibilità di aree verdi è la loro incidenza a livello di estensione. Istat raccoglie tale dato, sia rispetto all’estensione del terreno del capoluogo in questione che in rapporto agli abitanti.

Anche in questo caso le cifre più elevate si registrano nel nord del paese (5,3% del territorio). Incidono in misura significativamente minore al centro (2,5%) e nel mezzogiorno (1,5%). Lo stesso vale per la disponibilità per abitante, che al nord sfiora i 42 metri quadri (con un record pari a 63,2 nel nord-est). Mentre non arriva a 30 mq al centro (27,4) né nel mezzogiorno (23,8).

32,5 mq per abitante, la disponibilità media di aree verdi nei centri urbani (2021).

Analizziamo quindi i dati relativi ai capoluoghi di città metropolitana.

Trieste è il capoluogo di città metropolitana con la maggiore disponibilità di verde urbano (62,4 mq per abitante), seguita da Venezia (43,6 mq) e Reggio di Calabria (37). Agli ultimi posti Messina e Bari con estensioni inferiori ai 10 mq.

Per quanto riguarda invece la copertura del territorio, il dato più elevato lo riporta Torino (15,5%), seguita, anche in questo caso, da Trieste (14,6%). A Messina la quota è inferiore all’1%.

Milano infine spicca come il comune dove la densità di verde urbano è maggiormente aumentata tra il 2011 e il 2021: + 1,8 punti percentuali (da 12% a 13,8%). Si tratta dell’unico comune capoluogo in cui l’aumento ha superato il punto percentuale.

Mentre nove centri urbani hanno perso mq per persona di verde pubblico. In particolare Bolzano (-7,9 mq per persona tra il 2011 e il 2021), Trento (-7,2) e Parma (-6,4). Si tratta comunque di 3 dei 20 comuni con l’estensione di verde maggiore.

Foto: Gianni Belloni – licenza

 

Una proposta di legge sul tema del “turismo accessibile”.

 

É approdata alla Camera dei deputati una Proposta Di Legge, la n. 997 presentata il 15 marzo 2023, che ha come tema “Disposizioni in materia di turismo accessibile e di partecipazione delle persone disabili alle attività culturali, turistiche e ricreative”.

La proposta, di iniziativa di numerosi deputati, mira a soddisfare un bisogno concreto e cioè permettere alle persone con disabilità di organizzare una vacanza in Italia o all’estero in strutture ricettive che abbiano locali pienamente accessibili, usufruendo di tutti i mezzi di trasporto indispensabili per il pieno godimento dei servizi essenziali connessi all’offerta turistica.

Fino ad oggi, erano stati realizzati numerosi bandi per il turismo accessibile attraverso azioni finalizzate allo sviluppo del turismo volto a favorire la presenza di turisti con disabilità e dei loro familiari, alla realizzazione di infrastrutture e all’organizzazione di servizi accessibili ed all’offerta turistica accessibile ed inclusiva, anche attraverso tirocini lavorativi per persone con disabilità, ma mai una vera e propria proposta di legge.

La definizione di “Turismo Accessibile”.

Iniziamo con il dire per turismo accessibile, si intende l’insieme dei servizi e delle strutture che consentono alle persone con disabilità e o esigenze di accessibilità, di fruire della vacanza e del tempo libero in modo appagante senza ostacoli né difficoltà, potendo esercitare il proprio diritto di consumatore scegliendo quindi in modo informato la struttura ricettiva e la destinazione turistica, in grado di rispondere alle proprie personali esigenze.

È possibile qualificare la vision dell’accessibilità come un elemento connotativo che migliora la percezione della qualità complessiva dell’Ospitalità, intesa come la somma dell’abbattimento delle barriere architettoniche, degli ausili e strumenti per garantire l’autonomia e l’autodeterminazione dell’Ospite indipendentemente dalle sue esigenze di accessibilità certificate o meno.

É inoltre un’impresa e non assistenza sociale, perché la persona con disabilità è un turista, un ospite ed un cliente esattamente come gli altri. Per rispondere alle richieste del turista con disabilità non basta eliminare le barriere architettoniche nelle singole strutture, ma si deve progettare un sistema ospitale che permetta di vivere una esperienza completa di vacanza. I turisti con disabilità, come tutti gli altri, non vivono la vacanza chiusi all’interno di una struttura ricettiva ma cercano risposta a specifiche motivazioni di viaggio (di natura culturale, storica, sportiva, enogastronomica ecc.). Un simile intervento esula dalla possibilità dei singoli operatori e richiede un coordinamento ed un forte coinvolgimento anche degli enti pubblici locali. Un ostacolo allo sviluppo del turismo accessibile è costituito dal sistema di comunicazione che risulta in molti casi carente e incapace di fornire le informazioni necessarie per programmare le proprie vacanze in maniera consapevole. Non basta la dichiarazione di accessibilità della struttura ad esempio, ma necessitano schede tecniche precise e verificate sulle caratteristiche delle strutture e reperibili su tutti i canali di comunicazione oltre alla normale promozione del luogo ed alla formazione del personale. Occorre inoltre, adottare un approccio sistemico per dare al turista con disabilità la possibilità di informazioni dettagliate ed esaustive sul livello di accessibilità di tutte le strutture e di tutti i servizi presenti presso la destinazione.

La Proposta di Legge.

La Pdl consta di 10 articoli, inserendo anche, cosa molto interessante, un articolo, in particolare l’8, dove vengono introdotte delle sanzioni per coloro i quali compiono atti discriminatori in violazione dell’art. 3 comma 3 del Codice del Turismo (D.L.  23 maggio 2011, n. 79) in tema di turismo accessibile, che indica come “sia considerato atto discriminatorio impedire alle persone con disabilità motorie, sensoriali e intellettive, di fruire, in modo completo ed in autonomia, dell’offerta turistica, esclusivamente per motivi comunque connessi o riferibili alla loro disabilità”.

Se, pertanto, vi dovesse essere una qualsiasi violazione in tal senso, il responsabile sarà punito con una sanzione amministrativa da € 1.000,00 ad € 10.000,00.

Gli altri articoli (in particolare 1 ed i 2) individuano le finalità in tema di turismo accessibile e la nozione dello stesso (di cui sopra si è già parlato) oltre che gli obblighi informativi (art. 3).

In tale ultimo articolo, gli operatori che esercitano le professioni turistiche, dovranno predisporre e attuare tutte le misure necessarie per assicurare un turismo accessibile.

Le Regioni saranno tenute all’osservanza degli obblighi di informazione ed inoltre per favorire il processo di accessibilità e di inclusione, l’offerta turistica dovrà indicare, in forma scritta, il livello di accessibilità alle persone con disabilità e, ove previsti, i percorsi esperienziali, i tour guidati, gli itinerari di viaggio e qualsiasi ulteriore servizio offerto, specificando i casi in cui sarà necessaria la presenza di un accompagnatore e quelli in cui sarà garantita la fruizione autonoma mediante il ricorso alternativo ad ausili tecnologici.

L’offerta turistica, compresa quella dei parchi a tema e delle strutture convegnistiche e congressuali, dovrà altresì consentire, tenuto conto della natura e delle caratteristiche storiche, paesaggistiche e culturali dei luoghi visitati, la partecipazione a qualsiasi attività culturale, iniziativa sociale e manifestazione anche al fine di garantire il soddisfacimento della richiesta di benessere delle persone con disabilità, nonché il loro arricchimento culturale mediante l’informazione, la promozione e la comunicazione turistica.

Proseguendo nella disamina, l’art. 4 indica come gli operatori che esercitano le professioni turistiche, saranno tenuti a indicare in una sezione dedicata alle pubblicazioni promozionali su qualsiasi supporto dei servizi offerti, in modo chiaro, un elenco dettagliato e completo delle strutture ricettive previste che saranno attrezzate per l’ospitalità di persone con disabilità e che saranno pienamente conformi alla normativa vigente.

Nella medesima sezione dovrà essere comunicata la tipologia degli eventuali itinerari e delle destinazioni proposte, comprese le visite guidate e i percorsi consigliati, per il soddisfacimento delle esigenze delle persone con disabilità.

Inoltre, al successivo art. 5 saranno assicurati la visitabilità e l’accesso nelle strutture pubbliche o aperte al pubblico, garantendo l’accessibilità alle visite guidate, ai musei, ai percorsi esperienziali, ai siti archeologici e alle ulteriori attività ricreative e ludiche offerte al pubblico.

Gli operatori del settore dovranno soddisfare i bisogni delle persone con disabilità garantendo loro condizioni di eguaglianza con gli altri consociati nella partecipazione alla vita culturale nonché adottare misure appropriate per assicurare l’accesso ai materiali culturali, attraverso la predisposizione di formati fruibili dalle persone ipovedenti o non vedenti e la fruizione di programmi televisivi, film, spettacoli teatrali e di ogni ulteriore attività culturale in forme accessibili, attraverso il supporto di strumenti tattili e giochi oltre che la visitabilità delle aree interne ed esterne dei luoghi in cui si svolgono le attività culturali, quali teatri, musei, cinema, biblioteche, archivi, parchi e qualsiasi edificio o luogo in cui i servizi turistici saranno erogati, garantendo, per quanto possibile, l’accesso ai monumenti e ai siti importanti per la cultura nazionale; tali servizi dovranno essere segnalati, anche in caratteri braille.

Sempre gli operatori del settore dovranno garantire in ciascuna struttura ricettiva, un numero di stanze accessibili pari ad almeno due ogni quaranta o frazione di quaranta, aumentato di due ogni quaranta o frazione di quaranta in più, al fine di garantire l’accessibilità delle persone con disabilità che utilizzano tipologie diverse di carrozzina e di agevolarne l’accesso in autonomia.

All’interno di ciascuna struttura ricettiva dovrà essere garantita la fornitura
di apposite mappe di orientamento in caratteri braille per le persone non vedenti o
ipovedenti.

Inoltre sarà consentito l’ingresso di cani guida per persone non vedenti o ipovedenti, per l’assistenza a persone con disabilità motoria, con patologia diabetica o con disturbi dello spettro autistico e ad ogni altro animale con funzioni di assistenza alla persona.
Per assicurare una maggiore efficacia nell’abbattimento delle barriere architettoniche, sarà istituito, nello stato di previsione del Ministero del turismo, un fondo, con
una dotazione pari a 20 milioni di euro annui
, destinato alla riqualificazione, alla ristrutturazione e alla manutenzione straordinaria delle strutture ricettive, compresi i “bed and breakfast” a conduzione ed organizzazione familiare, gestiti da privati, utilizzando parti della propria abitazione, con periodi di apertura annuali o stagionali e con un numero limitato di camere e di posti letto, gli alberghi e le strutture agrituristiche.

Il successivo art. 6 determina come ogni struttura ricettiva dovrà garantire a chiunque, comprese le persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, la possibilità di raggiungere l’edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruire degli spazi e delle attrezzature in condizioni di autonomia e sicurezza nonché di accedere agli spazi di relazione e ad almeno un servizio igienico in ciascuna unità immobiliare.

Sono considerati spazi di relazione, gli spazi di soggiorno o di pranzo dell’alloggio e quelli di lavoro, servizio e incontro nei quali le persone entrano in rapporto con la funzione ivi svolta.

Al fine di garantire l’inclusione delle persone con disabilità attraverso l’accessibilità e la visitabilità delle strutture ricettive, dovranno essere integralmente rispettati i criteri di progettazione per, ovviamente, evitare ogni tipo di barriera architettonica.

L’art. 7 individua inoltre delle agevolazioni nell’acquisto dei servizi turistici.

Infatti alle persone con disabilità che acquisteranno servizi turistici offerti da strutture che garantiscono condizioni di accessibilità maggiori e ulteriori rispetto a quelle minime previste dalla normativa vigente e, in particolare, che assicureranno una maggiore facilità di fruizione, l’accessibilità e la visitabilità dei beni culturali e naturali nei luoghi visitati, dei musei e dei luoghi della cultura in generale, nonché da strutture che garantiscano l’assenza totale di barriere architettoniche e sensoriali, la presenza di aree per il parcheggio dedicate per le persone disabili e per le donne in stato di gravidanza, l’attività di ristorazione con formazione specifica del personale per l’assistenza alle persone con patologie di origine alimentare, sarà riconosciuto, a decorrere dall’anno 2023, un contributo, sotto forma di credito d’imposta, nella misura del 30 per cento della spesa complessivamente sostenuta.

Il contributo sarà riconosciuto anche se la spesa sarà sostenuta nell’interesse di un familiare, anche se fiscalmente non a carico.

Se il documento di spesa sarà intestato alle persone con disabilità, il contributo
spetterà al familiare che avrà sostenuto in tutto o in parte la spesa, a condizione che integri il documento di spesa, annotando l’importo da lui sostenuto.

Lo stesso familiare sarà tenuto a fornire la documentazione comprovante la spesa in sede di controllo della dichiarazione dei redditi.

Ai fini del riconoscimento del contributo, gli aventi diritto dovranno inoltrare, in via telematica, entro novanta giorni dalla data di pagamento dei beni e dei servizi, un’istanza all’Agenzia delle entrate, allegando la documentazione che comprova l’importo della spesa sostenuta.

L’Agenzia delle entrate, qualora accertasse che il contributo sia in tutto o in parte non spettante, procede al recupero dell’importo corrispondente.

Dell’art. 8 abbiamo già parlato, mentre con l’art. 9 si introduce una novità molto interessante; infatti con decreto del Ministro dell’istruzione e del merito, di concerto con il Ministro del turismo, da adottare entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, si integreranno i programmi didattici degli istituti di istruzione professionale con indirizzo enogastronomia e ospitalità alberghiera, mediante l’inserimento nell’offerta formativa di discipline specifiche in materia di turismo accessibile, di disabilità motoria e di intolleranze alimentari.

L’ultimo articolo (10) concederà la possibilità al Governo, attraverso le amministrazioni competenti secondo le rispettive responsabilità, di provvedere al monitoraggio della corretta attuazione delle disposizioni della legge e trasmettere alle Camere, ogni due anni, una relazione sullo stato di attuazione della legge medesima.

Si tratta senza dubbio alcuno di una PDL interessante, che si innesta sulla scia di tante iniziative importanti portate avanti da questo ma anche dai precedenti Governi; si spera che questa iniziativa possa avere uno sbocco legislativo quanto prima, magari con alcuni piccoli correttivi, per continuare nella doverosa ed opportuna “cultura” sul tema della disabilità.

Approfondimento a cura del Centro Studi Giuridici HandyLex
 
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Neredide Rudas

  
 
 

Neredide Rudas L’isola dei coralli e l’identita’ 

Il corallo, quella preziosa arborescenza di cui la Sardegna è ricca e che anziché espandersi all’esterno si ramifica nelle profondità marine, metaforicamente rappresenta per Nereide Rudas la storia e l’identità dell’Isola: un’identità lacerata e fessurata. Ciò perché, come Sardi, storicamente, abbiamo sempre avuto un rapporto problematico con la realtà, una non conciliazione con il mondo. Di qui l’insicurezza e la sofferenza, frutto anche degli imperativi che ci hanno imposto dall’esterno i dominatori che si sono via via alternati nell’Isola: imperativi drammaticamente azzeranti, repressivi e nullificanti.
L’Identità di cui parla Nereide Rudas nel saggio non è analizzata però secondo le modalità della sociologia o dell’antropologia, ma secondo l’ottica specifica dell’attenzione psichiatrica: un’identità scissa, vissuta come problema, dentro i labirinti della sofferenza e dei tormenti, non come tranquilla modalità di essere nel mondo: quella sofferenza che ha segnato l’esistenza individuale e collettiva dei sardi.
Un’identità di cui l’autrice – più che cogliere l’essenza – s’interroga sul corpo dei significati che vogliamo esprimere con essa. Un’Identità dinamica, come percorso e progetto, non data e definita una volta per tutte, il che non significa che non ci sia qualcosa di stabile. Un’identità individuale ma che affonda in un corpo sociale, che invera quella dei singoli e la fa diventare concreta.
Un’identità che nei romanzieri e scrittori sardi – in Deledda come in Lussu, in Giuseppe Dessì e Salvatore Satta come in Salvatore Cambosu e Francesco Masala – è così forte che la Sardegna non è un semplice scenario, uno sfondo, ma la vera protagonista, non un luogo ma il luogo, non l’oggetto ma il soggetto.
Colpisce nel saggio di Nereide, pur in presenza di analisi di tipo psichiatrico e psicanalitico, la cifra della scrittura, la levità e il nitore del linguaggio, la suggestione della sua prosa, che affascina, che incanta e che cattura.
Certo per Nereide Rudas la memoria di noi sardi come una preziosa arborescenza di corallo, anziché ergersi e dilatarsi nell’aria si è inabissata nel nostro mare interno. Invece di espandersi e svilupparsi nel di-fuori, si è sommersa ed estesa nel di-dentro: ma, indovandosi, è diventata tenace e labirintica.
Certo, siamo un’Isola con sacche di arretratezza e di infelicità e non abbiamo ancora metabolizzato il nostro lutto, ma abbiamo grandi possibilità. Per la Sardegna si profila un orizzonte più felice e prospero se sapremmo coltivare e mettere a frutto i coralli nascosti. Bisogna però, secondo l’autrice, impegnarsi in un grande sforzo collettivo, in un serio, profondo e rigoroso progetto culturale. E conclude: allora la misteriosa “creatività” dei sardi di cui ho tentato di illuminare la faccia nascosta, si potrà dispiegare più potente e libera.

Gli ASSASSINI DI SA DIE E L’IGNORANZA

GLI ASSASSI NI DI SA DIE
E L’IGNORANZA.
ORA CI SI METTE ANCHE LA STAMPA

di Francesco Casula

Sono molti i becchini di Sa Die de sa Sardigna. Le istituzioni regionali e i Partiti in primis. Ora ci si mette anche la Stampa: in un quotidiano on line Cagliari-Casteddu, leggo che sarebbe “una inutile festa”.
Mi auguro che sia semplice ignoranza: ovvero che non conoscono (o non hanno capito):
1. Il significato storico.
Intanto occorre chiarire che non si è trattato di “robetta”: magari di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi: come pure è stato scritto. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».
“Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale”,
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico
né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione
di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione, lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

2. Il significato simbolico.
I Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani!
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante oggi nella Festa di Sa Die de sa Sardigna è proprio il suo il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Sia ben chiaro: nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza; quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.

Ricordando, a 48 anni dalla sua morte, Salvatore Satta .

Ricordando, a 48 anni dalla sua morte, Salvatore Satta .
 
di Francesco Casula
 
Ricorre oggi il quarantottesimo anniversario della morte di Salvatore Satta, accademico, giurista e narratore di vaglia, segnatamente per il suo capolavoro: Il giorno del giudizio. Esso pubblicato postumo, nell’anno stesso della sua morte, nel 1975, susciterà sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano mai state registrate in Sardegna. In pochi mesi venderà 60.000 copie e conoscerà subito decine di edizioni, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un’opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell’esistenza. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina. Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell’unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l’inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell’atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene. Il romanzo nasce – è lui stesso a scriverlo in alcune lettere – come “storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna, un’isola di demoniaca tristezza”. Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l’autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall’arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all’altra, fa da filo conduttore dell’intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente). Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell’esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l’allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte. La morte effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall’incipit: con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano. Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C’è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente, la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l’autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che fosse esistente. Nell’aforisma “la morte è eterna ed effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza speranza”. L’autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi. Nel Giorno non c’è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo, troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie. La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciutezza dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.
 
 
 
 
 
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SA DIE DE SA SARDIGNA

SA DIE DE SA SARDIGNA

di Francesco Casula

Pro amentare sa dispidida de sos Piemontesos est nàschida ”Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma deo prefèrgio a li nàrrere “Festa natzionale de sos Sardos” – cun sa lege n.44 de su 14 Cabudanni de su 1993. Cun issa sa Regione Autònoma de sa Sardigna at chertu istituire una die de su pòpulu sardu, de tzelebrare su 28 de Abrile de cada annu, in ammentu – fia narende- de sa rebellìa populare de su 28 de Abrile de su 1794, est a nàrrere de sos “Vespri sardi” chi nch’ant giutu a s’espulsione dae Casteddu e dae s’Isula de sos Piemontesos e de àteros istràngios fideles a sa corte sabauda, inclùdidu su Vitzeré Balbiano chi nemos podiat bìdere.
Su problema chi oe tenimus in dae in antis, a livellu mescamente culturale, no est tantu su de torrare a pònnere in discussione sa data o, peus, su balore matessi de una “Festa natzionale sarda”, ma de non nche la torrare a unu ritu ebìa, a una vacàntzia iscolàstica ebia o a un’eventu petzi folclòricu e de festa.
Su problema est su de la cambiare in un’ocasione de istùdiu – mescamente in sas iscolas – de s’istòria e de sa cultura sarda, de cunfrontu e de discussione collettiva e populare, pro cumprèndere su chi semus istados, su chi semus e cherimus èssere; pro difèndere e isvilupare s’identidade nostra e sa cussèntzia nostra de pòpulu e de natzione; pro gherrare pro una Comunidade moderna e soverana, chi siat bona a pònnere in campu s’orgògliu e su protagonismu de sos Sardos, detzisos, in fines, a otènnere unu riscatu, o siat unu tempus benidore de ditzosidade e de bonistare, lassende•si in palas sa rassignatzione, sas lamentas, sos prantos e sos cumplessos de inferioridade e aende s’ànimu de “nche bogare” sos “Piemontesos noos” o romanos o milanesos chi siant, non prus pagu barrosos, prepotentes isfrutadores e “tirannos” de cussos dispididos dae Casteddu su 28 de Abrile de su 1794.
“Fu un momento esaltante – at iscritu Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Semper e cando, lassende a un’ala totu custu e s’eventu particulare, su chi contat oe est su balore simbòlicu de autocussèntzia istòrica e de fortza unificante. Perunu torròngiu in palas nostàlgicu o risentidu cara a su tempus coladu, duncas: ma su tempus coladu sepultadu, cuadu, rimòvidu, si tratat, in antis de totu, de nche lu tirare dae suta de terra e de lu connòschere, a manera chi diventet fatu nou chi intèrrogat s’esperièntzia de su tempus atuale, pro pònnere fronte a su tempus presente in s’atualidade drammàtica sua, pro definire un’orizonte de sensu, pro nos situare e pro abitare, abertos a s’alenu suo, su mundu, gherrende contra a su tempus de s’ismèntigu. Unu tempus coladu chi – pèrdidu petzi in aparièntzia – tocat de l’agatare ca est durada, eredidade, cussèntzia. In issu, infatis, si inferchit su balore de s’’Identidade, no istàticu e tancadu, non memòria cristallizada ma patrimòniu chi benit dae largu e fundamentu in ue fàghere falare aportos noos de culturas, de bidas individuales e sotziales chi determinant semper identidades noas
Su messàgiu de Sa die est diretu mescamente a sos giòvanos e s’ocasione istòrico-culturale est destinada in antis de totu a sos istudentes, pro chi otèngiant sa cunsapevolesa de apartènnere a un’istòria e a una tzivilidade e de ereditare unu patrimòniu culturale, linguìsticu, artìsticu e musicale, ricu de siendas de elaborare e cunfrontare cun esperièntzias e propostas de unu mundu prus mannu e cumplessu. In ue, moende dae raighinas seguras e frunidos de alas fortes, potzant bolare in artu: sos giòvanos e 

 
 
 
 
 
 
 

Sant’Anselmo d’Aosta

 

Sant’ Anselmo d’Aosta


Nome: Sant’ Anselmo d’Aosta
Titolo: Vescovo e dottore della Chiesa
Nascita: 1033, Aosta
Morte: 21 aprile 1109, Canterbury, Inghilterra
Ricorrenza: 21 aprile
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Canonizzazione:
1163, Roma, papa Alessandro III

Questo Santo è chiamato, a ragione, il primo degli Scolastici, ossia quei filosofi che ripresero lo studio della vera e sana filosofia del grande Aristotile, cristianizzandola.

Nacque Anselmo ad Aosta, cittadina del Piemonte, nell’anno 1033, da Gandolfo e Ermemberga, nobili e ricchi signori. Il padre, uomo d’affari, poco si curò dell’educazione del figlio, anzi conosciuta la sua vocazione la ostacolò. La madre invece, donna di soda pietà, conscia dell’alta sua missione, già con il latte materne instillò nel figlio quella pietà che in modo straordinarie doveva poi onorare il nostro Santo.

Quindicenne deliberò di abbandonare il mondo, tanto gli apparve brutto, e decise di consacrarsi al servizio del Signore. Però la volontà contraria del padre e la repentina perdita della madre lo distolsero dal suo proposito.

Così duramente provato, Anselmo s’abbandonò per un po’ di tempo al malevolo influsso del mondo: il suo spirito si raffreddò, il mondo gli apparve bello ed affascinante ed il suo cuore inesperto gli si attaccò.

Il Signore però l’attendeva, e ben presto lo ritrasse da sì fatale china, servendosi dello stesso suo padre. Incominciò questi a trattare il figlio così severamente, da costringerlo ad abbandonare la casa e cercare in terra straniera un migliore avvenire.

Riparò in Francia ove Dio lo chiamava. Per tre anni andò ramingo senza casa e senza scopo alcuno, ed infine l’amore allo studio lo spinse ad entrare come discepolo nel monastero del Bec in Normandia, ove insegnava il celebre Lanfranco di Pavia.

Quivi Anselmo trovò grande diletto nello studio; il suo cuore delicato che non reggeva ai maltrattamenti paterni, trovò nel suo maestro un nuovo padre che teneramente l’amava e conobbe l’oggetto che veramente doveva amare: il Divin Maestro. Allora ritornarono presto nell’anima sua i giovanili propositi e i santi desideri di perfezione: sicchè decise risolutamente d’abbandonare il mondo. Entrò nell’Ordine Benedettino e vestì l’abito religioso.

« Si vide in lui, scrive il P. Rosa, novizio e giovane professo, l’asceta austero, e il fratello dolce e affabile che si rende caro a tutti; nel priore, il lavoratore indefesso e il provveditore instancabile, custode rigido della disciplina religiosa; nell’abate, il consigliere e il padre autorevole non meno che amabile coi suoi figli; ed inoltre maestro, filosofo e mistico, scrittore e predicatore, promotore e riformatore della vita religiosa ».

È ammirabile la fortezza di quest’uomo : ebbe tanto a soffrire, sia da parte dei confratelli più anziani, sia da parte del re inglese il quale giunse ad esiliano: ma e questi e quelli egli ricambiò con atti di squisita carità.

Dopo alcuni anni d’esilio, fu richiamato alla sua sede primaziale di Cantorbery, ove santamente rese l’anima al Signore che generosamente aveva servito, il 21 aprile 1109.

I suoi scritti gli meritarono dalla S. Chiesa il titolo di Dottore.

PRATICA. Formiamo la nostra mentalità cattolica sopra la dottrina vera che è quella della Chiesa, leggendo i periodici, i giornali, i libri da lei approvati e non permettendoci mai di leggere stampa cattiva o frivola.

PREGHIERA. Dio, che al popolo tuo desti per ministro di eterna salvezza il beato Anselmo, esempio preclaro di pazienza, dehil fa’ che come l’abbiamo avuto dottore in vita sulla terra, così meritiamo di averlo intercessore in cielo.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Canterbury, nell’Inghiltérra, sant’Ansélmo Vescovo, Confessore e Dottore della Chiesa, illustre per santità e per dottrina.

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Domande Frequenti

  • Quando si festeggia Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Quando nacque Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Dove nacque Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Quando morì Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Dove morì Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Di quali comuni è patrono Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Chi sono i dottori della Chiesa?

     

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Che cos’è il Def, documento di economia e finanza

Che cos’è il Def, documento di economia e finanza

Questo documento delinea la situazione presente dell’economia di uno stato e definisce gli obiettivi da raggiungere tramite le riforme.

Definizione

Il Documento di economia e finanza (Def) è il principale dossier di programmazione finanziaria di uno stato. La sua attuale composizione è stata definita dalla legge 39/2011 che ha modificato la precedente 196/2009 in seguito alle nuove regole adottate dall’Unione europea per il coordinamento delle politiche economiche dei singoli stati membri.

A livello comunitario, il regolamento Ue 473/2013 prevede l’elaborazione di strumenti di programmazione e definisce le disposizioni per il loro monitoraggio e la loro valutazione, oltre alle procedure per la correzione dei disavanzi eccessivi degli stati membri che hanno adottato l’euro.

In base alle norme vigenti, il Def si compone di tre sezioni: 

  • il Programma di stabilità (Ps), richiesto a fine di controllo da parte dell’Unione europea, che descrive il quadro macroeconomico dello stato, gli obiettivi di finanza pubblica per gli anni successivi e le strategie di bilancio per raggiungerli, tenendo in considerazione la sostenibilità nel lungo periodo;
  • le analisi e le tendenze di finanza pubblica in cui sono riportati i risultati e le previsioni dei principali settori di spesa, del conto di cassa del settore pubblico e del bilancio statale, oltre alla programmazione delle risorse destinate alla coesione territoriale;
  • il Programma nazionale di riforma (Pnr), anche questa una documentazione da presentare agli organismi di competenza dell’Unione europea, che contiene l’aggiornamento delle strategie di riforma in relazione al periodo storico-economico in corso.

In Italia il Def viene predisposto su impulso del presidente del consiglio e del ministro dell’economia. Questi ultimi poi lo sottopongono prima all’approvazione del consiglio dei ministri e successivamente a quella del parlamento. 

In base alle norme vigenti, il Def dovrebbe essere presentato alle camere entro il 10 aprile di ogni anno. Queste dovrebbero poi approvare il documento tramite una risoluzione che impegna l’esecutivo alla presentazione di una legge di bilancio. L’iter dovrebbe concludersi entro il 30 aprile. Termine ultimo entro il quale è previsto l’invio della prima e della terza sezione del Def alla commissione europea e al consiglio dell’unione europea che esprimono le loro raccomandazioni. Non sempre in passato queste scadenze sono state rispettate. Anche se tutto il ciclo che porta alla definizione del bilancio programmatico dello stato deve concludersi tassativamente entro il 31 dicembre di ogni anno.

La presentazione del Def apre la fase programmatica del ciclo di bilancio (anche detta semestre europeo). In questo periodo (che va da aprile alla fine di settembre) il governo si pone degli obiettivi. Le misure finalizzate al loro raggiungimento sono poi definite nella fase successiva dell’anno (semestre nazionale) che culmina con la presentazione e l’approvazione della legge di bilancio.

Dati

All’interno del Def sono presenti delle stime sugli indicatori macroeconomici e di finanza pubblica, che hanno un peso importante nella definizione delle politiche economiche e di riforma di uno stato. Questi sono raggruppati in due focus chiamati quadri, che sono di due tipi:

  • tendenziale, che analizza la situazione al netto delle manovre di finanza pubblica;
  • programmatico, che incorpora gli effetti degli interventi definiti dalla legge di bilancio.

Per quanto riguarda le analisi macroeconomiche, ovvero delle dinamiche di funzionamento economico di uno stato, uno dei componenti su cui si concentra il programma di stabilità è il prodotto interno lordo (Pil). Questo è un indicatore che permette di inquadrare la situazione economica di un paese in base ai consumi, agli investimenti, alla spesa pubblica, alla tassazione e alla bilancia import-export.

Da questo punto di vista nel Def del 2023 si prevede un aumento del Pil. Nell’anno in corso è stimata una crescita dello 0,9% su base tendenziale e dell’1% su quella programmatica. La crescita stimata è ancora maggiore nel 2024 dove il Pil a livello tendenziale dovrebbe far registrare un +1,4% e un +1,5% su base programmatica. Valori positivi sono stimati anche per gli anni successivi.

Rispetto alle previsioni contenute nella nota di aggiornamento al Def (Nadef) del 2022 le stime di crescita per quest’anno sono state riviste al rialzo. Si passa infatti da un +0,6% nel quadro tendenziale per il 2023 a un +0,9%. Tendenza diversa invece per il 2024 in cui sia passa da un aumento stimato del Pil dell’1,8% a un +1,4%.

A questo proposito occorre precisare che l’ufficio parlamentare di bilancio ha specificato che queste stime assumono la completa realizzazione degli investimenti previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza. Eventualità però che non può essere data per scontata.

Le previsioni sono validate sulla base delle informazioni congiunturali disponibili a oggi e assumendo la piena e tempestiva realizzazione dei progetti del PNRR. Il quadro è tuttavia instabile e incerto, anche per le tensioni geopolitiche e finanziarie, per cui le prospettive potrebbero cambiare in misura non trascurabile nel corso dell’orizzonte di previsione.

Dal lato della finanza pubblica, i quadri programmatici e tendenziali riportano gli indicatori legati all’indebitamento dello stato. Questi indicatori sono importanti per poter orientare le strategie di riforma necessarie per raggiungere gli obiettivi in modo tale che questi siano sostenibili nel lungo periodo. Da questo punto di vista, un indicatore importante è quello del rapporto tra debito pubblico e Pil.

Possiamo osservare che le stime prevedono una costante diminuzione di questo indicatore. Si passa infatti da un rapporto debito/Pil del 146,7% nel 2021 a una stima del 137,9% nel 2026.

La diminuzione del rapporto debito/Pil dovrebbe indicare una maggiore sostenibilità del sistema economico-finanziario del paese. Tuttavia questi indicatori vanno sempre presi con le dovute cautele. È noto infatti come il debito pubblico sia costantemente sotto controllo da parte delle istituzioni europee che puntualmente chiedono ai governi di adottare strategie per ridurlo. Non sempre però queste strategie trovano concreta attuazione.

Analisi

Il Def ha un ruolo molto importante all’interno della formazione del bilancio di previsione dello stato. Compone infatti la base su cui si effettua la manovra di correzione di bilancio assieme al bilancio a legislazione vigente (Dlb). Questa esprime a sua volta l’andamento tendenziale delle entrate e delle spese sulla base delle scelte effettuate in passato.

La prima pubblicazione del Def nella sua forma attuale risale al 2011. Tuttavia l’esperienza italiana della programmazione della finanza pubblica è molto precedente. Storicamente però è emersa la scarsa attendibilità per quanto riguarda le previsioni macroeconomiche. Oltre al debole raccordo tra quanto previsto in sede di programmazione e la predisposizione delle misure concrete da inserire nella legge di bilancio relativa.

Le istituzioni europee hanno un ruolo importante nella definizione della politica economica nazionale.

Negli ultimi anni però, con la crescente importanza dell’armonizzazione dei processi a livello comunitario, il quadro è un po’ cambiato. È infatti in corso un allineamento fra tutti i paesi membri delle norme legislative, doganali, amministrative, fiscali e delle operazioni di politica monetaria. Nel dettaglio, il Def si colloca al centro del semestre europeo. Un periodo durante il quale l’Unione coordina le politiche economiche e di bilancio degli stati membri. Questo per la necessità di sincronizzare i calendari degli stati al fine di allineare gli obiettivi delle politiche nazionali di bilancio, di crescita, dell’occupazione e degli aspetti sociali, considerando anche gli obiettivi stabiliti sul piano comunitario.

La necessità di questo coordinamento sovranazionale ha certamente un impatto positivo per quanto riguarda l’affidabilità dei documenti di finanza pubblica redatti dal governo.

 

Cos’è il cuneo fiscale

Cos’è il cuneo fiscale

Comprende le imposte sui redditi e i contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore. Corrisponde alla differenza tra il costo del lavoro e la retribuzione netta.

Definizione

La paga finale percepita dal lavoratore non è la stessa che viene versata dal datore di lavoro. La differenza tra il lordo e il netto corrisponde al cuneo fiscale ed è composta da imposte e contributi. Sono inclusi principalmente l’imposta sul reddito da lavoro (in Italia chiamata Irpef) e i contributi previdenziali che vengono versati sia dal lavoratore che dal datore di lavoro. Si può calcolare sia per chi è assunto con un contratto da lavoratore dipendente sia per il lavoratore autonomo e il libero professionista.

Il cuneo fiscale non va confuso con il costo del lavoro. Quest’ultimo è infatti il costo totale che viene sostenuto dall’azienda per mantenere il lavoratore, compreso anche di tasse, imposte e contributi.

Dati

Per quel che riguarda il calcolo del cuneo fiscale, bisogna tenere conto che la tassazione del lavoro e il versamento dei contributi sono soggetti a numerose specificità, come viene puntualizzato dall’Ocse. Contratti di diverso tipo e livello prevedono aliquote di tassazione differenti. Ma sono numerose anche le differenze tra i settori e la composizione del nucleo familiare. Per semplificare, si considera un lavoratore che percepisce uno stipendio medio e che non ha figli a carico.

41,3% il cuneo fiscale medio in Ue (Ocse, 2021).

Il calcolo della media non tiene conto di tutti i paesi dell’Unione dal momento che non tutti rientrano nell’Ocse. Sono stati esclusi per mancanza di dati Bulgaria, Cipro, Croazia, Malta e Romania. Possiamo comunque vedere che tra tutti gli altri paesi si tratta di un dato piuttosto eterogeneo.

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DA SAPERE

Il dato misura quanto le imposte incidono sul costo totale del lavoro. Si prende in considerazione il cuneo fiscale di un contribuente medio senza figli. Sono inclusi tutti i lavoratori dei settori B-N della classificazione Nace.

Il dato non risulta disponibile per tutti i paesi europei.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Ocse
(consultati: lunedì 17 Aprile 2023)

 

Il paese con il cuneo fiscale più alto è il Belgio (52,6%) seguito da Germania (48,1%) e Austria (47,8%). I tre stati con l’incidenza minore sono Paesi Bassi (35,3%), Polonia (34,8%) e Irlanda (34%). In questo scenario, il cuneo italiano è tra i maggiori. Si colloca infatti al quinto posto con una percentuale pari al 46,5% del costo del lavoro. Si tratta di un valore superiore di circa 5 punti percentuali rispetto alla media calcolata per i paesi europei che registrano il dato.

Analisi

Imposte e contributi sono entrate importanti per uno stato. Attraverso le imposte si finanziano i servizi per il cittadino e si contribuisce alla stabilità di bilancio mentre i contributi sono fondamentali per il sostentamento del sistema pensionistico. È però necessario bilanciare le varie forme di entrata per garantire un adeguato livello di finanziamento dello stato e l’equità tra le diverse condizioni economiche dei cittadini.

A livello europeo si è spesso discusso della possibilità di limitare il cuneo fiscale, come ad esempio le imposte ambientali oppure quelle sugli immobili. Un valore eccessivamente elevato può infatti avere un impatto negativo sulla domanda e sull’offerta del lavoro, ridurre gli incentivi per cercare lavoro, aumentare le ore lavorate e assumere nuovi lavoratori.

A high tax wedge can exert a negative impact both on labour supply and demand, weakening incentives to look for work, to work additional hours and to hire new staff.

Per quel che riguarda nello specifico il caso italiano, nel 2022 si è espresso il consiglio europeo all’interno di una raccomandazione sulla stabilità finanziaria dell’Italia. Secondo il consiglio, il cuneo fiscale italiano è particolarmente alto per tutti i livelli di reddito rispetto agli altri stati dell’Unione mentre rimangono meno utilizzate altre fonti di entrata che inciderebbero meno negativamnte sulla crescita economica del paese.

The tax wedge on labour remains very high at all income levels compared to other Member States. At the same time, other sources of revenues, less detrimental to growth, are underused, leaving room to further reduce the tax burden on labour in a budgetary neutral way.

 
Cosa: