Archivi giornalieri: 15 aprile 2023

Il governo Meloni non risponde alle interrogazioni del parlamento Governo e parlamento

Il governo Meloni non risponde alle interrogazioni del parlamento Governo e parlamento

Dal suo insediamento l’attuale esecutivo ha ricevuto oltre 800 atti di sindacato ispettivo da parte delle camere. Ha risposto solamente nel 27% dei casi, il dato più basso delle ultime legislature.

Come abbiamo raccontato in diversi approfondimenti, il governo Meloni fin dal suo insediamento ha dovuto far fronte a una serie di urgenze. Dalla guerra in Ucraina alla predisposizione della legge di bilancio, dalla gestione del Pnrr fino alle tragedie nelle Marche e a Ischia e, più recentemente, sulle coste di Cutro.

Abbiamo visto inoltre come questa dinamica possa contribuire a spiegare il massiccio ricorso alla decretazione d’urgenza operato dall’attuale esecutivo. Ma un’altra possibile conseguenza è il numero estremamente basso di risposte fornite dal governo ai cosiddetti atti di sindacato ispettivo presentati dagli esponenti di camera e senato.

L’esecutivo infatti deve sempre rendere conto al parlamento del proprio operato, in virtù del rapporto fiduciario che lo lega a quest’ultimo e senza il quale sarebbe costretto alle dimissioni. Interrogazioni e interpellanze, oltre al ruolo di sindacato ispettivo, in molti casi possono avere anche anche un valore simbolico, dato dal fatto che una questione viene portata all’attenzione delle aule parlamentari e dell’opinione pubblica. Questo, e il loro alto numero in termini assoluti, ha portato negli anni i governi a non dare sempre seguito alle richieste di chiarimento presentate.

Per quanto riguarda l’attuale esecutivo ad esempio, gli atti di sindacato ispettivo prodotti fino al 31 gennaio sono stati 875 ma solo 238 di questi hanno ricevuto una risposta.

27,2% le risposte fornite dal governo Meloni agli atti di sindacato ispettivo del parlamento.

Si tratta del dato più basso, almeno per ora, se si considerano gli esecutivi delle ultime 3 legislature. Questa tendenza, unita al sempre più frequente ricorso a decreti legge e questioni di fiducia, evidenzia ancora una volta la crisi del nostro sistema politico. In cui la principale assemblea rappresentativa ricopre un ruolo sempre più marginale.

Le risposte fornite dal governo Meloni

Negli ultimi anni ci siamo abituati a vedere esponenti del governo presentarsi alle camere per rendere comunicazioni e informative. Si tratta di atti dovuti da parte del governo che si svolgono in particolari occasioni. Ad esempio alla vigilia dei vertici europei o in circostanze particolarmente gravi come la guerra in Ucraina o la tragedia di Cutro.

24 le comunicazioni, informative e relazioni rese dal governo Meloni alle camere dal suo insediamento.

Si tratta però di un numero estremamente limitato di interventi rispetto a tutti gli atti di sindacato ispettivo presentati dal parlamento. Camera e senato infatti hanno a disposizione anche altri strumenti che, in teoria, dovrebbero servire per ottenere informazioni dal governo su fatti di particolare interesse pubblico. Si tratta delle interrogazioni e delle interpellanze. Questi atti possono essere suddivisi in varie sottocategorie. Ci sono quelli a risposta scritta, quelli a risposta orale, quelli presentati e svolti in commissione e quelli svolti invece in assemblea.

Come abbiamo già anticipato, dal 22 ottobre 2022 (data dell’insediamento) al 31 gennaio 2023, al governo Meloni sono stati sottoposti in totale 875 atti di sindacato ispettivo. Le più numerose sono le interrogazioni a risposta scritta (352). Seguono le interrogazioni a risposta in commissione (206 quelle ordinarie, 112 quelle a risposta immediata). Le interrogazioni a risposta immediata in assemblea depositate sono state 76 mentre quelle a risposta orale 67. Per quanto riguarda le interpellanze ne sono state presentate 36 ordinare e 26 urgenti.

Il governo non può non rispondere alle interrogazioni a risposta immediata. Ma sono una piccola parte degli atti ispettivi presentati.

Logicamente, gli atti ispettivi a risposta immediata fanno registrare un alto tasso di risposte da parte dell’esecutivo. Anche perché questo non può sottrarsi alle domande poste dai parlamentari. Le interrogazioni a risposta immediata in commissione infatti sono state svolte nel 93,7% dei casi mentre le interpellanze urgenti hanno avuto risposta il 92,3% delle volte. Il governo infine ha risposto all’89,5% delle interrogazioni a risposta immediata presentate in assemblea. Considerate insieme però queste tre tipologie rappresentano appena un quarto di tutti gli atti di sindacato ispettivo presentati.

In tutti gli altri casi la percentuale di risposta diminuisce drasticamente. Infatti si sono svolte solamente il 22,4% delle interrogazioni a risposta orale mentre in tutti gli altri casi la percentuale scende addirittura sotto il 5%.

Preso complessivamente il tasso di risposta del governo Meloni risulta particolarmente ridotto e si attesta al 27,2%. Si tratta del dato più basso confrontando le performance su questo fronte degli ultimi 7 governi.

Ovviamente la legislatura è ancora agli inizi e l’attuale governo, se lo vorrà, avrà tempo per incrementare i propri numeri. Anche se i precedenti esecutivi non hanno fatto molto meglio da questo punto di vista. Al primo posto infatti troviamo il governo Renzi con il 33,2% di risposte fornite. Al secondo posto c’è invece il Conte I con il 33%. Il governo Draghi è terzo con il 32,9%. Nel migliore dei casi quindi storicamente gli ultimi governi hanno risposto a un terzo circa delle interrogazioni presentate

I dati ministero per ministero

Finora abbiamo analizzato i dati del governo Meloni nel suo complesso. Vediamo adesso quali sono stati i ministeri più efficienti e quali meno nel rispondere agli atti ispettivi. In passato per questa analisi ci eravamo soffermati in particolare sulle interrogazioni a risposta scritta. Questo perché generalmente quelle scritte sono l’atto ispettivo più numeroso.

Non tutte le questioni poste dal parlamento infatti possono essere esaurite in aula con interrogazioni a risposta immediata per ovvi motivi di tempo. D’altro canto però la risposta scritta darebbe l’opportunità all’esecutivo di fornire indicazioni più circostanziate e con maggiori dettagli. In questo caso però, come abbiamo visto, sono pochissimi gli atti ispettivi di questo tipo che si sono conclusi con una risposta da parte del governo. Parliamo di appena 17 risposte a fronte di 354 interrogazioni presentate. Per questo motivo stavolta faremo una panoramica generale sulle risposte fornite dai singoli ministeri.

3 su 25 i ministeri che hanno fornito risposta a interrogazioni scritte (giustizia 13, ambiente 3, rapporti con il parlamento 1).

In valori assoluti i ministeri depositari del maggior numero di atti di sindacato ispettivo sono quello dell‘interno (105), quello dell’ambiente e quello delle infrastrutture (97). Giustizia (36) e ambiente (30) sono i ministeri che hanno fornito più risposte in termini assoluti. Al terzo posto invece in questo caso c’è quello dell’economia (25).

Per quanto riguarda la percentuale di risposte fornite, se escludiamo il ministro per i rapporti con il parlamento, quella per la disabilità e quello per gli affari regionali a cui sono stati sottoposti meno di 5 atti ispettivi, vediamo che il più efficiente è stato di nuovo il ministero della giustizia guidato da Carlo Nordio con il 58% di risposte fornite. Seguono il ministero dell’agricoltura e la struttura che fa riferimento al ministero Raffaele Fitto (affari europei, coesione, Pnrr) entrambi con il 40% di risposte fornite.

Presidenza del consiglio, interno e infrastrutture sono poco attenti a rispondere alle interrogazioni del parlamento.

Tra i meno efficienti nel fornire risposte invece troviamo il ministero dell’interno (9,5%) e la stessa presidenza del consiglio dei ministri (7,7%). A questi si aggiungono 3 ministeri con lo 0% di risposte fornite. Si tratta dei ministri per il turismo, per la famiglia e la protezione civile e le politiche del mare. Da notare che anche il ministero delle infrastrutture non fa registrare un’alta percentuale di risposte. Il dicastero guidato dal vice presidente del consiglio Matteo Salvini infatti ha risposto solo nel 17,5% dei casi. Va comunque rilevato che nel caso dei due ministeri si tratta delle strutture con il maggior numero di atti ispettivi a proprio carico.

Foto: Governo – Licenza

La maggioranza e i presidenti delle commissioni permanenti Mappe del potere

La maggioranza e i presidenti delle commissioni permanenti Mappe del potere

Le commissioni permanenti sono organi fondamentali per il funzionamento delle camere. Per questo il presidente di commissione è considerato tra i ruoli chiave in parlamento. Anche se la sua attività raramente viene posta sotto i riflettori.

 

Quando si forma una maggioranza sono molte le posizioni di potere che i suoi esponenti sono chiamati a ricoprire. Dai ruoli di governo a quelli parlamentari, alcuni incarichi sono più esposti mediaticamente, come quelli dei ministri o dei capigruppo in aula. Altri invece sono meno noti all’opinione pubblica. Tra questi anche i presidenti delle commissioni parlamentari, nonostante ricoprano un ruolo di grande importanza nel funzionamento e nella gestione della macchina parlamentare.

Dei diversi organi interni alle aule, le commissioni permanenti sono il luogo in cui si svolge la maggior parte del lavoro sulle norme, in cui si cercano convergenze politiche e in cui il dibattito entra realmente nel merito delle questioni.

Le commissioni permanenti sono il centro dell’attività legislativa del parlamento. Vai a “Cosa sono le commissioni parlamentari e perché sono importanti”

In questo contesto il presidente rappresenta la commissione, la convoca formandone l’ordine del giorno, ne presiede le sedute e ne convoca l’ufficio di presidenza. Generalmente viene affidata loro la relazione dei provvedimenti più importanti discussi e approvati in commissione, nonché la presentazione del testo all’aula.

Come abbiamo avuto modo di osservare in passati approfondimenti la posizione di un presidente su un provvedimento può incidere in modo determinante sul suo iter in commissione. Anche per questo è considerato uno dei ruoli chiave in parlamento.

Gruppi e presidenti di commissione

Alla camera dei deputati le commissioni permanenti sono ancora 14, come nella scorsa legislatura e in quelle precedenti. Con il taglio dei parlamentari invece il regolamento del senato è stato modificato e ora le commissioni permanenti sono 10. Questo vuol dire che alcune commissioni di palazzo Madama svolgono compiti di cui a Montecitorio si occupano due commissioni distinte.

24 le commissioni permanenti del parlamento, 14 alla camera e 10 al senato.

Esattamente la metà dei presidenti di commissione è espressione di Fratelli d’Italia (FdI), mentre l’altra metà è suddiviso tra Lega (che ne esprime un po’ di più) e Forza Italia (FI).

Un’equazione che si ripropone esattamente sia alla camera (dove FdI ha 7 presidenti su 14) che al senato (5 su 10).

Solo 2 di questi incarichi, l’8,3%, sono ricoperti da una donna, in entrambi i casi al senato. Una è Giulia Bongiorno, esponente della Lega e presidente della commissione giustizia. L’altra è Stefania Craxi, esponente di Forza Italia che presiede la commissione esteri. Solo uomini invece per Fratelli d’Italia.

Presidenti alle prime armi

Data l’importanza del ruolo i gruppi devono valutare attentamente a chi conferire le presidenze. Tra i vari elementi bisogna sicuramente considerare l’esperienza delle figure politiche scelte, sia rispetto alla materia di competenza della commissione che ai meccanismi parlamentari che i presidenti sono tenuti a conoscere e far rispettare.

Da questo punto di vista bisogna innanzitutto sottolineare come alcuni dei presidenti di commissione siano alla loro prima esperienza parlamentare.

i presidenti di commissione senza alcuna esperienza parlamentare alle spalle.

Si tratta del presidente della commissione politiche dell’Unione europea del senato, Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (FdI), e del presidente della commissione agricoltura della camera, Mirco Carloni (Lega).

Certo i profili di questi due politici sono comunque molto diversi. L’ex ambasciatore Terzi di Sant’Agata infatti, pur non avendo alcun trascorso in parlamento, ha una lunga carriera diplomatica alle spalle. Senza contare che nel corso del governo Monti ha direttamente ricoperto il ruolo di ministro degli esteri. Si tratta dunque di un presidente con una elevatissima conoscenza delle materie della sua commissione, anche se meno dei meccanismi parlamentari.

Diverso invece il percorso di Mirco Carloni. Oltre a svariati mandati in giunte e consigli comunali, Carloni è arrivato al consiglio regionale dell’Umbria nel 2020, venendo poi nominato vicepresidente e assessore alle attività produttiveL’esperienza politico amministrativa dunque non manca a Carloni, che tuttavia è ora chiamato a svolgere un ruolo molto diverso.

Altri 12 presidenti di commissione invece hanno avuto una sola esperienza parlamentare prima di quella attuale. La maggior parte sono di Fratelli d’Italia (nelle commissioni giustizia, cultura, finanze, ambiente e trasporti alla camera, affari sociali e bilancio al senato), ma alcuni anche di Forza Italia (bilancio, affari costituzionali e affari sociali alla camera) e Lega (attività produttive e politiche europee alla camera).

Esperienza e coerenza nei percorsi dei presidenti

Dunque 22 presidenti di commissione su 24 hanno almeno un mandato parlamentare alle spalle. Questo però non vuol dire che nella scorsa legislatura svolgessero il proprio mandato nell’ambito della commissione che ora presiedono. In effetti questo caso riguarda meno della metà dei presidenti.

10 i parlamentari che nella scorsa legislatura facevano parte della stessa commissione che ora presiedono.

Tra questi è incluso anche Nazario Pagano (FI), presidente della commissione affari costituzionali della camera, che fino a pochi mesi fa era vicepresidente dell’omonima commissione del senato.

Tra i gruppi di maggioranza quello con più presidenti con un’esperienza coerente è Fratelli d’Italia. Esattamente la metà infatti nella scorsa legislatura si occupava delle stesse materie (giustizia, cultura, finanze e lavoro alla camera e affari sociali e bilancio al senato). Molti meno per Lega (politiche europee alla camera e giustizia al senato) e Forza Italia (affari costituzionali alla camera e esteri e difesa al senato).

Oltre a Pagano infatti il gruppo forzista esprime la presidente della commissione esteri e difesa del Senato, Stefania Craxi che nella scorsa legislatura era vicepresidente. Inoltre alcuni anni prima, durante il quarto governo Berlusconi, ha svolto anche il ruolo di sottosegretario agli esteri.

Perché nonostante la sua esperienza Tremonti è stato eletto presidente della commissione esteri piuttosto che bilancio o finanze?

Ma anche altri presidenti di commissione hanno avuto dei ruoli nell’esecutivo. Il presidente della commissione esteri della camera Tremonti ad esempio è stato più volte ministro. Certo in quella veste si è sempre occupato di economia ma non c’è dubbio che abbia anche accumulato molta esperienza in campo internazionale. In questi termini dunque non appare inappropriato che una persona con il suo profilo ricopra questo incarico. Allo stesso tempo c’è da interrogarsi sul perché la maggioranza non gli abbia attribuito la presidenza di una commissione più naturalmente affine al suo percorso professionale e politico (bilancio o finanze).

Alla commissione Finanze di palazzo Madama invece Garavaglia ci è arrivato dopo essere stato oltre che ministro del turismo, viceministro dell’economia nel primo governo Conte. La presidente della commissione giustizia Giulia Bongiorno come sottosegretaria si è invece occupata di pubblica amministrazione. Tuttavia la sua conoscenza della materia è fuori discussione data la sua rinomata esperienza di avvocato.

Da segnalare infine altri due presidenti con una notevole esperienza alle spalle anche se non nella commissione che oggi presiedono. Il senatore Alberto Balboni (FdI), presidente della commissione affari costituzionali, è giunto ormai alla sua quinta legislatura ma negli scorsi anni si era occupato di temi quali la giustizia, gli affari esteri o le finanze. Anche il senatore Claudio Fazzone (FI) è alla sua quinta legislatura e al contrario di Balboni in passato è stato varie volte in commissione affari costituzionali. In questa occasione però è diventato presidente della commissione ambiente che invece non risulta nel suo curriculum precedente.

Foto: Galleria Fontana – Camera

 

Le dimissioni volontarie dopo la pandemia Europa

Le dimissioni volontarie dopo la pandemia Europa

Si parla molto di “grandi dimissioni” in riferimento a questi fenomeni che dal 2021 hanno caratterizzato il mercato del lavoro statunitense e in parte anche quello europeo. Anche in Italia si verificano dinamiche simili, ma il loro peso va ridimensionato.

 

Negli ultimi due anni si è spesso sentito parlare di “grandi dimissioni“, un fenomeno che si è presentato in modo evidente negli Stati Uniti – la cosiddetta great resignation – poco dopo lo scoppio della pandemia e che secondo alcuni starebbe avendo luogo anche in Europa. Si tratterebbe di un’ondata di dimissioni volontarie, presumibilmente a causa di squilibri interni al mondo del lavoro stesso, tra la domanda e l’offerta.

In Italia, come in molti altri paesi Ue, il numero di persone che hanno deciso di lasciare il proprio impiego è aumentato tra 2021 e 2022. Tuttavia i dati non bastano a sostenere che qualcosa sia cambiato, e che la pandemia abbia giocato un ruolo dirimente. L’aumento delle dimissioni può essere interpretato come un segno di relativa dinamicità del mondo del lavoro, come il sintomo di una graduale ripresa iniziata anni fa dopo la crisi del 2011.

Le dimissioni dei lavoratori europei dal 2021

Secondo Eurostat, mediamente in Europa l’11% delle persone al di fuori del mondo del lavoro hanno recentemente lasciato il proprio impiego, nel terzo trimestre del 2022. Un dato che ha registrato un lieve aumento, pari a 0,5 punti percentuali, rispetto all’anno precedente. In Spagna la quota supera il 20%, in Italia si attesta poco al di sotto del 10%. Mentre in Bulgaria, Slovacchia e Romania non arriva al 5%.

In molti paesi Ue, come abbiamo avuto modo di approfondire nel corso di una collaborazione con lo European data journalism network (Edjnet), guidata dalla redazione francese Alternatives économiques, si è visto un aumento nel numero delle dimissioni. In Francia per esempio si è passati da 354mila dimissioni a inizio 2021 a ben 523mila a inizio 2022 e anche in Spagna si è verificato un fenomeno analogo. Anche se non tutti gli stati membri hanno registrato andamenti simili: in Germania e Belgio per esempio non si è parlato di una vera e propria ondata di dimissioni.

In ogni caso non è diminuito il tasso di occupazione: anzi, sempre secondo Eurostat è aumentato subito dopo lo scoppio della pandemia. Sono infatti in lieve calo le persone che transitano dalla disoccupazione all’occupazione, ma anche, viceversa, quelle che passano dall’occupazione alla disoccupazione. Risulta marcato invece l’incremento nel numero di lavoratori che cambiano impiego.

Ma quali sono i motivi che spingono le persone a lasciare il proprio posto di lavoro? Secondo i sondaggi Eurostat, tra le principali ragioni figurano quelle familiari, il pensionamento o semplicemente la fine del contratto in corso. Rilevante anche il riferimento alle condizioni del mondo del lavoro stesso. In questo caso, il dato record è quello italiano.

L’Italia è il paese Ue con la quota più elevata di persone che dichiarano di aver lasciato il proprio impiego per ragioni legate al mondo del lavoro (90%). Seguono Ungheria, Grecia e Spagna con cifre superiori all’80%. Mentre il dato più basso si registra nei Paesi Bassi (27%).

Le grandi dimissioni in Italia

Grazie ai dati forniti dal ministero del lavoro possiamo ricostruire la situazione del mondo del lavoro italiano, a ridosso dello scoppio della pandemia. Le persone che hanno deciso di lasciare il proprio impiego nel 2021 hanno sfiorato i 2 milioni.

1,9 milioni le persone che si sono dimesse in Italia nel 2021.

Ovvero il 18,2% di tutte le cessazioni dei contratti di lavoro (10,6 milioni). Ma nel 2022 la quota è cresciuta, raggiungendo il 19,5%. Se a ridosso della pandemia è aumentato il numero di persone che hanno deciso, per una serie di ragioni, di lasciare il proprio impiego, il numero di licenziamenti non ha subito un simile cambiamento.

GRAFICO
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DA SAPERE

Per dimissioni si intende: dimissioni giusta causa; dimissioni; dimissioni durante il periodo di prova; dimissioni per giusta causa o giustificato motivo durante il periodo di formazione; recesso con preavviso al termine del periodo formativo. Per licenziamento invece si intende: licenziamento per giustificato motivo oggettivo; licenziamento per giustificato motivo soggettivo; licenziamento collettivo; licenziamento giusta causa; licenziamento per giusta causa durante il periodo di formazione; licenziamento per giustificato motivo durante il periodo di formazione.

FONTE: elaborazione openpolis su dati ministero del lavoro
(pubblicati: martedì 20 Dicembre 2022)

 

Nel 2021 il numero di dimissioni ha visto un aumento marcato rispetto ai livelli del 2020, in particolare in corrispondenza del secondo e terzo trimestre. Mentre durante il secondo trimestre del 2020 si è verificato un calo molto forte, dovuto allo scoppio dell’emergenza sanitaria. Per quanto riguarda invece i licenziamenti, questi si sono mantenuti sostanzialmente stabili e anzi sono lievemente calati nel 2020, 2021 e 2022 rispetto ai due anni precedenti.

Tuttavia i momenti in cui le dimissioni hanno costituito la quota maggiore rispetto al totale delle cessazioni dei rapporti di lavoro (che comprendono anche i pensionamenti, i licenziamenti e le terminazioni causate dalla cessazione dell’attività lavorativa stessa) sono stati il primo semestre del 2021, quando la quota ha raggiunto il 22%, e il primo semestre 2022 (23%).

È importante notare che non è disponibile una serie storica con una metodologia unica. Per questo motivo è difficile il confronto nel lungo periodo. Risulta quindi complesso dire se si tratta di una dinamica isolata o di particolare rilevanza oppure se è un segno di una graduale ripresa del mondo del lavoro dalla crisi del 2011. Come rileva un recente studio, da un lato le dimissioni sono state semplicemente rimandate, da molti lavoratori, dal periodo più duro di lockdown al 2021. Dall’altro, in molti casi le transizioni sono da un impiego all’altro, piuttosto che semplici abbandoni del proprio posto di lavoro. Pertanto il fenomeno risulta a oggi di non chiara interpretazione.

Foto: Jornada Produtora – licenza

 

Abbiamo fatto ricorso per avere i dati sul Pnrr #OpenPNRR

Abbiamo fatto ricorso per avere i dati sul Pnrr #OpenPNRR

Il governo aveva disatteso la nostra richiesta di accesso agli atti, sostenendo che i dati disponibili fossero quelli già pubblicati. Ma la relazione della corte dei conti dimostra che non è così, quindi abbiamo chiesto il riesame.

 

Nelle ultime settimane la gestione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è tornata al centro del dibattito pubblico. Una serie di avvenimenti e di dichiarazioni hanno infatti messo pesantemente sotto pressione l’esecutivo.

Da ultima la recente relazione della corte dei conti sullo stato di avanzamento del piano, che ha fatto emergere ulteriori criticità. Sia per quanto riguarda la capacità di spesa delle varie amministrazioni coinvolte, sia sul fronte del monitoraggio e della trasparenza.

Su quest’ultimo punto, la relazione dimostra implicitamente che il governo è in possesso dei dati sui progetti finanziati dal Pnrr, cioè gli interventi concreti e le infrastrutture, ma che sceglie di non pubblicarli. Un rifiuto della trasparenza, reso ancora più grave dalla risposta che avevamo ricevuto lo scorso febbraio alla nostra ultima richiesta di accesso agli atti (Foia). In cui l’esecutivo sosteneva che i dati a sua disposizione fossero solo quelli già pubblicati su Italia domani. Una dichiarazione infondata, considerando che quel dataset conta solo 5mila progetti, a fronte degli oltre 134mila riportati dalla corte dei conti.

Per questo abbiamo deciso di presentare una richiesta di riesame al nostro Foia. Crediamo fermamente che l’accesso a questi dati sia fondamentale per la società civile, per i giornalisti e per tutti i cittadini. Per portare avanti attività di monitoraggio civico e informazione, per limitare i rischi di corruzione e di cattiva gestione delle risorse. Non è più possibile aspettare, soprattutto alla luce del contesto attuale.

La risposta alle nostre richieste

Fin dalle prime fasi di stesura e realizzazione del Pnrr denunciamo la scarsa chiarezza e disponibilità di dati. Motivo per cui avevamo presentato una prima richiesta di accesso agli atti (Foia) nell’aprile del 2022 e una seconda nel febbraio scorso. In particolare avevamo chiesto i dati relativi ai bandi e i loro esiti e, per tutti i progetti finanziati, informazioni sul loro contenuto, localizzazione, risorse assegnate e spese, stato di avanzamento e soggetti coinvolti. Dati che ancora oggi non sono disponibili in forma aggregata.

Il Foia o diritto di accesso generalizzato è uno strumento per ottenere dati e documenti di interesse pubblico in possesso delle amministrazioni. Vai a “Che cos’è il Foia”

In entrambi i casi però le risposte fornite dall’esecutivo non ci avevano soddisfatto. In particolare la seconda, in cui la ragioneria generale dello stato (Rgs) ribadisce che su Italia domani si trovano già tutti i dati a disposizione.

5.246 i progetti contenuti negli open data di Italia domani. Sono connessi a sole 3 misure del Pnrr e sono aggiornati al 31 dicembre 2021.

Abbiamo espresso in più occasioni la nostra perplessità sull’ipotesi che il governo disponesse solo delle informazioni pubblicate su Italia domani. Un’ipotesi che infatti viene smentita da Rgs nella stessa risposta al Foia, in cui aggiunge che:

[…] sono in corso le operazioni di consolidamento dei dati aggiornati che verranno pubblicati in concomitanza con la presentazione della relazione al parlamento sull’attuazione del Pnrr.

Tuttavia, non vengono specificati né i contenuti né tantomeno le tempistiche di eventuali rilasci. Anche perché la relazione sullo stato di attuazione del Pnrr, a cui si fa riferimento, è attesa da dicembre.

L’inconsistenza di questa risposta costituisce peraltro una violazione delle norme. Per legge, anche il rigetto (o il parziale rigetto) di un procedimento Foia deve essere concluso con un provvedimento espresso, completo e congruamente motivato. Al contrario, la risposta del governo non contiene nessuna indicazione delle ragioni che hanno portato al rifiuto della pubblicazione di dati completi e aggiornati.

Cosa dimostra la relazione della corte dei conti

A confermare le nostre perplessità circa la risposta dell’esecutivo e l’attuale disponibilità di dati, è stata la relazione della corte dei conti presentata lo scorso 28 marzo. Un lungo e articolato rapporto sullo stato di avanzamento del piano.

A valere sulle informazioni estraibili dal sistema ReGiS è possibile ricostruire un primo quadro dei progetti di investimento e di riforma avviati e del relativo stato di avanzamento.

La fonte dei dati è Regis. Si tratta della piattaforma, operativa dallo scorso autunno, su cui gli enti beneficiari dei finanziamenti Pnrr caricano i dati relativi ai progetti di cui si occupano. Nello stesso Pnrr si legge che questa piattaforma non è rivolta alla cittadinanza ma si tratta di uno strumento operativo destinato agli addetti ai lavori. Sarebbe poi compito dell’esecutivo mettere a disposizione dei dati complessivi per la libera consultazione. Cosa che però, come abbiamo visto, finora è avvenuta in maniera estremamente parziale.

Finora avevamo ipotizzato che la scelta di non rendere pubbliche queste informazioni dipendesse dal mancato caricamento dei dati sulla piattaforma da parte dei soggetti attuatori. Ma la relazione della corte dei conti dimostra che non è così. I dati ci sono e i progetti – come ci aspettavamo – sono molti di più di quelli riportati da Italia domani. Un dataset che invece, va ricordato, il governo ci aveva indicato come aggiornato con i dati in suo possesso.

134.000 i progetti Pnrr censiti dalla corte dei conti, aggiornati al 13 febbraio 2023.

Sono quasi 129mila in più di quelli riportati dagli open data di Italia domani (5.246) e riguardano 148 misure in agenda, per un valore complessivo di 93 miliardi di fondi stanziati. Dati che magari non rappresentano la totalità degli interventi, ma che si presume siano stati verificati. Considerando che su tali informazioni si basa anche la verifica del rispetto del cronoprogramma da parte della commissione europea.

Il governo è reticente sui dati Pnrr.

Tutto ciò dimostra in modo inequivocabile che le informazioni sui progetti ci sono. Ma il governo sceglie politicamente di non pubblicarle e di non condividerle. Neanche a fronte delle nostre formali richieste di accesso agli atti, nonostante si tratti evidentemente di informazioni di interesse pubblico. Questo impedisce a cittadini, giornalisti e soggetti della società civile di monitorare la realizzazione di opere e infrastrutture finanziate.

Prosegue il nostro impegno, la richiesta di riesame

Alla luce di tutti questi motivi, il 3 aprile abbiamo inviato al ministero dell’economia un’istanza di riesame alla nostra richiesta di accesso generalizzato. E siamo pronti a percorrere anche gli altri gradi di giudizio, finché tutti i dati in possesso delle amministrazioni pubbliche non saranno a disposizione della collettività.

La nostra richiesta di riesame. Vai al documento completo.

La richiesta è sostenuta da decine di organizzazioni che aderiscono alla campagna Dati bene comune e condividono con openpolis la necessità e l’urgenza di disporre di dati completi e aggiornati sul Pnrr. Al fine di assicurare la dovuta trasparenza e il monitoraggio pubblico dell’avanzamento del piano per capire come questo impatterà nelle varie parti del paese.

Un aprile particolarmente critico

L’assenza dei dati e delle altre documentazioni citate assume ancora più rilevanza alla luce della situazione di evidente difficoltà in cui si trova il governo. Come sappiamola commissione non ha ancora erogato all’Italia la terza rata da 19 miliardi di euro e si è presa più tempo per valutare l’operato del governo.

Trasparenza, informazione, monitoraggio e valutazione del PNRR

Il tuo accesso personalizzato al Piano nazionale di ripresa e resilienza

Accedi e monitora

 

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Altri ritardi sono quelli sulle scadenze previste per il 31 marzo 2023 e, come già detto, sulla relazione al parlamento sullo stato di attuazione del Pnrr. Dopo vari rinvii infatti il ministro dell’economia Giorgetti ha annunciato che il documento sarebbe stato pubblicato una volta ricevuta la terza tranche e comunque non oltre la presentazione del documento di economia e finanza (Def). In base alle norme questo dovrebbe essere presentato alle camere entro il 10 aprile.

Inoltre, proprio durante la presentazione della relazione della corte dei conti, il ministro Fitto ha dichiarato che probabilmente l’Italia non riuscirà a realizzare entro il 2026 tutti i progetti previsti, col rischio di perdere una parte dei fondi.

Alcuni interventi da qui a giugno del 2026 non possono essere realizzati: è matematico, è scientifico, dobbiamo dirlo con chiarezza.

A questa dichiarazione hanno fatto seguito le proposte di esponenti della Lega – in primis il capogruppo alla camera Riccardo Molinari – di rinunciare a una parte delle risorse. Ma Giorgia Meloni ha escluso tale possibilità, ribadendo come l’obiettivo del governo sia rimodulare il piano, non rinunciare alle risorse assegnate.

A chiudere un quadro già complesso, entro fine mese l’esecutivo dovrà inviare a Bruxelles la proposta di revisione del Pnrr, con l’integrazione del capitolo sul RepowerEu.

La posta in gioco è molto alta e, alla luce di tutto questo, avere a disposizione dati certi e aggiornati per monitorare il reale stato dell’arte di progetti e scadenze assume un’importanza prioritaria. Non è più possibile aspettare.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: Facebook – Palazzo Chigi

 

In quali territori aumenteranno i bambini nei prossimi anni #conibambini

In quali territori aumenteranno i bambini nei prossimi anni #conibambini

Nel 2030 i residenti con meno di 4 anni in Italia saranno l’8% in meno di oggi, quelli fino a 14 anni potrebbero calare quasi del 17%. Solo in una minoranza di territori i minori aumenteranno. Approfondiamo l’offerta educativa attuale in queste aree del paese.

 
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Che aspetto avrà l’Italia nel 2030? Le tendenze in corso parlano di un paese in declino demografico da alcuni anni, in progressivo invecchiamento, con sempre meno bambini a causa del calo delle nascite.

Proiettate nell’arco di questo decennio, queste tendenze potrebbero portare a una diminuzione dei residenti in Italia quasi del 3%. Dagli attuali 59 milioni a 57,9, secondo le stime dell’istituto nazionale di statistica.

-2,83% il calo residenti in Italia tra 2020 e 2030, in uno scenario di previsione mediano.

Con una variazione del tutto asimmetrica rispetto alle generazioni. Nell’Italia del 2030 potrebbero esserci 2 milioni di over-65 in più (+14,4% rispetto ai 13,8 milioni del 2020) e 1,3 milioni di under-14 in meno. I bambini e ragazzi fino a 14 anni, pari a 7,7 milioni di residenti nel 2020, potrebbero essere il 16,8% in meno nel 2030: 6,4 milioni di persone.

-1.295.921 i residenti fino a 14 anni nel 2030 rispetto a oggi.

Il calo dei minori da qui al 2030

Nell’arco di pochi anni, a meno di inversioni straordinarie nelle tendenze demografiche, potremmo dover assistere al crollo del numero di bambini. A partire dalle nuove nascite e dalle fasce d’età più giovani.

Entro il 2030 i residenti in Italia tra 0 e 4 anni potrebbero diminuire di oltre l’8%, passando dai quasi 2,3 milioni del 2020 a meno di 2,1. Con effetti sulla tenuta del sistema sociale, economico e previdenziale del paese, ancora più preoccupanti se spinti in là nel tempo.

In uno scenario di previsione mediano, Istat prevede che i residenti in Italia saranno 56,4 milioni nel 2040, 54 milioni nel 2050, 47,7 milioni nel 2070. Tra quasi cinquant’anni, lo scenario più ottimista indica una popolazione di 56,4 milioni, ma per quello più pessimista i residenti nel nostro paese potrebbero essere meno di 40 milioni.

All’interno di una forbice così ampia, anche le politiche pubbliche rivolte ai minori e alle loro famiglie possono giocare un ruolo. Per essere efficaci, il punto di partenza è valutare l’impatto sul territorio del calo dei bambini e comprenderne le tendenze

Territori con sempre meno bambini, pochi in controtendenza

Questo progressivo spopolamento, come abbiamo avuto modo di approfondire, sta già colpendo e si prevede che continui a incidere soprattutto in alcune aree del paese. Su tutti il mezzogiorno e i territori con estese aree interne.

Nella fascia 0-14 anni nessun territorio mostra una tendenza positiva, secondo le stime per il 2030. Ma la valutazione cambia se si considerano i bambini più piccoli, di età compresa tra 0 e 4 anni.

Nella maggioranza dei territori si prevede un calo della popolazione minorile in questa fascia, inferiore al 10% (in ben 65 province su 107) o addirittura più forte (35 su 107). Tuttavia in una ristretta minoranza si potrebbe registrare un aumento dei bambini fino a 4 anni. Parliamo delle province di TriesteTrentoGoriziaSavonaImperiaGenova con aumenti previsti superiori al 2% tra 2020 e 2030. E di quella di La Spezia, dove si stima un incremento molto più contenuto (+0,7%).

le province in cui i minori potrebbero aumentare.

Per 3 province il calo, pur presente, dovrebbe essere più lieve attestandosi sotto quota 2%: si tratta di Pordenone, Belluno e del Verbano-Cusio-Ossola. In generale comunque quasi tutti i territori tendono a rispecchiare la tendenza nazionale, con pochissime eccezioni.

In ampie aree del mezzogiorno, oltreché in alcune province emiliano-romagnole e del centro Italia, il calo previsto supera addirittura il 10%.

Tra i territori che fanno eccezione alla tendenza generale, da segnalare Trieste, con una crescita superiore all’8%, che però appare ben più contenuta in termini assoluti. Da 7.280 abitanti fino a 4 anni nel 2020 a una stima di 7.869 nel 2030, per un totale di 589 residenti in più nel decennio. Incrementi superiori al 4% anche nelle province di Trento, Gorizia, Savona e Imperia.

L’offerta educativa nei territori dove aumenteranno i bambini

L’esigenza di limitate aree del paese dove il numero di minori potrebbe aumentare, rende interessante valutare l’attuale offerta di servizi educativi in questi territori. Anche per capirne le potenzialità di risposta, alla luce delle proiezioni sui prossimi anni.

Il primo aspetto da considerare è l’offerta di asili nido, e in generale quella di servizi socio-educativi per l’infanzia. Si tratta del primo passo del percorso educativo del bambino. Nonché di un’importante incentivo all’occupazione (soprattutto femminile) e a una migliore conciliazione tra vita familiare e domestica.

Tra i territori considerati, 6 su 7 già nel 2020 superavano la media nazionale nell’offerta di servizi socio-educativi per l’infanzia, pari a 27,2 posti ogni 100 bambini in quell’anno. In particolare la provincia di Trieste, che con oltre 44 posti per 100 residenti sotto i 3 anni si è collocata ai vertici della classifica nazionale. Una quota che la avvicina già oggi al nuovo target europeo del 45%.

Seguono le province di TrentoGenovaGorizia – attestate sopra la precedente soglia del 33% – e le liguri La Spezia e Savona, attorno al 30%. Solo 20,8 posti nella provincia di Imperia, con il capoluogo poco sopra (23,1%),

In termini di diffusione del servizio sul territorio, la provincia di Imperia è ancora – tra quelle esaminate – ultima. Solo il 18,2% dei comuni dell’imperiese ha offerto un qualche tipo di servizio per la prima infanzia nel 2020, mentre a Gorizia, Trieste e Trento la quota ha superato il 90%.

Meglio di Imperia, ma al di sotto della media nazionale (59,3%), le altre province liguri. Dalla città metropolitana di Genova (55,2% di comuni dotati del servizio), a quelle di La Spezia e Savona rispettivamente al 50 e al 39,1%.

3 su 7 le province con minori in aumento dove già oggi oltre il 90% dei comuni offre servizi per l’infanzia.

Proseguendo nel percorso di studi, le mense scolastiche sono uno dei servizi educativi più importanti. Anche per le bambine e i bambini che nasceranno nel corso del decennio, il loro potenziamento è cruciale e incrocia numerose politiche pubbliche.

Da quelle di contrasto alla povertà alimentare, dal momento che quello consumato nella mensa per non pochi bambini è il pasto più completo e sano della giornata, all’impatto sulla povertà educativa. La mensa costituisce infatti il presupposto per svolgere attività pomeridiane a scuola, come laboratori, attività sportive, corsi formativi o di recupero. Queste esperienze, oltre a consentire il tempo pieno e una migliore conciliazione dei tempi per le famiglie, costituiscono anche un’opportunità formativa di primaria importanza.

Da questo punto di vista, nei 7 territori in cui i bambini aumenteranno entro il 2030, la situazione è fortemente diversificata. Con l’eccezione di Gorizia, tutte si collocano sopra la media italiana, pari a circa 31 edifici scolastici statali dotati di mensa. Nell’area di Imperia superano addirittura i due terzi del totale (67,8%), collocando la provincia ligure ai primi posti nel panorama nazionale.

GRAFICO
DA SAPERE

La linea rossa delimita i territori delle 7 province per cui è previsto, in uno scenario mediano, un aumento dei residenti tra 0 e 4 anni tra 2020 e 2030.

L’indicatore misura il rapporto percentuale tra gli edifici scolastici statali dotati di mensa e il totale degli edifici scolastici statali. Non sono disponibili dati per il Trentino-Alto Adige. I dati, pubblicati sul portale open data del ministero dell’istruzione, sono forniti dagli enti locali proprietari o gestori degli edifici adibiti ad uso scolastico.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati ministero dell’istruzione e Istat
(pubblicati: mercoledì 12 Gennaio 2022)

 

Sopra il 60% anche altre 2 province liguri (Savona e La Spezia), seguono Trieste (48,7%) e Genova (34,4%). A fronte della quota rilevata nell’area di Gorizia (24,3%), il capoluogo si attesta sopra la media provinciale (28,6%). Non sono invece disponibili informazioni per la provincia autonoma di Trento, tanto a livello di area quanto di comune.

Messi insieme, i dati sull’offerta di servizi educativi nei territori in cui i minori cresceranno nei prossimi anni mostrano profonde e non scontate differenze. Mediamente si tratta di aree del paese spesso più servite della media, ma con forti divari interni.

Segnale di come, anche in realtà con maggiore offerta della media, l’esigenza di estendere i servizi rivolti ai minori e alle loro famiglie non vada trascurata, soprattutto in presenza di possibili segnali di crescita demografica. In parallelo, è necessario promuovere l’estensione dei servizi nei territori di cui si prevede lo spopolamento. In modo che le politiche pubbliche non si limitino ad assecondare, ma anche a orientare, le tendenze demografiche verso cui il nostro paese è avviato.

I servizi per minori e famiglie nel contrasto del declino demografico

Ovviamente, non va dimenticato che la tendenza al declino demografico riflette anche alcuni fattori strutturali su cui è impossibile intervenire.

(…) e le future prospettive saranno in gran parte governate dall’attuale articolazione per età della popolazione, e solo in parte minore dai cambiamenti immaginati circa l’evoluzione della fecondità, della mortalità e delle dinamiche migratorie. In base a un rapporto di importanza, all’incirca, di due terzi e un terzo rispettivamente.

Questo non significa che non si debba intervenire su quella parte che può essere ancora influenzata dalle politiche pubbliche. È in gioco la tenuta del sistema sociale, economico e previdenziale, in un paese dove le coppie senza figli potrebbero aumentare del 13% tra 2020 e 2040, passando da 5,1 a 5,7 milioni. Mentre quelle con figli dovrebbero diminuire del 23% (da 8,3 a 6,4 milioni).

2045 l’anno entro cui si prevede che le coppie senza figli potrebbero superare quelle con figli (Istat).

Dinamiche che, inesorabilmente, condurranno al rapporto di 3 anziani sopra i 65 anni per ogni residente sotto i 14 anni.

Scongiurare, o quanto meno mitigare, questo scenario deve essere l’assillo principale delle nostre politiche pubbliche. Agendo di conseguenza, anche nell’ambito dei servizi rivolti a bambini e ragazzi, con un approccio che incentivi le politiche sociali, educative e familiari in modo trasversale. Dall’estensione dei servizi educativi, per l’infanzia e non solo, al supporto della genitorialità.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. La previsione relativa alla popolazione 0-4 anni nel 2030 è stata effettuata nell’ambito delle statistiche sperimentali di Istat, sulla base di uno scenario di previsione mediano. Le previsioni sono formulate tenendo come base il numero di residenti al 1° gennaio 2020.

Foto: g_u (Flickr) – Licenza

 

San Damiano de Veuster

 

San Damiano de Veuster


Nome: San Damiano de Veuster
Titolo: Sacerdote
Nome di battesimo: Jozef de Veuster
Nascita: 3 gennaio 1840, Belgio
Morte: 15 aprile 1889, Molokai, Isole Hawaii
Ricorrenza: 15 aprile
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Protettore:
lebbrosi
Beatificazione:
3 giugno 1995, Bruxelles, papa Giovanni Paolo II
Canonizzazione:
11 ottobre 2009, Roma, papa Benedetto XVI
 
«La politica e il mondo giornalistico possono vantare eroi, ma pochi possono essere paragonati a padre Damiano di Molokai. Vale la pena dare un’occhiata alle fonti di tale eroismo» (Gandhi)

Padre Damiano stesso rivela in una lettera i motivi della sua scelta: «Amo molto questi poveri indigeni per la loro semplicità e faccio per loro tutto ciò che posso. Essi mi amano come fanno i bambini con i propri genitori, e attraverso questo reciproco affetto spero di poterli condurre a Dio. Se amano il prete, infatti, ameranno più facilmente Cristo nostro Signore».

Joseph de Veuster (Damiano era il suo nome cr religione) nacque nel Belgio fiammingo nel 1840. A 19 anni chiese l’ammissione presso i padri dei Sacri Cuori. Dopo alcuni anni di preparazione, venne inviato missionario nelle Hawaii dove gli venne affidato un esteso territorio con soli 2000 abitanti. Il giovane prete non si perse d’animo. Imparò la lingua degli indigeni, condivise il loro povero cibo, dormiva come loro su un pagliericcio. Nel 1873 compì un’ulteriore discesa nell’abisso della carità, imbarcandosi per Molokai per assistere gli ammalati di lebbra. Negli anni trascorsi sul’isola Damiano restituì ai lebbrosi il senso della loro dignità, li aiutò a organizzarsi, a costruirsi una capanna, a coltivare piccoli appezza menti di terreno. Finì per sentirsi talmente in comunione con loro da iniziare la sua omelia con le parole: «Noi altri lebbrosi». Ed effettivamente la terribile malattia si annunciò sul suo corpo prima sommessamente, poi con segni sempre più evidenti. Morì il 15 aprile 1889. Ai funerali partecipò una folla straordinaria di lebbrosi inconsolabili.

San Damiano di Veuster

foto di San Damiano affetto da lebbra

Padre Damiano è stato beatificato a Bruxelles da papa Giovanni Paolo II il 3 giugno 1995.

La Congregazione per le cause dei santi ha esaminato alcuni casi di guarigioni attribuite all’intercessione di padre Damiano e ne ha riconosciuto la natura sovrannaturale.

L’11 ottobre 2009 papa Benedetto XVI ha canonizzato padre Damiano.

MARTIROLOGIO ROMANO. In località Kalawao sull’isola di Molokai in Oceania, San Damiano de Veuster, sacerdote della Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, che attese con tale dedizione all’assistenza dei lebbrosi, da morire colpito anch’egli dalla lebbra.