Archivi giornalieri: 12 aprile 2023

Fostering skills use for sustained business performance: Evidence from the European Company Survey – EUROFOUND

Fostering skills use for sustained business performance: Evidence from the European Company Survey – EUROFOUND

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Segnalazione da Direzione Contrattazione 1

Secondo il modello di abilità, motivazione, opportunità (AMO), i contributi dei dipendenti alle prestazioni organizzative dipendono dalle loro competenze, dalla loro motivazione ad attingere alle loro competenze e dalle opportunità per farlo. Le organizzazioni possono adottare approcci manageriali coltivando la capacità, facilitando l’apprendimento, creando opportunità, fornendo autonomia ai dipendenti e incoraggiando la motivazione attraverso driver motivazionali monetari e non monetari. La presente relazione pubblicata da Eurofound ed intitolata “Fostering skills use for sustained business performance: Evidence from the European Company Survey” mostra che gli approcci manageriali che coltivano abilità, motivazione, opportunità sono positivamente collegati alle prestazioni dell’istituzione e che questi approcci sono guidati da una cultura organizzativa che valorizza i dipendenti come una risorsa per l’organizzazione stessa. Gli approcci manageriali incentrati sulle persone che sfruttano il benessere sul posto di lavoro sono fondamentali per il meccanismo che collega l’utilizzo del capitale umano ai risultati aziendali. Tuttavia, per garantire che gli sforzi politici volti ad aumentare la base di competenze della forza lavoro abbiano il massimo impatto, le imprese devono garantire che le nuove competenze dei dipendenti siano utilizzate in modo ottimale. Senza politiche mirate specificamente all’applicazione pratica delle competenze, i benefici generati dall’aumento delle competenze non si concretizzeranno. L’Anno europeo delle competenze 2023 è un’importante opportunità per concentrarsi sulle politiche volte a stimolare l’uso delle competenze all’interno delle organizzazioni. È fondamentale che la politica a livello dell’Unione Europea continui a spingere per un migliore utilizzo delle risorse umane nelle organizzazioni, che può incrementare le prestazioni delle imprese e rafforzarne la resilienza. Fondamentale in questo approccio è il crescente riconoscimento del ruolo del management nel creare le giuste condizioni affinché i dipendenti possano utilizzare le loro competenze e quindi migliorare l’efficienza, l’innovatività e l’adattabilità delle aziende. Gli approcci manageriali incentrati sulle persone che sfruttano il benessere sul posto di lavoro sono fondamentali per utilizzare al meglio il capitale umano e per ottenere risultati aziendali di maggior successo. Le politiche orientate al futuro sono essenziali per garantire che la prossima generazione di manager, leader e imprenditori comprenda l’importanza di una cultura e di pratiche di gestione incentrate sulle persone. Le università e le scuole di gestione e di business possono contribuire a raggiungere questo obiettivo integrando pienamente questi aspetti nel loro insegnamento.

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Nel computo dei 15 giorni di permessi non retribuiti per motivate esigenze ex art. 55, co. 1, lett. d) CCNL comparto Funzioni Centrali 2016-2018 vanno computati i giorni festivi e i giorni non lavorativi ricadenti nel periodo richiesto?

L’art. 55, co. 1, lett. d) del CCNL comparto Funzioni Centrali del 12 febbraio 2018, riconosce al personale assunto con contratto a tempo determinato complessivi 15 giorni di permesso non retribuito per motivate esigenze.

Sul punto si ricorda che, salvo casi particolari di regola esplicitati nella norma, l’istituto dei permessi retribuiti e non retribuiti è finalizzato a giustificare le assenze dal lavoro del dipendente; per cui la ratio logico-giuridica risiede nel fatto che la mancata prestazione lavorativa da parte del lavoratore che usufruisce di un permesso risulta essere legittima e non costituisce violazione di obblighi contrattuali da parte del lavoratore.

Ne consegue dunque che, in assenza di differente previsione, ai fini del raggiungimento del limite massimo di 15 giorni si computeranno soltanto i giorni lavorativi con esclusione di quelli festivi e/o non lavorativi per i quali la mancata prestazione lavorativa non necessita di essere giustificata.

 

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Con riferimento al nuovo art. 33, comma 9, del CCNL comparto Funzioni Centrali del 09 maggio 2022 nel caso di lavoratore in part-time di tipo verticale quando deve operarsi il riproporzionamento dei permessi previsti dalla Legge n. 104/1992?

Il trattamento economico e normativo del personale con rapporto di lavoro a tempo parziale è disciplinato dall’art. 33 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 9/05/2022, che disapplica e sostituisce l’art. 59 del CCNL del 12/02/2018. Le novità riguardano, in particolare, il comma 9, nella parte in cui viene recepito l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in caso di part-time verticale con prestazione lavorativa superiore al 50% deve essere integralmente riconosciuta la fruizione dei permessi previsti dall’art. 33, commi 3 e 6, della Legge n. 104/1992. Nello specifico, il comma 9 dell’art. 33 del citato CCNL del 9/05/2022 prevede che “I dipendenti a tempo parziale orizzontale hanno diritto ad un numero di giorni di ferie pari a quello dei lavoratori a tempo pieno. I lavoratori a tempo parziale verticale hanno diritto ad un numero di giorni di ferie proporzionato alle giornate di lavoro prestate nell’anno. In entrambe le ipotesi il relativo trattamento economico è commisurato alla durata della prestazione giornaliera. Analogo criterio di proporzionalità si applica anche per le altre assenze dal servizio previste dalla legge e dal CCNL, ivi comprese le assenze per malattia, ad eccezione dei permessi ex art. 33, commi 3 e 6, legge n. 104/1992 i quali si riproporzionano solo qualora l’orario teorico mensile sia pari o inferiore al 50% di quello del personale a tempo pieno (…)”.

Tanto premesso, per comprendere quando operare il riproporzionamento è necessario declinare la locuzione “orario teorico mensile” di cui al comma 9 dell’art. 33 del CCNL.

Sul punto occorre ricordare che l’istituto in esame può essere fruito sia in giorni che in ore. In particolare, il beneficio complessivo massimo è pari a 3 giorni o 18 ore al mese nell’ipotesi di cui all’art. 33, comma 3, legge 104/1992; ad un permesso giornaliero di due ore nel caso di cui al successivo comma 6.

Ne consegue che le differenti modalità di fruizione comportano una diversa modalità di determinazione dell’orario teorico mensile. E infatti:

a) se il beneficio viene fruito in giorni, occorrerà raffrontare i giorni lavorabili nel mese dal dipendente a tempo parziale con quelli lavorabili dal personale con rapporto di lavoro a tempo pieno;

b) laddove, invece, l’istituto venga fruito in ore, si dovranno rapportare le ore lavorabili nel mese dal dipendente con rapporto di lavoro a tempo parziale con quelle lavorabili dal personale con rapporto di lavoro a tempo pieno.

 

Le dimissioni volontarie dopo la pandemia Europa

Le dimissioni volontarie dopo la pandemia Europa

Si parla molto di “grandi dimissioni” in riferimento a questi fenomeni che dal 2021 hanno caratterizzato il mercato del lavoro statunitense e in parte anche quello europeo. Anche in Italia si verificano dinamiche simili, ma il loro peso va ridimensionato.

 

Negli ultimi due anni si è spesso sentito parlare di “grandi dimissioni“, un fenomeno che si è presentato in modo evidente negli Stati Uniti – la cosiddetta great resignation – poco dopo lo scoppio della pandemia e che secondo alcuni starebbe avendo luogo anche in Europa. Si tratterebbe di un’ondata di dimissioni volontarie, presumibilmente a causa di squilibri interni al mondo del lavoro stesso, tra la domanda e l’offerta.

In Italia, come in molti altri paesi Ue, il numero di persone che hanno deciso di lasciare il proprio impiego è aumentato tra 2021 e 2022. Tuttavia i dati non bastano a sostenere che qualcosa sia cambiato, e che la pandemia abbia giocato un ruolo dirimente. L’aumento delle dimissioni può essere interpretato come un segno di relativa dinamicità del mondo del lavoro, come il sintomo di una graduale ripresa iniziata anni fa dopo la crisi del 2011.

Le dimissioni dei lavoratori europei dal 2021

Secondo Eurostat, mediamente in Europa l’11% delle persone al di fuori del mondo del lavoro hanno recentemente lasciato il proprio impiego, nel terzo trimestre del 2022. Un dato che ha registrato un lieve aumento, pari a 0,5 punti percentuali, rispetto all’anno precedente. In Spagna la quota supera il 20%, in Italia si attesta poco al di sotto del 10%. Mentre in Bulgaria, Slovacchia e Romania non arriva al 5%.

In molti paesi Ue, come abbiamo avuto modo di approfondire nel corso di una collaborazione con lo European data journalism network (Edjnet), guidata dalla redazione francese Alternatives économiques, si è visto un aumento nel numero delle dimissioni. In Francia per esempio si è passati da 354mila dimissioni a inizio 2021 a ben 523mila a inizio 2022 e anche in Spagna si è verificato un fenomeno analogo. Anche se non tutti gli stati membri hanno registrato andamenti simili: in Germania e Belgio per esempio non si è parlato di una vera e propria ondata di dimissioni.

In ogni caso non è diminuito il tasso di occupazione: anzi, sempre secondo Eurostat è aumentato subito dopo lo scoppio della pandemia. Sono infatti in lieve calo le persone che transitano dalla disoccupazione all’occupazione, ma anche, viceversa, quelle che passano dall’occupazione alla disoccupazione. Risulta marcato invece l’incremento nel numero di lavoratori che cambiano impiego.

Ma quali sono i motivi che spingono le persone a lasciare il proprio posto di lavoro? Secondo i sondaggi Eurostat, tra le principali ragioni figurano quelle familiari, il pensionamento o semplicemente la fine del contratto in corso. Rilevante anche il riferimento alle condizioni del mondo del lavoro stesso. In questo caso, il dato record è quello italiano.

L’Italia è il paese Ue con la quota più elevata di persone che dichiarano di aver lasciato il proprio impiego per ragioni legate al mondo del lavoro (90%). Seguono Ungheria, Grecia e Spagna con cifre superiori all’80%. Mentre il dato più basso si registra nei Paesi Bassi (27%).

Le grandi dimissioni in Italia

Grazie ai dati forniti dal ministero del lavoro possiamo ricostruire la situazione del mondo del lavoro italiano, a ridosso dello scoppio della pandemia. Le persone che hanno deciso di lasciare il proprio impiego nel 2021 hanno sfiorato i 2 milioni.

1,9 milioni le persone che si sono dimesse in Italia nel 2021.

Ovvero il 18,2% di tutte le cessazioni dei contratti di lavoro (10,6 milioni). Ma nel 2022 la quota è cresciuta, raggiungendo il 19,5%. Se a ridosso della pandemia è aumentato il numero di persone che hanno deciso, per una serie di ragioni, di lasciare il proprio impiego, il numero di licenziamenti non ha subito un simile cambiamento.

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DA SAPERE

Per dimissioni si intende: dimissioni giusta causa; dimissioni; dimissioni durante il periodo di prova; dimissioni per giusta causa o giustificato motivo durante il periodo di formazione; recesso con preavviso al termine del periodo formativo. Per licenziamento invece si intende: licenziamento per giustificato motivo oggettivo; licenziamento per giustificato motivo soggettivo; licenziamento collettivo; licenziamento giusta causa; licenziamento per giusta causa durante il periodo di formazione; licenziamento per giustificato motivo durante il periodo di formazione.

FONTE: elaborazione openpolis su dati ministero del lavoro
(pubblicati: martedì 20 Dicembre 2022)

 

Nel 2021 il numero di dimissioni ha visto un aumento marcato rispetto ai livelli del 2020, in particolare in corrispondenza del secondo e terzo trimestre. Mentre durante il secondo trimestre del 2020 si è verificato un calo molto forte, dovuto allo scoppio dell’emergenza sanitaria. Per quanto riguarda invece i licenziamenti, questi si sono mantenuti sostanzialmente stabili e anzi sono lievemente calati nel 2020, 2021 e 2022 rispetto ai due anni precedenti.

Tuttavia i momenti in cui le dimissioni hanno costituito la quota maggiore rispetto al totale delle cessazioni dei rapporti di lavoro (che comprendono anche i pensionamenti, i licenziamenti e le terminazioni causate dalla cessazione dell’attività lavorativa stessa) sono stati il primo semestre del 2021, quando la quota ha raggiunto il 22%, e il primo semestre 2022 (23%).

È importante notare che non è disponibile una serie storica con una metodologia unica. Per questo motivo è difficile il confronto nel lungo periodo. Risulta quindi complesso dire se si tratta di una dinamica isolata o di particolare rilevanza oppure se è un segno di una graduale ripresa del mondo del lavoro dalla crisi del 2011. Come rileva un recente studio, da un lato le dimissioni sono state semplicemente rimandate, da molti lavoratori, dal periodo più duro di lockdown al 2021. Dall’altro, in molti casi le transizioni sono da un impiego all’altro, piuttosto che semplici abbandoni del proprio posto di lavoro. Pertanto il fenomeno risulta a oggi di non chiara interpretazione.

Foto: Jornada Produtora – licenza

 

Le gite scolastiche: regole e buone prassi

Le gite scolastiche: regole e buone prassi

Con l’approssimarsi del periodo delle gite scolastiche, molteplici come sempre, sono le segnalazioni di episodi lesivi degli interessi degli alunni e delle alunne con disabilità.

Si ricapitolano, in una sintesi generale, quali sono le regole e le buone prassi per organizzare le gite scolastiche in presenza di alunni con disabilità.

Innanzitutto sappiamo che la scuola, è un momento importante nel quale gettare le basi dell’integrazione. Partecipare alla vita di classe senza esserne separati, abituarsi a condividere attività ludiche e formative con i compagni e le compagne con disabilità, è il modo più naturale di crescere con la consapevolezza che la diversità fa parte della vita. Fanno parte di questi momenti anche le gite scolastiche, piccoli eventi che nel vissuto della classe danno la possibilità di rafforzarne l’unione, con la condivisione di esperienze al di fuori dell’aula scolastica.

L’art. 3 della Costituzione Italiana ed il principio di integrazione scolastica, ricordano il diritto degli alunni con disabilità a partecipare a viaggi di istruzione e visite guidate, esattamente come tutti gli altri compagni, sulla base del principio di uguaglianza, cosi come espresso dall’art. 30 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.

Innanzitutto partendo da una organizzazione che tenga conto delle esigenze e delle difficoltà dell’alunno con disabilità. Infatti la scuola nel decidere quale tipo di gita organizzare, i luoghi da visitare, la struttura dove soggiornare, i mezzi di trasporto da utilizzare ed in generale nel definire la complessiva organizzazione dell’intera gita, deve preventivamente ed in via preliminare domandarsi se possano essere compatibili con l’eventuale condizione di disabilità di alcuni suoi alunni/e. Nel caso non lo fossero e la scuola ritiene ugualmente importante organizzare la gita in quel determinato luogo e con le modalità inizialmente ipotizzate deve predisporre tutti gli accorgimenti ed adeguamenti necessari a consentire la partecipazione anche dell’alunno con disabilità.

Le uscite didattiche ed i viaggi di istruzione rientrano nelle attività didattiche e formative e vengono programmate dai docenti, i quali, in relazione alle classi, ai bisogni formativi degli alunni ed alle situazioni presenti tra di essi, devono prospettare uscite alle quali tutti gli alunni possano partecipare. In merito agli alunni con disabilità, la nota del MIUR n. 645/02, sottolinea che i viaggi d’istruzione rappresentano “un’opportunità fondamentale … per l’attuazione del processo di integrazione scolastica”. Per tale ragione, organizzare un viaggio che renderebbe difficile la partecipazione di un alunno, rappresenterebbe un evidente atteggiamento discriminatorio. Ovviamente, spetta alla comunità scolastica, la scelta delle modalità più idonee a garantire l’esercizio di un diritto tenendo presente sempre le normative di riferimento in tema di viaggi di istruzione. La nota del MIUR n. 2209/12, infatti, precisa che, ai sensi del D.P.R. 275/99, gli istituti scolastici hanno completa autonomia nella definizione delle modalità di progettazione di viaggi di istruzione e visite guidate. Pertanto non è più in vigore l’obbligo della presenza di un docente ogni 15 alunni, anche se le scuole continuano, orientativamente, ad attenersi a un rapporto non molto difforme. In presenza di un alunno con disabilità, si prevede, generalmente ma non obbligatoriamente, la presenza di un docente in più, non necessariamente di sostegno. Il docente di sostegno, infatti, è assegnato alla classe e non all’alunno e l’integrazione è processo in cui tutti i docenti della classe sono corresponsabili. Può essere prevista la presenza di un assistente e può essere consentita la partecipazione di un familiare.

Inoltre, sempre con riguardo ai familiari, per le gite di più giorni, specie con alunni che hanno problemi di sonno con l’assunzione di determinati farmaci, tracheostomizzati o altro, spesso le scuole non hanno disponibilità dei docenti o degli assistenti; in tali casi è la famiglia che si offre per assicurare al figlio la partecipazione, senza alcun problema. In tali casi pertanto, un familiare può partecipare. Ciò che si intende sottolineare però è che la scuola non può in nessun caso subordinare il diritto di partecipazione di un alunno alla presenza di un familiare. Cioè, non si può pretendere che vi sia un familiare ad accompagnare l’alunno; spetta infatti agli organi collegiali della scuola designare un accompagnatore qualificato che può essere un qualunque membro della comunità scolastica (docenti, personale ausiliario, o familiari, non obbligatoriamente).

Inoltre, cosa molto importante, è che le spese di viaggio dell’accompagnatore, (chiunque esso sia e come venga individuato e che sia il familiare che si offre nei casi particolari sopra indicati) devono essere a carico della comunità scolastica. Se fossero addebitate alla famiglia, infatti, ci troveremmo di fronte a discriminazione, perseguibile in base alla L. n. 67/06.

Come sopra ricordato, nonostante i dettami all’interno della normativa scolastica siano chiari, molti dirigenti scolastici ancora non applicano correttamente tali dettami, creando ovviamente, grandissime problematiche per garantire piena partecipazione e condivisione alle gite per gli alunni ed alunne con disabilità.

 

Approfondimento a cura del Centro Studi Giuridici HandyLex
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Abbiamo fatto ricorso per avere i dati sul Pnrr #OpenPNRR

Abbiamo fatto ricorso per avere i dati sul Pnrr #OpenPNRR

Il governo aveva disatteso la nostra richiesta di accesso agli atti, sostenendo che i dati disponibili fossero quelli già pubblicati. Ma la relazione della corte dei conti dimostra che non è così, quindi abbiamo chiesto il riesame.

 

Nelle ultime settimane la gestione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è tornata al centro del dibattito pubblico. Una serie di avvenimenti e di dichiarazioni hanno infatti messo pesantemente sotto pressione l’esecutivo.

Da ultima la recente relazione della corte dei conti sullo stato di avanzamento del piano, che ha fatto emergere ulteriori criticità. Sia per quanto riguarda la capacità di spesa delle varie amministrazioni coinvolte, sia sul fronte del monitoraggio e della trasparenza.

Su quest’ultimo punto, la relazione dimostra implicitamente che il governo è in possesso dei dati sui progetti finanziati dal Pnrr, cioè gli interventi concreti e le infrastrutture, ma che sceglie di non pubblicarli. Un rifiuto della trasparenza, reso ancora più grave dalla risposta che avevamo ricevuto lo scorso febbraio alla nostra ultima richiesta di accesso agli atti (Foia). In cui l’esecutivo sosteneva che i dati a sua disposizione fossero solo quelli già pubblicati su Italia domani. Una dichiarazione infondata, considerando che quel dataset conta solo 5mila progetti, a fronte degli oltre 134mila riportati dalla corte dei conti.

Per questo abbiamo deciso di presentare una richiesta di riesame al nostro Foia. Crediamo fermamente che l’accesso a questi dati sia fondamentale per la società civile, per i giornalisti e per tutti i cittadini. Per portare avanti attività di monitoraggio civico e informazione, per limitare i rischi di corruzione e di cattiva gestione delle risorse. Non è più possibile aspettare, soprattutto alla luce del contesto attuale.

La risposta alle nostre richieste

Fin dalle prime fasi di stesura e realizzazione del Pnrr denunciamo la scarsa chiarezza e disponibilità di dati. Motivo per cui avevamo presentato una prima richiesta di accesso agli atti (Foia) nell’aprile del 2022 e una seconda nel febbraio scorso. In particolare avevamo chiesto i dati relativi ai bandi e i loro esiti e, per tutti i progetti finanziati, informazioni sul loro contenuto, localizzazione, risorse assegnate e spese, stato di avanzamento e soggetti coinvolti. Dati che ancora oggi non sono disponibili in forma aggregata.

Il Foia o diritto di accesso generalizzato è uno strumento per ottenere dati e documenti di interesse pubblico in possesso delle amministrazioni. Vai a “Che cos’è il Foia”

In entrambi i casi però le risposte fornite dall’esecutivo non ci avevano soddisfatto. In particolare la seconda, in cui la ragioneria generale dello stato (Rgs) ribadisce che su Italia domani si trovano già tutti i dati a disposizione.

5.246 i progetti contenuti negli open data di Italia domani. Sono connessi a sole 3 misure del Pnrr e sono aggiornati al 31 dicembre 2021.

Abbiamo espresso in più occasioni la nostra perplessità sull’ipotesi che il governo disponesse solo delle informazioni pubblicate su Italia domani. Un’ipotesi che infatti viene smentita da Rgs nella stessa risposta al Foia, in cui aggiunge che:

[…] sono in corso le operazioni di consolidamento dei dati aggiornati che verranno pubblicati in concomitanza con la presentazione della relazione al parlamento sull’attuazione del Pnrr.

Tuttavia, non vengono specificati né i contenuti né tantomeno le tempistiche di eventuali rilasci. Anche perché la relazione sullo stato di attuazione del Pnrr, a cui si fa riferimento, è attesa da dicembre.

L’inconsistenza di questa risposta costituisce peraltro una violazione delle norme. Per legge, anche il rigetto (o il parziale rigetto) di un procedimento Foia deve essere concluso con un provvedimento espresso, completo e congruamente motivato. Al contrario, la risposta del governo non contiene nessuna indicazione delle ragioni che hanno portato al rifiuto della pubblicazione di dati completi e aggiornati.

Cosa dimostra la relazione della corte dei conti

A confermare le nostre perplessità circa la risposta dell’esecutivo e l’attuale disponibilità di dati, è stata la relazione della corte dei conti presentata lo scorso 28 marzo. Un lungo e articolato rapporto sullo stato di avanzamento del piano.

A valere sulle informazioni estraibili dal sistema ReGiS è possibile ricostruire un primo quadro dei progetti di investimento e di riforma avviati e del relativo stato di avanzamento.

La fonte dei dati è Regis. Si tratta della piattaforma, operativa dallo scorso autunno, su cui gli enti beneficiari dei finanziamenti Pnrr caricano i dati relativi ai progetti di cui si occupano. Nello stesso Pnrr si legge che questa piattaforma non è rivolta alla cittadinanza ma si tratta di uno strumento operativo destinato agli addetti ai lavori. Sarebbe poi compito dell’esecutivo mettere a disposizione dei dati complessivi per la libera consultazione. Cosa che però, come abbiamo visto, finora è avvenuta in maniera estremamente parziale.

Finora avevamo ipotizzato che la scelta di non rendere pubbliche queste informazioni dipendesse dal mancato caricamento dei dati sulla piattaforma da parte dei soggetti attuatori. Ma la relazione della corte dei conti dimostra che non è così. I dati ci sono e i progetti – come ci aspettavamo – sono molti di più di quelli riportati da Italia domani. Un dataset che invece, va ricordato, il governo ci aveva indicato come aggiornato con i dati in suo possesso.

134.000 i progetti Pnrr censiti dalla corte dei conti, aggiornati al 13 febbraio 2023.

Sono quasi 129mila in più di quelli riportati dagli open data di Italia domani (5.246) e riguardano 148 misure in agenda, per un valore complessivo di 93 miliardi di fondi stanziati. Dati che magari non rappresentano la totalità degli interventi, ma che si presume siano stati verificati. Considerando che su tali informazioni si basa anche la verifica del rispetto del cronoprogramma da parte della commissione europea.

Il governo è reticente sui dati Pnrr.

Tutto ciò dimostra in modo inequivocabile che le informazioni sui progetti ci sono. Ma il governo sceglie politicamente di non pubblicarle e di non condividerle. Neanche a fronte delle nostre formali richieste di accesso agli atti, nonostante si tratti evidentemente di informazioni di interesse pubblico. Questo impedisce a cittadini, giornalisti e soggetti della società civile di monitorare la realizzazione di opere e infrastrutture finanziate.

Prosegue il nostro impegno, la richiesta di riesame

Alla luce di tutti questi motivi, il 3 aprile abbiamo inviato al ministero dell’economia un’istanza di riesame alla nostra richiesta di accesso generalizzato. E siamo pronti a percorrere anche gli altri gradi di giudizio, finché tutti i dati in possesso delle amministrazioni pubbliche non saranno a disposizione della collettività.


La nostra richiesta di riesame. Vai al documento completo.

La richiesta è sostenuta da decine di organizzazioni che aderiscono alla campagna Dati bene comune e condividono con openpolis la necessità e l’urgenza di disporre di dati completi e aggiornati sul Pnrr. Al fine di assicurare la dovuta trasparenza e il monitoraggio pubblico dell’avanzamento del piano per capire come questo impatterà nelle varie parti del paese.

Un aprile particolarmente critico

L’assenza dei dati e delle altre documentazioni citate assume ancora più rilevanza alla luce della situazione di evidente difficoltà in cui si trova il governo. Come sappiamola commissione non ha ancora erogato all’Italia la terza rata da 19 miliardi di euro e si è presa più tempo per valutare l’operato del governo.

Trasparenza, informazione, monitoraggio e valutazione del PNRR

Il tuo accesso personalizzato al Piano nazionale di ripresa e resilienza

Accedi e monitora

 

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Altri ritardi sono quelli sulle scadenze previste per il 31 marzo 2023 e, come già detto, sulla relazione al parlamento sullo stato di attuazione del Pnrr. Dopo vari rinvii infatti il ministro dell’economia Giorgetti ha annunciato che il documento sarebbe stato pubblicato una volta ricevuta la terza tranche e comunque non oltre la presentazione del documento di economia e finanza (Def). In base alle norme questo dovrebbe essere presentato alle camere entro il 10 aprile.

Inoltre, proprio durante la presentazione della relazione della corte dei conti, il ministro Fitto ha dichiarato che probabilmente l’Italia non riuscirà a realizzare entro il 2026 tutti i progetti previsti, col rischio di perdere una parte dei fondi.

Alcuni interventi da qui a giugno del 2026 non possono essere realizzati: è matematico, è scientifico, dobbiamo dirlo con chiarezza.

A questa dichiarazione hanno fatto seguito le proposte di esponenti della Lega – in primis il capogruppo alla camera Riccardo Molinari – di rinunciare a una parte delle risorse. Ma Giorgia Meloni ha escluso tale possibilità, ribadendo come l’obiettivo del governo sia rimodulare il piano, non rinunciare alle risorse assegnate.

A chiudere un quadro già complesso, entro fine mese l’esecutivo dovrà inviare a Bruxelles la proposta di revisione del Pnrr, con l’integrazione del capitolo sul RepowerEu.

La posta in gioco è molto alta e, alla luce di tutto questo, avere a disposizione dati certi e aggiornati per monitorare il reale stato dell’arte di progetti e scadenze assume un’importanza prioritaria. Non è più possibile aspettare.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: Facebook – Palazzo Chigi

 

Intervista a Carlo Felice Casula

17 MARZO 1861, NASCE IL REGNO D’ITALIA

L’intervista a Carlo Felice Casula, professore emerito di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Roma 3

Il 17 marzo di ogni anno nel nostro Paese si celebra la Giornata dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera. In questo giorno infatti, nel 1861, con la legge 4671/1861, il Regno di Sardegna proclama la nascita del Regno d’Italia, con a capo Vittorio Emanuele II di Savoia e capitale Torino, in seguito alla Seconda guerra di indipendenza contro l’Austria e alla spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Sono passati 161 anni da quella data, e dalla nascita dell’Italia unita in tre occasioni si sono celebrati importanti anniversari: il cinquantesimo nel 1911, in epoca giolittiana; il centenario nel 1961, negli anni del boom economico; i 150 anni nel 2011.

Gli anniversari

“In occasione della ricorrenza del 1911 fu messa in campo una capillare serie di iniziative, in un clima di grande positività”, racconta il professore emerito di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Roma 3 Carlo Felice Casula, “tra cui una grande, mostra organizzata a Roma, dove vennero installati padiglioni in cui si presentava la ‘nuova’ Italia, colta in un momento di crescita e di sviluppo straordinari, e insieme le realtà regionali”. “I festeggiamenti per i cento anni caddero in pieno ‘miracolo economico’, nei primi anni Sessanta, quando l’Italia era uno degli Stati più in buona salute, a livello europeo e mondiale”, illustra lo storico, “mentre i festeggiamenti del 2011 non erano più pervasi da questo ottimismo, dopo le critiche che negli anni precedenti erano arrivate sia dal nord del Paese, con l’esperienza della Lega, che da alcune posizioni di stampo neoborbonico nate nel Meridione”.

Gli Stati-nazione

Per comprendere il processo di unificazione della Penisola, capirne le ragioni profonde, ideali, politiche, amministrative, militari, e le contraddizioni, occorre prima allargare lo sguardo al contesto allora coevo e analizzare le dinamiche e le tendenze in corso. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, l’Europa assiste alla nascita o al consolidamento degli Stati-nazione, organizzazioni politiche e giuridiche che governano comunità identificate per lingua, tradizione letteraria, talvolta religione.

Ma da uno schema di incontro tra nazioni liberate si arriva a una realtà di stati ferocemente contrapposti l’uno con l’altro, con un conflitto che ha luogo sul continente e lascia sul terreno dieci milioni di morti. “Queste nuove realtà si formano in base a due processi, separazione”, dove a secedere è una realtà omogenea, “e unificazione”, dove si vanno a unire realtà differenti, spiega Casula. “Appartengono al primo gruppo gli Stati della penisola balcanica sorti dopo la dissoluzione dell’impero ottomano, quelli che nascono a seguito della fine degli impero austro-ungarico e zarista, l’Irlanda che si separa dall’Inghilterra e la Norvegia dalla Svezia. Gli Stati che invece si formano per unificazione sono l’Italia, attorno allo stato sabaudo, la Germania attorno alla Prussia, la Polonia e la Repubblica di Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale”, elenca lo storico.

“A un’analisi comparata tra Italia, Germania e Jugoslavia, osserviamo che dopo le difficoltà della nascita di uno stato unitario italiano, questo è quello che ha ‘retto’ meglio”, continua il professor Casula. “Il nostro Paese, fatta eccezione per il periodo di occupazione tedesca tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945, con il centro-nord sotto il controllo tedesco e gli Alleati nel Sud, ha mantenuto la propria unità, con aggiustamenti ai confini nord orientali dopo le due guerre mondiali, mentre dopo il secondo conflitto mondiale la Germania è stata suddivisa in Germania Ovest e Germania Est e la Jugoslavia ha conosciuto le guerre balcaniche negli anni Novanta”, commenta lo storico.

Com’è composto il regno d’Italia, al momento della sua proclamazione?

“Unifica quasi l’intera Penisola, un territorio più vasto di quello pre-unitario perché ora include precedenti domini dello Stato della Chiesa, cioè l’Emilia-Romagna, l’Umbria e le Marche, sia attraverso la conquista militare che con il plebiscito, come a Modena, Parma e Piacenza, e quello che era stato il Regno delle Due Sicilie nel meridione. Mancavano ancora alcune regioni del nord est, il Veneto, il Friuli, la Venezia Giulia e quello che oggi è il Trentino. Capitale del regno unitario è Torino, che lo già lo era del regno di Sardegna, e sovrano Vittorio Emanuele II, elemento di continuità tra i due regni”.

Quando si ritiene concluso il Risorgimento?

“Con la Prima guerra mondiale avviene il completamento dell’unificazione territoriale e al regno d’Italia sono accorpate regioni che secondo gli schemi ‘tradizionali’ della nazione, non ne facevano parte. Come l’Alto Adige e le regioni ai confini orientali, dove ci sono città costiere abitate da italiani mentre croati e sloveni popolano le campagne circostanti. Ma l’Italia vive la vittoria nel conflitto come una ‘vittoria mutilata’, facendo anche riferimento ai tanti mutilati della guerra, perché le sue ambizioni di espansione territoriale nell’Adriatico erano ostacolate dalla presenza del regno di Jugoslavia”.

Quali erano gli ideali culturali e politici del Risorgimento?

“Le ipotesi della creazione di uno stato italiano erano diverse. C’erano quella mazziniana di uno stato repubblicano fortemente unitario, sul modello francese, e che presupponeva l’idea che la creazione di stati unitari avrebbe portato la pace sul continente. Una ipotesi che animò il risorgimento e la repubblica romana del 1848-’49. Quella di Carlo Cattaneo, legata allo sviluppo industriale e scientifico, che prevedeva una nazione fatta di ‘diversi’, come la Svizzera: uno stato che fosse una repubblica federale, dove venissero conservate le specificità delle varie parti.

La politica del conte di Cavour mirava invece a uno stato monarchico sabaudo territorialmente più vasto, che inizialmente avrebbe dovuto comprendere il regno di Sardegna e la Lombardia per poi estendersi al resto della penisola. L’idea di Carlo Gioberti infine era quella di creare una confederazione degli stati pre-unitari con una sorta di presidenza quasi onoraria da attribuire al papa, in questo caso Pio IX.

Ipotesi basata su quanto accaduto nella Prima guerra di indipendenza contro l’Austria, quando anche lo stato della Chiesa inviò corpi di volontari e militari veri e propri in aiuto degli Stati pre-unitari”.

Qual è il grado di partecipazione del popolo al processo di unificazione?

“Il Risorgimento è stato un fatto di elite, non di popolo. Quest’ultimo ne rimane sostanzialmente estraneo e anzi percepisce il nuovo stato unitario come distante da sé e persino ostile. Il regno d’Italia si rivela diverso rispetto ad alcune delle speranze iniziali e dal punto di vista fiscale è visto come ‘oppressore’, per via della tassa sul macinato che si dimostra una tassa sui poveri, dato che riguarda i beni che i ceti popolari di campagna e di città acquistavano per la loro alimentazione a base di cereali e farinacei”.

Quali elementi hanno fatto si che la spedizione dei Mille guidata da Garibaldi avesse esito positivo?

 “Al di là della consolidata tradizionale letteraria, bisogna avere presente che affinché i Mille potessero arrivare in Sicilia ci fu bisogno della neutralità della Gran Bretagna e del sostanziale consenso dell’opinione pubblica francese, che si andava allora formando attraverso la diffusione di libri e giornali.

Un altro aspetto di rilievo per riscuotere il consenso dei giovani, i ‘picciotti’, e della nuova borghesia delle campagne è stata l’intelligente mossa di Giuseppe Garibaldi di presentare l’impresa e la fine del regno borbonico come la precondizione per la fine dell’oppressione sociale della grande nobiltà terriera, dei massari e degli amministratori delle proprietà nobiliari.

Più a nord, Cavour ha saputo convincere il re sabaudo a gestire l’impresa garibaldina, garantendo la fine anche militare del regno delle Due Sicilie con l’assedio di Gaeta”.

Cosa avviene con l’unificazione del centro-sud, la famosa “questione meridionale”?

“Succede che a quel punto bisogna fare i conti con una realtà territoriale diversa rispetto al centro-nord e per certi aspetti ad esso sconosciuta. Il Regno delle Due Sicilie, lo stato più vasto – Napoli era e continuerà ad essere per molto tempo la città più popolosa d’Italia – e abitato dalla maggioranza della popolazione italiana, era una realtà segnata dall’arretratezza, da una classe politica inesistente o subalterna.

Al momento dell’unificazione, lo Stato italiano ha il suo centro a Torino, l’esercito al nord e un’amministrazione estremamente ordinata che continuerà ad essere ‘piemontese’, ma anche un debito pubblico elevato per via dei costi delle due guerre d’indipendenza e della guerra di Crimea.

Regno di Napoli invece aveva un bilancio senza passività, perché non stanziava molte risorse nelle infrastrutture civili, come ferrovie strade, e servizi, mentre i commerci erano essenzialmente marittimi. Dopo l’unificazione, il divario nord-sud tenderà ad aumentare e sarà all’origine del fenomeno delle grandi migrazioni degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, verso il nord ovest del Paese”.

Fonte: Lorenzo Cipolla – Interris.it

    

San Giuseppe Moscati

 

San Giuseppe Moscati


Nome: San Giuseppe Moscati
Titolo: Laico
Nome di battesimo: Giuseppe Moscati
Nascita: 25 luglio 1880, Benevento
Morte: 12 aprile 1927, Napoli
Ricorrenza: 12 aprile
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Beatificazione:
16 novembre 1975, Roma, papa Paolo VI
Canonizzazione:
25 ottobre 1987, Roma, papa Giovanni Paolo II
Luogo reliquie:Chiesa del Gesù Nuovo
Settimo figlio di Francesco, magistrato, e di Rosa De Luca, Giuseppe nacque a Benevento il 25 luglio 1880. Ma era cresciuto a Napoli, dove la famiglia si era trasferita essendo il papà stato chiamato a svolgere la sua professione presso la Corte d’appello. Giuseppe era dotato di una vivace intelligenza, ma anche di una intensa sensibilità religiosa e umana che lo portava a essere vicino a chi si trovava nel disagio e nella sofferenza.

Per fare qualcosa di concreto per loro, decise di fare il medico. Con i rimedi offerti dalla medicina avrebbe portato anche il conforto della fede. Studiò con impegno, tanto da riuscire a laurearsi a soli ventidue anni. E con il massimo dei voti. Partecipò ad alcuni importanti concorsi, che vinse, aprendosi la strada per una brillante e comoda carriera. Ottenne l’abilitazione all’insegnamento universitario ed entrò nella prestigiosa Accademia partenopea di medicina e chirurgia. Ma poi mise tutte le sue doti di intelligenza e di cuore al servizio dei malati poveri scegliendo il posto di «medico ordinario» nell’Ospedale degli incurabili, il più antico della città. Ritenne quello il luogo ideale per poter svolgere la missione che s’era prefissato fin da ragazzino, così sintetizzata in un suo scritto: «Negli ospedali la missione dei medici è di collaborare all’infinita misericordia di Dio, aiutando, perdonando, sacrificandosi».

A questo programma ispirò la sua vita di medico, dedicandosi senza risparmio a lenire le sofferenze degli altri, sia nella quotidiana assistenza ai malati in ospedale o andandoli a visitare nei miseri tuguri dei quartieri più poveri della città, sia dedicandosi allo studio e alla ricerca per aggiornare le proprie conoscenze da porre al servizio dei malati.

Come diagnostico era bravissimo. In un tempo in cui gli strumenti di analisi e di ricerca erano quasi inesistenti, l’individuazione della malattia era affidata alla preparazione e all’intuizione del medico. E in questo la capacità di diagnosticare di Moscati sorprendeva gli stessi colleghi che vedevano nelle sue diagnosi qualcosa di miracoloso. Lui con molta umiltà rispondeva che aveva una fonte segreta cui attingeva a piene mani ed era l’eucaristia alla quale si accostava ogni giorno. Dio è l’artefice della vita, era solito dire, noi siamo suoi collaboratori, ma il più lo fa lui.

Una volta era riuscito a diagnosticare l’esatta malattia di un operaio che i suoi colleghi avevano inesorabilmente dichiarato tisico: si trattava invece di un ascesso polmonare che con una cura apposita si risolse. L’operaio, felice per la salute ritrovata, voleva a tutti i costi pagarlo. E Moscati: «Se proprio mi vuoi pagare, vatti a confessare perché è Dio che ti ha salvato».

Con i poveri si comportava sempre così, non accettava compensi. Caso mai, era lui a dare loro qualche soldo. Non faceva il medico per la carriera, e tanto meno per arricchirsi. Come Francesco d’Assisi aveva preso sul serio la povertà evangelica, a essa conformava la propria vita. Viveva da povero e con i poveri spartiva quello che aveva. Assisteva, ad esempio, un anziano signore che viveva in uno dei miserevoli tuguri della città, e non potendo andare a trovarlo ogni giorno, lo aveva invitato a recarsi tutte le mattine a fare colazione (avrebbe pagato lui) al bar di fronte all’entrata dell’ospedale. «Andando al lavoro — gli aveva detto — darò un’occhiata all’interno del caffè, se vi vedo vuol dire che tutto va bene, altrimenti verrò a farvi visita a casa».

La carità gli moltiplicava le forze, lo rendeva disponibile ai suoi malati, ai suoi poveri in qualsiasi ora del giorno e della notte e sempre in prima fila, quando calamità e tragedie colpivano la povera gente. Nel 1906 c’era stata un’eruzione del Vesuvio particolarmente violenta. Molti i danni e le vittime. A Torre del Greco, uno dei paesi più colpiti, l’ospedale dove erano ricoverati gli anziani minacciava di crollare sotto il peso di quintali di cenere: bisognava sgomberare in tutta fretta i reparti. Moscati, allora giovane medico, si era associato ai soccorritori lavorando duramente per trasferire malati e quant’altro era ritenuto utile: venti ore di lavoro, sotto la minaccia della lava che continuava ad avanzare lungo le pendici del vulcano. Avevano trasferito l’ultimo degente quando l’ospedale rovinava fragorosamente sui letti ormai vuoti.

Ma anche quando, nel 1911, Napoli fu colpita da una terribile epidemia di colera, il medico Moscati non risparmiò tempo ed energie: molti poveri se la cavarono, grazie alle sue cure, e altri morirono con il conforto della fede che lui aveva loro portato.

Moscati, medico buono e santo che aveva posto la sua intelligenza e il suo cuore al servizio dei poveri e dei sofferenti, moriva in età ancora giovane, a soli quarantasette anni, il pomeriggio del 12 aprile 1927. La mattina s’era recato come al solito all’ospedale a visitare i malati. Avrebbe dovuto proseguire le visite il pomeriggio, ma i suoi pazienti lo attesero invano. Verso le quindici avvertì un intenso malore. Ritiratosi nella camera, si accasciò sulla poltrona. «Sto male», disse ai fratelli che lo avevano visto impallidire. Furono le ultime parole. Un istante dopo cessava di vivere.

I poveri di Napoli accolsero la notizia con dolore e costernazione. Perdendo lui, perdevano un amico, un fratello. Ma guadagnavano un santo in cielo. E tale lo ritennero da subito.

Paolo VI confermò la loro certezza elevandolo nel 1975 all’onore degli altari con il titolo di beato. Fu proclamato santo nel 1987 da Giovanni Paolo Il, al termine del sinodo dei vescovi «Sulla vocazione e missione dei laici nella chiesa».

MARTIROLOGIO ROMANO. A Napoli, san Giuseppe Moscati, che, medico, mai venne meno al suo servizio di quotidiana e infaticabile opera di assistenza ai malati, per la quale non chiedeva alcun compenso ai più poveri, e nel prendersi cura dei corpi accudiva al tempo stesso con grande amore anche le anime.

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Domande Frequenti

  • Quando si festeggia San Giuseppe Moscati?

  • Quando nacque San Giuseppe Moscati?

  • Dove nacque San Giuseppe Moscati?

  • Quando morì San Giuseppe Moscati?

  • Dove morì San Giuseppe Moscati?

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